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    Predefinito Casa Bianca ordina la fine del globalismo liberista

    Maurizio Blondet 5 Maggio 2023
    Qui sotto l’incredibile discorso del consigliere della sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan alla Brookings Institution, dove pretende di porre fine alla globalizzazione governata dal profitto e dal “mercato”: non ci conviene più, ma Sullivan non ammette che è stato un errore strategico storico americano; l’abbiamo fatto per espandere il benessere nel terzo mondo, per altruismo. Solo che ci siamo de- industrializzati, e la Cina ci sta superando. Per cui comandiamo anche agli alleati europei la fine della globalizzazione e del liberismo; interventi di stato nell’economia, e ri-nazionalizziamo e vi deprediamo.

    Insomma Sullivan ordina al dentifricio di tornare nel tubetto. Le importazioni USA dalla Cina non fanno che aumentare…Sullivan è una Kamala Harris della sicurezza nazionale.

    Jake-Sullivan-WH_(cropped)

    Osservazioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jack Sullivan al Brookings Institution sul tema del rinnovamento della guida economica americana.

    Di Jack Sullivan [1]

    Come sa la maggioranza di voi, la Segretaria Yellen ha tenuto la scorsa settimana qua vicino un importante discorso sulla nostra politica economica riguardo alla Cina. Oggi vorrei concentrarmi sulla nostra più generale politica economica internazionale, in particolare in riferimento all’impegno fondamentale del Presidente Biden – in effetti, alla quotidiana direzione che esercita su noi stessi – per una integrazione più profonda della politica interna ed estera.

    Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti guidarono un mondo frammentato nella costruzione di un nuovo ordine economico internazionale. Esso portò centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. Sostenne emozionanti rivoluzioni tecnologiche. Aiutò gli Stati Uniti e molte altre nazioni nel mondo a realizzare nuovi livelli di prosperità.

    Ma gli ultimi decenni hanno rivelato fratture in queste fondamenta. Uno spostamento nell’economia globale ha lasciato indietro molti lavoratori americani e le loro comunità. Una crisi finanziaria ha fatto tremare la classe media. Una pandemia ha mostrato la fragilità delle nostre catene dell’offerta. Il cambiamento climatico minaccia le vite ed i mezzi di sostentamento. L’invasione da parte della Russia dell’Ucraina ha evidenziato i rischi di un eccesso di dipendenza.

    Dunque, questo momento richiede che noi si dia vita ad un ‘nuovo consenso’.

    È quella la ragione per la quale gli Stati Uniti, con il Presidente Biden, stanno perseguendo una moderna strategia industriale e dell’innovazione – sia all’interno che con partner in tutto il mondo. Una strategia che investa sulle fonti della nostra stessa forza economica e tecnologica, che promuova catene dell’offerta globale diversificate e resilienti, che fissi elevati standard per ogni cosa, dal lavoro all’ambiente alla tecnologia affidabile ed al buon governo, e che dispieghi capitali per il conseguimento di beni pubblici come il clima e la salute.

    Ora, l’idea che un “nuovo Washington Consensus”, come alcune persone l’hanno definito, sia in qualche modo l’America da sola, o l’America e l’Occidente con l’esclusione degli altri, è proprio completamente sbagliata.

    Questa strategia produrrà un ordine economico globale più giusto e più durevole, a beneficio di noi stessi e delle persone in ogni luogo.

    Oggi dunque, quello che io voglio fare è illustrare quello che stiamo provando a fare. E partirò dal definire le sfide che stiamo constatando – le sfide che stiamo fronteggiando. Per farcene carico, abbiamo dovuto rivedere alcuni vecchi assunti. In seguito, passo dopo passo, spiegherò come il nostro approccio sia adattato a soddisfare quelle sfide.

    Quando il Presidente Biden entrò in carica più di due anni orsono, il paese, dal nostro punto di vista, era di fronte a quattro sfide fondamentali.

    La prima, la base industriale dell’America era stata svuotata.

    La visione dell’investimento pubblico che aveva motivato il progetto americano negli anni postbellici – e per la verità per buona parte della nostra storia – era svanita. Aveva lasciato il passo ad un complesso di idee che peroravano il taglio delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione al posto dell’iniziativa pubblica, e la liberalizzazione del commercio come fine a se stessa.

    C’era un pregiudizio al cuore di tutta questa politica: che i mercati allocassero sempre il capitale in modo produttivo e con efficienza – a prescindere da quello che facevano i nostri competitori, a prescindere da quanto crescevano le sfide che ci riguardavano ed a prescindere da quante barriere di protezione abbattevamo.

    Ora, nessuno – certamente non il sottoscritto – sminuisce il potere dei mercati. Ma nel nome di una super semplificata efficienza del mercato, intere catene dell’offerta di beni strategici – assieme alle industrie ed ai posti di lavoro che le realizzavano – si sono spostate all’estero. E il postulato che la liberalizzazione spinta del commercio avrebbe aiutato l’America ad esportare prodotti, e non posti di lavoro e capacità produttiva, era una promessa che veniva fatta ma non mantenuta.

    Un altro assunto implicito era che il tipo di crescita non era importante. Tutta la crescita era buona crescita. Dunque, venivano assortite varie riforme che assieme avevano l’effetto di privilegiare alcuni settori dell’economia, come la finanza, mentre altri settori essenziali, come i semiconduttori e le infrastrutture, deperivano. La nostra capacità industriale – che è cruciale per la capacità di ogni paese di continuare ad innovare – subì un colpo reale.

    I traumi della crisi finanziaria globale ed una pandemia globale hanno messo a nudo i limiti di questi prevalenti pregiudizi.

    La seconda sfida che abbiamo affrontato è stata adattarsi ad un nuovo contesto definito dalla competizione geopolitica e della sicurezza, con importanti impatti economici.

    Buona parte della politica economica internazionale dei decenni passati si era basata sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo – che coinvolgere i paesi all’interno di un ordine basato sulle regole le avrebbe incentivate ad aderire a quelle stesse regole.

    Ciò non è avvenuto. In alcuni casi è avvenuto, ma in una gran quantità di casi non è avvenuto.

    Al tempo in cui il Presidente Biden entrò in carica, noi dovevamo misurarci con la realtà secondo la quale una ampia economia non di mercato era stata integrata nell’ordine economico internazionale in un modo che provocava considerevoli sfide.

    La Repubblica del Popolo della Cina continuava a sussidiare ad un livello massiccio sia settori industriali tradizionali, come l’acciaio, che industrie fondamentali del futuro, come le energie pulite, le infrastrutture digitali e le biotecnologie avanzate. L’America non solo aveva perso il settore manifatturiero – avevamo eroso la nostra competitività in tecnologie fondamentali che avrebbero determinato il futuro.

    L’integrazione economica non aveva fermato la Cina dall’espandere le sue ambizioni militari nella regione, né aveva impedito alla Russia di invadere i suoi vicini democratici. Né l’uno né l’altro paese erano diventati più responsabili o collaborativi.

    E ignorare le dipendenze economiche si erano accumulate in decenni di liberalizzazione era diventato realmente pericoloso – dall’incertezza energetica in Europa alla vulnerabilità delle catene dell’offerta nelle attrezzature sanitarie, per i semiconduttori ed i minerali fondamentali [2]. Queste erano il tipo di dipendenze che potevano essere sfruttate per l’influenza economica o geopolitica.

    La terza sfida dinanzi alla quale eravamo era una accelerazione della crisi climatica ed il bisogno urgente di una giusta ed efficace transizione energetica.

    Quando il Presidente Biden entrò in carica noi non eravamo drammaticamente all’altezza delle nostre ambizioni climatiche, senza un chiaro indirizzo verso abbondanti offerte di energie pulita stabile e disponibile, nonostante i migliori sforzi della Amministrazione Obama-Biden per realizzare un significativo progresso.

    Troppe persone credevano che dovessimo fare una scelta tra la crescita economica e la soddisfazione dei nostri obbiettivi sul clima.

    Il Presidente Biden ha sempre considerato le cose in modo completamente diverso. Come ha spesso detto, quando lui sente parlare di “clima”, pensa ai “posti di lavoro”. Crede che costruire un’economia di energie pulita del ventunesimo secolo sia una delle opportunità di crescita più significative del ventunesimo secolo – ma che per sfruttare quella opportunità, l’America abbia bisogno di una strategia deliberata e concreta di investimenti per tirare in avanti l’innovazione, abbattere i costi e creare buoni posti di lavoro.

    Infine, eravamo dinanzi alla sfida dell’ineguaglianza e dei suoi danni alla democrazia.

    In questo caso, l’assunto prevalente era che la crescita resa possibile dal commercio sarebbe stata una crescita inclusiva – che i vantaggi del commercio avrebbero finito con l’essere generalmente condivisi tra le nazioni. Ma il fatto è che quei vantaggi non erano capaci di raggiungere una gran parte di lavoratori. La classe media americana aveva perso terreno mentre i ricchi stavano meglio che mai. E le comunità manifatturiere americane venivano svuotate mentre i settori di avanguardia si spostavano verso le aree metropolitane.

    Ora, i fattori dell’ineguaglianza economica – come molti di voi sanno anche meglio di me – sono complessi, ed includono sfide strutturali come la rivoluzione digitale. Ma tra questi fattori, sono stati fondamentali decenni di politiche economiche basate sulla aspettativa dei cosiddetti ‘effetti a cascata’ – politiche come i tagli regressivi delle tasse, i profondi tagli agli investimenti pubblici le concentrazioni societarie senza controlli, nonché attive misure per indebolire il movimento dei lavoratori, che agli inizi costruì la classe media americana.

    Gli sforzi per prendere un approccio diverso durante la Amministrazione Obama – compresi gli sforzi per far approvare politiche per affrontare il cambiamento climatico, per investire nelle infrastrutture, per espandere la rete della sicurezza sociale e proteggere i diritti dei lavoratori ad organizzarsi – erano stati boicottati dall’opposizione repubblicana.

    E, francamente, le nostre politiche economiche nazionali non erano neppure riuscite a dar pienamente conto delle conseguenze delle nostre politiche economiche internazionali.

    Ad esempio, il cosiddetto “shock cinese”, che aveva colpito in modo particolarmente duro – con impatti grandi e di lunga durata – i portafogli della nostra industria manifatturiera nazionale, non era stato adeguatamente previsto né adeguatamente affrontato nel suo svolgimento.

    E collettivamente, queste forze avevano logorato i fondamenti socioeconomici sui quali si basa ogni democrazia forte e resiliente.

    Ora, queste quattro sfide non riguardavano unicamente gli Stati Uniti. Anche economie affermate ed emergenti si stavano confontando con esse – in alcuni casi più acutamente di noi.

    Quando il Presidente Biden entrò in carica, sapeva che la soluzione per ciascuna di queste sfide era ripristinare una mentalità economica che sostiene ‘il costruire’. E quello è il fulcro del nostro approccio economico. Costruire. Costruire la produttività, costruire la resilienza, costruire l’inclusività, all’interno e con i nostri partner all’estero. La capacità di produrre e di innovare, e di fornire beni pubblici come forti infrastrutture materiali e digitali ed energia pulita su larga scala. La resilienza di resistere ai disastri naturali ed agli shock geopolitici. E l’inclusività per garantire una forte, vitale classe media americana e maggiori opportunità per le persone che lavorano in tutto il mondo.

    Tutto questo è parte di quella che abbiamo definito una politica estera della classe media.

    Il primo passo è gettare nuove fondamenta all’interno – con una strategia industriale americana moderna.

    Il mio amico e passato collega Brian Deese ha parlato con una certa ampiezza di questa nuova strategia industriale, ed io vi raccomando le sue osservazioni, giacché sono migliori di qualsiasi osservazione potrei fornire io sul tema. Ma in sintesi:

    Una moderna strategia industriale americana identifica i settori specifici che sono basilari per la crescita economica, strategici in una prospettiva di sicurezza nazionale, e nei quali l’industria privata non è destinata per suo conto a fare gli investimenti necessari per garantire le nostre ambizioni nazionali.

    Essa dispiega in queste aree mirati investimenti pubblici che liberano il potere e l’ingegnosità dei mercati privati, il capitalismo e la competizione, per gettare un fondamento ad una crescita di lungo termine.

    Essa contribuisce a permettere alle imprese americane di fare quello che fanno meglio – ad innovare, a crescere ed a competere.

    Questo ha a che fare con l’attrarre l’investimento privato – non con il sostituirlo. Riguarda il fare investimenti a lungo termine in settori vitali per il nostro interesse nazionale – non lo scegliere i vincitori ed i perdenti.

    E ciò ha una lunga tradizione nel nostro paese. Di fatto, persino quando il termine “politica industriale” passò di moda, in qualche forma per l’America esso rimase tranquillamente in funzione – dalla Agenzia per i Progetti Avanzati della Difesa (DARPA) e da Internet, alla NASA ed ai satelliti commerciali.

    Ora, osservando nel corso degli ultimi due anni, i risultati iniziali di questa strategia sono considerevoli.

    Il Financial Times ha riportato che investimenti su larga scala nei semiconduttori e nella produzione di energia pulita sono già cresciuti di venti volte a partire dal 2019, e un terzo degli investimenti annunciati da agosto riguardano un investitore straniero che investe qua negli Stati Uniti.

    Abbiamo stimato che nel prossimo decennio il capitale pubblico totale e gli investimenti privati che derivano dal programma del Presidente Biden corrisponderanno a circa 3.500 miliardi di dollari.

    Si considerino i semiconduttori, che sono essenziali per i nostri beni di consumo come lo sono per le tecnologie che daranno forma al nostro futuro, dall’intelligenza artificiale, all’informatica quantistica alla biologia sintetica.

    Adesso l’America produce soltanto il 10 per cento dei semiconduttori del mondo, e la produzione – in generale e in particolare quando si arriva ai semiconduttori più avanzati – è geograficamente concentrata altrove.

    Questo determina un rischio economico fondamentale ed una vulnerabilità per la sicurezza nazionale. Dunque, grazie alla Legge approvata da entrambi i partiti denominata CHIPS ed alla Legge sulla Scienza, abbiamo già visto un aumento degli investimenti di vari ordini di grandezza nell’industria americana dei semiconduttori. E siamo ancora ai primi giorni.

    Oppure si considerino i minerali fondamentali – la spina dorsale dell’energia pulita del futuro. Oggi, gli Stati Uniti producono soltanto i 4 per cento del litio, il 13 per cento del cobalto, lo 0 per cento del nickel e lo 0 per cento della grafite richiesta per soddisfare la attuale domanda per i veicoli elettrici. Nel frattempo, più dell’80 per cento dei minerali fondamentali sono trattati da un paese, la Cina.

    Le catene dell’offerta della energia pulita sono a rischio di essere utilizzate come arma impropria nello stesso modo in cui lo fu il petrolio negli anni ’70, o il gas naturale in Europa nel 2022. Dunque, noi stiamo prendendo iniziativa attraverso la Legge per la Riduzione dell’Inflazione e la Legge bipartisan sulle Infrastrutture.

    Nello stesso tempo, non è né fattibile né desiderabile produrre ogni cosa all’interno. Il nostro obbiettivo non è l’autarchia – è la resilienza e la sicurezza nelle catena dell’offerta.

    In questo momento, costruire una nostra capacità nazionale è il punto di partenza. Ma lo sforzo si estende oltre i nostri confini. E questo mi porta al secondo passo della nostra strategia: lavorare con i nostri partner per garantire che anch’essi abbiano capacità resilienza ed inclusività.

    Il nostro messaggi ad essi è stato coerente: noi perseguiremo senza infingimenti la nostra strategia industriale all’interno – ma senza ambiguità siamo impegnati a non lasciare indietro i nostri amici. Vogliamo che si uniscano a noi. Di fatto, abbiamo bisogno che si uniscano a noi.

    Creare un’economia sicura e sostenibile a fronte delle realtà economiche e geopolitiche richiederà che tutti i nostri alleati e partner facciano di più – e non c’è tempo da perdere. Per industrie come i semiconduttori e le energie pulite, non siamo in nessun modo vicini al punto di saturazione globale degli investimenti necessari, né pubblici né privati.

    In ultima analisi, il nostro obbiettivo è una base tecno-industriale forte, resiliente e all’avanguardia nella quale gli Stati Uniti e i loro partner affini, economie consolidate ed emergenti assieme, possano investire e assieme fare affidamento.

    Il mese scorso il Presidente Biden e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen hanno parlato di questo a Washington.

    Essi hanno rilasciato una dichiarazione molto importante che, se non l’aveste letta, vi suggerisco di leggere. Nella sua sostanza, quello che quella dichiarazione afferma è la cosa seguente: è necessario che, nella nostra rispettiva capacità industriale, coraggiosi investimenti pubblici siano il cuore della transizione energetica. La Presidente von der Leyen e il Presidente Biden si sono impegnati a lavorare assieme per garantire che le catene dell’offerta del futuro siano resilienti, sicure e che riflettano i nostri valori – compresi quelli sul lavoro.

    Essi hanno esposto nella dichiarazione i passi pratici per realizzare quegli obbiettivi – come allineare i rispettivi incentivi per le energie pulite su ciascun versante dell’Atlantico e lanciare negoziati sulle catene dell’offerta per i minerali fondamentali e le batterie.

    Subito dopo, il Presidente Biden è andato in Canada. Egli e il Primo Ministro Justin Trudeau hanno concordato su una task force per accelerare la cooperazione tra Canada e Stati Uniti, esattamente nella direzione della medesima finalità: garantire la nostra offerta di energie pulite e creare su entrambi i versanti del confine posti di lavoro da classe media.

    E solo pochi giorni dopo, gli Stati Uniti e il Giappone hanno sottoscritto un accordo che approfondisce la nostra cooperazione sulle catene dell’offerta dei minerali fondamentali.

    Dunque, stiamo facendo leva sulla Legge per la Riduzione dell’Inflazione (IRA) per costruire un ecosistema manifatturiero basato su catene dell’offerta qua nel Nord America, e che si estende all’Europa, al Giappone e altrove.

    Questo è il modo in cui trasformeremo l’IRA da una fonte di discordia in una fonte di forza e di affidabilità. Ed ho la sensazione che, nel Summit del G7 del prossimo mese ad Hiroshima, sentirete molto parlare di questo.

    Ora, la nostra cooperazione con i partner non è limitata alle energie pulite.

    Ad esempio, stiamo lavorando co i nostri partner – in Europa, nella Repubblica di Corea, in Giappone, a Taiwan e in India – per coordinare i nostri approcci sugli incentivi ai semiconduttori.

    Le previsioni degli analisti su dove avverranno gli investimenti sui semiconduttori nei prossimi tre anni si sono spostate in modo spettacolare, con gli Stati Uniti ed i partner principali che adesso sono in cima ai diagrammi.

    Consentitemi di sottolineare che la nostra cooperazione con i partner non è limitata alle democrazie industriali avanzate.

    Fondamentalmente, noi dobbiamo sfatare l’idea che il partenariato più importante dell’America sia soltanto con le economie affermate. Non solo dicendolo, ma dimostrandolo. Dimostrandolo con l’India – su ogni cosa, dall’idrogeno ai semiconduttori. Dimostrandolo con l’Angola – sull’energia solare libera dal carbonio. Dimostrandolo con l’Indonesia – sul suo Partenariato per una Giusta Transizione Energetica. Dimostrandolo con il Brasile – per una crescita favorevole al clima.

    Questo mi porta al terzo passo nella nostra strategia: muoversi oltre gli accordi commerciali tradizionali verso nuove collaborazioni economiche internazionali concentrate sulle sfide cruciali del nostro tempo.

    Il principale progetto economico internazionale degli anni ’90 era la riduzione delle tariffe. Durante gli anni ’90, in media, i tassi delle tariffe statunitensi si erano quasi ridotti della metà. Oggi, nel 2023, il nostro tasso medio delle tariffe ponderato su base commerciale è il 2,4 per cento – che storicamente, e in relazione ad altri paesi, è basso.

    Naturalmente, quelle tariffe non sono uniformi, è c’è ancora del lavoro da fare per abbassare i livelli in molti altri paesi. Come ha detto l’ambasciatore della Thailandia, “Noi non abbiamo rinunciato alla liberalizzazione del mercato”. Intendiamo davvero perseguire accordi commerciali moderni. Ma definire o misurare tutta la nostra politica basandosi sulla riduzione delle tariffe perde alcuni aspetti importanti.

    Chiedere che cosa sia adesso la politica commerciale – inquadrandola strettamente come progetti per ridurre ulteriormente le tariffe – è semplicemente la domanda sbagliata. La domanda giusta è: come il commercio si colloca nella nostra politica economica internazionale e quali problemi sta cercando di risolvere? Il progetto per gli anni 2020 e 2030 è diverso dal progetto degli anni ‘990.

    Noi conosciamo i problemi che abbiamo bisogno di risolvere oggi: creare catene dell’offerta diversificate e resilienti. Mobilitare gli investimenti pubblici e privati per una giusta transizione alle energie pulite ed alla crescita economica sostenibile. Creare in quel percorso buoni posti di lavoro, posti di lavoro che sostengano le famiglie. Garantire la fiducia, la sicurezza e l’apertura nelle nostre infrastrutture digitali. Rafforzare le protezioni per il lavoro e per l’ambiente. Contrastare la corruzione. Quello è un complesso di priorità fondamentali che semplicemente fa crollare il rilievo delle tariffe.

    E noi abbiamo individuato gli elementi di una ambiziosa iniziativa economica internazionale, il Modello Economico Indo-Pacifico (IPEF), per concentraci su quei problemi – e per risolverli. Stiamo negoziando capitoli con tredici nazioni dell’Indo-Pacifico che accelereranno la transizione alle energie pulite, miglioreranno la giustizia fiscale e combatteranno la corruzione, fisseranno standard elevati per la tecnologia e garantiranno catene dell’offerta più resilienti per i prodotti e gli ingredienti fondamentali.

    Consentitemi di parlarne un po più concretamente. Ci fosse stato l’IPEF quando il Covid gettava scompiglio sulle nostre catene dell’offerta e le fabbriche rimanevano inattive, saremmo stati capaci di reagire più rapidamente – le imprese ed i governi assieme – rivolgendoci a nuove opzioni per attingere e condividere i dati in tempo reale. Quello è ciò che su quel tema, come su molti altri, può rappresentare un nuovo approccio.

    Il nostro nuovo Partenariato per la Prosperità Economica delle Americhe, è indirizzato allo stesso fondamentale complesso di obbiettivi.

    Nel frattempo, attraverso il Consiglio per il Commercio e la Tecnologia statunitense ed europeo, e attraverso il nostro coordinamento trilaterale con il Giappone e la Corea, noi stiamo coordinando le nostre strategie industriali per essere complementari gli uni agli altri, ed evitare una corsa verso il basso di tutti che competono per gli stessi obbiettivi.

    Alcuni hanno guardato a queste iniziative ed hanno affermato: “Ma questi non sono i tradizionali Accordi per il Libero Commercio (FTA)”. Il punto è esattamente quello. Per i problemi che stiamo cercando di risolvere oggi, il modello tradizionale non regge.

    L’epoca dei rattoppi politici a cose accadute e delle vaghe promessi di redistribuzione è finita. Abbiamo bisogno di un approccio nuovo.

    Per dirla semplicemente: nel mondo di oggi, la politica commerciale ha bisogno di riguardare altro che non la riduzione delle tariffe, e la politica commerciale ha bisogno di essere pienamente integrata nella nostra strategia economica, all’interno e all’estero.

    Nello stesso tempo, l’Amministrazione Biden sta sviluppando una nuova stratega del lavoro che promuova i diritti dei lavoratori attraverso la diplomazia, e nelle prossime settimane verremo rivelando questa strategia.

    Essa si basa su strumenti come il meccanismo del lavoro a risposta rapida come l’Accordo tra Stati Uniti, Messico e Canada (USMCA) che rafforzano l’associazione dei lavoratori e diritti alla contrattazione collettiva. Solo questa settimana, abbiamo di fatto risolto otto nostri casi con un accordo che ha migliorato le condizioni di lavoro – un accordo vantaggioso per i lavoratori messicani e per la competitività americana.

    Adesso è in corso la prosecuzione per promuovere un accordo storico con 136 paesi per interrompere finalmente la corsa verso i basso sulle tasse alle società che colpiscono la classe media ed i lavoratori. Adesso c’è bisogno che il Congresso prosegua con la messa in atto delle legislazione, e stiamo operando su di esso perché faccia esattamente questo.

    Stiamo inoltre assumendo altri tipi di nuovi approcci che riteniamo un progetto fondamentale per il futuro – collegare il commercio e il clima come non era mai stato fatto in precedenza. La Soluzione Globale per l’Acciaio e l’Alluminio che stiamo negoziando con l’Unione Europea potrebbe essere il primo importante accordo commerciale per affrontare assieme sia l’intensità delle emissioni che la sovracapacità produttiva. E se possiamo applicarlo all’acciaio e all’alluminio, possiamo anche esaminare come applicarlo ad altri settori. Possiamo contribuire a creare un ciclo virtuoso e garantire i nostri competitori che non stiamo avvantaggiandoci ai danni del pianeta.

    A coloro che hanno posto la domanda, voglio dire che l’Amministrazione Biden è ancora impegnata verso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ed i valori condivisi sui quali essa si basa: giusta competizione, apertura, trasparenza e stato di diritto. Ma serie sfide, più precisamente pratiche e politiche economiche non di mercato, minacciano quei valori centrali. Dunque, quella è la ragione per la quale stiamo lavorando con molti altri membri del WTO per riformare il sistema multilaterale del commercio in modo che esso benefici i lavoratori, assecondi i legittimi interessi della sicurezza nazionale e si misuri con tematiche urgenti che non sono pienamente integrate nell’attuale modello del WTO, come lo sviluppo sostenibile e la transizione verso le energie pulite.

    In conclusione, in un mondo che viene trasformato da quella transizione verso le energie pulite, dalle dinamiche economie emergenti, da una richiesta di resilienza per le catene dell’offerta – dalla digitalizzazione, dall’intelligenza artificiale e dalla rivoluzione nella biotecnologia – la partita non è più la stessa.

    La nostra politica economica internazionale deve adattarsi al mondo come è, in modo che si possa costruire il mondo che vogliamo.

    Questo mi porta al quarto passo della nostra strategia: mobilitare miglia di miliardi di dollari nelle economie emergenti – con soluzioni che quei paesi stanno adottando per conto loro, ma con capitali resi disponibili da una diplomazia statunitense di diverso genere.

    Noi abbiamo lanciato uno sforzo importante per sviluppare le banche dello sviluppo multilaterale in modo che esse siano all’altezza delle sfide odierne. Per questo, il 2023 è un grande anno.

    Come la Segretaria Yellen ha sottolineato, abbiamo bisogno di aggiornare i modelli operativi delle banche – particolarmente della Banca Mondiale, ma anche delle banche di sviluppo regionali. Abbiamo bisogno di allargare i loro equilibri patrimoniali per affrontare il cambiamento climatico, le pandemie, la fragilità ed i conflitti. E dobbiamo espandere l’accesso alla finanza agevolata e di elevata qualità per i paesi a basso e medio reddito, quando essi si misurano con sfide che vanno oltre i confini di ogni nazione singola.

    Su questa agenda, il mese scorso abbiamo dato un primo acconto, ma avremo bisogno di fare molto di più.

    E siamo molto soddisfatti per la nuova guida alla Banca Mondiale di Ajay Banga, per trasformare in realtà questa visione.

    Nello stesso tempo in cui stiamo evolvendo le banche dello sviluppo multilaterale, abbiamo anche lanciato uno sforzo importante per chiudere il divario delle infrastrutture nei paesi a basso e medio reddito. Lo chiamiamo il Partenariato per le Infrastrutture Globali e gli Investimenti – PGII. Il PGII mobiliterà centinaia di miliardi di dollari, finanziando da ora alla fine del decennio infrastrutture energetiche, materiali e digitali.

    E, diversamente dal finanziamento che proviene dalla Iniziativa della Nuova Via della Seta, i progetti con il PGII sono trasparenti, di alto livello, in funzione nei tempi lunghi, inclusivi e di crescita sostenibile. E soltanto in un anno dal momento in cui questa iniziativa è stata lanciata, abbiamo già fornito significativi investimenti su ogni cosa, dalle miniere necessarie per i veicoli ad energia elettrica ai cavi sottomarini delle telecomunicazioni globali.

    Contemporaneamente, siamo anche impegnati ad affrontare l’emergenza del debito con la quale si misura una largo numero di paesi vulnerabili. Abbiamo bisogno di constatare un effettivi miglioramenti, non solo di “prolungare e fare finta”. E abbiamo bisogno che tutti i creditori pubblici e privati condividano l’onere.

    Ciò include la Cina, che ha operato per costruire la sua influenza attraverso prestiti massicci al mondo emergente, quasi sempre con clausole connesse. Noi condividiamo il punto di vista di molti altri secondo il quale la Cina ha adesso bisogno di farsi avanti come forza costruttiva nella assistenza ai paesi stressati dal debito.

    Infine, noi stiamo proteggendo le nostre tecnologie di base con “un po’ di cortile ed un’alta recinzione” [3].

    Come ho sostenuto in precedenza, il nostro compito è accompagnare una nuova ondata della rivoluzione digitale – che garantisca che le tecnologie della nuova generazione lavorino a favore, non contro, la nostra democrazia e la nostra sicurezza.

    Noi abbiamo messo in atto restrizioni scrupolosamente mirate alle esportazioni della più avanzata tecnologia dei semiconduttori verso la Cina. Quelle restrizioni sono basate su inequivocabili preoccupazioni per la sicurezza nazionale. Alleati fondamentali e partner hanno fatto la stessa cosa, in coerenza con le loro medesime preoccupazioni sulla sicurezza.

    Stiamo anche potenziando la selezione degli investimenti esteri nelle aree che hanno un interesse fondamentale per la sicurezza nazionale. E stiamo facendo progressi nel dedicarci a investimenti in uscita nelle tecnologie sensibili che hanno un nesso con il centro della sicurezza nazionale.

    Queste sono misure mirate. Non sono, come dice Pechino, uno “sbarramento tecnologico”. Esse sono concentrate su una ristretta fetta della tecnologia e su un piccolo numero di paesi intenti a sfidarci militarmente.

    Una parola più in generale sulla Cina. Come si è espressa di recente la Presidente von der Leyen, noi siamo a favore di un abbattimaneto del rischio e di una diversificazione, non di un ‘disaccoppiamento’. Continueremo ad investire nella nostra propria capacità produttiva e in catene dell’offerta sicure e resilienti. Continueremo a spingere per una partita a parità di condizioni per i nostri lavoratori e per una difesa dagli abusi.

    Il nostro controllo delle esportazioni resterà strettamente concentrato sulle tecnologie che possono alterare l’equilibrio militare. Stiamo semplicemente assicurandoci che la tecnologia statunitense e degli alleati non sia usata contro di noi. Non stiamo interrompendo i commerci.

    Di fatto, gli Stati Uniti continuano ad avere relazioni commerciali e di investimenti molto sostanziali con la Cina. L’anno passato, il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina ha stabilito un nuovo record.

    Ora, quando ci si allontana dall’economia, noi stiamo competendo con la Cina su varie dimensioni, ma non stiamo cercando uno scontro o un conflitto. Abbiamo l’intenzione di gestire la competizione responsabilmente e cercando di lavorare assieme alla Cina dove è possibile. Il Presidente Biden ha chiarito che Stati Uniti e Cina possono e dovrebbero lavorare assieme su sfide come il clima, la stabilità macroeconomica, la sicurezza sanitaria e quella alimentare.

    Gestire la competizione responsabilmente, richiede in ultima analisi che le due parti siano disponibili. Richiede un grado di maturità strategica tale da accettare che si debbano tenere aperte linee di comunicazione anche quando si assumono iniziative per competere.

    Come la Segretaria Yellen ha detto la scorsa settimana nel suo discorso su questo tema, noi possiamo difendere i nostri interessi di sicurezza nazionale, avere una sana competizione economica e lavorare assieme dove possibile, ma la Cina deve essere disponibile a fare la sua parte. Dunque, a cosa può assomigliare un successo?

    Il mondo richiede un sistema economico internazionale che operi a favore di chi percepisce salari, che operi per le nostre industrie, per il nostro clima, per la nostra sicurezza nazionale, ed operi per i paesi più poveri e più vulnerabili del mondo.

    Questo comporta sostituire un approccio unicamente concentrato sugli assunti super semplificati dei quali ho parlato all’inizio del mio discorso, con qualcosa che incoraggi investimenti mirati e necessari che i mercati privati sono inadatti a fornire per loro conto – anche se continuiamo a sfruttare il potere dei mercati e l’integrazione.

    Comporta fornire spazio ai partner nel mondo per ripristinare i patti tra i governi e i loro elettori e lavoratori.

    Comporta basare questo nuovo approccio su una profonda cooperazione e trasparenza per garantire che i nostri investimenti e quelli dei nostri partner si rafforzino e siano reciprocamente benefici.

    E comporta tornare al convincimento centrale che per primi sostenemmo 80 anni orsono: che l’America dovrebbe essere il cuore di un sistema finanziario animato che permetta ai partner in tutto il mondo di ridurre la povertà e di rafforzare una prosperità condivisa. E che una rete funzionante della sicurezza sociale per i paesi più vulnerabili del mondo è essenziale per gli stessi nostri interessi fondamentali.

    Comporta anche costruire nuove norme che ci permettano di affrontare le sfide costituite dall’intreccio tra tecnologia avanzata e sicurezza nazionale, senza ostruire un più ampio commercio e innovazione.

    Questa strategia richiederà determinazione – richiederà un impegno rivolto a superare le barriere che hanno impedito a questo paese ed ai nostri partner di costruire rapidamente, efficacemente e giustamente, come eravamo capaci di fare nel passato.

    Ma questo è il sentiero più sicuro per risanare la classe media, per garantire catene dell’offerta fondamentali e, attraverso tutto questo, per riparare la stessa fiducia nella democrazia.

    Come sempre, se avremo successo, avremo bisogno della piena cooperazione dei due partiti del Congresso.

    Abbiamo bisogno del sostegno del Congresso per rinvigorire la capacità unica dell’America di attrarre e di mantenere i talenti più luminosi da tutto il mondo.

    Abbiamo bisogno della cooperazione piena del Campidoglio nelle nostre iniziative di riforma nella finanza per lo sviluppo.

    E abbiamo bisogno di raddoppiare i nostri investimenti nelle infrastrutture, nell’innovazione, nelle energie pulite. La nostra sicurezza nazionale e la nostra vitalità economica dipendono da questo.

    Consentitemi di chiudere con queste parole. Il Presidente Kennedy era affezionato ad una espressione secondo la quale “una marea che cresce alza tutte le barche”. Nel corso degli anni, i sostenitori dell’economia degli “effetti a cascata” si sono appropriati di quella espressione per i loro usi. Ma il Presidente Kennedy non diceva che quello che era buono per i ricchi era buono per la classe lavoratrice. Diceva che in questo siamo tutti assieme.

    E fate attenzione a quello che diceva successivamente: “Se un settore del paese si ferma, allora prima o poi una marea calante farà calare tutte le barche”.

    Questo è vero per il nostro paese. È vero per il nostro mondo. E, dal punto di vista economico, nel corso del tempo siamo destinati a salire o a cadere assieme.

    E questo vale per la forza delle nostre democrazie come per la forza delle nostre economie.

    Ci sarà un dibattito comprensibile, con il mettere mano a questa strategia all’interno ed all’estero. E ciò è destinato a prendere tempo. L’ordine internazionale che emerse dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e dopo la Guerra Fredda non furono costruiti nottetempo. Non avverrà neppure in questo caso.

    Ma assieme, possiamo lavorare per sollevare l’intero popolo dell’America, comunità e industrie, e possiamo farlo anche assieme con i nostri amici e partner dappertutto sul pianeta.

    Questa è la visione per realizzare la quale l’Amministrazione Biden deve battersi e si batterà. Questo è ciò che ci guida mentre prendiamo le nostre decisioni politiche sull’intreccio di economia, sicurezza nazionale e democrazia.

    E questo è il lavoro che faremo non solo come Governo, ma con ogni organismo degli Stati Uniti, e con il sostegno e l’aiuto dei partner, sia al governo che fuori dal governo, in tutto il mondo.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia dell'Europa del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #2
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    Predefinito Re: Casa Bianca ordina la fine del globalismo liberista

    China und Ex Urss che è Europa fino agli urali. Oh meine got.

    China? Ma chi è questo Zelensky, per me è folle. Poi... io sono contraria o almeno lo ero, alle sanzioni contro la Russia. Ma sanzioni di cosa. Chi sta erodendo la Crimea che è territorio Russo, fino a prova contrara è Zelensky e non da ora ma dal 2014 circa. Sono contraria alle sanzioni verso la Russia e non mandate armi a quel "deficiente".

  3. #3
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    Predefinito Re: Casa Bianca ordina la fine del globalismo liberista

    Biden spero non sia così PAZZO e non lo è. Qui, per me di "instabile" c'è solo Zelensky.

 

 

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