Mandiamo a casa il satrapo per ridare dignità alla nostra Patria
di Francesco Lamendola



Sono vent’anni che il mondo intero ride di noi, ride dell’Italia e del suo popolo, a causa dei governanti indegni che ci siamo dati e, in particolare, a causa del satrapo le cui imprese meglio figurerebbero in una storia del Basso Impero, che non in quella di un grande Paese che ha dato all’Europa, per almeno quattro volte nella sua storia millenaria - con la Repubblica romana, con la Chiesa cattolica, con i Comuni e con il Rinascimento - le basi stesse della sua civiltà.
Certo, sarebbe ingenuo non tener conto del fatto che i poteri forti internazionali della finanza, dell’economia e dell’informazione hanno sempre avuto, dal 1945 in poi, tutto l’interesse a sfruttare ogni occasione per ricacciare l’Italia in quel ruolo subalterno in cui le disgraziatissime vicende della seconda guerra mondiale, e specialmente quelle dell’8 settembre 1943, l’hanno relegata; in quel ruolo subalterno che fa tanto comodo alla City londinese e agli amici di Wall Street.
E tuttavia, non si tratta soltanto di questo: volerlo credere, significa volersi autoingannare, per non dover fare i conti con l’amara verità: ossia che mai come oggi la credibilità della nostra Patria è scesa in basso a livello mondiale; mai come oggi la stima del nostro grande popolo è scesa ai minimi storici nell’opinione pubblica internazionale; e ciò non per qualche perverso complotto mediatico straniero, ma per nostra colpa e responsabilità.
Imperdonabile è stato avere affidato il governo di un grande Paese, quale è il nostro (anche più grande di quel che noi stessi non crediamo, perché, dietro la vernice sbruffona, gli Italiani sono tormentati da una modestia che sfiora l’autolesionismo) ad un cinico avventuriero e alla sua banda di servitori prezzolati, di scribacchini mercenari, di mezzani e di ruffiani delle sue voglie proibite, di squallidi parvenu che sono assurti dal ruolo di portaborse o di veline televisive alla dignità di assessori provinciali e regionali, e perfino di viceministri e di ministri; un avventuriero che ha fatto strame della democrazia, che ha svuotato di ogni dignità il Parlamento, che ha sbeffeggiato e censurato la libera informazione, che ha fatto dell’improvvisazione, della furberia italiota e della più spudorata sfacciataggine la divisa della classe politica della Seconda Repubblica.
È vero: se il satrapo sguaiato ha potuto imperversare nonostante l’evidente conflitto di interessi, che in Francia e in Spagna non gli ha consentito di acquisire nemmeno una singola rete televisiva privata, mentre in Italia ne ha accumulate addirittura tre, con la complicità di Craxi e del vecchio P.S.I., ciò è dipeso largamente dalla miseria e dallo squallore politico dei suoi antagonisti, della cosiddetta Sinistra, oltre che dall’incredibile piaggeria di una Destra ridotta a fargli da stuoino; dalla assoluta mancanza di idee, di proposte, di credibilità dell’opposizione, decisa semmai a cavalcare gli aspetti peggiori della Prima Repubblica: il clientelismo, l’assistenzialismo, l’irresponsabilità di una pubblica amministrazione divenuta stazione di smistamento del pubblico denaro verso interessi particolaristici e non sempre legittimi.
Quindi, nessuno può gridare la propria innocenza, nessuno ha il diritto di impancarsi a giudice o strapparsi le vesti in segno di scandalo: perché della resistibile ascesa di quest’uomo piccolo, che ha sempre pensato in piccolo e, quel che è più grave, che ha sempre badato unicamente ai propri interessi, portando il Paese in un vicolo cieco da cui costerà lacrime e sangue venir fuori, siamo un po’ tutti responsabili.
In un certo senso, il berlusconismo è il concentrato dei più turpi difetti dell’anima nazionale: la prepotenza affaristica, l’improntitudine eretta a sistema, il disprezzo della legalità, l’odio per chi cerca di farla rispettare, la volgarità e il cattivo gusto del nuovo ricco che vuol superare l’imbarazzo e si abbandona a comportamenti sconvenienti perfino sulla scena della politica internazionale: e Dio sa quante figuracce ci ha fatto fare costui, con capi di Stato stranieri, da un angolo all’altro del globo terracqueo; salvo poi buttare sempre in ridere la cosa o accusare i giornalisti di non aver capito, di avere travisato, di avere complottato ai suoi danni.
Non è possibile riconoscere nel berlusconismo, pur con tutta la buona volontà, nemmeno uno dei pregi del carattere nazionale, che pure sono numerosi: la generosità, l’affabilità, la laboriosità sobria e silenziosa, il senso del decoro, il rispetto per gli affetti privati, l’ammirazione per la cultura e per l’intelligenza.
Ora il satrapo ha commesso l’ennesimo passo falso e, questa volta - forse - irreparabile: ha mentito alla nazione, cosa che, in un Paese serio, gli sarebbe costata le dimissioni immediate, senza “se” e senza “ma”.
Ha detto di non essere mai intervenuto per far rilasciare quella certa ragazza minorenne dalla Questura di Milano: e il giorno dopo la stampa ha esibito le prove schiaccianti della sua telefonata, fatta in prima persona, per sollecitare quel rilascio; peggio ancora. Di quella telefonata in cui ha mentito alle autorità di polizia, sapendo di mentire, quando si è inventato che la vispa ragazzina, già frequentatrice della sua casa privata e delle sue discutibili feste, era la nipote del presidente egiziano Mubarak e facendo intendere che, collocandola in una struttura di accoglienza per minorenni difficili, si sarebbe creato un incidente diplomatico.
Meglio tacere, per carità di Patria, su quel ministro dell’Interno il quale, a botta calda, non trova null’altro da dire se non che ogni cosa è stata fatta secondo il rispetto delle leggi; di un ministro che milita in quel partito politico che, all’epoca di Tangentopoli, era salito alla ribalta della scena nazionale in nome del giustizialismo, perfino agitando in Parlamento un nodo scorsoio (qualcuno si ricorda il gesto dell’onorevole Speroni?), per poi ridursi a fare da maggiordomo alle bizze e alle continue pretese di impunità del satrapo.
In un Paese serio, ripetiamo, sarebbe bastato molto meno per costringere qualsiasi uomo politico alle dimissioni immediate; solo in un Paese come l’Italia può accadere che si ribalti la frittata e che lui, proprio lui, ostenti indignazione e si dica “schifato” per il complotto ordito ai suoi danni. Nossignori, ha fatto tutto da solo; da solo, ma con la complicità di un Parlamento asservito ai suoi voleri e di un partito di maggioranza relativa costruito a suo uso e consumo. In breve, con la complicità di un popolo politicamente e culturalmente immaturo, che, probabilmente, non si meritava nulla di meglio, specie tenendo conto del fatto che ha avuto più di tre lustri - dal 1994 ad oggi - per rendersi conto di chi fosse colui che chiedeva la sua fiducia, in nome del buon governo e della buona amministrazione.
Gira e rigira, si torna sempre lì.
Il satrapo se ne deve andare; se non oggi, domani: ma che cosa succederà poi? Dove trovare gli uomini capaci di portare l’Italia fuori dal pantano, in un momento così grave a livello politico e sociale, con la crisi che continua a mordere e che divora centinaia di migliaia di posti di lavoro all’anno? Perché il problema dell’Italiano medio, ormai, non è quello di farsi la vacanza in un luogo esotico e meno che mai di assumere una igienista dentale personale o di farsi trapiantare i capelli in qualche costosissima clinica straniera; il problema è quello di sopravvivere, di arrivare alla fine del mese, di riuscire a pagare l’affitto, le bollette, le medicine, le tasse scolastiche dei figli, la benzina per l’automobile.
Dove reperire la classe politica che farà risorgere l’Italia, che farà rinascere il senso della legalità e dello Stato; che imporrà a tutti, ai potenti come ai poveracci, il rispetto delle regole e della civile convivenza? Che sniderà gli evasori fiscali miliardari dai loro paradisi esteri; che troncherà le connivenze con la mafia di troppi settori deviati delle istituzioni; che ridarà fiato all’economia, fiducia ai piccoli risparmiatori, e voglia di restare e di rischiare ai cervelli di casa nostra, alle nostre eccellenze, sempre più tentate di trasferirsi altrove?
Dove reperire, se non proprio degli uomini di cultura, almeno degli onesti professionisti della penna, dei giornalisti con un minimo di spina dorsale; dei professori universitari capaci di parlare fuori dal coro; degli intellettuali che abbiano il coraggio di gridare alto e forte, per esempio, che una eventuale legge per imbavagliare il revisionismo storico, minacciando la prigione ai dissenzienti, sarebbe un ritorno ai giorni più cupi della Santa Inquisizione: qualcosa che nemmeno la dittatura fascista aveva osato fare?
Il problema è sempre quello: la classe dirigente di un dato Paese rispecchia abbastanza fedelmente, in un regime democratico, le caratteristiche predominanti della società stessa; non è né molto migliore, né molto peggiore del cittadino medio; e neanche potrebbe esserlo.
Che fare, dunque?
Ogni qualvolta la pazienza degli Italiani si esaurisce, essi cercano e trovano un capro espiatorio da bruciare, esorcizzando così le loro stesse insufficienze, le loro connivenze, le loro quotidiane vigliaccherie.
Cola di Rienzo venne linciato dalla folla; il cadavere di Mussolini fu appeso per i piedi in Piazzale Loreto, insultato e sputacchiato dalla folla. Craxi se la cavò con una umiliante pioggia di monetine e con una pronta fuga all’estero, ove si atteggiò ad esule politico. Ma ogni volta, bruciato il simbolo del male, male si è ricominciato a razzolare; e chi è andato al governo in nome della moralizzazione, dell’ordine e della competenza, ha deluso nel giro di pochissimo tempo, ricominciando col sistema dei mai scomparsi privilegi, delle clientele, della corruzione e della pretesa di impunità.
Il cittadino è ormai talmente nauseato, che non ha più nemmeno voglia di recarsi alle urne; ma in questa sua stanchezza, in questa sua nausea, vi è una buona componente di cattiva coscienza, perché, in fondo, egli sa di non meritarsi dei governanti migliori di tutti costoro: almeno fino a quando non ricomincerà a drizzare la schiena e ad assumersi in prima persona, già nei suoi atti della vita quotidiana, la responsabilità di essere un cittadino maturo e responsabile.
Di smaltire correttamente i rifiuti; di pagare regolarmente le tasse; di rispettare l’ambiente; di impegnarsi nel lavoro con tutte le sue forze, sia quando si tratti di lavoro salariato, sia quando si tratti di libere professioni o di attività imprenditoriali; di dare ai propri figli il buon esempio dell’onestà, della legalità e della laboriosità.
C’è bisogno di una rifondazione morale: dobbiamo ripartire daccapo. Non ce la caveremo scaricando ogni malumore sul primo bersaglio di comodo. Anche se è vero che il berlusconismo, come stile di vita prima ancora che come modo di far politica, ha profondamente corrotto la società - basti pensare alle quantità industriali di TV spazzatura che hanno inquinato la mente dei giovani e offuscato la loro sensibilità morale -, resta il fatto che esso non è stato solo la causa, ma anche l’effetto di una certa mentalità nazionale: cialtrona, opportunista, senza onore.
Il berlusconismo è la filosofia riveduta e corretta dell’eterno Italiota rappresentato da Alberto Sordi in cento e cento film: vile, profittatore, “simpaticamente” disonesto: e due generazione di Italiani vi si sono riconosciute, hanno riso, hanno applaudito. Se così non fosse stato, l’Albertone nazionale non sarebbe divenuto il più amato dei nostri attori di cinema.
Dunque, siamo onesti: se ci siamo riconosciuti in quel tristo Pulcinella che, come unico aspetto positivo, vantava una supposta carica di umanità, che dovrebbe fargli perdonare tutto il resto, vuol dire che ci meritavamo il satrapo, e anche peggio.
Gli avventurieri ci sono sempre stati, negli affari così come in politica; e, probabilmente, sempre ci saranno: spetta alla società civile riconoscerli e mandarli a casa, prima che possano infliggere danni irreparabili al Paese.
Confessiamolo: Berlusconi piaceva perché si pensava che, se era stato così bravo nel curare i suoi affari, lo sarebbe stato anche nell’occuparsi di quelli della nazione. Un ragionamento, se pure lo si può definire tale, che non vale più di chi lo ha formulato: un ragionamento da furbastri, non da persone intelligenti.
E la stupidità si paga, anche e specialmente quando essa è rivestita con i panni sgargianti della furberia da quattro soldi.
Vogliamo continuare ad attendere il miracolo, la vincita strepitosa alla lotteria, il colpo risolutivo di fortuna?
Tanti auguri, allora: cacciato via un satrapo, ne verrà un altro.


Mandiamo a casa il satrapo per ridare dignità alla nostra Patria, Francesco Lamendola