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    Predefinito Rif: America Latina: ascesa e declino della Dottrina Monroe



    STORIA

    L'America Latina e Mussolini. Brasile e Argentina nella politica estera dell'Italia. (1919-1943)


    Marco Mugnaini

    L'America Latina e Mussolini. Brasile e Argentina nella politica estera dell'Italia. (1919-1943)

    Franco Angeli, pagg.288, Euro 22,00



    IL LIBRO - Gli anni compresi fra le due guerre mondiali rappresentarono una fase di transizione cruciale per il sistema internazionale, in quell'epoca anche i rapporti fra l'Italia e l'America Latina si modificarono profondamente.

    L'Autore, dopo aver esaminato le posizioni dei liberali e dei nazionalisti, ripercorre le diverse fasi attraversate dalla politica del fascismo nei confronti dell'area latino-americana, soffermandosi maggiormente sul Brasile e sull'Argentina, paesi con importanti comunità di "italiani fuori d'Italia", verso cui il governo di Roma mostrò un particolare interesse nel periodo 1919-1943. Un interesse rafforzato dai cambiamenti in corso in quell'area e dagli effetti della crisi del 1929, nonché dal sorgere di partiti che sembravano ispirarsi a Mussolini. Dopo i "ruggenti" anni Venti quelle situazioni furono però influenzate dal mutare del panorama diplomatico negli anni Trenta, anche a causa di alcune crisi che videro coinvolta l'Italia, e risultarono poi condizionate dal secondo conflitto mondiale.

    I ruoli dell'Argentina e del Brasile sono significativi anche perché la loro collocazione interagiva nei rapporti con i loro due alleati principali, rispettivamente Gran Bretagna e Stati Uniti, che rappresentavano le due maggiori potenze dell'epoca oltreché i punti di riferimento della diplomazia italiana, in positivo almeno sino al 1935 e in negativo dal 1940 al 1943.

    Il volume, grazie a un'originale prospettiva euro-americana, illumina lo scomporsi e il ricomporsi degli schieramenti internazionali, evidenziando protagonisti e vicende dell'America Latina ancora poco frequentati dalla storiografia italiana, e fornendo al tempo stesso un contributo agli studi sulla politica estera italiana del periodo 1919-1943.


    DAL TESTO - "Nelle affinità politiche l'Italia vedeva uno strumento nuovo, sostitutivo dell'emigrazione ormai in declino, che avrebbe potuto favorire i contatti e gli scambi. Si tenga presente che in quegli anni Mussolini era preso a esempio non soltanto politico, ma anche per le scelte economico-sociali italiane: autarchia e corporativismo erano infatti parole d'ordine di moda, che facevano presa sull'opinione pubblica disorientata dalla crisi dell'economia e della politica tradizionali. Le similitudini tra i rispettivi regimi politici interni potevano trasformarsi in solidarietà d'interessi, visto anche che i paesi del Sud America, essendo economicamente legati al commercio estero, non avrebbero potuto chiudersi completamente in un sistema autarchico, mentre avevano una produzione più complementare che competitiva rispetto a quella italiana. Tanto più tenendo conto che, come ricordava Guariglia, l'Italia come altri paesi europei era interessata al rilancio delle esportazioni verso le Americhe perché potevano facilitare il superamento della crisi economica".


    L'AUTORE - Marco Mugnaini è professore di Storia delle relazioni internazionali all'Università degli Studi di Pavia. Specializzato negli studi sulle politiche estere di Italia e Spagna, e sulle relazioni fra Europa e America Latina. Fra le sue pubblicazioni si segnalano: Italia e Spagna nell'età contemporanea (Alessandria, 1994); Le Spagne degli italiani (Milano, 2002); per i nostri tipi ha curato il volume Stato, Chiesa e relazioni internazionali (Milano, 2003).


    INDICE DELL'OPERA - Introduzione - Tavola delle sigle e abbreviazioni - Origini di una politica (Il Nuovo mondo visto dagli italiani; Gli stati americani e l'Italia liberale; "Fine dell'America" e "riscoperta dell'America"; Speranze, paure, illusioni) - La politica estera italiana e Mussolini (Il fascismo e le Americhe; Badoglio e Giuriati ambasciatori; Il riassestamento dei rapporti nei "ruggenti" anni Venti; Fasci all'estero e trasvolate, rapporti commerciali e diplomazia; Il Brasile, l'Argentina, i "ventottisti"; Aspetti del 1929; Immagini culturali e realtà politiche ed economiche) - Dinamiche nuove (Crisi americane; La hora de la espada nella zona del Plata; O País do Carnaval e la rivoluzione tenentista; La politica di Mussolini e Grandi; Grandi e Balbo nelle Americhe; L'Italia nelle relazioni euro-americane; America Latina e sistema internazionale) - Equilibri in movimento (Un rapporto preferenziale con l'Argentina?; Il Patto Saavedra Lamas; Cantalupo e il nuovo clima politico brasiliano; Il Brasile tra normalizzazione istituzionale e diffusione dell'AIB; Aspettative ed equivoci alla vigilia della crisi etiopica) - Un periodo di svolta (La realpolitik degli stati americani; La diplomazia argentina come alternativa al piano Hoare-Laval?; Sanzionisti e neurali; Inizio della crisi spagnola; La leva sud-americana; La politica di Mussolini e Ciano) - Ambizioni e incognite (Eredità della questione etiopica e impegno in Spagna; La Conferenza di Buenos Aires; Obiettivi diplomatici e crisi economica; Politica e propaganda; Un asse Roma-Rio?; L'Estado Novo; Vargas of Brazil) - Trasformazioni e ripensamenti (La complessa manovra del governo di Rio; Lo scontro fra Vargas e gli integralisti; Cambiamenti politici in Sud America; Tentativi di Roma di mantenere autonomia rispetto a Berlino; La Conferenza di Lima; Il cambio di binario nell'azione italiana) - Crisi del sistema europeo (Nuove coordinate; Neutralità e non belligeranza; La Conferenza di Panama; Attivismo diplomatico dell'Argentina e dell'Uruguay; Il Brasile rappresentante degli interessi italiani) - Belligeranti e neutrali (L'America agli americani, l'Europa agli europei; La Conferenza dell'Avana; Una controversia ispano-americana; Continentalismo americano e propaganda al CISA; L'acuirsi dello scontro tra l'Asse e gli Alleati in America Latina) - Diplomazia di guerra (Globalizzazione del conflitto; La Conferenza di Rio e le sue conseguenze; Manovre di retroguardia; Il Brasile in guerra; La neutralità dell'Argentina; Prodromi di una fase nuova) - Fonti e bibliografia - Indice dei nomi

    L'America Latina e Mussolini. Brasile e Argentina nella politica estera dell'Italia. (1919-1943) - archiviostorico.info


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    STORIA

    L’immagine dell’America Latina nella Spagna franchista


    di Massimo Gamberini


    L’analisi degli studi sulla storia della Spagna del XX secolo pone l’interrogativo di come il regime franchista – che dal suo fondatore, Francisco Franco, prese il nome – riuscì a sopravvivere per oltre trentasei anni nel bel mezzo dell’Europa. Eppure, proprio alla conclusione della seconda guerra mondiale, il suo regime sembrava avere ormai i giorni contati. Durante il catastrofico conflitto e la conseguente polarizzazione dei due schieramenti, il Caudillo aveva dovuto e saputo praticare una politica prudentemente ambigua e dare, come si suole dire, un colpo al cerchio e uno alla botte a difesa della sua posizione non interventista, ma palesemente filofascista. Appena preso il potere, inoltre, la diplomazia franchista dovette fare i conti con le gravi perdite – umane ed economiche – della guerra civile del triennio 1936-1939. Quando poco dopo scoppiò il secondo conflitto mondiale, quindi, il principale nemico per la Spagna, non era costituito da un’altra Nazione o un altro Paese, ma dalla fame e dalla carestia che la popolazione conobbe in quei terribili anni.

    Nell’immediato dopoguerra mondiale, il governo di Franco fu visto come l’ultimo baluardo in Europa del fascismo e venne messo sotto accusa dall’opinione pubblica internazionale, che richiedeva a gran voce la fine della dittatura. La delibera dell’ONU – che nell’ottobre 1946 invitava tutti i Paesi aderenti alle Nazioni Unite a rompere le relazioni diplomatiche con la Spagna – avrebbe fortemente improntato la politica interna ed estera di quel Paese. L’embargo economico e diplomatico avrebbe finito per costituire un elemento di rafforzamento interno per la dittatura che riuscì, giocando sull’orgoglio nazionale, a catalizzare il consenso. Orden, unidad y aguantar ed España es diferente furono gli slogan lanciati per dimostrare al popolo e al mondo intero che il paese poteva – ed era tenuto a farlo – resistere agli attacchi internazionali.

    Quest’ostilità si sarebbe dovuta combattere in primo luogo con un buon gioco di politica estera: la Spagna concentrò infatti la propria attenzione e i propri sforzi alla costruzione di rapporti politici, economici e culturali, su quei paesi dell’America “hispanica” che, anche grazie al sorgere di regimi dittatoriali e populisti come quello argentino, aiutarono il Paese iberico alla sopravvivenza e mitigarono il clima sfavorevole al regime.

    Su questa base trovò sempre più spazio la politica di cui il Consejo de la Hispanidad prima, e l’Istituto di Cultura Ispanica poi, furono promotori negli anni Quaranta. Voluta fin dall’inizio dallo stesso generale Franco con il preciso compito di superare le divisioni tra i popoli ispanici e di eliminare il «pulviscolo politico cui sono oggi ridotti i paesi dell’America spagnola», la politica della Hispanidad – con posizioni volutamente ambigue fra un’esigenza utopica di ricostruzione dell’Impero spagnolo tramontato nel XIX secolo e l’attuazione di una più “semplice” egemonia culturale e spirituale – riuscì a far avvicinare la Spagna all’America Latina e a trovare ascolto e appoggi prima di tutto in Argentina. Con il riconoscimento della esistenza di una matrice comune, data dalla medesima lingua, cultura e religione, il governo peronista della metà degli anni Quaranta avrebbe aiutato in modo determinante la Spagna ad arginare l’opposizione internazionale contro il regime e a sostenere, diplomaticamente ed economicamente, il governo franchista.

    Ma furono questi i fattori essenziali che fecero superare la crisi – economica e diplomatica – successiva alla seconda guerra mondiale e a far sopravvivere la dittatura di Francisco Franco? Personalmente sono profondamente convinto del grande peso che la propaganda dell’Hispanidad ebbe durante il regime franchista – soprattutto grazie al tema centrale dell’imperialismo e della ricostruzione del potere di quella Spagna conosciuta un tempo come Gran Potencia. La riscoperta del passato e delle matrici comuni con l’America Latina costituivano la base di un progetto che avrebbe dovuto collocare il Paese iberico in un punto di convergenza della comunità ispanoamericana. Quello dell’Hispanidad fu, pertanto, uno dei temi chiave per la ricostruzione del consenso interno: gli elementi centrali di tale politica favorirono in un primo tempo, la stabilizzazione del potere da parte di Francisco Franco dopo i tre terribili anni della guerra civile; in un secondo tempo, la stessa Hispanidad si caratterizzò come strumento utilizzato dal regime franchista per legarsi a livello cultural-spirituale ai territori oltreoceano. Ma fu anche grazie al ruolo giocato dall’Argentina peronista e all’inizio della guerra fredda che gradualmente si giunse al ripristino delle relazioni internazionali tali da accrescere il rilancio dell’economia e del Paese. Fu così, che la Spagna poté integrarsi nella comunità internazionale – sia pure mantenendo i propri elementi distintivi – fino al 1975, anno in cui ebbe termine la dittatura del generale Francisco Franco Bahamonde.

    Tesi di Laurea - L'immagine dell'America Latina nella Spagna franchista


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    Kirchner, Chavez e Santos

    Colombia-Venezuela, Santos a Caracas per incontrare Chavez


    Roma, 2 nov (Il Velino/Velino Latam) - Il presidente venezuelano Hugo Chavez riceverà oggi a Caracas il suo omologo colombiano Juan Manuel Santos, in una nuova tappa del percorso di riavvicinamento tra i due governi latinoamericani. L'obiettivo dell'incontro, il secondo dall'insediamento di Santos ad agosto, è quello di rafforzare le relazioni bilaterali, aumentando la cooperazione commerciale e quella nell'ambito della difesa, con particolare attenzione alla zona della frontiera. Nel luglio scorso Chavez aveva rotto le relazioni diplomatiche con la Colombia dopo che Bogotà aveva denunciato la collaborazione del Paese vicino con i guerriglieri delle Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia). Il presidente venezuelano e il suo omologo colombiano si sono incontrati la scorsa settimana a Buenos Aires, alla camera ardente dell'ex capo di Stato Nestor Kirchner, e in quell'occasione Santos ha sottolineato che i rapporti con Caracas “vanno molto bene” e che saranno completamente normalizzati nel 2011.

    I due presidenti analizzeranno i progressi fatti negli ultimi mesi dai gruppi di lavoro misti creati nell'agosto scorso per affrontare le questioni bilaterali più delicate, ovvero il commercio, la sicurezza e lo sviluppo sociale. Santos ha inoltre spiegato che discuterà con Chavez della possibilità di firmare un accordo commerciale prima dell'aprile 2011. Un primo round di negoziati è previsto a Caracas a partire dall'8 novembre. Il presidente venezuelano ha invece anticipato che uno degli argomenti che affronterà nella riunione sarà quello legato all'estradizione di Walid Makled, narcotrafficante venezuelano recentemente arrestato in Colombia. In alcune interviste quest'ultimo ha sostenuto di aver pagato per anni tangenti ad alti funzionari pubblici e a ministri del governo di Chavez.

    il VELINO - Colombia-Venezuela, Santos a Caracas per incontrare Chavez - Agenzia Stampa Quotidiana Nazionale


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    Quello strano falco


    La sorprendente politica del nuovo presidente colombiano


    Il 7 agosto scorso si è tenuta la cerimonia di insediamento del nuovo presidente della Colombia, Juan Manuel Santos. Il giuramento del nuovo Capo di Stato è stato preceduto da giorni di forte tensione tra la Colombia e il Venezuela, sfociati nello spiegamento di forze militari al confine tra i due Paesi e nella rottura dei rapporti diplomatici.

    Il 22 luglio l’ambasciatore colombiano presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) aveva accusato il Paese vicino di supportare i narcoterroristi delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), ospitando almeno 1500 membri dell’organizzazione in 87 basi dislocate sul territorio venezuelano, al confine con la Colombia. L’ambasciatore ha mostrato foto e video aerei con identificazione di coordinate, che inchioderebbero Caracas alle sue responsabilità, tra cui un’immagine di uno dei leader delle FARC disteso a prendere il sole su una spiaggia venezuelana con tanto di birra Polar (il marchio più famoso del Venezuela) in mano.

    Poteva essere l’ennesima riproposizione di un copione già visto nei travagliati rapporti tra i due Paesi sudamericani: la Colombia accusa il Venezuela di ospitare narcoterroristi, Caracas risponde accusando Bogotà di essere “serva degli Stati Uniti”, si rompono le relazioni diplomatiche ed entrambi i Paesi spediscono un paio di divisioni alla frontiera a guardarsi in cagnesco.

    In pratica è successo anche questa volta, ma un elemento di novità ha risolto rapidamente e efficacemente la crisi, con incoraggianti segnali che fanno sperare in una definitiva stabilizzazione nelle relazioni diplomatiche tra i due Stati.

    Nel suo discorso inaugurale, infatti, il neo-presidente Santos ha pronunciato parole di apertura nei confronti del Venezuela, e ha dichiarato che “la parola guerra non è inclusa nel mio vocabolario”. Alla cerimonia è stato invitato anche Chavez, che tuttavia non ha partecipato, venendo rappresentato dal suo ministro degli Esteri, Nicolas Maduro.

    Pochi giorni dopo l’insediamento, il nuovo presidente colombiano e il leader venezuelano si sono incontrati a Santa Marta, in Colombia, promettendo pace duratura, scambiandosi attestati di stima e lasciando completamente spiazzati analisti e diplomatici di tutto il mondo, che fino alla settimana prima temevano lo scoppio di ostilità tra i due Paesi. Cosa è accaduto? Cosa ha trasformato il “duro” ex ministro della Difesa del governo Uribe, che non aveva avuto remore nell’ordinare l’attacco contro le basi delle FARC in territorio equadoregno, in un araldo della pace? E come è stato possibile un così rapido mutamento del caudillo venezuelano, che fino a poche ore prima aveva pronosticato guerra e devastazioni per l’odiato vicino filoamericano, e che ora tiene una conferenza stampa congiunta con il suo presidente?

    Un nuovo inizio con Caracas


    Quando lo scorso 20 giugno Juan Manuel Santos vinse le elezioni presidenziali tutti gli osservatori e gli esperti della politica colombiana annunciarono che la linea dura contro le FARC e contro i Paesi vicini accusati di sostenere i narcoterroristi, portata avanti negli otto anni del governo di Alvaro Uribe, sarebbe diventata una linea durissima, viste le credenziali del neo-eletto presidente.

    Santos, ministro della Difesa dal 2006 al 2010, considerato un “falco” dell’amministrazione Uribe, aveva portato avanti una lotta senza esclusione di colpi contro le organizzazioni terroriste e i narcotrafficanti colombiani (molto spesso due facce della stessa medaglia, cosa che ha fatto nascere il termine “narcoterroristi”). L’azione del governo si era concentrata in particolare contro le FARC, che all’inizio del primo mandato di Uribe, nel 2002, contavano oltre 20.000 effettivi e controllavano gran parte del territorio nazionale. Durante il suo mandato ministeriale Santos autorizzò numerose operazioni militari che decimarono la leadership del gruppo, come ad esempio la famosa “Operazione Fenix”, nella quale fu ucciso il numero due delle FARC Raul Reyes con un’incursione aerea sul territorio dell’Ecuador, provocando una crisi diplomatica ancora in corso tra Bogotà e Quito, e l’”Operazione Scacco”, che portò alla liberazione dell’ex candidata alla presidenza Ingrid Betancourt. A questi successi militari tuttavia si devono sommare anche scandali di abusi di potere da parte di membri delle Forze Armate Colombiane spesso coperti dal governo, e i numerosi casi dei “Falsi Positivi”, veri e propri omicidi di innocenti cittadini colombiani, per la maggior parte poveri contadini, che venivano presentati come guerriglieri caduti in combattimento.

    La gestione della Difesa da parte di Santos non verrà ricordata per un esemplare rispetto della trasparenza o del diritto internazionale, ma è innegabile un consistente progresso nella lotta contro la guerriglia: oggi le FARC possono contare su meno di 8.000 uomini, il controllo del territorio è tornato solidamente nelle mani del governo e le azioni della guerriglia sono state arginate nelle sole aree di frontiera, nelle quali possono ancora operare, secondo Bogotà, soltanto grazie al supporto e alla copertura dei Paesi vicini, primo tra tutti il Venezuela. Per queste ragioni le aspettative del mondo nei confronti del nuovo presidente erano “fuoco e fiamme”, soprattutto nei confronti di Caracas. E invece il nuovo Primo Cittadino colombiano ha sorpreso tutti, mostrando un’inaspettata apertura, sia verso Chavez, ma anche, cosa ancor più sorprendente, nei confronti delle stesse FARC.

    Durante il suo discorso di inaugurazione, Santos ha dichiarato che avrebbe portato avanti un dialogo “diretto e franco” con il Venezuela, senza mediazioni di altri Stati. Poteva essere la solita frase di rito, pronunciata da un presidente che vuole fare bella figura il suo primo giorno di lavoro, e invece come poche volte nello scenario politico internazionale, alle parole sono seguiti molto velocemente i fatti. A capo della diplomazia di Bogotà, infatti, è stata nominata l’ex ambasciatrice a Caracas, Maria Angela Holguin, che più volte si era scontrata con il presidente Uribe per la durezza della sua politica nei confronti del Paese vicino. Inoltre, il giorno dopo la cerimonia di insediamento, i ministri degli Esteri di Colombia e Venezuela hanno annunciato l’incontro tra i due Capi di Stato per il giorno seguente. Una rapidità che deve aver sorpreso Chavez, il quale ha interrotto il suo programma domenicale “Alo Presidente” per trasmettere in diretta la conferenza stampa dei due cancellieri, e ha dichiarato che quella notte sarebbe “andato a dormire felice”.

    Ancora più sorprendenti sono state le parole pronunciate dal caudillo venezuelano pochi istanti dopo. Chavez ha attaccato duramente le FARC, bollando come “senza futuro” il proseguimento della lotta armata e affermando che l’organizzazione è un “problema anche per il Venezuela”. “Non ho approvato, né approvo, né approverò la presenza di forze guerrigliere. Questo territorio è sovrano”, ha sanzionato il leader bolivariano. Una lectio magistralis di Realpolitik sudamericana. Sin dai tempi della sua ascesa al potere, infatti, Chavez aveva sempre espresso solidarietà alle FARC, proclamando “rispetto per il loro progetto politico”, imputando a Bogotà le responsabilità del conflitto colombiano e auspicando che la rivoluzione conquistasse il potere anche nel Paese vicino. Inoltre il 23 luglio, il giorno dopo il “J’accuse” colombiano, l’ambasciatore venezuelano presso l’OSA aveva spudoratamente ammesso la presenza di membri delle FARC sul suo territorio.

    Evidentemente le FARC sono diventate un ospite troppo ingombrante per il Venezuela, e Chavez non ha avuto remore a sacrificarle sull’altare dei rinnovati rapporti con la Colombia. Un cambiamento di rotta notevole, motivato non soltanto da ragioni di buon vicinato diplomatico. Dall’inizio della crisi tra i due Paesi, infatti, il valore degli scambi commerciali è crollato da 6,5 miliardi a 2,6 miliardi di dollari, con una previsione per la fine del 2010 di soltanto 1 miliardo di dollari. Con un’economia in negativo (il Venezuela sarà l’unico Paese sudamericano con un PIL negativo nel 2010), Caracas non è in grado di sopportare a lungo una guerra commerciale di questa portata. La prova della spegiudicatezza politica di Chavez sta nel fatto che il leader bolivariano non ha neanche lontanamente menzionato le ragioni che hanno portato alla crisi: l’autorizzazione all’utilizzo di basi militari colombiane alle forze armate statunitensi. Concessione negoziata peraltro durante il periodo in cui Santos era ministro della Difesa.

    L’elezione del “duro” Santos ha portato quindi ad una inaspettata quanto rapida riconciliazione tra Colombia e Venezuela. L’incontro di Santa Marta, avvenuto all’interno del Mausoleo dedicato a Simon Bolivar, non poteva essere una location migliore per questa occasione storica, durante la quale Chavez e Santos, in una conferenza stampa congiunta sotto la statua del Libertador, hanno dichiarato di voler “girare pagina” e “dimenticare il passato”.

    Carota e Bastone con le FARC

    Il discorso inaugurale di Santos non ha risparmiato sorprese anche sul fronte della lotta al narcoterrorismo. “Ai gruppi armati illegali che invocano ragioni poltiche e oggi parlano ancora una volta di dialogo dico che il mio governo sarà aperto a qualsiasi discorso che cerchi di estirpare la violenza” ha dichiarato il neo-presidente colombiano, inviando un messaggio di apertura al dialogo alle FARC, a condizione che vengano liberati tutti gli ostaggi, deposte le armi e troncati i legami con il narcotraffico.

    La risposta delle FARC non si è fatta attendere: l’11 agosto un’autobomba è esplosa al centro di Bogotà, di fronte alla sede dell’emittente “Radio Caracol” e dell’agenzia di stampa spagnola “Efe”, provocando il ferimento di 18 persone e danneggiando decine di edifici. Un attentato del genere potrebbe apparire come la dimostrazione che la guerriglia gode di pieno vigore e non ha la minima intenzione di sotterrare l’ascia di guerra, ma analizzando alcuni episodi che hanno caratterizzato le ultime settimane si delina una situazione molto diversa.

    Una settimana prima della cerimonia di insediamento di Santos le FARC hanno divulgato un video in cui il loro leader maximo, Alfonso Cano, propone al nuovo presidente il ripristino del dialogo per una fine negoziale del conflitto armato che insanguina il Paese da decenni. Messaggi del genere erano già stati inviati al presidente Uribe, che li aveva sempre sdegnosamente rispediti al mittente. L’ex presidente era stato eletto nel 2002 anche grazie al fallimento dei negoziati con la guerriglia portati avanti più volte dai governi colombiani, come durante la presidenza Pastrana (1998-2002) e quella di Belisario Betancourt (1982-1986).

    La richiesta di dialogo da parte delle FARC va letta alla luce dei risultati ottenuti nei due mandati della presidenza Uribe, caratterizzati da una dura e sanguinosa lotta alla guerriglia, ed è quindi da interpretarsi come il sintomo della debolezza dell’organizzazione. In quanto ex ministro della Difesa, Santos è perfettamente consapevole di questa situazione, e la proposta di dialogo fatta durante il suo discorso inaugurale con le tre specifiche richieste mette in chiaro che una trattativa è possibile, ma alle condizioni di Bogotà e non delle FARC. Il governo colombiano si trova ora in una posizione di forza negoziale e Santos non vuole farsi scappare la possibilità di chiudere una partita durata troppo tempo e costata troppe risorse e vite umane.

    Inoltre, secondo diversi analisti, le FARC non sono più il gruppo unito e compatto che aveva messo la Colombia a ferro e fuoco per decenni. L’organizzazione ha perso il suo “slancio rivoluzionario”, si è legata a doppio filo al narcotraffico per ottenere finanziamenti ed armi e ha perso l’appoggio della popolazione a causa dei sequestri e delle mine terrestri posizionate sulle strade. I sondaggi sono impietosi: oggi il 90% dei colombiani sono contrari alle FARC, e sono stanchi di anni ininterrotti di violenze e morte. Il 69% dei voti con cui è stato eletto il presidente Santos, e il 75% dei consensi con cui Uribe esce di scena, sono la prova che il popolo colombiano appoggia saldamente la politica del governo e si aspetta che il nuovo Capo di Stato continui su questa strada. Infine è assai dubbio anche il reale controllo di Cano sull’intera struttura delle FARC: molte unità della guerriglia sarebbero diventate veri e propri gruppi autonomi, non rispondendo più agli ordini della leadership e dedicandosi ad attività illecite per meri fini economici.

    L’autobomba esplosa nella capitale colombiana è da interpretare, quindi, come il tentativo del narcoterrorismo di dimostrare che non ha perso le sue capacità operative, cercando di rendere meno svantaggiosa la propria posizione in un’eventuale trattativa. Santos ha dimostrato di comprendere questo momento, e le sue dichiarazioni immediatamente successive all’attentato mostrano il sangue freddo del nuovo presidente. “Il governo, quando riterrà che le circostanze saranno favorevoli – e ora non lo sono – aprirà le porte al dialogo”. Traducendo: non ci facciamo intimorire, se volete trattare deponete le armi. Una politica del bastone e della carota a cui Santos non è nuovo: una delle strategie più efficaci per battere i narcoterroristi è stata quella di accompagnare alla dura repressione militare dei benefici monetari per chi avesse abbandonato le armi. Grazie a questo sistema le organizzazioni armate hanno subito un’inarrestabile emorragia di personale, vedendo drasticamente ridotta la loro forza militare.

    Durante la campagna elettorale Santos ha promesso la creazione di posti di lavoro, il miglioramento delle condizioni di vita dei colombiani, e una solida crescita economica. Anche se la precedente amministrazione lascia in eredità una situazione economica positiva, con un PIL in crescita di oltre il 4% nel 2010 e miliardi di dollari di investimenti stranieri che si stanno riversando in Colombia, soprattutto dagli Stati Uniti, il nuovo presidente sa che la strada della crescita economica passa inevitabilmente attraverso la definitiva stabilizazzione politica, che la fine del conflitto colombiano porterebbe un indubbio beneficio economico al Paese, e che mai come ora vi è la concreta possibilità di porre fine a questo sanguinoso periodo.

    Conclusioni

    L’elezione di Santos alla presidenza della Colombia è stata interpretata come l’ascesa di un “falco” che avrebbe infiammato la politica sudamericana, in particolare nelle relazioni con Venezuela ed Ecuador. Il neo-presidente invece ha riallacciato i rapporti con Caracas, incontrandosi con Chavez, e ha notevolmente migliorato le relazioni con Quito, invitando alla cerimonia di insediamento il presidente ecuadoregno, Rafael Correa, e consegnando alle forze di sicurezza del Paese vicino i computer sequestrati alle FARC durante l’Operazione Fenix.

    Gli analisti si aspettavano che il nuovo Capo di Stato avrebbe cercato di debellare definitivamente la guerriglia attraverso la forza militare, portando la lotta al narcoterrorismo ad un livello di violenza ancora più elevato di quello già visto in questi anni. Santos ha invece pronunciato parole di ferma apertura nel suo primo discorso alla Nazione, ventilando la possiblità di dialogo con i gruppi armati, ma alle condizioni imposte dal governo.

    Gli esperti della politica colombiana vedevano nell’ex ministo della Difesa il delfino di Uribe, che avrebbe portato avanti in maniera rigorosa la politica della precedente amministrazione, e la presenza dell’ex presidente alla cerimonia di insediamento (una vera e propria rottura del protocollo voluta dallo stesso Santos) era il simbolo di questa continuità. E invece il nuovo presidente ha stupito tutti prendendo lentamente le distanze da alcune scelte fatte dal suo predecessore, soprattutto negli ultimi giorni della sua presidenza, e nominando suoi collaboratori alcune delle personalità che avevano mostrato disaccordo con le politiche di Uribe, dimostrando in questo modo originalità politica ed autonomia decisionale.

    Tuttavia ancora molti elementi della politica colombiana devono essere ancora chiariti da Santos, in primis il rapporto con gli Stati Uniti, con i quali la Colombia gode di una special relationship a livello sudamericano. Da Washington bisognerà attendere il segnale verde prima di intavolare qualsiasi trattavia con narcos, guerriglieri e terroristi, anche in virtù degli accordi in materia militare, commerciale e giudiziaria firmati tra i due Paesi, come ad esempio quello sull’estradizione di trafficanti dalla Colombia agli USA.

    La nuova presidenza colombiana potrebbe essere una sorpresa per tutti. Se questa linea politica dovesse essere mantenuta potrebbe portare ad una distensione del clima politico nel Cono Sud, dando nuovo impulso alla collaborazione tra Paesi latinoamericani e favorendo lo sviluppo economico e politico di tutta la regione. A prescindere da come verrà vinta, con le armi o con il dialogo, la guerra contro il narcoterrorismo è a un passo dalla fine, ed è un risultato storico che potrebbe essere raggiunto da questa amministrazione. In attesa di vedere se effettivamente sarà così, non si può che fare il tifo per questo nuovo orientamento positivo della politica colombiana e sudamericana.

    * Carlo Cauti è laureando in Relazioni Internazionali (Università di Roma LUISS G. Carli)

    La sorprendente politica del nuovo presidente colombiano: falco o colomba?


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    Predefinito Rif: America Latina: ascesa e declino della Dottrina Monroe



    Soros all’attacco della “dittatura militare” colombiana


    Soros e i cartelli colombiani della droga - Lyndon La Rouche




    Da Le istituzioni colombiane si rivolgono a LaRouche

    27 marzo 2009 (MoviSol) - Il 18 marzo lo statista americano Lyndon LaRouche ha parlato in videoconferenza all’Università Militare Nueva Granada a Bogotà, in Colombia, sul tema “Proposte per risolvere la crisi economica globale”. La discussione di due ore, in un’aula magna gremita, è stata organizzata dall’Associazione dei Laureati della Facoltà di Economia, col patrocinio del Dipartimento di Scienza Economica della stessa università.

    La conferenza all’università di Bogota, un’istituzione chiave per l’addestramento del settore militare, politico e di difesa in Colombia, indica un’importante apertura istituzionale a LaRouche, in una nazione in cui finora il controllo esercitato dai britannici sulla politica e l’economia aveva condotto ad una censura totale nei confronti di LaRouche durata almeno vent’anni.

    Grazie alla leadership del Presidente Alvaro Uribe, e con un certo sostegno dagli Stati Uniti, negli ultimi 7 anni la Colombia è riuscita a infliggere duri colpi all’esercito dei narcotrafficanti, che aveva preso il controllo di quasi il 40% del territorio nazionale. Queste vittorie rischiano ora di venir vanificate da una combinazione di crisi economica e rinnovato assalto di Droga SpA, che fa capo all’impero britannico ed al suo promotore di stupefacenti numero uno, George Soros.

    Quasi 600 studenti hanno partecipato alla conferenza di LaRouche a Nueva Granata, insieme ad 11 docenti e nove alti ufficiali. Il relatore è stato accolto con un applauso prolungato alla fine del suo intervento, e molti partecipanti hanno espresso la stessa reazione: “Si tratta di uno Yankee particolare, che difende il suo Paese come un patriota, promovendo al contempo politiche che contraddicono tutto quello che gli Stati Uniti hanno rappresentato fino ad oggi”.

    La prima domanda posta a LaRouche riguardava una questione strategica per la Colombia: che effetto avrebbe la legalizzazione della droga sull’economia? Su questo punto, il Presidente colombiano Uribe è in netto contrasto con l’ex Presidente Cesar Gaviria, uno degli uomini di Soros in Colombia, e dall’anno scorso si batte contro la legalizzazione della droga promossa dai cartelli della droga.

    LaRouche ha risposto senza compromessi: “Legalizzare la droga significherebbe la morte dell’economia… il traffico di droga è stato inventato dai britannici al fine di distruggere interi Paesi […] Costituisce un genocidio di massa delle vittime della droga, e delle nazioni. Tollerare in qualunque modo la legalizzazione della droga è un crimine contro l’umanità”.


    carlomartello
    Ultima modifica di carlomartello; 03-11-10 alle 03:57

  6. #26
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    Ultima modifica di carlomartello; 03-11-10 alle 04:25

  7. #27
    Bushidō
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    Predefinito Rif: America Latina: ascesa e declino della Dottrina Monroe

    Quelli raccolti sono tutti articoli molto interessanti. Il declino della dottrina di James Monroe e l'integrazione continentale latino-americana offrono all'Europa -soprattutto ai paesi "latini" Spagna, Italia e Francia- la possibilita' di tornare a contare in America. In America latina l'influenza europea sarebbe senza alcun dubbio preferita alle ingerenze dei "gringos", prima di tutto perche' gli europei gia' fanno parte del tessuto sociale ed economico continentale, a differenza degli inglesi; in fondo se gli Stati Uniti vedono nei paesi asiatici del Pacifico il loro mercato di oggi e di domani, esistono le condizioni perche' l'Italia e i paesi latini e cattolici dell'Europa tornino a puntare all'Atlantico del sud. La forza commerciale dei paesi dell'Unione europea e la penetrazione militare russa potrebbero, se unite sapientemente, giocare un ruolo chiave, oltre che nella definitiva liberazione del continente dal giogo statunitense, anche rispetto all'avanzata cinese -che si e' gia' assicurata il continente africano-.
    Nel nostro caso, esiste il precedente del governo Craxi che si era schierato apertamente con gli argentini nella disputa fra Argentina e Inghilterra sulle Malvinas.
    Ultima modifica di Hagakure; 04-11-10 alle 01:56

 

 
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