Il berlusconismo ormai al capolinea
di: Filippo Ghira
La crisi del berlusconismo non è soltanto la crisi di un modello politico che il Cavaliere ha creato dal 1994 ad oggi come interprete degli umori dell’Italia moderata e ostile ad ogni tipo di sinistra. L’Italia delle piccole imprese e delle partite Iva che non voleva essere schiacciata dall’accordo tra i grandi gruppi finanziari e industriali, i sindacati, la burocrazia statale e gli eredi del Partito Comunista e dei democristiani di sinistra. Non si è soltanto esaurita una sua spinta propulsiva.
Sta franando anche, è questo per Berlusconi è l’aspetto più preoccupante, proprio quel tessuto sociale che era riuscito a costruire fatto di legami sul territorio e di clientele ereditate dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista che ne aveva rappresentato il punto di forza sia nelle quattro regioni della Padania che in Sicilia. La crisi economica scoppiata nel 2007 ha finito per aggravare le difficoltà di tenuta del partito del presidente soprattutto perché ha fatto percepire a tutti con mano che le possibilità di manovra per incidere sulla politica economica e operare una svolta, sono alquanto limitate. Le risorse a disposizione sono poche. I vincoli di bilancio imposti dall’Unione Europea per restare nel sistema dell’euro non lasciano molti spazi per intervenire in una realtà sociale dove la crescente povertà si fa sentire pesantemente. Le imprese, sia quelle medio-piccole sia quelle grandi, lamentano l’assenza di una politica economica significativa in grado di creare le premesse per cogliere l’occasione di una ripresa economica globale quando questa finalmente si presenterà. Il governo non sta facendo nulla, ha affermato Emma Marcegaglia seguita a ruota da Gianfranco Fini che, non stando al governo, si è potuto permettere di chiedere: “Dove è una politica per lo sviluppo?”.
Contro Berlusconi non sembrano quindi essere soltanto le grandi imprese come la Fiat, seccata, ed è un eufemismo, per il mancato rinnovo degli incentivi alla rottamazione ma sembra progressivamente essersi schierata anche quella sterminata schiera di piccole imprese che subiscono i contraccolpi della globalizzazione con l’irrompere di concorrenti esteri, spesso asiatici, che possono contare su un costo del lavoro che è molto più basso di quello italiano. Il governo o il non governo di Berlusconi, in quanto si trovano al potere in questa fase di passaggio, vengono quindi percepiti come corresponsabili di uno sfascio che vanta però padri antichi in tutti quei politici che dai primi anni sessanta si sono succeduti al potere.
Certamente Berlusconi ci ha pure messo molto del suo dedicando buona parte della sua attività a cercare di schivare gli attacchi della magistratura che, dalla sua discesa in campo, ha aperto contro di lui una impressionante serie di procedure penali, per reati che vanno dal falso in bilancio alla corruttela dei giudici fino alle collusioni mafiose. Oggi, a confermare che ci troviamo di fronte alla fine di un ciclo, queste azioni penali lambiscono anche i due figli di primo letto che hanno in mano la gestione delle società di famiglia e ai quali il premier vorrebbe trasferire la proprietà. Sul Cavaliere pendono peraltro non soltanto i soliti procedimenti legati alla gestione di Mediaset e Fininvest ma anche quelli legati alla realtà siciliana dove i vari “pentiti” di turno lo stanno progressivamente tirando in mezzo partendo dai suoi legami con l’ex stalliere della villa di Arcore, Vittorio Mangano e con Marcello Dell’Utri, già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, per poi concludere la manovra indicandolo come il mandante occulto della strage di Via D’Amelio dove fu ucciso Paolo Borsellino. Una accusa che, se sollevata, provocherebbe una crisi di governo e obbligherebbe Berlusconi alle dimissioni. Una svolta che, al di là delle implicazioni penali tutte da dimostrare in sede giudiziale, porterebbe alle elezioni anticipate o alla nascita di un governo tecnico, guidato da un uomo di fiducia dell’Alta Finanza internazionale, con la partecipazione degli avversari del Cavaliere, ora all’opposizione, e di tutti i potenziali voltagabbana presenti nel centrodestra e pronti a saltare sul carro di quello che si reputerà essere il vincitore. Una figura che per il momento non si vede e che si cercherà di imporre all’opinione pubblica al momento opportuno come una sorta di salvatore della Patria.
Intorno a Berlusconi incomincia così a determinarsi quel vuoto che finirà fatalmente per inghiottirlo. Nelle Regioni della cosiddetta Padania gli elettori del centrodestra stanno progressivamente abbandonando il PdL per convergere sulla Lega. Le elezioni regionali del giugno scorso lo hanno dimostrato. Piccoli imprenditori, liberi professionisti, cittadini comuni ed anche operai hanno sancito con il loro voto il radicamento sociale del Carroccio che non rappresenta più un movimento di opinione e di protesta, come poteva essere in passato ai suoi esordi, ma come un movimento presente ovunque sul territorio. Un po’ come è in Germania la CSU, la democrazia cristiana bavarese che tranne che nella capitale Monaco, controlla tutti i gangli del potere. Non è infatti un caso che la Lega abbia come modello proprio il partito che fu di Franz Josef Strauss. Anche per tale motivo si è determinato il passaggio da motivi paganeggianti come il rito dell’ampolla alle sorgenti del Po sul Monviso, ad una convergenza su posizioni sempre più marcatamente cattoliche.
Le quali però non possono e non vogliono coincidere con quelle della Chiesa, all’insegna dell’accoglienza, in materie quanto mai delicate come l’immigrazione o i campi per gli zingari sulle quali l’elettore tipico leghista nutre sentimenti all’impronta del più acceso rifiuto, pure se è poi perfettamente cosciente che sono i lavoratori immigrati a mandare avanti le fabbriche del Nord.
Non è comunque nemmeno un caso che la Lega fin dai suoi esordi, prima di Mani Pulite, abbia ricevuto massicci finanziamenti da parte tedesca con la prospettiva appunto di trasformare la Padania in un prolungamento della Baviera per sottrarla a quella che da tempo, nell’Europa del Nord, viene considerata la deriva levantina del resto dell’Italia, cioè alla tendenza a guardare di preferenza al mondo arabo e\o nordafricano.
Visto da un’altra visuale, questo altro non è che il vecchio disegno dell’Alta Finanza di spezzare l’unità nazionale dell’Italia per dare vita a tre macroregioni, ognuna indipendente dalle altre.
E’ infatti significativo che recentemente siano stati gli stessi dirigenti della Lega, per premere sulla realizzazione del Federalismo politico e fiscale, a risollevare il tema della indipendenza e della secessione della cosiddetta Padania per la quale, è appena il caso di tenerlo presente, il Carroccio non dispone dei voti necessari.
Se quindi la Lega rappresenta l’abbandono del berlusconismo da parte di quei settori produttivi che mandano avanti l’Italia, in Sicilia che era una roccaforte del centrodestra (nel 2001 vi prese 61 deputati su 61) è invece più palpabile, sulla falsariga del Carroccio, il passaggio delle clientele locali a forze politiche prettamente meridionaliste o localistiche, come il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo, che come ai tempi di Silvio Milazzo che nel 1958 creò una giunta regionale con democristiani dissidenti, comunisti e missini (!), ha mandato all’opposizione i berluscones e governa appoggiato dai finiani, dal PD e dall’Italia dei Valori. Siamo quindi di fronte a gruppi sociali ed economici che si organizzano sia in funzione del dopo Berlusconi sia in funzione delle modalità in cui verrà a realizzarsi il federalismo e della sua sostenibilità economica.
Berlusconi, oltre a queste che sono difficoltà squisitamente politiche, continua a dare l’idea di essere preoccupato soprattutto delle sue vicende personali anzi intime.
Tutte le storie che stanno emergendo sull’andirivieni di donnette allegre e di sgallettate varie alla Villa di Arcore e a Palazzo Grazioli, unite alle dichiarazioni pubbliche sulla propria potenza sessuale, offrono una immagine imbarazzante dell’uomo Berlusconi che sembra aver perso il senso di quello che dovrebbe essere il rispetto di se stesso. E che anzi continua a peggiorare la situazione come quando parla in sinistrese difendendo il suo “stile di vita” e quando racconta barzellette di dubbio gusto che variano da quelle sugli ebrei a quelle a sfondo sessuale rinforzate da riferimenti al Viagra e al Cialis.
Il Cavaliere dà quindi l’idea di volersi scavare la fossa sotto i piedi e sembra non rendersi conto che si sta realizzando la saldatura tra i suoi nemici interni e quelli esteri, in particolare quelli anglosassoni.
Questi trovano la prima ragione della loro ostilità non tanto perché Berlusconi è ritenuto “unifit” (inadatto a governare, scriveva l’Economist), quanto nel fatto che il capo del governo ha realizzato attraverso l’Eni una politica energetica continentale che bypassa gli interessi e il ruolo delle majors petrolifere anglo-americane e anglo-olandesi.
Ma poiché un vuoto di potere non fa piacere e non serve a nessuno, l’unico ostacolo che impedisce a costoro di muoversi e di infliggergli il colpo decisivo, è quello di trovare un sostituto. I nomi non mancano: Fini o Casini, Draghi, Monti e Padoa Schioppa. O lo stesso Tremonti con il ruolo del Badoglio di turno.
Il quale sostituto, per prima cosa, avrà l’incarico di risolvere l’anomalia di un Paese che oggi come ieri pretende di avere una propria indipendenza energetica. E quindi vendere il 30% dell’Eni ancora in mano pubblica. Casini, ad esempio, si è detto favorevole. Per gli altri quattro non c’è bisogno di chiederselo.
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