Di poche cose si può essere certi come della non esistenza di Dio. Teorie scientifiche, come quella dell’evoluzione, e posizioni teoriche filosofiche di matrice illuministica che riconducono i costrutti fantastici dei miti a un’attività antropologica sottostante, hanno fatto piazza pulita del Dio creatore, fondatore del suo stesso culto, così come presentato dalle religioni del Libro. Di conseguenza la vita umana non ha uno scopo, un destino ultraterreno o qualcosa di simile, e l’ordine dell’universo non è che un battito di ciglia nell’infinità dei tempi e nel suo caos. Queste proposizioni sono vere, nel senso che hanno alle spalle teorie, perfino dimostrazioni di tipo matematico, che fanno del Dio personale nulla di più che un’invenzione derivante da una particolare attitudine che si esprime come monoteismo. Però proprio qui si apre una chance per le religioni in generale – non soltanto per Dio ma per gli dèi. Muovendosi sul piano della credenza e non su quello della teoria, le religioni vanno viste come attribuzioni di realtà: l’elemento loro proprio è la realtà non la verità (i due registri, soprattutto nel mondo contemporaneo, si presentano disgiunti, e il concreto-fattuale non è l’astratto-concettuale). Ciò significa che i prodotti delle religioni hanno una loro efficacia simbolica, costruiscono in maniera autoreferenziale la propria esistenza culturale, in modo tale da infischiarsene completamente delle teorie scientifiche o filosofiche.
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