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Discussione: Le Barroux

  1. #1
    Mé rèste ü bergamàsch
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    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

  2. #2
    Mé rèste ü bergamàsch
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    Predefinito Rif: Le Barroux

    Nel numero di novembre 2010 del mensile il Timone (anno XII, n. 97, pp. 22-24) è comparso un articolo sul monachesimo benedettino e l'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux: "Le Barroux, benedettini fedeli. Da circa 40 anni esiste in Francia una comunità benedettina fedele alla Regola, alla filosofia tomista e al rito romano antico. Monaci che pregano e lavorando amando le radici cristiane d'Europa. E che vorrebbero vederle rinascere". Ne riproduciamo di seguito la versione originale e integrale, più ampia di quella andata in stampa
    Le Barroux: quaerere Deum



    Romualdica: Le Barroux: quaerere Deum

    «Ascolta, figlio, gli insegnamenti del tuo maestro, apri docile il tuo cuore, accogli volentieri i consigli del tuo padre». Con queste parole di sapore schiettamente biblico – che evocano immediatamente l’«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4) – si apriva quindici secoli fa la grande porta di santità della Regola dei Monasteri di san Benedetto (480 ca.-547 ca.); un libro di dimensioni tutto sommato ridotte – composto da un prologo e da 73 densi capitoli – che avrà tuttavia il destino e la gloria di contribuire grandemente a imprimere un carattere radicalmente cristiano al mondo occidentale, allora in una fase di grandi rivolgimenti e di cambiamenti epocali, per certi versi non del tutto dissimili da quelli che proprio oggi ci troviamo a vivere.

    Della figura gigantesca di san Benedetto – non a caso proclamato, nel 1964, patrono d’Europa dal servo di Dio Paolo VI (1963-1978) – e della paternità spirituale della sua Regola – dalla quale occorre «ripartire», ebbe a dire il venerabile Giovanni Paolo II (1978-2005), «per la ricostruzione morale e religiosa che urgentemente ci sollecita» –, ci rimane certo il monumento letterario contenuto nel secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno (540 ca.-604), unica biografia contemporanea che sia stata realizzata del santo nato a Norcia e morto a Montecassino. Un ruolo, quello del patrono del monachesimo occidentale, ben messo in luce in un celebre panegirico del teologo Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), nel quale la sua Regola veniva descritta come «un condensato del cristianesimo, un dotto e misterioso sommario di tutta la dottrina del Vangelo, di tutte le istituzioni dei santi Padri, di tutti i consigli di perfezione».

    «Sommario di tutta la dottrina del Vangelo», l’intera opera di san Benedetto realizza dunque pienamente il «per ducatum Evangelii» («sotto la guida del Vangelo»), ovvero l’appello che il santo lancia ai suoi discepoli a metà del prologo della sua Regola. Per fare questo, il santo patriarca si accinge – come scrive – a «istituire una scuola del servizio del Signore» («schola dominici servitii», RB prol. 45), per quel genere di monaci «cenobiti, ossia di coloro che vivono in un monastero e obbediscono a una Regola e a un abate» (RB 1,2).

    Non è questa la sede per tracciare una storia del monachesimo – storia che avrebbe molto da insegnarci, e che ci offrirebbe l’opportunità di abbeverarci a fonti limpide di santità e spiritualità –, se non per annotare di sfuggita che la «scuola del servizio del Signore» istituita da san Benedetto si pone in diretta e consapevole continuità con un modello esemplare di vita cristiana – il monachesimo – che va dal padre del cenobitismo, san Pacomio (292-348), a san Giovanni Cassiano (360 ca.-435), che dopo un lungo soggiorno nei monasteri della Palestina e dell’Egitto, scrisse per i monaci d’Occidente delle opere pensate come progetto organico capace di trasmettere e di tradurre in un linguaggio accessibile l’esperienza e l’insegnamento dei Padri conosciuti in Oriente. Ma la linea è ancora precedente, se lo stesso Cassiano non esita a scrivere, nelle sue Conferenze ai monaci, che «la vita cenobitica ebbe il suo inizio al tempo della predicazione apostolica» (Conl. 18,5). «Il monachesimo – scrive il più autorevole studioso vivente della letteratura monastica antica, dom Adalbert de Vogüé – è allo stesso tempo un movimento spirituale del passato e una via aperta nell’oggi all’anima che cerca Dio. Nato in un momento storico preciso, di cui porta l’impronta indelebile, risponde a un bisogno permanente e in qualche modo senza tempo».

    Se quelle appena menzionate sono alcune delle coordinate storico-spirituali della figura di san Benedetto e del monachesimo di cui è patrono, trascorsi ormai quasi millecinquecento anni da quei felici esordi, quale attualità e quale richiamo dovrebbero trovare riverbero in noi, provenendo da quel mandato e lascito? Una felicissima risposta è contenuta in quello che, a vario titolo, possiamo considerare uno degli interventi magisteriali cardine del pontificato di Benedetto XVI, ovvero il discorso svolto in occasione dell’incontro con il mondo della cultura, a Parigi – al Collège des Bernardins –, del 12 settembre 2008, quando il Papa ha inteso parlare «delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea». Dopo essersi chiesto se la cultura monastica sia «un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato», il Santo Padre ha ribadito la considerazione condivisa secondo la quale i monasteri sono stati i luoghi in cui venne «formata passo passo una nuova cultura». Benedetto XVI – profondamente legato alla figura di san Benedetto, com’è noto sin dal nome scelto una volta asceso al soglio pontificio – non si è però accontentato di prendere atto del fatto del «monachesimo creatore di civiltà», ma si è domandato più profondamente come ciò avvenne, qual era la motivazione delle persone, che intenzioni avevano, come hanno vissuto. La riflessione che Benedetto XVI ha svolto, a partire da tali quesiti, è del tutto cruciale, e solo apparentemente paradossale: «Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio».

    Si potrebbe ritenere che il tempo attuale non consenta un’esperienza come quella sin qui tratteggiata, orientata in modo «escatologico», capace di costruire una realtà solida – e potenzialmente creatrice di civiltà – per mezzo di persone che dietro le cose provvisorie cercano il definitivo, animate da quel «désir de Dieu» («desiderio di Dio») reso celebre da un noto volume dell’erudito benedettino Jean Leclercq (1911-1993), che permette d’incontrare il Signore il quale ha «piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, ha spianato una via, e il compito consiste nel trovarla e seguirla», come prosegue Benedetto XVI nel discorso al Collège des Bernardins.

    Il viandante, il pellegrino, l’uomo e la donna, la famiglia, il gruppo giovanile, il religioso, il consacrato, l’inquieto – comunque l’essere umano nelle sue varie declinazioni, alla ricerca di Dio –, può invece incontrare ancora oggi tracce vive e feconde di questa avventura interiore, capace allo stesso tempo di collegare all’antico e nobile lignaggio delle tradizioni di quanti ci hanno preceduto, ma ultimamente e soprattutto al nostro vissuto dell’oggi, nell’orizzonte di Dio.

    Se ne può fare l’esperienza molto concreta salendo la collina francese retrostante al villaggio provenzale di Le Barroux – non lontano da Avignone –, immersi in una natura rigogliosa di vigneti, albicocchi e oliveti. Qualche tornante fra gli alberi e una segnaletica via via rassicurante ci permettono infine di scorgere in leggera lontananza il profilo del campanile e della chiesa dell’abbazia benedettina Sainte-Madeleine, cui si arriva agilmente accompagnati dalle edicole votive e oratori che segnano il percorso, segno e anticipazione della devozione dei monaci che ancora non scorgiamo; anche i bambini in auto non mancheranno di riconoscere san Giuseppe con in braccio il piccolo Gesù mentre nasconde i ferri del mestiere dietro la schiena nella premura di non ferirlo, san Benedetto, o nel boschetto che delimita l’area dei posteggi – a modo suo enorme, segno loquace, per chi vi arriva la prima volta, del continuo afflusso di visitatori – la Madonna di Guadalupe, precisamente invocata dai monaci a guida e protezione delle famiglie, primo baluardo di ogni cristianità. Finalmente arrivati, un grande prato fiorito di lavanda ci anticipa il primo piano della grande abbazia, costruita in uno stile romanico che richiama l’austera solidità dei modelli architettonici cistercensi. Tutto ciò che ci circonda è allora un inseguirsi di sguardi, i quali suggeriscono e imprimono subito nell’anima una fortissima suggestione di spiritualità.

    Ma non siamo giunti a un monumento storico da visitare in quanto turisti, tant’è vero che il luogo non prevede visite guidate di sorta. Siamo invece oggi, proprio noi, proprio qui, in una «schola dominici servitii», in un monastero abitato da una grande comunità di monaci benedettini, che ha deciso di sfidare il clima di secolarizzazione che attanaglia il mondo moderno, costruendo dal nulla – con la propria fatica e l’aiuto e il sostegno di numerosi fedeli e benefattori – un’abbazia, esattamente come fecero i nostri padri medievali, quale segno tangibile che un altro mondo è possibile.

    Dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, le cui origini risalgono al 1970, quando l’esordio della fondazione aveva i suoi natali nel vicino villaggio di Bédoin, si può dire che sia il prolungamento della vita del suo fondatore e primo Padre Abate, il monaco benedettino dom Gérard Calvet (1927-2008), che così scriveva nel 1988, quasi anticipando alcuni degli argomenti espressi da Benedetto XVI nel discorso che abbiamo a più riprese menzionato: «I monaci hanno fatto l’Europa, ma non l’hanno fatta consapevolmente. La loro avventura è anzitutto, se non esclusivamente, un’avventura interiore, il cui unico movente è la sete. La sete d’assoluto. La sete di un altro mondo, di verità e di bellezza, che la liturgia alimenta, al punto da orientare lo sguardo verso le cose eterne; al punto da fare del monaco un uomo teso con tutto il suo essere verso la realtà che non passa. Prima di essere delle accademie di scienza e dei crocevia della civiltà, i monasteri sono delle dita silenziose puntate verso il cielo, il richiamo ostinato, non negoziabile, che esiste un altro mondo, di cui questo non è che l’immagine, che lo annuncia e lo prefigura».

    L’irradiamento dell’abbazia Sainte-Madeleine non conosce sosta, si potrebbe dire da quarant’anni in qua. Lo testimonia il consistente numero di monaci – dal 2003 guidati dal successore di dom Gérard, l’attuale Padre Abate dom Louis-Marie Geyer d’Orth –, che nel 2002 hanno dato vita alla fondazione del priorato monastico Sainte-Marie de la Garde, nella diocesi di Agen; così, oltre alla cinquantina di cenobiti residenti a Le Barroux, una dozzina di loro fratelli hanno iniziato nel 2010 l’inizio dei lavori di costruzione di una nuova abbazia, replicando la sfida già intrapresa alcuni decenni prima in Provenza. E parimenti, proprio di fronte alla collina che ospita l’abbazia di Le Barroux, sulle orme di dom Gérard è venuta a installarsi la comunità monastica femminile Notre-Dame de l’Annonciation (nata nel 1979), che nel 1992 è stata eretta anch’essa in abbazia e oggi ospita una trentina di monache, guidate dalla Madre Abbadessa Placide Devillers.

    Un irradiamento, quello di Le Barroux, che poggia sulle «tre colonne» concepite da dom Gérard come fondamento dell’avventura monastica da lui avviata nel lontano 1970, ovvero: una formazione intellettuale alla scuola della filosofia dell’essere d’impronta aristotelico-tomista; un’adesione senza riserve alla Regola di san Benedetto, intesa come elemento fondante stabile della nascente comunità, per la sua ricchezza, la sua universalità e la sua inesauribile capacità di adattamento; e la fedeltà alla preghiera liturgica nella forma straordinaria del Rito romano.

    Quest’ultimo aspetto, in particolare – ossia il vincolo e la strenua difesa della Messa secondo il «rito antico», che da quarant’anni incanta le anime di quanti visitano questo monastero e alimenta la loro vita interiore –, ha permesso all’abbazia di Le Barroux di assumere un ruolo di rilievo nella riscoperta e diffusione della «liturgia gregoriana», come testimoniano i molti sacerdoti e membri di comunità di vita consacrata che si recano a Le Barroux per apprendere la corretta celebrazione di questa forma liturgica, con la quale il 24 settembre 1995 lo stesso cardinale Joseph Ratzinger celebrò nella chiesa abbaziale del monastero, presso il quale si era recato in visita.

    In quest’ottica, il fedele che scruta la lunga teoria di monaci fare ingresso nella chiesa abbaziale di Le Barroux al seguito del Padre Abate – che giustamente richiama alla mente la «fortissima stirpe» descritta da san Benedetto nella Regola (1,13) –, sia che vi entrino per l’Ufficio divino cantato in gregoriano, sia che si accingano a celebrare i divini misteri, percepisce bene e in maniera indelebile la definizione data dal celebre abate di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875), secondo il quale «la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità». E così facendo, intuisce la verità di quanto affermato da Benedetto XVI nel discorso già citato, ovvero che «ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura».

    Mercoledì 27 ottobre 2010
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

  3. #3
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    Predefinito Rif: Le Barroux

    A gennaio 2011 è prevista l’uscita della prima traduzione in lingua italiana di un libro di dom Gérard Calvet: La santa liturgia, edita da Nova Millenium Romae, Roma. La casa editrice dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux (sito internet: Abbaye Sainte-Madeleine du Barroux) ha pubblicato nel 2009 il primo volume degli scritti spirituali del fondatore e primo abate del monastero: Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I. Anche il monastero Sainte-Marie de la Garde disponde di un proprio sito Internet: www.jeconstruisunmonastere.com.
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

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    Predefinito Rif: Le Barroux

    La vita contemplativa alla scuola della liturgia

    Romualdica: La vita contemplativa alla scuola della liturgia

    Come non parlare del bene che ci procura la grande, antica scuola della liturgia, non solo come disincanto dalle passioni, ma come soave attrattiva, gusto soprannaturale di Dio, sete di vita eterna per le cose più preziose al mondo. Giacché ci sono due modi per lottare contro il tumulto delle creature che si spartiscono il nostro cuore: lo sforzo umano che proviene da noi e la contemplazione soprannaturale che deriva da Dio. Questi due modi, entrambi buoni e necessari, si situano su piani ben distinti e colorano diversamente la vita spirituale. Il secondo metodo, che chiameremo anagogico o teologale, scaccia l’impurità con la forza dell’amore, grazie all’attrattiva della luce, per il gusto delle cose divine. Corrisponde alle prime età del cristianesimo, allo spirito della liturgia e dei Padri della Chiesa. Suppone l’ascesi, ma la supera.

    Il primo, più attento ai meccanismi naturali di potenza dell’anima, corrisponde alle epoche segnate dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Come sorprendersi che la vita spirituale sia debitrice delle tendenze e dello spirito di una cultura? A partire dal secolo XVI si fa strada un certo naturalismo, riconoscibile anche nei metodi d’orazione, nei quali dominano il gusto per la meditazione discorsiva, l’introspezione e il ricorso alla psicologia. Grandi santi e dottori s’impegneranno allora di evangelizzare, cercandovi la traccia di Dio, le regioni dell’anima dove si manifesta la vita psicologica. Questa non era la proposta dei nostri antichi Padri. Senza dubbio, la lotta contro l’amor proprio, l’ozio e la sensualità richiede un ampio spazio allo sforzo di liberare dai ceppi, al fine di togliere i rovi dal cammino. Ma cosa darà la spinta verso il fine e l’attrazione verso la luce, se non la luce stessa? Come lottare contro il peccato d’impurità, si domandano i moderni? I maestri di antica tradizione rispondono all’unanimità: guardare il cielo; perché solo la speranza del cielo dà il coraggio di lavorare per il cielo.

    La Regola di san Benedetto, praticata sin dal secolo VI, ne offre un chiaro esempio. Riguardo al tema della castità, tutto è espresso in due brevi frasi, con un’estrema discrezione: IV,64 «castitatem amare» («amare la castità»); e LXXII,8 «caritatem fraternitatis caste impendant» («che i monaci manifestino castamente l’amore della carità fraterna»). Punto, è tutto. Invece, il santo legislatore tratta esaurientemente della ricerca di Dio, dell’imitazione di Cristo, della preghiera, del canto dei salmi, dell’«indicibile sovranità dell’amore» (Prologo 49) e della «carità, che quando è perfetta, scaccia il timore» (VII,67). L’esperienza monastica maturata in quattordici secoli porta a concludere che il miglior modo di evitare il peccato consiste almeno nel fare lo sforzo per distogliersene, per guardare in direzione di Dio con perseveranza. Disonoriamo la Luce divina e la sua potenza d’attrazione quando miriamo in basso nel corso del nostro combattimento per la santità.

    Dom Romain Banquet, fondatore e primo abate di En Calcat, designava come punto più elevato della vita monastica, non le mortificazioni corporali - di cui non si privava -, ma «il servizio, la frequentazione e il godere di Dio attraverso l’antica preghiera della Chiesa». Uno dei suoi successori, dom Germain, dava questo consiglio ai suoi giovani monaci: «Nella tentazione bisogna soprattutto incantarsi e cullarsi con la Parola di Dio e il canto dei salmi, come si fa con un bambino al quale non si concede ciò che domanda».

    Gli occhi sono i crocevia dell’inferno, si è detto. Ma non sono allo stesso modo dei crocevia del Paradiso? Non si può lottare contro la visione ipnotica della carne se non con il fascino di una visione più potente e meglio in sintonia con la nostra anima profonda. «O moralista - scrive Claudel ne L’oiseau noir dans le soleil levant - a cosa servono tante spiegazioni, teorie e minacce, se sappiamo che l’immondizia in noi è inconciliabile con lo zaffiro?». Queste apostrofi dei moderni raggiungono il pensiero degli antichi. I primi monaci che hanno cristianizzato l’Europa, all’inizio dell’era cristiana, conoscevano il peso della carne e la necessità del combattimento spirituale. Le loro mortificazioni divenute leggendarie s’identificano, per chi ha uno sguardo superficiale, con la vocazione monastica, ma ciò è un errore di prospettiva; non che questi lottatori infaticabili abbiano disdegnato l’ascesi, ma essi vivevano sin dall’inizio e prima di tutto per il cielo. La prospettiva che li assorbiva del tutto, non era il loro combattimento contro sé stessi, ma la contemplazione di Dio, contemplazione sociale, liturgica, dove il corpo aveva un posto, ed esercitava una funzione. Non contemplavano il peccato per meglio combatterlo, giacché il peccato non può essere oggetto di contemplazione, ma lo combattevano per contemplare meglio, e la loro contemplazione rendeva più felice questa parte dell’educazione severa che ogni ascesi comporta.

    La vita contemplativa, alla scuola della liturgia, realizza ciò che il pensiero riflessivo non ha mai saputo fare: utilizzare l’universo secondo un’accurata scelta, dove partecipano il pane e il vino, l’acqua e l’olio, l’incenso e la cera, il canto sacro umile e sontuoso la cui impareggiabile bellezza lascia il posto ai diritti del silenzio; formule antiche, cesellate con un’arte eccelsa che ci rapisce, come con leggeri colpi d’ala, per l’amore delle cose invisibili. Attraverso un’attrazione casta, la luce scuote in noi solo ciò che merita di entrare nelle regioni celesti, che una grande anima intuitiva (anche se non ha superato la soglia) presentava come sublimi: «Tutti coloro che credono - scrive Simone Weil nelle sue Réflexions sans ordre sur l’amour de Dieu - che ci sia adesso o in futuro, un giorno, del cibo prodotto quaggiù, mentono. Il pane del cielo non fa solo crescere in noi il bene, ma distrugge il male; cosa che i nostri propri sforzi non potranno mai fare. La quantità di male che è in noi non può essere diminuita se non dallo sguardo posto su una cosa perfettamente pura».

    Senza che se ne accorgano, qualcosa senza prezzo mancherà sempre alle anime prive di questa luce. Era il parere di dom Paul Delatte, nella sua biografia Dom Guéranger: «La Chiesa ha ricevuto dal suo Sposo, di cui trasmette la vita e il prolungamento della missione, il modo sacro di pregare, il segreto di fatiche soprannaturali che uniscono le anime a Dio. Se il cristiano si spoglia di questa corrente vivificante, la fede perde subito qualcosa del suo vigore e della sua semplicità, la carità si affievolisce, la devozione diventa personale, ristretta, meschina, tutta confinata nel sentimento d’ordine fittizio e privato, in pratiche senza portata, in piccoli libri senza autorevolezza».

    Se ci venisse domandato quale sia il carattere più sconvolgente, fra tutti quelli che uno spirito filiale e attento può scoprire nella preghiera della Chiesa, non esiteremmo a indicare il gusto poetico dei suoi canti, la forza e l’esattezza dell’influenza dei suoi sacramenti, la ricchezza dei suoi sacramentali, il contenuto sovranamente efficace dei suoi misteri, che imprimono nelle nostre anime la similitudine del Figlio. Sicuramente il carattere di santità riconoscibile nel minore dei riti, nella formula anche la più breve, esprime più di ogni altra l’origine divina di questa istituzione che chiamiamo santa liturgia. Grazie alla sua misteriosa intimità con i cori della Patria celeste ai quali la Chiesa ci fa accedere sotto il velo della fede, possiamo unire le nostre voci a quelle dei nostri fratelli invisibili, e fare umilmente, sotto il loro sguardo, nella sofferenza e nella gioia, conoscenza dell’eternità.

    [Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), L’attirance du ciel, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 252-257, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

    Lunedì 13 dicembre 2010
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    Predefinito Rif: Le Barroux

    Citazione Originariamente Scritto da Bèrghem Visualizza Messaggio
    A gennaio 2011 è prevista l’uscita della prima traduzione in lingua italiana di un libro di dom Gérard Calvet: La santa liturgia, edita da Nova Millenium Romae, Roma.
    La santa liturgia

    [È con vero piacere che annunciamo l’uscita, fissata al 31 gennaio 2011, della prima traduzione in lingua italiana di un libro di dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux. Il volume in questione ha per titolo La santa liturgia (90 pp., euro 10), ed è la versione italiana del testo originariamente edito in Francia, nel 1982, dalle Éditions Sainte Madeleine: La sainte liturgie. Il libro è stato amorevolmente tradotto dalle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo ed è pubblicato dalle edizioni Nova Millennium Romae – di cui ci siamo già occupati presentando la pubblicazione degli Atti delle “Giornate Liturgiche di Fontgombault”, La Questione Liturgica –, presso le quali è possibile sin d’ora prenotare copie del testo, attraverso il contatto e-mail milleromae@virgilio.it. Anticipiamo di seguito il capitolo introduttivo del libro, che ci auguriamo riscuota un’ampia diffusione nel nostro Paese]



    Romualdica: La santa liturgia

    «Ecco, appena la voce del tuo saluto
    è giunta ai miei orecchi,
    il bambino ha esultato di gioia
    nel mio grembo» (Lc 1,44).


    Tre miracoli fioriscono continuamente nel giardino della Sposa di Cristo: la sapienza dei suoi dottori, l’eroismo dei suoi santi e dei suoi martiri, lo splendore della sua liturgia. Et hi tres unum sint! Questi tre elementi sono «una cosa sola» perché la liturgia è per sé stessa un canto unico di sapienza e di amore: essa riassume i due ordini dell’intelligenza e della carità e li sublima in preghiera.

    Non sorprende quindi che quando l’azione liturgica, soprannaturale o sacramentale, colpisce la vista e l’udito, vi percepiamo il segreto del nostro destino e che un «sacro trasalire» s’impadronisca di tutto il nostro essere, come fu per Giovanni il Battista alla voce di Maria. La voce della Sposa, come ravviva il cuore dello Sposo e santifica l’anima dei suoi figli, così ricopre la sua doppia funzione di culto verso Dio e di santificazione delle anime. Senza dubbio, questo trasalire d’amore non può essere per noi quello che fu per Giovanni Battista, ovvero il segno della trasformazione immediata e totale che fece di lui il più grande tra i figli di donna; tuttavia, toccati dal messaggio liturgico, è un annuncio di salvezza e un sapore di vita eterna che ci trasforma poco a poco. Se ci capita di ascoltare questi accenti di un altro mondo risuonare in una lingua sacra, all’interno di uno di questi templi di pietra che gli antichi elevarono con tanta dignità, in profondo accordo con lo spirito di preghiera, penetreremo in un mondo misterioso dove i gesti e i movimenti compongono un’armonia divina, simile a una debole eco dei cantici della città celeste, i soli che siano capaci di distrarci un po’ dalle cose della terra.

    «Sono colpita dalla grandezza delle cerimonie della Chiesa», diceva santa Teresa d’Avila. Se però c’interroghiamo sui segreti della liturgia, sulla sua essenza e la sua relazione con due ordini di grandezza così diversi — la grandezza cosmica nel nostro universo creato e la grandezza soprannaturale del Regno dei cieli — ci accorgiamo che essa ha purtroppo meno rilievo e spazio delle nostre faccende umane.

    Mercoledì 12 gennaio 2011
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

 

 

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