Lombardo: secessione? La fa la Sicilia
di Stefano Lorenzetto
aiuto «Ma quale Padania! Ma quale Lega! Sono io, il presiden*te della Regione Siciliana, che dice a voi del Nord: basta così, la secessione la facciamo noi. La Trinacria se ne va, è prontis*sima ad arrangiarsi da sola». Da un medico nato a Catania ma che di cognome fa Lombar*do forse prima o poi bisognava aspettarselo.
Quando un mese fa il mio edi**tore, Marsilio, mi propose per la presentazione di Cuor di veneto una specie di sfida all’O.K. Cor*ral con Terroni , il best seller di Pino Aprile, non avrei mai im*maginato, accettandola, di met*tere seriamente in pericolo l’Unità d’Italia proprio allavigi*lia dei festeggiamenti per i suoi 150 anni. E questo nonostante fossimo stati invitati a nomina*re due «padrini» che amano parlar chiaro: Raffaele Lom*bardo, gover*n*atore della Si*cilia, per i terro*ni; il sindaco della mia città, Flavio Tosi, per i polentoni. Certo, l’ora non deponeva a favore, le 17, e neppure l’ubicazione, Verona, per cui apren*do le ostilità m’era venuto facile ironizza*re su sangue e Arena.
E precisa*mente questo, il sangue, s’aspettava di veder scorrere «a las cinco de la tar*de » il folto pubblico. Invece ne è nata un’inaspettata Santa Alle*anza fra Lombardo e Tosi, che si sono trovati d’accordo pratica*mente su tutto, a cominciare dal federalismo. Ma senza esclu*dere ( anzi)l’opzione secessioni*stica. Col primo che ricordava il suo viaggio di nozze a Venezia, magnificava i libri di Alvise Zor*zi sulla Serenissima, proponeva al sindaco leghista il «partito de*gli onesti» ed elevava peana «a Roberto Maroni,il ministro del**l’Interno che contro i mafiosi sta facendo benissimo». E col se*condo che riscriveva la storia del Regno delle Due Sicilie «de*predato dai Savoia, tanto da far ipotizzare che il principale obiettivo dell’Unità d’Italia stia stato quello di fregare al Sud le ricchezze e soprattutto il Banco di Napoli, il più florido d’Euro*pa », riconosceva al leader del Movimento per le autono*mie il merito d’aver finalmente messo sotto controllo le spese paz*ze della sanità siciliana e infine di*chiarava, infischiandosene delle logiche di schieramento, che «ne*gli ultimi sette anni il centrodestra ha governato Palermo da cani e Ca*tania forse peggio».
Pino Aprile ce l’ha messa tutta per tirare dalla sua parte la platea, brandendo il meglio dell’arma*mentario storico-ideologico che Terroni squaderna fin dalla pagina 8 : «Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Koso*vo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sul*le*colline e colonne di decine di mi*gliaia di profughi in marcia. Non vo*levo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Eu*ropa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi mori*re gli italiani del Sud, a migliaia, for*se decine di migliaia ( non si sa, per*ché li squagliavano nella calce), co*me nell’Unione Sovietica di Stalin. Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per an*ni “ una landa desolata”,fra Patago*nia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annien*tarli lontano da occhi indiscreti. E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di gale*ra ».
Sennonché il cahier de doléan*ces dei veneti, terroni del Nord perseguitati da mille pregiudizi, è risultato speculare a quello di Pi*no Aprile: la più longeva repubbli*ca mai apparsa sulla faccia della Terra, quella durata 1100 anni e che già nel Duecento possedeva la metà dell’oro di tutta la cristiani*tà, umiliata e saccheggiata da Na*poleone; 40 milioni di lire oro ru*bate dai forzieri della Serenissi*ma, 1.033 miliardi di euro di oggi, pari al 56%dell’attuale debito pub*blico italiano; i superstiti venezia*ni, che prima vantavano un teno*re di vita quattro volte superiore alla media europea, costretti a vendere per fame le figlie mino*renni a Lord Byron e a Jean Jac*ques Rousseau; un plebiscito-truf*fa, imbastito nel giro d’una decina di giorni dai Savoia, che il 20 otto*bre 1866 consentì l’annessione forzata del Veneto all’Italia con 641.758 sì e appena 69 no e con quasi 2 milioni di cittadini che nemmeno votarono, anche per*ché le schede per il sì erano bian*che e quelle per il no nere.
La corrispondenza d’amorosi sensi fra terroni e polentoni è con*tinuata durante la cena al ristoran*te 12 Apostoli, che ha visto Lom*bardo uniformarsi alla sacralità del luogo con un segno di croce al momento di portare alla bocca la prima cucchiaiata di pasta e fasoi , tradizione quasi scomparsa (il se*gno di croce, non la pasta e fagioli) fra le genti venete un tempo devo**tissime, e il patron Giorgio Gioco, 86 anni, recitargli a memoria in un impeccabile siciliano la più fa*mosa poesia di Ignazio Buttitta: «Un populu / diventa poviru e ser*vu / quannu ci arrubbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri». Un popolo diventa pove*ro e servo quando gli rubano la lin*gua ricevuta dai padri: è perso per sempre. Lì è nata l’intervista che segue.
La Sicilia che si separa dall’Ita*lia mentre il governo Berlusco*ni vuole costruirvi il ponte sul*lo Stretto. Cos’è? Una provoca*zione?
«No, dico sul serio. In fin dei conti già nel 1943 la Sicilia vagheggiava di diventare una nazione autono*ma e federata degli Stati Uniti d’America. Chiederò al ministro per il Federalismo, Umberto Bossi, che questa secessione la faccia ve*ramente una volta per tutte. Ma in Sicilia. Ci mandi pure al diavolo. Sono sicuro che, da indipendenti, ce la caveremo meglio che restan*do sotto la tutela di Roma. Voglio*no invece costituire le macroregio*ni o i cantoni, come li chiamava il professor Gianfranco Miglio, ideo*logo della Lega? Affare fatto. A me sta benissimo ugualmente: Pada*nia, Centro, Sud. A patto che siano abolite tutte le sperequazioni. Se un milanese può raggiungere Ro*ma col pendolino in tre ore, non ve*do perché io per recarmi in treno da Catania a Paler*mo debba impiegar*ci 5 ore a percorrere appena 180 chilo*metri ».
Occhio, che poi si ritrova Nichi Ven*dola presidente del Sud. «Questo Vendola a me non piace per nulla. Un affabula*tore che maschera con gli accenti lirici la debolezza delle sue proposte dema*gogiche. Da mode*rato, preferisco di gran lunga un Mas*simo D’Alema, o un Pier Luigi Ber*sani, o un Walter Veltroni».
I quattrini per l’autonomia do*ve andate a prenderli?
«Le sole entrate fiscali derivanti dalla raffinazione del petrolio ne*gli impianti di Gela, Milazzo, Au*gusta, Ragusa, Priolo e Melilli ci bastano e avanzano per essere au**tosufficienti insieme con altre re*gioni. Sa quanto incassa di accise lo Stato italiano sulla nostra pelle? Dieci miliardi di euro. Ci lascino quello che è dei siciliani e noi sia*mo a posto».
Il federalismo non le basta più?
«Fui il primo presidente di una re*gione del Sud a rompere il fronte del “no al federalismo”,quando an*cora la Campania, la Calabria e la Sardegna erano governate dal cen**trosinistra. Dissi di sì subito. Per*ché, vede, senza una pistola punta*ta alla tempia che ci costringa a es*sere virtuosi, noi i conti della sani*tà, del personale, dello smaltimen*to dei rifiuti non li metteremo mai a posto. Però io temo che il federali*smo non si realizzerà affatto com’è stato pensato. E allora meglio che ciascuno vada per la propria stra*da. Si spaccherà il mio movimento su questa scelta? Pazienza. Scappe*ranno coloro che trovano più con*veniente tirare a campare, lasciare che le cose restino come sono».
Secondo me lei non dura.
«Poco male. Sto per compiere 60 anni. Potevo gover*nare la Sicilia da un attico di Roma. Op*pure fare il mini*stro, come mi era stato offerto. Ho preso sul serio que*sto lavoro. Per me essere il presidente della mia Regione rappresenta il top. Entrare nel gover*no nazionale sareb*be stata una retro*cessione. Non ho davvero altro da chiedere alla politi*ca ».
Riceve molte mi*nacce di morte?
«Tutti i giorni. Lettere minatorie con proiettili, messaggi trasversa*li, telefonate. Non ho paura. Non so quanto potrà durare questa esperienza, ma non posso accetta*re compromessi. La maggior parte degli assessori della Giunta tecni*ca che ho varato è indifferente al bipolarismo. Forse il più a sinistra è il prefetto Giosuè Marino, che era stato nominato commissario anti*racket dal ministro Maroni. È un governo formato solo da esperti che cominciano a farmi capire co*me stanno le cose in materia finan*ziaria. Il primo macigno che mi so*no trovato sul tavolo è stato il pia*no di rientro del sistema sanitario. Potevo traccheggiare, invocare sconti, piangere il morto affinché Roma chiudesse un occhio. Ho pre*f*erito invece affidarmi a un assesso*re, Massimo Russo, ex magistrato antimafia, che non credo abbia vo*tato per me, anzi non so neppure se sia andato a votare. Le aziende sanitarie sono scese da 29 a 17. Ave*vamo 1.700 strutture sanitarie pri*vate, fra cliniche, laboratori di ana**lisi, studi radiologici. Uno scanda*lo. È ovvio che se una casa di cura prima costava al sistema sanitario 45 milioni di euro l’anno e oggi ne costa 12-13, questo significa ridur*re i margini di profitto per il racket. Abbiamo risparmiato 400 milioni di euro facendo una gara unica per l’approvvigiona*mento dei medici*nali nelle farmacie ospedaliere e met*tendo ordine nelle assicurazioni, che costavano un’enor*mità. Ho una mani*f*estazione al giorno sotto le mie finestre perché intendo ridi*mensionare gli ospedali di Avola e Noto, con 250 posti letto ciascuno e ser*vizi raddoppiati. Eb*bene, presto avran*no una sola cardio*logia, una sola oste*tricia, un solo pronto soccorso».
Confortante. Ma la Regione Sici*liana ha un dipendente ogni 348 abitanti, contro un dipen*dente ogni 1.671 della Regione Veneto.
«Debbo correggerla. È molto peg*gio. Non abbiamo un dipendente ogni 348 abitanti: ne abbiamo tre».
In Veneto sono 2.811, in Sicilia 14.395: il 412% in più. «Anche qui debbo correggerla. Di*pendenti ne abbiamo circa 100.000, compresi 28.000 forestali, 22.500 precari pagati da noi nei Co*muni e 10.000 formatori. Ci vorran*no 10- 15 anni prima che vadano in pensione. Non li posso licenziare».
Non parliamo dei dirigenti: 225 nella mia regione, 2.150 nella sua. L’855% in più.
«Ho bloccato tutte le assunzioni fin dal maggio 2008».
E i forestali? Uno ogni 7.000 etta*ri in Friuli, uno ogni 12 in Sici*lia.
«Guardi, è meglio che non tocchi questo tasto. Di recente sono anda*to a trovare a Roma l’ex governato*re della sua regione, Giancarlo Ga*lan, oggi ministro dell’Agricoltura. Abbiamo fatto insieme quattro conti. Il suo dicastero ha un ente chiamato Agea, Agenzia per le ero*gazioni in agricoltura, che ha costi*tuito una società a maggioranza pubblica e minoranza privata per organizzare i controlli sul territo*rio. I quali controlli sono poi demanda*ti a un’altra società, sempre a maggio*ra*nza pubblica e mi*noranza privata, che a sua volta li de*lega agli agrotecni*ci, nel nostro caso al*l’Ordine degli agro*nomi di Palermo. Ebbene, allo Stato questi controlli co*stano 100 però gli agronomi percepi*scono solo 25. Il grosso, 75, finisce nelle tasche dei pri*vati che, senza far nulla, detengono il 49% delle socie*tà intermedie. A proposito dei gua*sti del centralismo...».
Sì, però avete oltre un terzo di tutti i funzionari nazionali, si rende conto? Mediamente in Si*cilia c’è un capo, strapagato, ogni 7 dipendenti. Non è una pianta organica: è una selva amazzonica.
«Ringrazi lo Stato unitario. Nel Sud è successo semplicemente questo: un patto scellerato fra classi diri*genti locali e partiti romani, un’alle*anza fondata sull’assistenziali*smo, sul clientelismo, sulle assun*zioni facili. Qualcuno delle classi dirigenti del Sud è mai stato caccia*to per aver consentito queste ab*normità? Nessuno. C’è da sempre piena sintonia fra Palermo e Ro*ma. E allora di che ci accusate? Per aver fatto questi discorsi nell’Udc sono stato costretto ad andarmene e a fondare un mio movimento. Al*la struttura centralistica dello Sta*to fa molto comodo che la mia azienda agricola produca arance a 20 centesimi e che quattro anni su cinque sia costretto a venderle a 15, tanto che se non ci fossero le in*dennità avrei già dovuto chiuder*la; fa molto comodo che le classi di*rigenti meridionali spianino la stra*da alla grande distribuzione orga*nizzata che importa gli agrumi dal*la Tunisia e i carciofi dall’Egitto. Ma se questa colonizzazione fini*sce una volta per tutte, se lo Stato, invece di ripianarci i debiti, se ne va e ci lascia soli, ciascuno di noi dovrà mettersi a fare il proprio com*pito, visto che c’è di mezzo il porta*foglio di ciascuno. E chi non lo fa sarà preso a calci nel sedere».
Lei non si limita a rivedere i con*ti: riscrive anche la storia del Ri*sorgimento, come i leghisti.
«L’Unità d’Italia è stata un affare o no per la Sicilia e per il Sud in genera*le? Prima dell’avvento dello Stato unitario da noi non esisteva l’emi*grazione. Quindi no, l’unificazione non è stata un affare né per i veneti né per i siciliani né per nessuno. Cer*to, voi siete molto bravi, avete rag*giunto la ricchezza grazie al sudore della fronte,coltivate l’etica del lavo*ro, tenete sempre ben presente la passata povertà, tanto che Luciano Benetton, come ho letto nel suo li*bro, le ha confidato che ancor oggi sceglie la pasta alla crema più gros*sa invece di quella più buona, per*ché è rimasto fermo ai tempi in cui badava a riempirsi la pancia. Noi si*ciliani ci sentiamo il sale della terra, ma in effetti siamo un po’ fessac*chiotti. Queste benedette diversità devono restare. Finiamola di dipen*dere gli uni dagli altri. Mettiamoci invece a sudare tutti, questo sì». Insomma, fra qualche mese non la vedremo con lo scapola*re tricolore a celebrare il cento*cinquantesimo dell’Unità. «A Grammichele,la cittadina d’ori*gine della mia famiglia, vicino a Caltagirone,c’è una strada intitola*ta al generale Enrico Cialdini. Per oltre un secolo abbiamo celebrato i genocidi di questo ufficiale savo*iardo, poi senatore del Regno d’Ita*lia, responsabile dei massacri di Pontelandolfo e Casalduni com*piuti nel 1861. I “liberatori” non la*sciarono che pietra su pietra, come ordinato da Cialdini: fucilarono uo*mini, donne, vecchi, preti e bambi*ni. La sedicenne Concettina Bion*di fu legata a un palo da dieci bersa*glieri che la violentarono a turno sotto gli occhi del padre contadi*no. Dopo un’ora svenne.I1 soldato piemontese che la stava stupran*do, indispettito, la uccise. Il papà, che cercava di liberarsi per soccor*rere la figlia, fu ammazzato anche lui dai bersaglieri. È questo che do**vrei celebrare? Quando sarà riscrit*ta la storia d’Italia, si vedrà che una mano al successo della mafia l’han*no data i garibaldini. Lei mi chiede*rà: e perché i picciotti avrebbero dovuto aiutare i Mille? Semplice: perché Garibaldi portava in Sicilia un regno la cui capitale era molto lontana. La criminalità organizza*ta ha bisogno di questo: più distan*te è il sovrano o il presidente, me*glio campa».
Lombardo: secessione? La fa la Sicilia - Interni - ilGiornale.it del 28-10-2010