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    Cool Rubrica: "Sapori tipici locali"

    Com'è noto, l'Emilia-Romagna in cucina è regina, e la cucina bolognese è famosa in tutto il mondo. Un autore romagnolo che s'intendeva della buona tavola, Pellegrino Artusi (1820-1911), diceva: "Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, che se la merita". È vero però che a Bologna si mangia così bene a casa che spesso al ristorante si resta delusi, se si fa il paragone coi manicaretti delle mogli e delle madri, e poi oggigiorno ci sono dei localacci che servono solo a far mangiar male i turisti e a causare brutte figure alla nostra regione.

    In questa rubrica ho intenzione di descrivere quelli che sono i gustosissimi piatti e sapori della cucina emiliano-romagnola. Dai primi, ai secondi, ai dolci... senza escludere il prelibato lambrusco naturalmente. :gluglu:
    Non è un ricettario, sia chiaro. E' semmai un modo per elogiare e rendere onore a quella che è, insieme ai motori, una nostra prerogativa vincente e acclarata in ogni dove. Percorrendo, per quanto possibile, quelle che sono le origini e le tradizioni antiche di ciascuna eccellenza enogastronomica

    Sono graditi commenti, aggiustamenti e consigli!!!




    Essendo la sottoscritta modenese, ho pensato di iniziare dalle:

    Crescentine o Tigelle.

    - La Crescentina o Tigella è un prodotto agroalimentare tipico della provincia di Modena. E' un caratteristico e antico pane montanaro a forma circolare ottenuto dal sapiente impasto di farina (integrale o grano tenero), acqua e sale. Alcuni ritengono che le sue origini derivino dalle focacce che venivano offerte dai Romani al dio Giano.
    Il nome Tigella deriva invece dallo strumento utilizzato per la sua cottura: in latino tegere significa ricoprire, e quindi è riconducibile all'azione di cuocere l'impasto del pane, avvolto tra due foglie di castagno o di noce, ricoperto da un tondo di argilla refrattaria. I dischi di terra venivano anche incisi per decorare le facce della Tigella, e tra le figure più comuni rintracciamo la stella a sei punte.
    Tradizionalmente la Crescentina è consumata calda, aperta a metà e farcita con il pesto, ovvero un battuto di lardo, aglio, rosmarino e parmigiano reggiano grattugiato. Può essere gustata anche con qualsiasi tipo di salume o di formaggio molle, e non disdegna neppure di accompagnarsi alla cioccolata.

    Ultima modifica di Carrie; 01-01-11 alle 15:22
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  2. #2
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    Predefinito Rif: Rubrica: "Sapori tipici locali"

    ... a me piacciono molto anche i borlenghi e/o zampanelle...

    “In amore non essere un mendicante, sii un imperatore. Dà e resta semplicemente a vedere che cosa accade...”

  3. #3
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    Il Borlengo hefico: :


    La storia


    Piatto tipico della cucina povera delle colline modenesi, in origine il Borlengo era composto solo di farina ed acqua. Sorta di ostia estremamente sottile e friabile, ricorda, ma solo dal punto di vista dell'aspetto, il pane carasau sardo. I borlenghi sono chiamati in dialetto “Burleng”, o “Barleng”, il loro nome potrebbe derivare dal tedesco bertling (assicella) con riferimento al suo spessore sottile. Ma numerose sono le “storie” riferite alla sua origine.
    Si narra che la sua nascita sia legata ad un episodio guerresco: nel 1266, durante l’assedio del Castello di Montevallaro, i difensori riuscirono a resistere grazie a focacce che, man mano che il tempo passava, divenivano sempre più piccole e sottili: una “burla” da cui deriverebbe il nome Burlengo tramandato dai superstiti.
    Questa la versione del Comune di Guiglia, ma numerose sono altre ipotesi avanzate a Vignola e a Zocca che vogliono il Borlengo, comunque sempre legato ad una burla: cibo di Carnevale, scherzo ad una massaia o ad invitati molesti, ….
    La cottura avveniva sul fuoco a legna usando per cuocerlo una padella di rame battuto e stagnato chiamata localmente “sole” di grandi dimensioni e peso non indifferente. Per questo la sua preparazione era un tempo affidata agli uomini.
    Piccole varianti, tipiche delle zone più alte dell'Appennino bolognese e modenese, sono la Zampanella, di spessore più consistente ed il Ciaccio, che si distingue per l'impasto più denso e la cottura in apposite “cottole” sorta di piastre in ferro.

    - Terminata la cottura, generalmente 10 minuti a fuoco lento, il Borlengo viene condito con un cucchiaio di “pesto” o cunza, un soffritto di pancetta e salsiccia aromatizzato con rosmarino e cosparso di Parmigiano Reggiano grattugiato. Piegato in quattro, il Borlengo va mangiato caldo e con le mani.
    I borlenghi sono una specialità della zona di Zocca e di Vignola, nel modenese, ma preparazioni similari sono presenti in tutto l'Appennino Emiliano. Nel Piacentino prendono il nome di “Burtleina”; a Bettola (PC) viene preparato anche con il lievito.Si trovano pure borlenghi ottenuti da farine di castagne o granoturco. In occasione della macellazione del maiale veniva preparata una versione del Borlengo con l'aggiunta del sangue filtrato, impastato con la farina e cotto, da farcire con lardo e aglio, ma spolverata abbondantemente con Parmigiano.

    Durante il primo e secondo fine settimana di maggio, si svolge a Guiglia (MO) la Sagra del Borlengo; è prevista l’istituzione di una fiera annuale novembrina anche a Zocca, dove peraltro ha sede la “Compagnia della Cunza”: qui i maestri borlengai organizzano corsi e dimostrazioni per insegnare l’arte del Borlengo.

    (academiabarilla.it)
    Ultima modifica di Carrie; 06-11-10 alle 10:24
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  4. #4
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    Predefinito Rif: Rubrica: "Sapori tipici locali"

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    Predefinito Rif: Rubrica: "Sapori tipici locali"

    I TORTELLINI:

    “Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, ché se la merita!”. Così scrisse l’Artusi nel suo famoso libro di ricette, e non c’è altra frase che meglio si addica alla nostra tavola.

    Quando si parla della cucina bolognese, si pensa subito ai suoi due maggiori simboli, la mortadella e il tortellino; quest’ultimo in particolare racchiude dentro la sua bontà, tanta le storie e le leggende che ne vogliono trovare un’origine. Il nome di tortellino (in bolognese turtlén, in modenese turtlèin) deriva dal diminutivo di tortello, dall’italiano, torta.
    Sull’origine di questo piatto esistono diverse storie e leggende.

    LEGGENDE:

    Si racconta che…
    In un anno imprecisato del duecento, arrivò a una locanda, di nome Corona, di Castelfranco Emilia una bella Marchesina che scese da una carrozza tirata da quattro cavalli.

    Il locandiere accompagnò la bella dama in camera, perché potesse rinfrescarsi e riposare; attratto da siffatta bellezza, spiò la donna dalla serratura e rimase colpito… dal suo ombelico. Quando arrivò il momento di preparare la cena, l’abile chef iniziò a lavorare la sfoglia, creando pezzetti di pasta con la forma che gli suggeriva l’immagine che aveva visto poco prima. Non sapendo cosa fare di quei pezzetti di sfoglia, li riempì di carne. Ne uscì una nuova prelibatezza, ispiranta proprio da quel nobile ombelico.
    Quando servì questo piatto alla signora, ricevette i complimenti e alla domanda a chi andasse il merito di tale squisitezza, il locandiere arrossendo rispose: “A vossignoria”. Nacquero così i famosi tortellini.

    Altri vogliono un’origine divina, sostituendo alla figura della Marchesina, la Dea Venere.
    Secondo A. Panzini, l’origine del tortellino si trova sul fondo di un secchio. O meglio, di una secchia famosa; La “Secchia rapita” cantata dal poeta modenese Alessandro Tassoni nel 1624. La storia narra l’eterna rivalità fra Modena e Bologna: due città troppo vicine, e tanto rivali. Persino la proprietà di una comunissima secchia per tirar su l’acqua da un pozzo, era motivo di disaccordo. Per via della secchia trafugata dai modenesi scoppia una guerra eroicomica che dura ben dodici canti; vi prendono parte l’Olimpo al completo re Enzo, e personaggi quali la guerriera Renoppia e il conte di Culagna.
    Alla Secchia Rapita si sarebbe ispirato il poemetto ottocentesco di Giuseppe Ceri, che racconta della spedizione terrena di tre divinità dell’Olimpo: Bacco, Marte e Venere. I tre, venuti a dar man forte ai modenesi in una delle tante guerre contro i bolognesi, si fermarono a dormire in una locanda di Castelfranco Emilia, al confine tra le province delle due città belle e belligeranti. Il locandiere fu conquistato dalle meravigliose fattezze di Venere, e decise di riprodurne l’ombelico con la pasta sfoglia che stava preparando giù in cucina.

    Una variante di questa leggenda trae spunto, sempre “Secchia rapita” e racconta di come ai quei tempi, una sera dopo una giornata di battaglia tra bolognesi e modenesi, Venere, Bacco e Marte trovarono ristoro presso la locanda Corona. La mattina seguente Marte e Bacco si allontanarono dalla locanda lasciando Venere dormiente, questa al risveglio, chiamò qualcuno e il locandiere, che accorse, la sorprese discinta e rimase tanto impressionato dalle sue splendide forme che tornato in cucina con ancora in testa ciò che aveva visto, strappò un pezzo di sfoglia, lo riempì e ripiegò dandogli la forma dell’ombelico della dea.

    STORIA:

    Per la Storia, Tassoni era modenese, e non avrebbe mai fissato a Castelfranco – avamposto dei Bolognesi – il luogo di nascita del così aspramente conteso tortellino. A conferma di ciò, la storia dell’ombelico di Venere compare solo nel poema di Ceri, che nei suoi versi dice testualmente:
    “….e l’oste, che era guercio e bolognese,
    imitando di Venere il bellico
    e con capponi e starne e quel buon vino
    l’arte di fare il tortellino apprese.”

    Lo storico Cervellati segnala che nel secolo XII a Bologna si mangiavano i “tortellorum ad Natale”, una festività, quella natalizia, molto vicina al solstizio d’inverno (il 21 di dicembre). In questo periodo si soleva mangiare qualcosa di corroborante e calorico, quale è, appunto, brodo di cappone, tuttora il più fedele compagno del tortellino.
    In effetti, prima del XII secolo, non è stato trovato alcun riferimento al tortellino.
    Solo in seguito comincia a comparire qualcosa; in un libro di ricette trecentesche alcune fonti fanno riferimento a una ricetta dei “torteleti de enula”, un’erba presente in Emilia.
    La ricetta è redatta in dialetto modenese, che conclude così: “…e poi faj i tortelli pizenini in fogli di pasta zalla”. Il riferimento alla pasta sfoglia, gialla per la presenza delle uova, appare di evidenza solare: e “pizenini”, piccini sono questi “tortelli”, proprio come attualmente sono i tortellini.

    Questa probabile storia dura per tutto il 400, in compagnia di Giovanni Boccaccio.
    Nel terzo racconto dell’ottava giornata del Decamerone, Calandrino, Bruno e Buffalmacco, alla ricerca dell’elitropia, la pietra che fa diventare invisibili, finiscono nel Paese di Bengodi, dove “….stavan genti che niuna casa facevan che far maccheroni raviuoli e cuocergli in brodo di capponi.”
    Ma quali maccheroni raviuoli!, dicono gli emiliani. Dovevano essere certamente dei tortellini: chi sprecherebbe così del delizioso e sostanzioso brodo di cappone?

    Nel 1500 la storia trova i suoi testimoni.
    Nel diario del Senato di Bologna quell’anno si riporta che a 16 Tribuni della Plebe riuniti a pranzo fu servita una “minestra de torteleti”: probabilmente quella degli odierni tortellini. Pochi anni dopo, nel 1570, un Cuoco bolognese (forse Bartolomeo Scappi, cuoco di Pio V) fece stampare un migliaio di ricette tra cui c’era pure quella dei tortellini.
    Nel 1664 Vincenzo Tanara, ne “L’economia del cittadino in Villa”, descrive i “tortellini cotti nel burro.”
    Nel 1842 il francese Antoine-Claude Pasquin, detto Valery, viaggiatore e bibliografo, segnala un “ripieno di sego di bue macinato, tuorli d’uovo e parmigiano”, il padre rozzo dell’attuale.
    Per la consacrazione dei tortellini bisognava trovare il sistema per conservarli. Vi riuscirono i fratelli Bartagni, che nel 1904 riuscirono a portarli fino in California, alla Fiera di Los Angeles, dove furono molto apprezzati. Da allora il tortellino si è affermato e sopravvive tutt’oggi alla sua fattrice originaria: la “rezdora”.

    Che dire… Per certo sappiamo che l’Emilia è la patria del tortellino, sulla città è ancora in corso una plurisecolare vertenza tra Bologna e Modena. E, per certo sappiamo che i tortellini in brodo, è la ricetta originale.

    La vera ricetta è stata depositata il 7 dicembre 1974, dalla “Dotta Confraternita del Tortellino” presso la Camera di Commercio di Bologna.

    (da il tortellinoday.com)
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    La Piadina Romagnola:

    Ci sono tracce nella storia della Piadina romagnola descritta come pane azzimo cotto su lastre arroventate fino dal 1200 a.c., preparata dagli Etruschi e tramandata ai Romani, la Piadina è stata utilizzata nel Medioevo e nel Rinascimento.
    Dopo la conquista romana dell'Etruria, molte ricette vennero inglobate nella tradizione romana e tra queste c'era anche la Piadina che iniziò ad essere consumata anche nell'antica Roma negli ambienti più raffinati.
    Mentre dai contadini la Piadina veniva preparata perchè era un cibo semplice ed economico oltre che gustoso...
    Nell'antichità, l'antenata della Piadina romagnola, veniva consumata con un ripieno a piacere o come sostituta del pane, anche se doveva essere consumata in fretta perchè dopo poche ore, a causa della cottura inadatta, diventava talmente dura da essere immangiabile.

    E' doveroso citare il poeta romagnolo Giovanni Pascoli, che celebrò nei suoi versi i sentimenti più veri della gente di Romagna, esso fa risalire la piadina alla mensa latina e ne trovò tracce addirittura nell'Eneide, e per questo definì la piadina "pane rude di Roma". Tanto è vero che il tipico "testo" romagnolo, la lastra di terra refrattaria su cui si fa cuocere la Piadina romagnola, deriva proprio dal latino "testa", cioè "coccio". E qualcuno dice che anche il nome piadina provenga direttamente da "platus", cioè "piatto".

    La piadina sopravvive fino al medioevo quando, a causa delle tasse sul pane e delle quote di grano da versare ai signorotti, il pane divenne sempre meno consumato a favore della piadina che poteva essere preparata anche con farina di altri cereali non tassati.

    Nel periodo del Rinascimento la Piadina romagnola ebbe un declino, ma rimase sempre il semplice pasto dei contadini e della povera gente che non poteva permettersi qualcosa di più e doveva accontentarsi dei prodotti della terra.

    Oggi la piadina è consumata sopratutto in Romagna, dove nei paesi della campagne romagnole, si incontrano con facilità piccoli chioschi di Piadina e Crescioni, dove spesso madre e figlia impastano e stendono il semplice composto della Piadina romagnola a mano. Da notare la differenza tra la piadina riminese e quella della bassa Romagna, la prima viene stesa molto sottile mentre nella Romagna da Forlì in giu, spesso viene servita abbastanza grossa

    Tuttavia non è una regola e non c'è una regola, tutto sta nelle sapienti mani di chi ama e prepara la Piadina romagnola.
    Ultima modifica di Carrie; 30-12-10 alle 12:13
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    Predefinito Rif: Rubrica: "Sapori tipici locali"

    Con Piadina romagnola, o piada, pie, pjida, pièda, pji, pida , in Romagna s'intende una schiacciata composta di farina di grano, acqua, sale, e dei luoghi, anche altri ingredienti. La piada classica romagnola è tirata sottile col matterello e a fuoco ardente di braci, fatta cuocere sul testo, una teglia di terracotta, dal basso orlo, la cui forma richiama qualcosa di primitivo.

    Si ottiene così un ampio disco picchiettato di bruno per gli ardori del fuoco, friabile, tenero, delicatissimo al gusto, che si consuma con buoni salumi nostrani, formaggi freschi, erbe di campagna e generoso Sangiovese di Romagna.


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  9. #9
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    Predefinito Rif: Rubrica: "Sapori tipici locali"

    Cotechino e lenticchie: origini e tradizioni



    Tempo di feste natalizie, tempo di mangiate e banchetti gustosi che si ricoprono dei piatti tipici della nostra cultura gastronomica. In prossimità delle Feste trovare un cotechino e una confezione di lenticchie (secche, fresche, in scatola che siano) sarà un’impresa olimpionica.

    Ma perchè proprio il cotechino? E perchè, tra tutti i legumi, si è scelti di rendere “tradizionali” proprio le lenticchie? Cercheremo di svelarvi piccoli segreti e storie su questi cibi che, con il passare del tempo, si sono impossessati delle tradizioni legate alle festività natalizie, ma soprattutto, della cena di S. Silvestro.

    Il cotechino, di origine italica come ogni altro prodotto di salumeria, nasce dalla carne di suino d’importazione: il Large White, ossia i maiali da grasso provenienti dall’Inghilterra che vennero conciati e utilizzati per questo prodotto proprio grazie alle carni tenere che per la prima volta nella storia vennero cucinate, e reinventate, da due grandi cuochi: Francesco Leopardi, cuoco di Maria Luigia D’Austria, e Pellegrino Artusi, il maestro di cucina e scrittore autore della guida di cucina più famosa e ancora letta da uno stuolo di appassionati di gastronomia italiana. Si narra però che ancora prima la ricetta di Artusi e Leopardi, l’idea dello zampone fosse venuta ai mirandolesi che, attaccati dalle truppe di Papa Giulio II Delle Rovere, decisero di conservare le zampe del maiale per i tempi di magra del post-guerra.

    Con le ricette dei grandi cuochi, il cotechino e lo zampone acquistarono prestigio fino ad essere consumati nei periodi di festa ed abbinati alle lenticchie che, secondo la tradizione pagana, promettevano fortuna e prosperità a tutti coloro che le avrebbero consumate l’ultimo giorno dell’anno.
    E se le tradizioni promettono fortuna e prosperità (anche economica), perchè non rispettarle?

    (mentegolosa.it)
    Ultima modifica di Carrie; 30-12-10 alle 16:58
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    Predefinito Rif: Rubrica: "Sapori tipici locali"

    che bella rubrica e quanta nostalgia, e pensare che sono a dieta

 

 

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