I COMPLESSI D’INFERIORITÀ DELLA SINISTRA.


Mettendo a nudo l’ipocrisia del “politicamente corretto”, Theodore Kaczynski – meglio noto come “Unabomber” – ci mostra quei complessi d’inferiorità della sinistra che tutti conosciamo, ma che nessuno ha mai avuto il coraggio di esprimere liberamente

Con “complessi d’inferiorità” non ci riferiamo esclusivamente al significato più letterale dell’espressione, quanto piuttosto ad un’ampia gamma di tratti correlati: scarsa autostima, senso di impotenza, tendenze depressive, disfattismo, senso di colpa, odio di sé e così via. Possiamo argomentare che le persone di sinistra tendano a presentare – reprimendoli con maggior o minor impegno – un certo numero di tali sfumature emozionali, e che esse assumano un ruolo decisivo nel determinare il percorso e gli obiettivi della sinistra moderna.

Quando qualcuno percepisce come offensivo più o meno tutto ciò che è detto al suo riguardo – o riguardo al gruppo sociale a cui sente di appartenere – possiamo desumere in costui chiari complessi d’inferiorità ed una scarsa autostima. Questa tendenza compare in modo spiccato fra gli attivisti per i diritti delle minoranze, che appartengano o non appartengano a quei gruppi minoritari i cui diritti si adoperano a difendere. Costoro si mostrano ipersuscettibili relativamente alle parole utilizzate per descrivere le minoranze, e a tutto ciò che interessi le minoranze stesse. In appellativi come “negro“, “orientale“, “handicappato“, “tipa“, laddove associati ad un africano, ad un asiatico, ad una persona disabile o a una donna, non si evidenzia di per sé alcuna connotazione insultante. I termini inglesi “broad” e “chick” altro non sarebbero che gli equivalenti femminili dei maschili “guy“, “dude” o “fellow“: sono stati gli attivisti ad affibbiare loro un’ombra negativa. Alcuni animalisti sono persino giunti al punto di rifiutarsi di identificare l’animale domestico con “pet“, preferendo per esso un più vago “animal companion“, ossia “compagno animale”. Gli antropologi di sinistra – dal canto loro – non mancano di prodursi in notevoli equilibrismi per non rischiare di dire qualcosa di anche lontanamente interpretabile come negativo a proposito dei popoli primitivi, rimpiazzando addirittura la stessa parola “primitivo” con “non acculturato“, e mostrandosi quasi paranoici riguardo a qualsiasi idea che possa in qualche modo suggerire che una qualunque cultura primitiva sia inferiore alla nostra (con ciò, non intendiamo asserire che le culture primitive effettivamente siano inferiori alla nostra. Ci limitiiamo semplicemente a denunciare l’ipersuscettibilità degli antropologi di sinistra).

I più sensibili riguardo alla terminologia “politicamente scorretta” non sono ragazzi del ghetto, immigrati, donne abusate o soggetti disabili, bensì pochi attivisti, la maggioranza dei quali neppure fa parte di un qualche gruppo “oppresso”, ma proviene dagli strati più privilegiati della società. Il “politicamente corretto” ha il suo zoccolo duro fra i docenti universitari, benedetti da un impiego sicuro e ben stipendiato, e perlopiù maschi bianchi eterosessuali, figli di famiglie di classe media e medio-alta.

Molti individui di sinistra si identificano profondamente con i problemi di quei gruppi che percepiscono come deboli (le donne), sconfitti (gli indiani d’America), repellenti (gli omosessuali), o comunque inferiori. Costoro sono i primi ad avvertire questi gruppi come inferiori, ma non l’ammetteranno mai, poiché sono precisamente queste inferiorità percepite a portarli ad immedesimarsi nei travagli dei loro gruppi prediletti (non vogliamo suggerire che donne, indiani e via dicendo, effettivamente siano inferiori: soltanto la psicologia di sinistra ci interessa, e nulla più).

Le femministe sono disperatamente ansiose di provare che le donne sono forti e capaci tanto quanto gli uomini; chiaramente, le domina la paura che le donne possano realmente non essere forti e capaci quanto gli uomini.

La sinistra tende ad odiare tutto ciò che riflette un’immagine di forza, benessere, successo. Odiano l’America, la civiltà occidentale, odiano i maschi bianchi e la razionalità. Le ragioni con cui spiegano il loro astio nei confronti dell’Occidente e di tutto il resto, non corrispondono – con tutta evidenza – alle loro autentiche motivazioni. Dicono di odiare l’Occidente perché guerrafondaio, imperialista, sessista, etnocentrico, ma laddove queste medesime pecche si manifestano nei paesi socialisti o nelle culture primitive, ecco l’uomo di sinistra dannarsi per trovare mille giustificazioni o – al limite – ammettere a denti stretti la loro esistenza. Al contempo, egli non esita a sottolineare entusiasticamente – e spesso esagerando – ognuna di tali ataviche colpe nell’alveo della civiltà occidentale. È perciò evidente che in nulla di ciò ricade il vero motivo del suo odio per l’America e l’Occidente: egli odia l’America e l’Occidente per la loro forza ed il loro successo.

Espressioni come “fiducia in sé stessi”, “sicurezza di sé”, “iniziativa”, “impresa”, “ottimismo” e così via, giocano un ruolo del tutto marginale nel vocabolario liberal. L’uomo di sinistra, infatti, è anti-individualista e filo-collettivista. Egli pretende che la società risolva i problemi di ognuno in sua vece, soddisfi i bisogni di tutti e si prenda cura di ciascuno, indipendentemente dalle sue azioni. Non è il tipo di persona che, dotata di un’innata confidenza nelle proprie abilità, risolve in autonomia i propri problemi e soddisfa i propri bisogni. L’uomo di sinistra è ostile al concetto stesso di competizione, poiché nel profondo del suo animo egli sa di essere un perdente.

Le forme artistiche che attraggono i moderni intellettuali di sinistra tendono ad avere come minimo comune denominatore il sozzume, la sconfitta e la disperazione, o assumono invece un tono orgiastico, caratteristico di chi sceglie di mollare le redini della ragione come se non sussistesse alcuna speranza di ottenere qualcosa tramite la razionalità, ed altro non rimanesse che immergersi nelle sensazioni del momento e lasciarsi completamente pervadere da esse.

I moderni filosofi di sinistra tendono a snobbare la ragione, la scienza, la realtà oggettiva e ad insistere che le cose non possano che essere culturalmente relative. Non dubitiamo che ci si possa porre serie domande circa i fondamenti della conoscenza scientifica, e su come – ad un caso – il concetto di realtà oggettiva possa essere definito. È tuttavia ovvio non essere costoro imperturbabili dissertatori intenti ad analizzare sistematicamente i fondamenti della conoscenza, quanto piuttosto individui emotivamente avvinti dalla loro stessa offensiva contro la verità e la realtà. Essi, infatti, attaccano questi concetti a causa dei loro stessi bisogni psicologici. In primis, riescono costoro a sfogare così la propria ostilità, e fintanto che la vittoria li premia soddisfano in tal modo la loro propria sete di potere; ancor di più, l’uomo di sinistra detesta la scienza e la razionalità, poiché esse classificano determinate convinzioni come vere (trionfanti e superiori) ed altre come false (fallimentari ed inferiori). I complessi d’inferiorità che affliggono gli individui di sinistra sono talmente radicati che non è loro tollerabile considerare qualcosa vittorioso o superiore, e qualcos’altro fallimentare o inferiore. Ciò motiva inoltre il rifiuto di gran parte della sinistra del concetto di malattia mentale e dell’utilità dei test del quoziente intellettivo, oltre che la riottosità a qualunque spiegazione genetica delle abilità umane o del comportamento, poiché tali spiegazioni assegnano alle persone un carattere di superiorità o inferiorità rispetto ai propri simili. La sinistra preferisce attribuire alla società il merito o la colpa per l’abilità o l’inettitudine di un individuo; pertanto, se una persona è “inferiore”, la colpa non è sua, ma della società che non è stata in grado di allevarla adeguatamente.

L’uomo di sinistra non è quel tipico soggetto reso uno spaccone, un narcisista, un bullo, un accentratore, un competitor spietato in preda ai propri complessi d’inferiorità: un simile individuo non ha infatti completamente perduto la propria fede in sé stesso. Costui presenta un deficit di percezione della propria stima e del proprio potere, ma può comunque concepire sé stesso come dotato di una certa forza, ed è proprio il suo sforzarsi di essere forte a causare il suo atteggiamento sgradevole. La miseria dell’uomo di sinistra, invece, si attesta ancora oltre. I complessi d’inferiorità a tal punto impregnano il suo essere da non potersi più percepire come una persona individualmente forte e valente. Ecco, dunque, l’origine del collettivismo di sinistra: il singolo si sente forte solo in quanto membro di una grande organizzazione o di un movimento di massa in cui si identifica.

Si notino le tendenze masochistiche proprie delle tattiche della sinistra. I contestatori di sinistra interrompono il traffico sdraiandosi in mezzo alla strada, provocano poliziotti o picchiatori razzisti affinché se la prendano con loro, e così via. Queste tattiche possono anche avere successo, ma chi le utilizza non le adopera come mezzi volti al raggiungimento di un fine, quanto piuttosto perché preferisce far uso di tattiche dal sapore masochistico. L’odio di sé appare connaturato alla sinistra.

La sinistra rivendica la compassione ed un principio morale come risultato del proprio attivismo. E la moralità gioca effettivamente un ruolo degno di nota per gli individui sovrasocializzati che pendono a sinistra. Compassione e moralità, però, non possono essere le vere ragioni dell’attivismo dell’uomo di sinistra: l’ostilità è una componente troppo pronunciata del suo comportamento abituale, e così la sua sete di potere. Inoltre, le sue azioni non sono calcolate razionalmente per essere di beneficio a coloro che egli afferma di star cercando di aiutare. Per esempio, se si crede che la affermative action sia positiva per la popolazione nera, a cosa serve configurarla in termini ostili o dogmatici?! Ovviamente, sarebbe assai più produttivo adottare un approccio diplomatico e conciliante, disposto a fare ai bianchi convinti di essere vittime di un’indebita discriminazione qualche concessione, anche soltanto verbale e simbolica. L’attivista di sinistra, tuttavia, respinge questo approccio, poiché non sarebbe di soddisfacimento ai propri bisogni emotivi. Aiutare i neri non è affatto il suo reale obiettivo, piuttosto le problematiche razziali servono come pretesto per dare libero sfogo alla propria animosità e alla propria frustrata brama di potere. In realtà, le sue azioni spesso finiscono per essere di danneggiamento alla causa nera, poiché l’atteggiamento ostile degli attivisti verso la maggioranza bianca ha come unico risultato il fomentare ancora di più l’odio razziale.

Se la nostra società fosse del tutto priva di problemi, la sinistra dovrebbe inventarne di radicalmente nuovi per procurarsi una scusa per protestare.

Di Theodore Kaczynski