Di Gianni Correggiari - Aprile 3, 2022

Un gruppo di soldati del 7° regimento osserva un proiettile di artiglieria navale caduto nella notte sulle loro posizioni
Quaranta anni fa, il 2 aprile del 1982, le truppe argentine sbarcavano a Puerto Argentino (Port Stanley per gli Inglesi), capitale delle Malvinas (Falklands per gli Inglesi), prendendo possesso dei territori che centocinquant’anni prima i soldati di Sua Maestà avevano a loro volta occupato sottraendoli alla sovranità delle Provincias Unidas del Sur, la prima denominazione assunta dai territori dell’antico Virreinado del Rio de la Plata dopo il distacco dalla Spagna.

Non è possibile stabilire con certezza chi scoprì per primo le isole. Molti navigatori incrociarono l’arcipelago nel sedicesimo secolo (sicuramente il portoghese Magellano e l’olandese De Weert) finchè l’inglese Strong percorse lo stretto che separa le due isole principali, battezzandolo Falklands Sound in onore del primo Lord dell’ammiragliato britannico. E’ dei Francesi, nel 1763, il primo tentativo di colonizzazione delle Malvinas, meta di abitatori d’origine bretone salpati dal porto di Saint Malo (da cui il nome di “Malouines”), seguito da un tentativo inglese due anni dopo, denunciato dalla Spagna che ne reclamava la sovranità. Vale la pena ricordare che alla fine del XV secolo due bolle papali e un successivo trattato avevano iniziato a regolare le questioni dei nuovi territori. Il ritorno di Cristoforo Colombo dal suo primo viaggio transoceanico e le notizie della scoperta avevano sollevato l’interesse delle grandi potenze e si pose dunque il problema dei diritti sul nuovo mondo; il papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia, emise così due successive bolle, denominate “Inter Coetera” con cui suddivise, a occidente ed a oriente d’una linea longitudinale immaginaria posta a 100 – poi portata a 370 – leghe dalle isole Azzorre e da quelle di Capo Verde le zone di navigazione rispettivamente di Spagnoli e Portoghesi. Le bolle furono poi integrate, l’anno successivo, dal trattato di Tordesillas firmato dalle due nazioni. La validità di questa regola di diritto internazionale era legittimata dall’autorità di cui godeva in Europa il capo della Chiesa, che nell’occasione aveva sicuramente privilegiato le potenze che più di altre si battevano contro l’Islam, e del resto né Francia né Inghilterra all’epoca la contestarono. I Francesi riconobbero la sovranità spagnola e si ritirarono dalle isole, diversamente dagli Inglesi che vi rimasero furtivamente fino a quando, nel 1774, furono cacciati. Il contenzioso che ne seguì portò, alla fine, al riconoscimento inglese dei diritti della corona spagnola sulle isole Malvinas (identificate nel riferimento di Porto Soledad) e sugli opposti tratti di costa continentale, sancito nel trattato di Nootka Sound (Canada) nel 1790, quando già abitatori provenienti dal Sud America, d’origine bianca e india, vi si erano stanziati da circa sedici anni, lasciando agli Inglesi il diritto di navigazione oltre le dieci leghe dalla costa e regolando altre questioni relative all’insediamento temporaneo e stagionale di stabilimenti di pesca. Le isole divennero quindi sede di governatorati spagnoli, in maniera ininterrotta fino a quando la guarnigione lì ubicata, nel 1811 fu richiamata in terraferma per partecipare alla guerra contro gl’indipendentisti che si erano sollevati per reclamare il distacco dei territori del “Virreinado del Rio de la Plata” – corrispondente ad Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia e nord del Perù – dalla Corona dei Borbone.

Le Provincias Unidas del Rio de la Plata, con un rapido processo d’indipendenza (che prese spunto dall’abdicazione avvenuta nel 1808 a Bayonne di Carlo IV di Borbone a favore di Napoleone) formalizzato nel 1816 in occasione del congresso di Tucuman, dove assunsero il nome di Provincias Unidas del Sur, si sostituirono dunque al Virreinado del Rio de la Plata (di cui le isole facevano parte), trovando quindi applicazione il principio giuridico conosciuto come uti possidetis iuris, volto a preservare a favore d’una nuova entità statale le frontiere ed i territori appartenenti all’entità venuta a dissoluzione.

Nella seconda metà degli anni venti il segretario di Stato americano, e poi capo della nazione, Quincy Adams – il redattore del messaggio alle camere pronunciato dal presidente Monroe , dove erano contenuti alcuni passaggi poi divenuti la base per la c.d. dottrina che porta il suo nome – aveva confermato, per le nuove repubbliche emancipatesi dalla Spagna, questo principio affermando espressamente che, venuta meno la sovranità spagnola sui diritti territoriali stabiliti in quel trattato, gli stessi passavano alle nuove entità nazionali, salvo quelli relativi alle aree esclusive di navigazione che invece s’estinguevano. I suoi successori non terranno conto però di queste parole.

L’occupazione britannica, effettuata nel 1833 con l’espulsione del contingente militare argentino e dei residenti, fu dunque una vera e propria usurpazione, un atto piratesco che gl’invasori allora giustificarono con la circostanza che l’invocato principio dell’uti possidetis non era applicabile data la non identificabilità dell’Argentina/Provincias Unidas di quell’anno 1833 con i territori del vecchio Virreinado. L’obiezione era chiaramente pretestuosa, poichè le scissioni che si produssero, del Paraguay nel 1811, dell’ Alto Perú nel 1825 e dell’Uruguay nel 1828 costituirono semplici distacchi dall’autorità centrale, allo stesso modo di quelli della repubblica d’Irlanda e del resto delle ex colonie del Commonwealth dalla Gran Bretagna, senza che nessuno possa seriamente sostenere ch’essa non abbia mantenuto giuridicamente e storicamente la sua continuità, pur avendo perduto una larga fetta dei propri territori.

Tante furono le critiche, anche da parte di giuristi e uomini politici britannici, alla posizione assunta dal governo di Londra ed alle deboli motivazioni che la sostenevano che negli anni trenta si produsse una modifica degli argomenti giustificativi di quel vero e proprio atto di pirateria; si misero così da parte le obiezioni all’applicazione del principio dell’ ubi possidetis e s’invocò il principio dell’autodeterminazione degli isolani, i Kelpers, installati dagli Inglesi dopo aver cacciato la popolazione residente. Dunque perdeva importanza la questione della sovranità ante 1833 e ci si fondava sul c.d. fatto compiuto. Da “sono nostre, e per questo le prendemmo ” a “le abbiamo prese, e quindi sono nostre”.

La risoluzione 2065 adottata dall’ONU, il 16 novembre 1965, costituì un duro colpo a questa nuova tesi. Si considerava il dominio dell’impero britannico sulle isole come coloniale e si invitava le parti ad intavolare, senza ritardo, trattative per trovare una soluzione che tenesse conto, non della volontà bensì degli interessi degli attuali abitanti, riconoscendo così, per la prima volta, l’esistenza di una questione di sovranità.

La direttiva delle Nazioni Unite non scosse la tradizionale flemma britannica e, nonostante le ripetute proteste del governo di Buenos Aires, non vi fu alcun avanzamento nelle trattative fino a che nel febbraio del 1976 un incidente (una nave militare argentina sparò, nell’area delle acque contese, una cannonata contro una nave inglese che effettuava lavori di esplorazione del sottosuolo) rimise in moto una serie di incontri durante i quali però gli occupanti prospettarono solo eventuali cooperazioni nel settore della pesca e dello sfruttamento dei fondi marini. Solo nel 1977 – era iniziato l’anno precedente il “proceso de reorganización nacional“, ossia il regime militare inizialmente capeggiato dal presidente Videla – il governo di Sua Maestà accettò l’apertura d’un vero e proprio negoziato, ammettendo anche la discussione sulla sovranità non solo delle Malvinas ma anche delle Georgias del Sud e delle Sandwich del Sud – escludendo però ogni soluzione che risultasse sgradita ai Kelpers e non approvata dal proprio parlamento – e si giunse ad una serie di dichiarazioni congiunte sulla soluzione pacifica della controversia e sulla cooperazione economica nei territori e nei relativi spazi marittimi senza però, ancora una volta, arrivare a passi concreti. La tattica degli Inglesi era quella di mantenere in piedi le trattative, consapevoli della loro attuale debolezza militare nell’area. L’Argentina dal canto suo aveva già iniziato l’invio d’un contingente navale presso l’isola di Thule, nelle Sandwich meridionali mentre gli Inglesi, per non essere da meno, iniziavano a muovere verso l’Atlantico sud-occidentale forze militari.

Il dialogo rimaneva aperto ma i negoziati non facevano un passo in avanti anche perchè gli Inglesi pretendevano che vi fossero rappresentati i Kelpers, decisamente contrari alla cessione della sovranità; nel luglio del 1981 il ministero degli esteri argentino inviava una lunga e dura nota all’ambasciata britannica che terminava con l’avvertimento che “nessuno può seriamente sostenere che lo status quo possa prolungarsi per ancora molto tempo”.

L’assunzione di Reagan, più attento a contrastare l’infiltrazione comunista nell’America spagnola e meno rigido del predecessore sulla questione dei “diritti umani”, ripetutamente contestati dall’amministrazione Carter alla giunta militare argentina, la nomina del generale Fortunato Galtieri alla presidenza della nazione, la sua ricerca di dialogo con Washington e l’intervento militare argentino in San Salvador a favore del presidente Duhalde, a fianco degli Stati Uniti contro la guerriglia marxista-leninista istigata e sostenuta da Cuba e Nicaragua, avvicinò i due paesi americani ed illuse il governo di Buenos Aires sulla possibilità che la potenza nordamericana, la quale continuava a dichiararsi neutrale nella controversia delle Malvinas, potesse in qualche maniera influire favorevolmente sulla conclusione della vicenda, dimenticando che l’alleanza strategica anglosassone era ben più forte della, da sempre altalenante, solidarietà panamericana di monroistica memoria. L’estate australe del 1981/1982 vide l’esercito argentino allertato per un imminente intervento – già da tempo programmato come concreta ipotesi di conflitto – accelerato dalle informative provenienti da Palacio San Martin, la sede del ministero degli esteri, che ritenevano improbabile una forte reazione inglese nel caso di iniziativa militare argentina.

I negoziati, proseguiti alla fine di febbraio a New York, dopo che il mese precedente Buenos Aires aveva nuovamente invitato Londra a considerare le proprie pretese sulla sovranità delle isole come dato irrinunciabile, non portarono a nessun significativo cambiamento se non la costituzione di una commissione permanente di negoziatori e il riconoscimento inglese che la questione di sovranità includeva, oltre le Malvinas anche le Georgias meridionali e le Sandwich meridionali.

Lo sbarco sulle isole avvenne il 2 aprile mentre gli Inglesi, già ampiamente a conoscenza degli spostamenti navali della flotta argentina avevano già iniziato a muovere la loro. Il 10 dello stesso mese una folla oceanica entusiasta si radunò in Plaza de Mayo per ascoltare la voce del presidente, e questa presenza testimonia che quella delle Malvinas fu una guerra sentita, giusta, popolare come lo dimostrò la richiesta di arruolamento presentata da duecentomila civili, pronti a combattere per la patria. Quello che però gli Argentini non sapevano era che la stessa era condotta da una classe dirigente militare litigiosa, confusa, senza strategie politiche, che proiettò nella guerra le divisioni che la laceravano – con aspri contrasti fra esercito, marina ed aviazione – al proprio interno, con gravi deficienze nella stessa conduzione tattica e che mandò allo sbaraglio, contro truppe addestrate e professionali, dei soldati di leva malamente equipaggiati e che patirono fame e freddo nelle gelide montagne del sud Atlantico. Quel 10 di aprile costituì il punto di non ritorno: la Junta militar, dopo aver promesso battaglia se gl’Inglesi fossero arrivati, non poteva più scendere a compromessi; e questo fu il senso del rifiuto argentino alle proposte di mediazione che insistentemente il segretario di stato statunitense, Haig, rivolse a Buenos Aires.

Sull’esito della guerra furono decisivi l’utilizzo della rete satellitare americana e quello della base radar cilena di Punta Arenas, che permisero agli Inglesi di conoscere in anticipo gli spostamenti degli aerei argentini. Margareth Thatcher confessò che senza l’aiuto cileno non sarebbero mai riusciti a spuntarla e la riconoscenza inglese nei confronti del generale Pinochet fu, anni dopo, ampiamente ripagata. Anche l’isola di Ascensione, base navale e militare americana in mezzo all’Atlantico, fu utilizzata dalle truppe di Sua Maestà come punto di partenza delle loro operazioni.

L’Argentina, a parte le sterili dichiarazioni di solidarietà di quasi tutto il mondo ispano-americano, rimase sola, pagando con l’isolamento internazionale i sei anni precedenti di regime militare che avevano coinciso con un raffreddamento di rapporti con Cile (con cui fu sull’orlo della guerra per il possesso delle isole del canale di Beagle nella Terra del Fuoco) Messico, Brasile ed anche Bolivia dove era intervenuta per favorire l’ascesa del dittatore Luis Garcia Meza.

La guerra delle Malvinas, conclusasi con la resa del 13 giugno – che colse di sorpresa la stragrande maggioranza degli Argentini, sistematicamente disinformati sull’andamento del conflitto – immediatamente successiva alla riconquista delle isole da parte dei Britannici, rimane una ferita aperta e, al tempo stesso, la rivendicazione di un gesto d’onore. I governi successivi alla caduta dei militari iniziarono un veloce processo di “desmalvinización” confondendo quel regime con le ragioni della guerra e dunque nascondendo le grandezze, gli eroismi, il consenso popolare a quella causa nazionale per non legittimare, con questo, il governo che l’aveva promossa. Lo stesso errore, speculare, commesso dai militari che si appropriarono delle ragioni di una guerra che coincise col loro regime solo per il dato cronologico e, adottandola e ritenendola come cosa loro, ne nascosero i lati peggiori, fatti di errori, incompetenza e menzogne. La “desmalvinización” naturalmente colpì i reduci della guerra, emarginati, dimenticati a cui fu rifiutato anche un riconoscimento pensionistico.

Resta comunque pendente il problema di sovranità che il conflitto ha fatto retrocedere ma che rimane un punto fondamentale nell’agenda argentina, data la portata geostrategica di quei gruppi di isole: Malvinas, Georgias meridionali e Sandwich meridionali, una catena di basi terrestri che permetterebbero il controllo del mare argentino sino a 2500 km dalla costa patagonica e soprattutto delle rotte australi proiettandosi sul continente antartico, punto di congiungimento e d’osservazione dei tre oceani.

Accennavamo agli eroismi dei tanti soldati argentini: non possiamo dimenticare quelli dei piloti che sfidarono la contraerea nemica rendendosi protagonisti, fin dal battesimo del fuoco del primo maggio’82, d’imprese memorabili. Ne citiamo solo alcuni di essi: Owen Crippa che con un Aermacchi, in un volo di ricognizione, intravedendo le navi inglesi pronte a sbarcare i soldati sulle isole, da solo attaccò la flotta, zigzagando tra i colpi dell’artiglieria, per poi riuscire miracolosamente ad atterrare e ad avvertire, seppur inutilmente, la propria base. Quando attaccavano le navi inglesi, per non essere intercettati dai radar nemici, i piloti volavano a dieci metri sul pelo dell’acqua ma se colpiti erano troppo bassi per poter ricorrere all’espulsione automatica. Morirono così in combattimento “Tito” Gavazzi, Mario Victor Nìvoli e, tra gli ultimi a cadere, Ruben Danilo Bolzan. Citiamo anche alcuni dei piloti della squadriglia “Nene”: Omar Gelardi, Luis Cervera, Guillermo Delle Piane, riforniti in vollo dai KC-130 pilotati da Luis Litrenta, Guillermo Destefanis e Francisco Mensi. E poi Ruben Gustavo Zini, Alberto Jorge Filippini, Gustavo Piuma Justo; senza dimenticare tutti gli altri, di cui molti dai cognomi dall’origine inconfondibile. Che ci riempiono d’orgoglio.

fotografie tratte da:

Nicolás Kasanzew , (La Pasión según Malvinas)