I millennial sentono di poter perdere tutto in qualsiasi momento. E, sempre di più, questo gli può capitare davvero” ha dichiarato Jacob Hacker, politologo di Yale e autore di The Great Risk Shift, intervistato dal giornalista Michael Hobbes per il longform Poor millennials pubblicato su Highline dell’Huffinghton Post, una storia animata graficamente in stile videogioco anni ‘90 ricca di dati e incentrata sul perché i millennial sono di fronte al “futuro finanziario più spaventoso di sempre dalla grande depressione” – ma potremmo anche dire il presente. Secondo “i vecchi”, scrive Hobbes “i problemi che ci troviamo ad affrontare sono tutta colpa nostra: abbiamo sbagliato laurea. Spendiamo soldi che non abbiamo per cose di cui non abbiamo bisogno. Non abbiamo ancora imparato a pianificare”.

Il web straborda di articoli, meme e ricerche di mercato su interi settori che i millennial avrebbero contribuito a estinguere – dai tovaglioli di carta ai cereali troppo zuccherati, passando per i diamanti, le palestre, le case di proprietà e i ristoranti formali – ma in realtà l’unica cosa che si sta estinguendo è la classe media, e mentre Londra resta in cima alle classifiche internazionali sulle città in cui la vita è migliore, nessuno si chiede per chi. In questo scenario, le metropoli continuano ad attrarci come deviazioni carismatiche, generatori automatici di possibilità che sanno come risputarci fuori disintegrati, mettendoci di fronte alla vera ragione di tutti i nostri fallimenti. “Che stiamo cercando di avere successo all’interno di un sistema che non ha più alcun senso” scrive Hobbes. Comprare una casa o migrare “ci sono state presentate come porte di accesso alla prosperità perché, quando i boomer sono cresciuti, lo erano. Ma ora le regole sono cambiate e ci ritroviamo a giocare una partita impossibile da vincere”.

Infatti sembriamo inventati apposta per perdere. E quindi poveri noi, nel senso anche proprio letterale di “poveri”. I primi ad avere meno risorse dei genitori alla stessa età, i primi a indebitarsi fino al collo ancora prima di diventare adulti, hanno sottolineato in questi anni i principali quotidiani finanziari. Forse tutto comincia proprio nel mezzo della nostra “giovinezza”, quando invece di sballarci eravamo impegnati ad accumulare attestati di merito, corsi su corsi per dimostrare di essere meglio di qualcun altro. Il nostro ingresso nel mercato del lavoro è coinciso con la narrazione della scarsità, e la scarsità crea competizione – a Londra anche chi suona nelle metro deve superare una selezione; i discorsi dei vagabondi che salgono sui treni in cerca di cash a volte rasentano i TED talk, resto paralizzata ad ascoltarli mentre penso che la regola è sempre la stessa: i soldi arrivano solo se dimostri di essere il migliore. Convincere il mondo è diventato il prerequisito per esistere.

Si parla spesso di soldi quando si scrive di “noi”, oggi mi chiedo se questo “tutto” che possiamo sempre perdere, prima ancora che il lavoro, l’accesso a un affitto o la possibilità di poter contare su una pensione, non sia proprio la giovinezza, la nostra relazione con il tempo o la nostra capacità di sentire qualcosa. Nomadismo, coworking, freelancing, multitasking; negli ultimi vent’anni ci siamo raccontati di tutto pur di convincerci che il mondo avrebbe potuto essere un posto diverso, che puntare tutto sullo stile di vita avrebbe costituito la svolta in grado di renderci felici. Siamo stati i pionieri del capitalismo digitale, il mercato “dell’esperienza” l’abbiamo inaugurato noi, capire come siamo arrivati alla great resignation, al quiet quitting che tanto ci accomuna alla ‘gen Z’, significa inevitabilmente passare per la storia artificiale dei nostri sentimenti.

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