"Qualcuno potrebbe pensare che parlare agli artigiani di Costituzione sia un po’ folle, almeno fuori contesto, diciamo così, ma non lo è affatto. Perché assicurare governi eletti dal popolo, governi stabili e con un orizzonte di legislatura, è la più potente misura economica che possiamo regalare alla nostra Nazione". Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel videomessaggio inviato all'assemblea di Confartigianato imprese. "L’instabilità politica impedisce di portare avanti progetti di lungo periodo, avere una strategia e dare concretezza ad una precisa visione di sviluppo che è la precondizione per non sperperare risorse. E l’Italia ha già pagato troppo, in passato, le conseguenze di tutto questo. È ora di cambiare, e dare alla nazione istituzioni più stabili, più efficienti e più veloci. Questo è il nostro obiettivo e sono certa che in questa sfida avremo sempre al nostro fianco chi, come voi artigiani e imprenditori, sa cosa vuol dire fare investimenti e programmare il futuro", aggiunge Meloni, parlando di "grandi riforme di sistema che l’Italia attende da troppo tempo e che stiamo portando avanti per lasciare a chi verrà dopo di noi un’Italia migliore di quella che ci è stata consegnata. A partire dalla riforma della nostra architettura istituzionale".
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"Io nacqui a debellar tre mali estremi: / tirannide, sofismi, ipocrisia"
IL DISPUTATOR CORTESE
Possono tenersi il loro paradiso.
Quando morirò, andrò nella Terra di Mezzo.
In Commissione affari costituzionali è iniziato l'iter parlamentare del ddl Casellati sul premierato, a cui è stato abbinato il ddl Renzi sul cosiddetto "sindaco d'Italia". Il presidente della Commissione e relatore, Alberto Balboni, ha illustrato entrambi i testi, con un lungo e laborioso ufficio di presidenza che ha concordato sui primi 16 soggetti da audire. Si inizierà martedì prossimo alle 13. I soggetti da ascoltare su cui si è concordato sono gli ex presidenti di Corte costituzionali docenti di diritto costituzionale e le forze sociali.
https://www.ansa.it/sito/notizie/top...7b7c2733e.html
La proposta del governo sul premierato – a cui in commissione Affari costituzionali è stato abbinato il ddl Renzi – ha cominciato il suo iter al Senato. Siamo ancora alla fase delle audizioni e nelle cronache spicca la serie di interventi critici degli ex presidenti della Consulta. Se si esclude l’approvazione unanime sulla legge contro la violenza sulle donne non si può certo dire che in questa fase si respiri un clima favorevole alle intese larghe sui grandi temi. Anche nella commissione di Palazzo Madama la partenza è stata burrascosa, con le scintille tra il presidente di Fdi e il vice del Pd. A essere precisi le polemiche erano cominciate ancora prima, con la scelta di far partire l’iter dal Senato dove già si discute da tempo l’altro corno delle riforme, quello dell’autonomia differenziata, scelta contestata vivacemente dalle opposizioni. Eppure, la posta in gioco in una riforma che investe la stessa forma di governo è troppo alta per rinunciare a cuor leggero all’idea di una convergenza ampia. Se nella seconda votazione di ciascun ramo del Parlamento la legge di revisione ottiene i voti dei due terzi dei membri delle Camere, non si dà luogo a referendum, stabilisce l’art. 138 della Costituzione. Una clausola di garanzia per le minoranze, ma anche un robusto incentivo a scegliere la via di maggioranze estese. Ci sono ancora margini per provare? Sarà che tutti hanno lo sguardo orientato alle elezioni europee, ma in entrambi gli schieramenti finora hanno dominato le pregiudiziali ideologiche. Semplificando, ma non troppo: da una parte, l’elezione diretta del premier è diventata un’istanza identitaria non negoziabile (almeno per Giorgia Meloni), un segno epocale da consegnare alla storia; dall’altra, il nucleo duro del pensiero è stato che, tutto sommato, le riforme costituzionali è meglio non farle, tanto meno con questa destra. Le due posizioni si sostengono reciprocamente e scommettono sul referendum. Ma è una partita con un tasso di azzardo molto elevato. Al punto che la stessa premier ha già messo le mani avanti: in caso di sconfitta, non si dimetterebbe, come invece fece Renzi. Ora, fermo restando che non ci sarebbe alcun obbligo formale, è davvero pensabile che resti al suo posto dopo essere stata battuta sulla “sua” riforma e in virtù proprio del voto popolare? Ma anche sull’altro versante devono pensarci bene. I precedenti dei referendum sulle riforme di Berlusconi (2006) e Renzi (2016) non vanno enfatizzati. La società è profondamente cambiata e la proposta governativa sul premierato è congegnata in modo tale da essere molto più “referendabile” delle maxiriforme.
Forse il raffronto andrebbe fatto con la consultazione sul taglio dei parlamentari e sappiamo com’è andata a finire. Almeno per prudenza, quindi, varrebbe la pena verificare fino in fondo e con realismo la possibilità di un dialogo concreto. Partendo da quel che effettivamente serve al Paese e non dagli slogan. Come dimostrano anche le recenti proposte messe a punto da Stefano Ceccanti e da Gaetano Quagliariello e Peppino Calderisi, non è impossibile elaborare alternative tecnicamente valide intorno a cui provare a costruire un consenso parlamentare adeguato. Il problema è capire se governi stabili e ben connessi con il voto sono il vero obiettivo della riforma o se invece si perseguono surrettiziamente altri disegni.
https://www.avvenire.it/rubriche/pag...a-larga-intesa