Marco Rovelli, insegnante di storia e filosofia di scuola secondaria, ha da poco pubblicato per Minimum Fax “Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui”, ultimo di una serie di libri che toccano anche il tema degli equilibri tra tempi di vita e quelli del lavoro. Cosa pensa delle proteste a cui assistiamo in questi giorni in Francia contro l’aumento a 64 anni dell’età per andare in pensione? In Italia la soglia è di 67 anni…

Le proteste a cui assistiamo oggi in Francia riguardano la vita e non solo il lavoro. Nella nostra società ipermoderna infatti il tempo del lavoro si mangia, colonizza, quello della vita. La cultura dominante ci trasmette il messaggio che non dobbiamo fallire mai. Non dobbiamo farlo sul lavoro, ma neppure negli affetti, nelle relazioni, a scuola. Questo è evidente nel linguaggio aziendale ma la prestazione, la performance sono un imperativo in qualsiasi campo dell’esistenza. Una condizione ben espressa nel celebre slogan della Nike “Just do it”, fallo e basta, dipende solo da te, la responsabilità è solo tua. Siamo in perenne debito verso continue richieste che ci piovono addosso da ogni ambito e che non riusciamo a soddisfare. Questa condizione è connaturata al sistema capitalistico, che per sua natura si deve espandere, continuamente e senza limiti ma fa un salto di qualità negli anni ’80, quando si afferma la società dell’individuo. Quando negli anni ’80 Margaret Thatcher afferma che “la società non esiste”, inizia a prendere forma compiutamente quella che Alain Ehrenberg definirà più tardi la società del disagio.
Nel libro riporto alcune testimonianze attinte in ambito clinico. Ad esempio la frase di un paziente, un manager, che afferma: “Non posso dire al mio partner che ho solo bisogno di dormire“. Non gli è concesso esplicitare quel bisogno. Essere stanchi non rientra nelle possibilità di vita. Nelle possibilità di una vita performativa, che deve ottenere prestazioni sempre migliori, raggiungere standard sempre più alti. Non c’è mai tregua: “Nel mio ufficio si fa a gara a chi fa più tardi e resiste di più”.

Se si guarda alle proteste francesi non si può non notare la presenza in piazza di molti giovani, in fondo si parla di pensioni, qualcosa che a un ventenne potrebbe apparire molto remoto.


Ancora più che per i più adulti, la protesta attiene alla vita, non soltanto alla pensione o al lavoro. I giovani sono cresciuti dentro a questa società, sanno benissimo e anche meglio di noi di cosa stiamo parlando. C’è una consapevolezza più lucida e più profonda di quanto queste dinamiche possano essere opprimenti. Vedono i loro padri e madri stritolati da questa questa società della prestazione e il fallimento è un vero e proprio incubo generazionale. Pensiamo alla studentessa che qualche mese fa si è suicidata nel bagno dell’università lasciando un biglietto con scritto “La mia vita è stata un fallimento”. A questo incubo pervasivo i giovani si sottraggono come possono. Anche con forme di sottrazione autodistruttive, se non trovano le strada di farlo insieme, mettendo in comune le proprie fragilità. Anoressia e il comportamento degli hikikomori (giovani che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, ndr) sono due tipiche rappresentazione di questo disagio, entrambi esprimono la stessa volontà di disertare da questa continua richiesta di standard.

Eppure il lavoro è sempre stato considerato, a torto o a ragione, anche come un ambito, a volte il principale, di realizzazione personale, di crescita dell’individuo…


Nella nostra società il lavoro è diventato per lo più uno spazio di sofferenza che come tale fagocita quello dell’autorealizzazione. Quello che genera sono soprattutto disagi da cui derivano ansia e depressione. La richiesta continua genera questo e, beninteso, non solo a livello di manager. È un modello che pesa anche su chi lo subisce senza aderirvi e consegnarvisi anima e corpo. Faccio l’esempio del settore bancario e assicurativo che negli ultimi decenni è uno di quelli che ha subito la torsione più violenta verso la performance. Da posto fisso e tranquillo per eccellenza quello del bancario è divenuto oggetto di una pressione continua assoluta. Lo stesso si potrebbe dire dalla grande distribuzione. Bene, l’84% delle persone che lavorano in banca afferma di accusare un disagio psichico, il 28% assume psicofarmaci.

Come se ne esce? Se ne può uscire?


Lo possono fare solo i giovani. Le tante proteste a cui prendono parte, incluse le scritte con vernice lavabili, riguardino le pensioni, la scuola o l’ambiente, le scritte hanno un tratto comune. Ci scaraventano in faccia l’insostenibilità di un modello.

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