Contro la precarizzazione del lavoro
di Andrea Pavone*
Il periodo storico che stiamo attraversando è drammatico da tanti punti di vista. Si assiste, infatti, alla disgregazione del tessuto sociale, alla decadenza irrefrenabile della politica, accelerata con tangentopoli e continuata per tutti gli anni 90 ma, in realtà, iniziata già nella metà degli anni 70 (1976 con la P2), ad un sistema di comunicazione viziato e aculturale(distruzione della lingua italiana), ad una profonda disarticolazione della società in senso individualista, ad un ritorno del razzismo e alla paura del “diverso”.

Siamo nel bel mezzo di una “rivoluzione passiva” per dirla in termini gramsciani, ovvero di un periodo di profonda “restaurazione”, di una mutazione economica, culturale e sociale gestito dalla classe dominante e, come tale, permeante il modus vivendi dell’intero Paese. Questo processo, per lo più di arretratezza, deve essere visto nella sua essenza dialettica, ovvero devono essere inquadrate all’interno le contraddizioni che vi sono. Accanto ad un’Italia poco attenta, che non riesce piu ad indignarsi anche grazie ad un bipolarismo (bipartitismo) sterile e favorevole al mantenimento dello status quo, c’è un’altra parte di questo Paese che invece non solo riesce ad indignarsi, ma anche a manifestare, a dire di no, a lottare, a ricordare che l’”Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” e non può essere un Paese Orwelliano di schiavi e veline. Quest’altra parte d’Italia è scesa in piazza il 16 ottobre a Roma, tra le bandiere rosse, ed ancora prima il 22 giugno è riuscita a ribellarsi al ricatto diritti-lavoro.L’esperienza di Pomigliano è stata molto importante e non solo per quello stabilimento. Pomigliano è anche uno spazio simbolico di drammatica realtà dove una classe padronale vuole applicare questo modello dappertutto, e un’altra classe cerca disperatamente di tirare a campare. Una parte sostiene il liberismo sfrenato (ma cerca i fondi pubblici!!!), l’altra parte cerca di sopravvivere. Lotta di classe, motore dell’umanità. Questo momento cosi importante non può non essere raccolto da un partito comunista forte, che in questo momento manca. Manca il partito comunista ma non la classe operaia che giustamente, secondo Marx, è sempre in sé, ma non sempre per sé, ovvero esiste sempre in tutte le fasi storiche ma non sempre cura i propri interessi (e quindi manca il catalizzatore, l’intellettuale collettivo che possa organizzarla) dando cosi spazio alla reazione più bieca. Il fronte operaio di Pomigliano è fatto dai metalmeccanici, ma anche da docenti precari spazzati via dalla controriforma Gelmini(8 miliardi di finanziamenti alla scuola pubblica tagliati, regali alle scuole confessionali crescenti!) e da migliaia di studenti medi ed universitari, i quali vedono il servizio di istruzione pubblica sempre più in decadenza (ma sempre più esoso). In atto c’è una proletarizzazione della piccola e media borghesia. La Fiom ha dato un segnale forte: la classe operaia c’è!!! Ora occorre che qualcuno se ne interessi. Ma se ne interessi non strumentalmente, per racimolare qualche voto a sinistra e diventare il paladino del Pd (vedi alla voce Vendola che era in piazza quel giorno, ma l’indomani era pronto a difendere gli oltre 2 milioni di euro annui di Fabio Fazio, adducendo ragioni di concorrenza…) o radicalizzare il proprio partito con l’antiberlusconismo (Di Pietro), per altro assolutamente inutile in questa fase, ma secondo una prospettiva di classe, di conflitto, continuato ed organizzato in tutta Italia.

La situazione è fin troppo chiara. C’è una crisi (crisi non ciclica, ma sistemica!) del capitalismo fortissima e questa viene sfruttata strumentalmente dalla classe industriale per chiedere la riduzione del costo del lavoro e l’eliminazione dei diritti sindacali (ritenuti un ostacolo allo sfruttamento!) e, quindi, procedere a disegnare un modello nuovo e reazionario delle relazioni industriali. Cosi si comporta la Fiat, azienda che ha ricevuto ingenti incentivi statali, anche nel 2010 per garantire i livelli occupazionali, ma che attua una politica industriale di delocalizzazioni e di licenziamenti in tutta la penisola. I fondi statali per il gruppo torinese vanno in Serbia (dove oltre il 30% è dello Stato), mentre Termini Imerese si avvia alla chiusura. La Fiat in Italia licenzia dappertutto, da Mirafiori a Pomigliano, dalla provincia di Avellino a Cassino, ma in Brasile o in Polonia assume migliaia di dipendenti a 500 euro al mese (eppure in Italia, come in Europa, non va affatto male sul mercato). L’eroico Marchionne, il quale guadagna quanto 450 operai, fa appello al neoliberismo, a quel sistema che è diventato il programma politico di ogni coalizione che governa, ma non disdegna gli aiuti statali, anzi investe proprio in quei paesi (sfruttando si intende la riduzione del costo del lavoro ed accrescendo il plusvalore!!!) Un comportamento, quindi, che non ha nulla a che vedere con i neo-liberisti “puri”.Lo scenario che si presta è molto pericoloso. Lo testimoniano vari eventi come, ad esempio, la sanzione di 10 giorni di sospensione lavorativi al macchinista Dante De Angelis da parte delle FS, a causa di una dichiarazione di solidarietà nei confronti dei tre lavoratori di Melfi licenziati dalla Fiat, reintegrati dal Tribunale, ma non ammessi in fabbrica (percepire uno stipendio, ma senza lavorare). Il dissenso viene colpito da più parti, mentre buona parte dell’opinione pubblica è deconcentrata da Talk show demenziali e martellanti su non-problemi o dalle vicende pornografiche e criminali del Presidente del Consiglio. Mentre tutti i media parlavano di una “fin troppo conosciuta ed abusata vicenda di cronaca nera” il Parlamento approvava, nel silenzio piu assordante, il Collegato Lavoro che entrerà in vigore a breve, ennesimo attacco alla classe operaia. Il collegato lavoro, tra i tanti aspetti negativi, prevede che le parti (il plurale fa ridere, quindi che il datore di lavoro) possano introdurre nel contratto clausole arbitrali, in modo tale che la risoluzione delle eventuali controversie lavorative spetterà non più ai Tribunali ma ad arbitri privati con effetti nefasti (costi maggiori, garanzie dimezzate!). Non è l’unico aspetto, visto che la legge colpisce anche i lavoratori precari con contratti scaduti che dovranno, entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge, fare ricorso o perdere qualunque diritto (non è facile per un lavoratore fare ricorso quando davanti vede solo precarietà..), ed introduce la pratica di certificare il contratto lavorativo.

L’ennesimo atto di una politica barbara e contro il lavoro. L’ennesimo perché è dagli anni 90 che le politiche dei governi (destra o “sinistra”) continuano a colpire il lavoro, introducendo come unico tema, quello della flessibilità a tutti i costi e della riduzione dei salari. Dopo Tangentopoli un attacco durissimo ai lavoratori fu inferto con l’eliminazione della scala mobile, meccanismo democratico che permetteva l’adeguamento del salario al costo della vita, e l’introduzione della inflazione programmata, per poi continuare con la “concertazione” e la riforma disastrosa di Dini sul sistema previdenziale (da retributivo a contributivo). Tutto il novecento è stato un’escalation di eliminazione progressiva della centralità del lavoro, che aveva toccato il punto piu alto con la legge 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori), e di riduzione del lavoratore a semplice merce da sfruttare quanto più possibile. Viene introdotto il Pacchetto Treu nel 1997 ( parliamo di centro-sinistra…ora PD) che apre la strada al lavoro interinale, alle co.co.co (poi co.co.pro, formalmente “lavoro autonomo”, ma in verità lavoro parasubordinato svolto in condizioni di moderna schiavitù ed assoggettato a vincoli ben precisi) e che, necessariamente, si è perfezionato con la devastante legge 30 del 2003 del governo Berlusconi, la quale teorizza la flessibilità in ingresso (unico orizzonte pensabile) ed elimina tutti i vincoli presenti nel 1997. Da lì hanno provato a smantellare l’art.18, ma un’importante manifestazione della CGIL li ha fatti desistere almeno in quel momento, ed introdotto lo scalone che aumenta l’età pensionabile e non tutela tutti coloro che svolgono lavori usuranti (lavorare nella catena di montaggio non è come fare l’avvocato o il medico!). Come dice Luciano Gallino, sociologo all’Università di Torino, hanno in tutti i modi separato il lavoratore dal proprio lavoro, basti pensare al contratto di somministrazione, dove un lavoratore viene assunto dall’impresa fornitrice, ma svolge poi la propria prestazione lavorative presso un’altra azienda, questa “utilizzatrice”. Tra le due aziende vi è un contratto commerciale: il lavoro non differisce da tutte le altre merci e viene trattato come tale. Questo lo si vede anche nei contratti di lavoro intermittenti, nei lavori ripartiti ed in altre tipologie dette atipiche (rispetto al modello tipico pensato dal costituente italiano, ovvero del lavoro a tempo pieno ed indeterminato, ma diventato invece esso atipico rispetto a quello flessibile, oggi tipico!!!).

La borghesia si riprende quello che la classe operaia aveva rivendicato ed ottenuto negli anni 70 (e non solo dal punto di vista lavorativo, ma sociale e culturale) e lo fa in modo schiacciante, senza concedere niente. La rivoluzione passiva, come dicevamo prima è questo. Cambiano i soggetti anche nel mondo dell’industria, rispetto almeno a quegli industriali “illuminati” del dopoguerra e dei decenni successivi. In un altro testo (intervista ad Adriano Olivetti) sempre il professore Gallino fa riferimento all’imprenditore Adriano Olivetti al quale nel 1952, costretto a dover fronteggiare una grave crisi industriale, era stato consigliato di licenziare 500 dipendenti in tronco. L’imprenditore, che riteneva questo atto di ingiustificato licenziamento gravissimo, licenziò o trasferì invece parte dei dirigenti, abbassò il costo delle macchine e, assumendo 700 nuovi venditori, sviluppò un nuovo ciclo di produzione, superando la crisi. Non stiamo parlando di un comunista (aderì al fascismo per anni), ma di un signore che aveva bene in mente cosa significava trovarsi per strada, a differenza del signor Marchionne totalmente disinteressato rispetto a questi problemi. Cambiano le relazioni industriali, cosi come cambiano le strategie: non si impostano quasi piu piani di produzione per il futuro, ma prevale oramai la logica della produzione “giusto in tempo”, principio inneggiante alla flessibilità e sviluppatosi con il tojotismo in Giappone. Se un lavoratore serve in quel momento (chiamata a comando) lo si assume, ma quando non serve piu lo si manda a casa senza pensarci un attimo. Questo accade oggi, nel Paese della flessibilità in ingresso, teorizzata come profondamente diversa dalla precarietà, ma in verità quasi coincidente, almeno sotto l’aspetto della totale assenza di prospettive future (e poi parlano delle famiglie italiane, ma come può metter su famiglia uno che viene assunto sempre part-time?). Occorre un nuovo protagonismo di classe, è necessario quindi, oggi piu che mai, un partito comunista.


* intervento alla presentazione dell'associazione Marx XXI a Riposto (CT)