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Discussione: La Bibbia e il fucile

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    Predefinito La Bibbia e il fucile

    Cari amici, spero di farvi cosa gradita nel postare qui una mia breve storia del conservatorismo americano. Buona lettura.

  2. #2
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    Predefinito Rif: La Bibbia e il fucile

    La Bibbia e il fucile
    Breve storia del conservatorismo americano

    di Florian


    La Bibbia, simbolo della tradizione e della legge morale; il fucile, sinonimo di individualismo e di libertà. Tra questi due estremi si muove la destra USA, un movimento liberale e conservatore che non ha eguali nel mondo occidentale perché trae giustificazione dai peculiari aspetti della storia americana.

    Questi conservatori amano considerarsi dei “tipici americani” e sono orgogliosamente individualisti, figli lontani dei pionieri che costruirono le loro fortune grazie ad una vanga e ad un fucile; nemici di uno Stato che di sovente ha limitato e persino osteggiato la loro conquistata libertà; individualisti e ultratradizionalisti al tempo stesso, nella consapevolezza di una tradizione rappresentata dall’antistatalismo. Fieri oppositori di una sinistra che, nel tentativo di appianare ogni disuguaglianza, ha seguito l’influsso europeo, finendo col diventare un prodotto d’importazione, un-american.

    Se il conservatorismo americano affonda le sue radici agli albori della repubblica, esso acquista politicamente una sua forma definita soltanto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, grazie al Conservative Movement, movimento di idee che ha esercitato un rilevante ruolo nel dibattito filosofico e politico statunitense grazie soprattutto all’azione dei Presidenti Ronald Reagan (1980-1988) e George W. Bush (200-2008).

    Un conservatorismo “genuinamente” americano

    Ancora negli anni cinquanta l’America viveva una stagione in cui l’antisovietismo in politica estera si sposava in patria con l’apogeo del liberalismo rooseveltiano, uscito vincitore della crisi economica del ’29 e della guerra contro le potenze nazifasciste. La mancanza di una seria opposizione conservatrice o di destra portò alcuni intellettuali progressisti a magnificare le sorti del liberalism americano, considerandolo storicamente quale l’unica vera e propria tradizione politica nazionale. Per spiegare alcune sensibili differenze tra i liberali americani Louis Harz sottolineò come il pensiero lockiano, per adattarsi ad una società americana in cui era mancata la fase feudale, aveva talvolta preso le forme di un irrazionalismo nazionalista ignote alle sue controparti europee. Era potuto accadere perciò che, in alcune sue fasi storiche, il liberalismo americano avesse assunto i contorni, piuttosto bizzarri, di un “americanismo” conservatore.

    Un altro brillante politologo progressista, Richard Hofstadter, muovendosi non lontano dallo Harz, aveva disconosciuto l’esistenza di un conservatorismo americano e relegato il fenomeno dell’anticomunismo “maccartista” alla stregua di una forma paranoide che saltuariamente prendeva corpo nella politica americana. Con questa immagine colorita, lo scienziato voleva rassicurare i liberali e i socialdemocratici europei scottati dalla piega che aveva preso la politica statunitense negli anni di Truman e di Eisenhower.

    Contemporaneamente in Europa il conservatorismo era rappresentato politicamente dai De Gaulle, Adenauer, Churchill e intellettualmente dagli Aron, Berlin, Oakeshott. Questi conservatori liberali erano disillusi dall’idea di poter invertire il corso della storia e si accontentavano di moderare gli slanci delle sinistre gestendo al meglio lo Stato assistenziale prodotto dal New Deal, considerato positivamente quale argine alle rivendicazioni sociali delle masse.

    Diversamente, il conservatorismo che prese piede in America a cavallo degli anni sessanta non si riprometteva di mantenere lo status quo, ma al contrario di ripristinare antichi principi. Quando si impose sulla scena politica il senatore dell’Arizona Barry Goldwater, il nascente conservatorismo che si identificò nella sua leadership fu valutato su entrambe le sponde dell’oceano come una semplice patologia della politica e gli si dedicò poca attenzione pensando che sarebbe stato facilmente riassorbito nei canali tradizionali del moderatismo repubblicano. Ma il “goldwaterismo” rappresentò solo il primo momento di un movimento culturale e politico che contrariamente a tutte le previsioni era destinato a diventare concorrenziale al progressismo liberal.

    La coalizione di Goldwater

    L’humus naturale del nascente conservatorismo americano fu l’antistatalismo della Old Right, la “Vecchia Destra” isolazionista e pro-mercato che aveva combattuto strenuamente, ma con poco successo, una coalizione democratica rooseveltiana che aveva catturato il consenso di gran parte degli americani intorno ad uno Stato interventista tanto in economia quanto in politica estera.

    Le idee della Old Right, pesantemente attaccate ed ostracizzate durante e dopo il conflitto mondiale, ritornarono sulla scena politica durante gli anni della Guerra Fredda. Grazie ad organizzazioni come la Mont Pelerin Society, della quale esponente di spicco fu l’economista Henry Hazlitt, e ad esponenti della Scuola Austriaca di Economia quali Friedrich A. von Hayek e Ludwig von Mises. Nelle opere di questi autori la ripresa delle idee liberiste si accompagnò alla denuncia vigorosa che le politiche del New Deal stavano portando l’America a voltare le spalle ai suoi ideali di libertà e a volgersi incontro al socialismo e dunque il totalitarismo.

    Poco letta in Europa, l’opera “The Road to Serfdom” di Hayek riscosse negli USA un grosso successo che contribuì fortemente al recupero del pensiero liberista, insieme ad “Atlas Shrugged”, il romanzo pro-capitalismo della filosofa e letterata russa Ayn Rand. La Rand era l’esponente di un liberismo ancor più radicale di quello di Hayek, altrimenti noto come libertarianism. I libertarians si ponevano sulla scia della tradizione individualista e anarco-capitalista americana dei Frank Chodorov, il cui antesignano fu Alfred J. Nock, progenitore tanto del movimento libertario quanto del nascente conservatorismo. L’individualismo radicale e pessimista di Nock rappresentò infatti il punto di coagulo tra la scuola libertaria e l’anticomunismo individualista o jeffersoniano che si stava costituendo attraverso figure quali William F. Buckley, Frank S. Meyer e Whittaker Chambers.

    Buckley, oltre a lanciare sul territorio l’organizzazione giovanile Young Americans for Freedom, animò la rivista conservatrice National Review, che accolse tra i suoi collaboratori, oltre ad un anticomunista di spicco quale James Burnham, anche l’apporto di un terzo gruppo di intellettuali conservatori, vale a dire i tradizionalisti Russell Kirk, Richard M. Weaver e Robert A. Nisbet, che abbinavano la difesa delle libertà economiche con la difesa della tradizionale religiosità cristiana e l’amore per le piccole comunità. Kirk ebbe il merito nel suo “The Conservative Mind” di tracciare una genealogia del pensiero conservatore angloamericano dalle origini della Repubblica e di promuovere il piacere per la letteratura e l’arte in un ambito interessato prevalentemente alle analisi politiche e alle statistiche sociali.

    I tradizionalisti, che difendevano la cultura agraria e sudista, si ricollegavano al movimento letterario dei Southern Agrarians e al pensiero di Edmund Burke, grazie al cui recupero nel dibattito politico americano poterono opporre una lettura liberal-conservatrice della rivoluzione americana distinta dalla rivoluzione francese, di segno giacobino.

    La National Review ebbe il merito di tradurre in formula politica i vari influssi conservatori elaborando il “fusionism”, vale a dire un programma conservatore e liberale classico al tempo stesso, poggiante sulle tre gambe del libero mercato, della religione cristiana e dell’anticomunismo. Dopo aver sostenuto la battaglia anticomunista di Joe McCarthy, la National Review trovò il rappresentante ideale del suo fusionismo nel Senatore repubblicano Barry Goldwater, il cui libro-manifesto “The Coscience of a Conservative” impose per la prima volta in America il conservatorismo quale soggetto politico riconosciuto.

    La New Right di Goldwater e Buckley era per molti versi la naturale evoluzione della Old Right prebellica e postbellica raccoltasi attorno a Herbert Hoover e Robert Taft. Con un’importante punto di rottura rappresentato dalla politica estera: la necessità di una forte posizione anticomunista fece sì che il tradizionalismo repubblicano lasciasse il posto ad un nazionalismo ancora più aggressivo di quello democratico.

    Goldwater, liberista convinto, venne giudicato estremista a causa del suo famoso slogan: «L’estremismo in difesa della libertà non è un vizio, la moderazione nel perseguire la giustizia non è una virtù». Riuscì anche a scandalizzare le destre europee proponendo apertamente di bombardare il Vietnam «fino a farlo regredire all’età della pietra». Ma ciò che destò maggiore preoccupazione in America fu la sua posizione in merito ai diritti civili. Il Senatore si diceva a favore dei diritti degli Stati, il che per quanto riguardava il Sud in rivolta si traduceva in un appoggio indiretto alla segregazione. Ce n’era abbastanza per scandalizzare e infatti scandalo fu. Goldwater venne calunniato e dipinto univocamente come un “radicale di destra”, cosa che gli fece perdere rovinosamente il confronto presidenziale con Lyndon Johnson, ma non per questo impedì il maturare in casa repubblicana di una coscienza di stampo populista, critica verso le élites tradizionali della East Coast rappresentate dalle famiglie Kennedy e Rockefeller.

    Tuttavia, malgrado alcune uscite imbarazzanti, il Conservative Movement mirava al mainstream e Buckley aveva allo scopo allontanato la sua National Review dai soggetti più radicali quali la Rand e la John Birch Society che arrivò ad accusare di comunismo persino il Presidente Dwight Eisenhower.

    Da Nixon a Reagan

    Dopo la pesante sconfitta alle presidenziali del ’64 il testimone del conservatorismo passò nelle mani di Ronald Reagan, il famoso ex attore, che in qualità di governatore della California aveva contrastato ferocemente la controcultura giovanile procurandosi, al pari di John Wayne, la fama di reazionario. Sotto la leadership di Reagan prese corpo la cosiddetta New Right, animata sul territorio da attivisti politici quali Paul Weyrich, Richard Viguerie e Phyllis Schlafly.

    Tuttavia quattro anni più tardi il popolo conservatore dovette scegliere fra il repubblicano Richard Nixon, moderato ma non ostile alle politiche conservatrici, e il democratico indipendente George Wallace che da governatore dell’Alabama si era opposto alla legge di Stato che impose l’integrazione razziale nelle scuole del Sud. Wallace divenne la bestia nera della New Left, di quel mondo radical chic che invitava le Pantere Nere armate nei suoi salotti bene, come ebbe modo di ironizzare, anni dopo, il romanziere Tom Wolfe. Erano tempi in cui il rock invitava i giovani a lasciare famiglie e culture d’origine per seguire il nuovo verbo multirazziale, sperimentare droghe, darsi all’amore libero, etc. Tutto ciò a cui Wallace tenacemente si opponeva.

    Nixon riuscì a catturare buona parte della destra scegliendo come suo vice il conservatore del Sud Spiro Agnew. Per contrastare i disordini giovanili si appellò alla “maggioranza silenziosa”, tuttavia la scelta di proseguire le politiche economiche interventiste delle precedenti amministrazioni democratiche venne valutata in termini non soddisfacenti dai conservatori. Dopo il Watergate, l’insoddisfazione nei confronti delle èlites repubblicane montò a dismisura per la scelta dei neopresidente Ford di scegliere come l’odiato Nelson Rockefeller quale vice. Il sindaco di New York rappresentava infatti esattamente ciò che i conservatori più disprezzavano: il ricco liberal cosmopolita della costa orientale.

    Nel 1976 il partito Repubblicano pagò il conto dello scandalo Watergate e sembrò talmente in crisi che molti commentatori arrivarono ad ipotizzare una sua imminente scomparsa dalla scena politica. Forse anche per questo motivo negli ambienti conservatori si valutò l’idea di un ticket Reagan-Wallace indipendente, che raccogliesse in tal modo l’intera area della destra. L’ipotesi non andò in porto (e sarebbe stato comunque difficile far convivere il liberismo reaganiano con lo statalismo di Wallace); per di più, contrariamente alle pessimistiche previsioni, il Partito repubblicano nonostante la sconfitta elettorale riuscì a risollevarsi grazie alla pessima prova del governo Carter. Tuttavia, per diventare il favourite son repubblicano, Reagan dovette parzialmente modificare il proprio linguaggio e i propri impegni politici, invitando nella casa conservatrice forze assai diverse da quelle che tradizionalmente la abitavano.

    L’ascesa dei neoconservatori e della destra religiosa

    Il movimento conservatore, che ai tempi di Goldwater era composto essenzialmente da tradizionalisti e libertari del mid-west, dai primi anni settanta accentuò invece la sua base “sudista”, attirandosi i favori di un’ampia fetta di elettorato democratico insofferente alle politiche del proprio partito, favorevole ai diritti civili e multilateralista in politica estera. Contemporaneamente i dissidi tra i tradizionalisti e i libertari avevano portato parte di questi ultimi ad abbandonare la casa repubblicana per dar vita ad un terzo partito: il Libertarian Party. Ad animarlo era il filosofo ed economista Murray Rothbard le cui posizioni superavano a destra i repubblicani (economia) e a sinistra i democratici (cultura). L’isolazionismo spinto di Rothbard portò addirittura i libertari ad un’alleanza tattica con la New Left contro la guerra del Vietnam.

    Alla defezione dei libertari più estremisti il Conservative Movement ovviò accogliendo tra le proprie fila un blocco sociale portabandiera delle tematiche religiose da quando la Corte Federale liberal aveva legalizzato il diritto di aborto (Roe vs Wade). Grazie al reverendo Jerry Falwell e alla Moral Majority, la destra religiosa (o più propriamente cristiana visto il ruolo predominante di battisti del Sud, pentecostali e mormoni) si raccolse progressivamente intorno al partito dell’elefante divenendone alfine una componente stabile e assolutamente rilevante. L’ostilità alla controcultura atea e irreligiosa portò quest’area, ex democratica in quanto tradizionalmente sospettosa verso il capitalismo, ad accettare l’agenda free-market dei repubblicani. I quali, dal canto loro, furono “costretti” a farsi carico di battaglie culturali in precedenza estranee al loro programma, prima di tutte quella contro l’aborto.

    Tuttavia questa destra religiosa divergeva non solo dai libertari ma anche dagli stessi tradizionalisti in quanto fondava la virtù non sulle consuetudini burkeane ma sull’autorità della Bibbia. Pur divisa al suo interno tra estremisti (fondamentalisti) e moderati (evangelicals), nel suo complesso la destra religiosa era un movimento fondamentalmente democratico che negli anni aveva accettato il portato delle battaglie di Martin Luther King e la sua stessa figura di predicatore. Al tempo stesso la teologia dispensazionalista li portava ad essere i maggiori sostenitori in politica estera dello Stato d’Israele.

    L’elettorato religioso e sudista che si raccolse intorno a Ronald Reagan nel 1980 era ancora parte dei Reagan’s Democrats, un movimento democratico che aveva voltato le spalle al proprio partito dopo la delusione patita sotto la Presidenza Carter. L’afflusso di queste componenti populiste e religiose venne favorito in special modo dall’azione intellettuale dei cosiddetti neoconservatori, intellettuali di estrazione liberal, i quali, forti della loro maggiore rispettabilità rispetto ai conservatori tradizionali, inserirono nell’agenda repubblicana issues del tutto nuove che modificarono in buona parte l’essenza stessa del conservatorismo americano.

    Grazie a figure quali Irving Kristol, Norman Podhoretz o Jeane Kirkpatrick, il neoconservatorismo aiutò il movimento conservatore a non essere più una forza marginale e di rifarsi all’intera vicenda americana e non solo a parte di essa. I Reagan’s Democrats appartenevano generalmente alle classi mediobasse e mantenevano riserve riguardo le economie liberiste di Milton Friedman e dei Chicago Boys. E poiché questi ex democratici, come la maggioranza degli americani, avevano ancora un’alta considerazione del New Deal, l’obiettivo critico dei neoconservatori si spostò sulla Great Society di Lyndon Johnson, della quale si sottolinearono gli sprechi e le inefficienze. Questa parziale virata al centro marginalizzò la sinistra che negli anni del reaganismo fu ridotta ad un agglomerato di vecchi hippies coi quali il Partito democratico si trovò, suo malgrado, a essere identificato.

    I neoconservatori offrirono inoltre alla coalizione reaganiana, attraverso il deputato del GOP Jack Kemp, una rinnovata economia liberista fondata sull’offerta (Reaganomics), che enfatizzava l’aspetto della crescita economica rispetto alla tradizionale attenzione degli economisti repubblicani per la riduzione del debito pubblico. Mantenendosi alla larga dall’anarchismo filosofico dei libertari, i neocons consideravano inutile attaccare lo Stato in quanto tale, poiché questo era ritenuto funzionale alla vita democratica. Oltretutto, la pretesa che il New Deal portasse di fatto al totalitarismo (Hayek) era considerata senza alcun dubbio eccessiva.

    I neocons condividevano inoltre la preferenza degli americani per i Presidenti “forti” - quali furono Lincoln, Teddy Roosevelt e Franklin Roosevelt -, laddove la tradizione “old conservative” prediligeva invece i Presidenti “deboli”, soggetti al potere decisionale del Congresso. E grazie a Reagan, Presidente conservatore e decisionista, anche questa tradizione fu intaccata.

    Accanto al ruolo dello Stato e della Presidenza, il neoconservatorismo pose anche la questione della preminenza della “Grande Politica” su quella piccola, della visione internazionale su quella meramente locale. La Grande Politica neoconservatrice, debitrice della dottrina del Destino Manifesto, combinata all’enfasi sui diritti umani, si volse inizialmente contro il comunismo russo e i suoi satelliti. Una volta caduto il nemico di sempre, i conservatori considerarono, sulla base della sociologia, l'inarrestabile successo della democrazia in tutto il mondo, si rallegrarono di ciò, e si preoccuparono di favorire questo processo a vantaggio della supremazia politica dell'America e dei suoi interessi economici.

    L’interregno di George Bush e le scuole straussiane

    Gli ultimi anni del reaganismo sono ricordati dalla storia come quelli della distensione con il grande nemico sovietico e dei summit con Gorbaciov. Tuttavia furono anche gli anni in cui le contraddizioni interne alla destra conservatrice al potere esplosero in tutta la loro virulenza.

    Nel 1988 Ronald Reagan consegnò il testimone repubblicano a George H. Bush lasciandogli uno Stato in grave crisi di bilancio e una società dilaniata da nuove guerre culturali. Se non fosse stato per il fascino personale del Presidente uscente e dalle divisioni in campo democratico, Bush sarebbe stato probabilmente sconfitto dal suo oppositore democratico Michael Dukakis. Dopo otto anni repubblicani la nazione sembrava stanca e chiedeva un cambio di marcia.

    George Bush promise ai suoi elettori un’America “gentile”, maggiormente ancorata alla tradizione, e provò a carezzarsi la base dei cristiani evangelici che avevano supportato Reagan ma erano rimasti indignati da quel reaganismo libertario, che svincolava l’individuo da ogni regola morale. Nonostante fosse un bramino dell’East Coast, Bush si adoperò molto per trattenere nel partito la componente religiosa e sudista e più del suo predecessore si contornò di musicisti country e di ragazze pon pon, retaggio di una nazione dai valori sani e maschi in luogo dei nuovi stili di vita intenzionati a negarli. Tuttavia non riuscì a vincere la diffidenza del movimento conservatore che durante i suoi quattro anni di interregno si dilaniò in furibonde polemiche intestine. Se all’epoca di Goldwater il dibattito interno al movimento vedeva opposti tradizionalisti e libertari circa la preminenza da dare, rispettivamente, alla virtù o alla libertà, la fine degli anni ottanta vide giocare un ruolo significativo dalle cosiddette scuole straussiane, il cui apporto filosofico finì col segnare la fine del fusionismo goldwateriano, ridisegnando completamente la fisionomia del conservatorismo americano.

    Gli straussiani erano discepoli del filosofo ebreo tedesco Leo Strauss, emigrato in America in seguito alle persecuzioni razziali. Per Strauss il problema filosofico dei nostri tempi era costituito dal relativismo, che aveva reso possibile Hitler e che doveva essere combattuto con le armi del razionalismo. Un razionalismo però classico e non moderno, colpevole di portare con sé la deriva nichilista. Strauss condivideva la critica di Platone alla democrazia ed era critico del sistema americano che vedeva inevitabilmente segnato dal “veleno” liberale. Tuttavia – e qui la sua riflessione si rivelò di fondamentale importanza per i conservatori – egli vedeva nel Founding americano l’impronta non solo dell’elemento moderno, liberale, ma anche di quello classico e biblico. La natura dell’America e la sua divergenza verso un’Europa definitivamente modernizzata, consisteva proprio in quella coesione di elementi biblici, classici e moderni che era stata sottolineata già nell’Ottocento da Alexis de Tocqueville.

    Per quanto Strauss non si interessò mai alla politica in senso stretto, le scuole straussiane approfondirono i risvolti politici dell’insegnamento, spesso oscuro, del maestro. Sull’interpretazione da dare ai suoi testi, esoterica o essoterica, si divisero rispettivamente gli straussiani dell’est - Walter Berns, Thomas Pangle, Allan Bloom - e gli straussiani dell’ovest - Harry Jaffa del Claremont Institute. I primi consideravano l’America come fondamentalmente “moderna”, mentre i secondi sottolineavano maggiormente la sua fedeltà alla tradizione classica e biblica. Tra gli straussiani dell’est ebbe risonanza internazionale il filosofo Allan Bloom che nel 1987 pubblicò, sotto consiglio dell’amico scrittore Saul Bellow, un pamphlet che attaccava con durezza la deriva nichilistica e relativistica delle Università americane, prone alla controcultura della New Left.

    Nonostante l’anticonvenzionalità delle tesi, “The Closing of American Mind” (La chiusura della mente americana) divenne un best seller e il conservatorismo americano conquistò un ruolo anche nel dibattito accademico (anche se il “reaganiano” Bloom non era propriamente un conservatore quanto un liberal disilluso). Nella sua opera l’Autore sperava di porre rimedio a quella che considerava una involuzione dell’insegnamento universitario attraverso la ripresa dei classici della letteratura e richiamando gli americani alla difesa dei diritti naturali, dimenticati a vantaggio di nuovi diritti.

    Se i neocons furono fortemente influenzati dagli straussiani dell’est, esaltando un approccio tocquevilliano in difesa del capitalismo democratico, questa svolta liberale ed illuminista del neo-conservatorismo indusse alcuni vecchi conservatori, tradizionalisti, a passare all’offensiva giocando un ruolo più politico.


    Fine prima parte.

  3. #3
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    Predefinito Rif: La Bibbia e il fucile

    Buchanan e la rinascita della Old Right

    In opposizione ai neoconservatori nacquero, così, i paleoconservatori. Un piccolo ma agguerrito numero di columnist - Tom Fleming, Samuel Francis, Mel Bradford, Paul Gottfried, Claes Ryn – asserragliati nel Rockford Institute, le cui tesi erano pubblicate dalla rivista Chronicles. I paleocons, che muovevano sulla scia di Russell Kirk, denunciarono con asprezza le commistioni del pensiero neoconservatore col progressismo liberal e dal canto loro i neocons accusarono i tradizionalisti di essere “in guerra con la modernità. Di aver portato “nel movimento conservatore una lista di abiezioni già da tempo divorate dalle febbri malariche. […] Tale elenco comprende il nativismo, l’antisemitismo, la xenofobia, l’inclinazione all’autoritarismo politico e tutte le altre malattie del ressentiment che prosperano ai margini della vita americana.” Per il neocon Richard J. Neuhaus il successo del conservatorismo reaganiano era al contrario da ascriversi proprio all’accettazione di quel pluralismo democratico tanto inviso alla vecchia destra.

    Sul piano della politica estera, la caduta del muro di Berlino e la sconfitta storica del comunismo privarono i conservatori si quello che era stato il maggiore collante delle diverse fazioni. Lo straussiano Francis Fukuyama, allievo di Bloom, nel suo “The End of History” (La fine della Storia), sottolineò come dopo la caduta dell’URSS il mondo sembrava indirizzarsi unitariamente verso l’orizzonte del capitalismo liberale che in luogo dell’utopia marxista avrebbe rappresentato la fine della Storia. Tuttavia questa riflessione, in fluentissima nel dibattito corrente ebbe svariate critiche in ambito conservatore. Il capitalismo liberale e la democrazia globale potevano essere apprezzate da neocons e straussiani, ma non dalle vecchie componenti del movimento, in particolar modo dai tradizionalisti e dai paleoconservatori.

    Nel 1992 George Bush prima di confrontarsi col giovane rivale progressista Clinton, dovette superare nelle primarie di partito l’opposizione interna costituita da Pat Buchanan, un brillante commentatore politico che aveva lavorato per Nixon e Reagan e che si era fatto portavoce delle istanze paleoconservatrici.

    Il Presidente repubblicano aveva vinto col generale Schwarzkopf la Guerra del Golfo, ma essendo un politico pragmatico e poco avvezzo alle ideologie la cosa passò in second’ordine e a molti conservatori rimase l’impressione di avere davanti un politico senza polso e mancante di una vision. Oltretutto aveva preso la decisione fatale di frenare il debito aumentando l’imposizione fiscale, poco meno di una bestemmia tra i conservatori reaganiani.

    Buchanan provò ad intercettare il sentimento dell’americano medio che si era sentito impoverito rispetto all’élite cosmopolita, l’unica ad essersi veramente avvantaggiata dei benefici dal Nuovo Ordine Mondiale. Nella sua opposizione a George Bush si trovò come alleati, oltre ai paleocons, anche un gruppo di libertarians che, guidati dal vecchio “Old Rightist” Murray Rothbard avevano rotto con il Libertarian Party per la deriva sinistrorsa e controculturale dei suoi aderenti (left-libertarians).

    Nel 1990 Rothbard e Lew Rockwell del Ludwig von Mises Institute dettero vita al movimento paleolibertario che sul piano ideale collegava la libertà economica alla tradizione culturale giudaico-cristiana e sul piano sociale si dichiarava fautore dello stile di vita borghese.

    I paleolibertari, tra cui Justin Raimondo, alleatisi con i paleocons, tentarono di resuscitare la coalizione della Old Right anteguerra al grido isolazionista di America First, sostenendo nel ’92 Buchanan contro il Nuovo Ordine Mondiale. I temi di politica interna che accomunavano i paleos erano il localismo, la detassazione, limiti all’immigrazione indesiderata e la fine dell’affirmative action, oltre alla difesa della civiltà occidentale, minacciata dalla nuova ideologia progressista del politically correct. A dividere i paleos era soltanto la questione del libero scambio, che vedeva Rothbard sposare la causa liberista e Buchanan quella protezionista.

    Gingrich e il “Contract with America”

    Dopo essere stati per dodici anni ininterrottamente al governo i repubblicani uscirono sconfitti dalle presidenziali del 1992 che videro l’affermazione del giovane Bill Clinton, astro nascente del Partito democratico. Tuttavia Bush sarebbe stato rieletto se l’indipendente Ross Perot non avesse intercettato quale terzo sfidante parte del malcontento contro Wall Street di cui si erano fatti portavoce i paleoconservatori.

    Clinton fu eletto su una piattaforma progressista volta a risanare il debito attraverso la leva fiscale e su un programma di riforme sociali che riportavano in auge i temi cari alla sinistra radical, tra cui su tutte la riforma sanitaria fortissimamente voluta dalla First Lady Hillary Clinton, la quale ebbe un ruolo politico nella nuova amministrazione democratica. Contro la Clinton, più radicale del marito, conversero le critiche del mondo conservatore che ne fece il proprio bersaglio preferito.

    Il primo biennio dell’amministrazione democratica rappresentò l’apoteosi del politically correct e la celebrazione del “diverso” in tutte le sue declinazioni possibili: dai gays, alle femministe, alle minoranze etniche. Clinton sembrò elargire ai progressisti americani tutto ciò per cui la New Left si era battuta negli anni sessanta e i conservatori rimasero spiazzati dalla facilità con la quale i loro avversari, dopo tre presidenze repubblicane, erano riusciti a rimodellare l’America a loro immagine e somiglianza.

    Questa sovraesposizione liberal, per un Presidente che si era proposto al contrario come “centrista”, aprì una profonda spaccatura nella società americana, rimettendo in sella i social conservatives di cui si fece interprete il leader repubblicano alla Camera Newt Gingrich.

    Gingrich era un conservatore fiscale con una passione per la sociologia “futurista” dei coniugi Toffler. Con grande abilità riuscì a riorganizzare il movimento conservatore su una piattaforma liberista e tradizionalista al tempo stesso che diede origine al Contract with America con cui i politici repubblicani si impegnavano con i loro elettori a riportare gli Stati Uniti laddove Reagan li aveva lasciati. Grazie al Contract i repubblicani vinsero le elezioni di mid-term del ’94, un risultato storico che riportò il Congresso sotto controllo repubblicano.

    Uomo dell’anno di Time e candidato in pectore dei repubblicani contro Clinton alle successive presidenziali, Newt Gingrich aveva ridato un futuro al conservatorismo tradizionale, ma da uomo pragmatico era riuscito a catturarsi il sostegno anche della Christian Right del telepredicatore pentecostale Pat Robertson e dei neoconservatori di nuova generazione, guidati da Bill Kristol, figlio di Irving, che era stato già il “cervello” di Dan Quayle, il vice di Bush.

    Nonostante il Congresso repubblicano bloccasse di fatto i propositi riformisti della Casa Bianca, Clinton fu abile nello spuntare le armi ai suoi avversari politici accettando di governare da “repubblicano alla Eisenhower”. Grazie alla gabbia impostagli dal Congresso repubblicano Clinton riuscì a far ripartire l’economia americana prendendosene tutti i meriti e arrivando così al rinnovo del suo mandato in posizione di forza. Sulla sponda repubblicana si consumò invece l’ennesimo scontro tra moderati e populisti che portò il partito a convergere sulla scialba candidatura dell’anziano Bob Dole.

    La vittoria dei moderati si era consumata ai danni dell’ala reaganiana rappresentata dai libertari del Cato Institute e da Steve Forbes che lanciò in ambito conservatore la flat tax, ovvero la proposta di un’aliquota uguale per tutti al 17%; e della destra cristiana, in cui si confrontavano ormai due posizioni: quella più pragmatica del giovane Ralph Reed, erede di Robertson e già integrato nella macchina del partito, e quella massimalista di Jim Dobson del Focus on the Family e Gary Bauer di Family Research Council, più inclini ad appoggiare l’eterno sfidante Buchanan. Quest’ultimo aveva accentuato le proprie posizioni populiste (pro-sindacati) e protezioniste perdendo così l’appoggio dei paleolibertari, la cui guida intellettuale, con la morte di Rothbard (1995), era passata ad Hans Hermann Hoppe.

    I repubblicani, sconfitti, continuarono ad attaccare con forza la Presidenza, in quello che a molti iniziò a sembrare un accanimento ingiustificato. Quando scoppiò lo scandalo Lewinsky, Gingrich cavalcò la campagna moralizzatrice condotta dal repubblicano Kenneth Starr contro il Presidente fedifrago in quella che Hillary Clinton definì con una frase che restò celebre una “Vast Right-Wing Conspiracy”.

    La campagna anti-Clinton mossa da Gingrich e dalla Christian Right aveva come scopo l’impeachment, tuttavia il Presidente democratico si giovò dei risultati delle elezioni di mid-term del 1998, che decretarono sì la vittoria dei repubblicani, ma in dimensioni minori del previsto. Un risultato che paradossalmente premiava la Presidenza e condannava Gingrich, uscito moralmente sconfitto dalla competizione elettorale.

    Apogeo e crisi del neoconservatorismo

    L’unica nota positiva delle elezioni del ’98, per i conservatori, fu rappresentata dall’ascesa sul piano politico nazionale di George W. Bush, figlio dell’ex Presidente rispetto al quale era considerato più conservatore, che si impose nuovamente come governatore del Texas.

    Lanciato alla guida del GOP per le presidenziali del 2000, George W. Bush fece campagna elettorale su posizioni moderatamente conservatrici, lanciando lo slogan caro alla destra cristiana di un “conservatorismo compassionevole”. Alla fine di una lotta serrata contro John McCain, un eroe di guerra, resosi protagonista di una campagna durissima dai toni fortemente jacksoniani, Bush Jr. vinse le resistenze del mondo conservatore in virtù della sua vicinanza alla destra cristiana (Bush era un born again christian) e la promessa di interessarsi più alle vicende domestiche che alla conquista del mondo.

    Dopo la rocambolesca vittoria contro l’avversario democratico avvenuta dopo giorni interminabili di conteggi e riconteggi che ridicolizzarono l’America davanti al mondo, e conquistata grazie all’intervento della Corte Suprema che gli assegnò la vittoria, Bush divenne per i suoi detrattori un “Presidente per caso”. La sua Amministrazione contava politici di stampo “realista” come Colin Powell e Condoleezza Rice, mentre Donald Rumsfeld e Dick Cheney provenivano dall’entourage moderato di Gerald Ford. Pochi i conservatori autentici (John Ashcroft alla giustizia) e solo uno tra i neoconservatori (Paul Wolfowitz).

    Fu l’11 settembre 2001, con l’attentato dei terroristi talebani alle Torri Gemelle a cambiare i piani di Bush facendone il “commander in chief” di una nazione in guerra. Attorniato dai falchi neocons e dalle colombe realiste, Bush finì col privilegiare la visione idealista dei primi che lo portò ad abbracciare l’esportazione della democrazia teorizzata dai Wolfowitz, Kristol, i Podhoretz (“The Third World War”, La Terza Guerra Mondiale) e da Robert Kagan, il cui “Paradise and Power” (Paradiso e potere) ha messo provocatoriamente a confronto la visione delle relazioni internazionali di qua e di là dell’Atlantico.

    Mentre nelle pagine della National Review si consumava l’ennesimo, durissimo scontro tra neoconservatori e paleoconservatori, con il direttore neocon David Frum che tacciava Buchanan di antipatriottismo, altrove maturava invece una faida tra neoconservatori tra il falco Charles Krauthammer e la colomba Fukuyama, talmente critica da passare al fronte opposto degli oppositori di Bush e della guerra.

    L’interventismo unilateralista neoconservatore, promosso principalmente da William Kristol, sul Weekly Standard, si materializzerà nelle due guerre combattute dagli americani in Afghanistan e Iraq, contro i talebani e il regime baathista di Saddam Hussein. Tuttavia dopo il momento di massimo apogeo, con la cacciata del dittatore irakeno, ha conosciuto una progressiva crisi scontando gli errori di valutazione di una guerra data per vinta con largo anticipo.

    Bush riuscì comunque a vincere le elezioni del 2004 contro John Kerry grazie ad un’agenda fortemente caratterizzata dai temi cari alla destra religiosa (famiglia, valori cristiani, no all’aborto e ai matrimoni gay, restrizioni alla ricerca sulle cellule staminali) che ha fortemente motivato le firme più agguerrite del nuovo giornalismo conservatore, come Ann Coulter. Già pochi mesi dopo, però, l’Amministrazione Bush si è fatta trovare impreparata negli aiuti alla popolazione di New Orleans colpita dai devastanti effetti dell’uragano Katrina. Accusati di cinico disinteresse verso le sorti delle popolazioni di colore, i repubblicani di Bush non hanno ottenuto da quel momento altro che sconfitte. Scandali personali, politici dimissionari, polemiche a non finire. Molti sostenitori dell’impegno bellico irakeno sono passati dal pubblico pentimento (William F. Buckley) alla pressante richiesta di un progressivo disimpegno.

    Il 2006, annus horribilis per la Presidenza, ha segnato il ritorno dei Democratici a dominare il Congresso e spegnere ogni speranza per una conferma Repubblicana alla Casa Bianca nel 2008.

    Screditato in patria come all’estero da rischiose avventure belliche – due guerre in terre lontane si sono rivelate un peso troppo oneroso per un popolo che non ha mai avuto un carattere imperialista – e in ambito conservatore per l’interventismo economico, Bush jr. alla fine del suo secondo mandato si è lasciata alle spalle un’America più a sinistra di quella che aveva ereditato ed un movimento conservatore in profonda crisi.

    La candidatura Repubblicana di John McCain per le presidenziali del 2008 è avvenuta paradossalmente grazie alla sua identità di maverick estraneo tanto all’establishment del partito quanto al conservative movement.

    La candidatura vice-presidenziale di Sarah Palin, governatrice dell'Alaska, ha ottenuto l'ambivalente risultato di mobilitare gli hard-core conservatives facendo definitivamente allontanare dal GOP il centro moderato che ha appoggiato convinto il candidato democratico Barack Obama. La Palin ha mostrato doti apprezzabili di leadership catturando il fervore di una base per molti versi demoralizzata, ma è rimasta vittima della caricatura che i media liberal hanno fatto di lei (la hockey mom con il bambino down e il fucile ancora fumante dalla caccia alle alpi), e di alcune interviste imbarazzanti... Un'immagine oltremodo divisiva in un'America lacerata dalla montante crisi economica e desiderosa di unità e di un recupero di credibilità nazionale.

    E' da sottolineare il fatto che per la prima volta dai tempi di Reagan il ticket repubblicano sia stato scelto da correnti lontane dalla linea principale del conservatorismo USA. Il prescelto dalla National Review era, al contrario, Mitt Romney, un candidato classico per l'elettorato repubblicano, che aveva buone frecce per il suo arco: un aspetto decisamente presidenziale, ottimi rapporti col mondo del business, una visione moderata del conservatorismo non soggetta a radicalismi. Purtroppo per lui ha pesato negativamente la sua affiliazione alla Chiesa mormone, considerata dalla base evangelical alla stregua di una setta pericolosa. Nonostante il suo profilo fosse del tutto alieno da visioni teocratiche, Romney ha dovuto lottare all'interno di un partito ormai prono a spiriti bellicisti e afflitto da masochismo intellettuale che gli imputava di non essere un conservatore doc.

    In ultimo, la sfortunata opposizione interna di Ron Paul contro l’establishment Repubblicano si riprometteva di riportare l’America entro i propri confini per combattere con maggiori forze e mezzi l’offensiva progressista, ma non è bastata a conquistargli i favori del movimento conservatore. Paul, supportato da Buchanan e da Rockwell, ha provato a riannodare il movimento conservatore alla sua eredità storica di Goldwater e Reagan, quando il conservatorismo costituiva davvero un’alternativa sostanziale e non solo formale all’ideologia liberal. A Choice Not an Echo, per usare un famoso slogan del Draft Goldwater.

    Tea Party: un ritorno del Traditional Conservatism?

    Il conservatorismo americano non è stato rappresentato da un Nixon o da un George H. Bush, uomini pragmatici di mentalità non dissimile al moderatismo continentale. Nella sua forma più autentica non si è identificato nemmeno nelle politiche George W. Bush, giudicato a torto un “ultraconservatore” dai disattenti e spesso faziosi commentatori europei, ma che in patria è stato sovente criticato dall’ala reaganiana del movimento per le sue politiche troppo compassionevoli e stataliste. Il conservatorismo americano si è incarnato invece in figure come Goldwater e Reagan, la cui eredità potrebbe essere raccolta oggi da Sarah Palin, perchè ciò che lo qualifica è, essenzialmente, il suo essere una reazione populista partorita dall'America profonda contro le elites di Washington intente a modellare l'America secondo un’ottica progressista ed internazionalista. Questo movimento conservatore ha finito col rappresentare dunque l'alternativa a quel processo di modernizzazione e di centralizzazione che l'America ha subìto nella propria storia e che si è messo in moto vorticosamente a partire dal New Deal.

    Il conservatorismo è un tradizionalismo libertario antiliberal che può avere talvolta accenti diversi, ma che si contrassegna comunque come una risposta chiara, netta, precisa nell'ambito del confronto politico americano. I suoi cardini sono i valori cristiani, le libertà economiche, il nazionalismo. I valori cristiani furono in origine il portato dei tradizionalisti; le libertà economiche, dei libertari; il nazionalismo, degli anticomunisti. Col tempo la destra religiosa si è sovrapposta al tradizionalismo, il conservatorismo fiscale al libertarismo e il neoconservatorismo all'anticomunismo, ma ciò non ha mutato granché il quadro complessivo. Oggi grazie alla protesta dei Tea Party anche i paleolibertari e i paleoconservatori stanno tornando alla base rinvigorendo il movimento dei suoi contenuti originari.

    Reagan diceva che il vero cuore e l’anima del conservatorismo americano erano costituiti dal libertarismo. Quest’ultimo, dai tempi della Old Right, ha costituito la coscienza profonda del conservatorismo USA, che si risveglia prepotentemente nei periodi di crisi della nazione. E' avvenuto durante il Watergate, quando l'intero partito sembrò finire stritolato dalle accuse rivolte a Nixon; è accaduto negli anni di Bush Senior in opposizione alla Guerra del Golfo e al ruolo imperiale dell'America; si ripete oggi dopo che il neoconservatorismo di Bush Junior ha letteralmente sparigliato le carte nella vecchia destra americana.

    L’ultima vittoria dei democratici aveva fatto suonare le campane a morto per i conservatori. Il movimento si era sfaldato e l’America sembrava destinata ad un realignment in senso progressista. Ma il ritorno dello statalismo, il protrarsi dell’interventismo economico e soprattutto la legge sulla riforma sanitaria fatta approvare da Obama contro una massiccia opinione contraria, ben più ampia di quella repubblicana, ha fatto sì che si generasse una rivolta popolare che ha preso il nome dai Boston Tea Party, ovvero l’atto di protesta dei coloni americani contro la tassazione del governo britannico. Il movimento dei Tea Party, che sventola la bandiera libertaria del “Don’t tread on me”, è riuscito in pochi mesi non solo a galvanizzare la base conservatrice ma ad imporre suoi condidati all’establishment repubblicano, riuscendo il più delle volte a mutare le condizioni di forza.

    Visti con timore e sufficienza dalle élites tradizionali i Tea Party hanno permesso al conservatorismo americano di tornare prepotentemente sulla scena parlando l’antico verbo, senza infingimenti progressisti. Supportati dal commentatore di Fox News Glenn Beck e dall’agguerrita Michele Bachmann, i Tea Party che hanno oggi in Sarah Palin il loro rappresentante politico nazionale, sono riusciti a far rinascere dalle ceneri il tradizionale conservatorismo americano. Nelle elezioni di mid term, svoltesi pochi giorni or sono, i repubblicani hanno inferto un duro colpo alla politica del Presidente Barack Obama riconquistando la Camera e arrivando ad un soffio dal catturare anche il Senato. Sulla scena nazionale si sono affermati due sue candidati: Rand Paul, figlio di Ron, e soprattutto Marco Rubio, l’immigrato cubano che dalla sua Florida può adesso addirittura tentare la scalata per una futura candidatura presidenziale. L’America della Bibbia e del fucile ha brutalmente spazzato via ogni illusione di una resurgence progressista, riaffermando la forza sociale ancor prima che politica del conservatorismo americano.

    Fine.

  4. #4
    the dark knight's return
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    Predefinito Rif: La Bibbia e il fucile

    bentornato
    appna possibl legerò e posterò un commento
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

  5. #5
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    Predefinito Rif: La Bibbia e il fucile

    La prima parte di questo saggio è stata pubblicata sul giornale L'Argonauta n. 8 e la seconda apparirà sul n. 9. Chi volesse averne ulteriori notizie può contattarmi privatamente. Questo andava detto, per correttezza.
    Ultima modifica di Florian; 09-11-10 alle 00:06

  6. #6
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    Predefinito Rif: La Bibbia e il fucile

    Molto interessante questa sintesi riassuntiva della storia della destra americana.
    A questo punto, parlando di attualità, vorrei chiedere a Florian quali sono le prospettive secondo lui per la destra americana dopo il successo del GOP alle elezioni di medio termine.
    Si va verso un ritorno al conservatorismo "fusionista" - cioé teso a convogliare tutte le anime della destra statunitense in un unico blocco elettorale interno al GOP - di tipo goldwateriano oppure il futuro potrebbe essere più roseo per i moderati o per gli elementi più populisti o maggiormente vicini alle istanze paleos (cioé sia paleoconservatrici che paleolibertarie)?
    Altra domanda che vorrei fare è la seguente: i Tea Parties sono una realtà molto variegata, direi per molti versi eterogenea, per quanto accomunata da non pochi punti in comune, fra cui quelli ricordati da Florian che in realtà già caratterizzano un po' tutta la right-wing americana.
    Sarà così semplice fare di questo vasto movimento d'opinione di destra - ma al tempo stesso oltre la destra - una voce sola, per altro espressa per bocca di Sarah Palin?
    Personalmente, non so Florian e gli altri, trovo delle considerevoli differenze fra Pat Buchanan, Ron e Rand Paul - da un lato - e Sarah Palin (che nei suoi discorsi cita - per la gioia di molti - Martin Luther King), dall'altro.
    Queste differenze - presenti secondo me anche e soprattutto in politica estera, ma questo lo dico perché è l'aspetto che mi ha sempre più interessato (in quanto ci riguarda direttamente) delle formazioni politiche americane - sono così contingenti e superabili in nome della comune lotta al big government obamista?
    Non è che - eventualmente - nel caso di una rapida ascesa della Palin prima o poi - liquidato Obama - riesplodano più o meno le stesse contraddizioni, se non ancora più marcate, che esplosero nel post-Reagan?
    Ultima modifica di Giò; 09-11-10 alle 23:54

  7. #7
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    Predefinito Rif: La Bibbia e il fucile

    Citazione Originariamente Scritto da Giò91 Visualizza Messaggio
    Molto interessante questa sintesi riassuntiva della storia della destra americana.
    A questo punto, parlando di attualità, vorrei chiedere a Florian quali sono le prospettive secondo lui per la destra americana dopo il successo del GOP alle elezioni di medio termine.
    Si va verso un ritorno al conservatorismo "fusionista" - cioé teso a convogliare tutte le anime della destra statunitense in un unico blocco elettorale interno al GOP - di tipo goldwateriano oppure il futuro potrebbe essere più roseo per i moderati o per gli elementi più populisti o maggiormente vicini alle istanze paleos (cioé sia paleoconservatrici che paleolibertarie)?
    Altra domanda che vorrei fare è la seguente: i Tea Parties sono una realtà molto variegata, direi per molti versi eterogenea, per quanto accomunata da non pochi punti in comune, fra cui quelli ricordati da Florian che in realtà già caratterizzano un po' tutta la right-wing americana.
    Sarà così semplice fare di questo vasto movimento d'opinione di destra - ma al tempo stesso oltre la destra - una voce sola, per altro espressa per bocca di Sarah Palin?
    Personalmente, non so Florian e gli altri, trovo delle considerevoli differenze fra Pat Buchanan, Ron e Rand Paul - da un lato - e Sarah Palin (che nei suoi discorsi cita - per la gioia di molti - Martin Luther King), dall'altro.
    Queste differenze - presenti secondo me anche e soprattutto in politica estera, ma questo lo dico perché è l'aspetto che mi ha sempre più interessato (in quanto ci riguarda direttamente) delle formazioni politiche americane - sono così contingenti e superabili in nome della comune lotta al big government obamista?
    Non è che - eventualmente - nel caso di una rapida ascesa della Palin prima o poi - liquidato Obama - riesplodano più o meno le stesse contraddizioni, se non ancora più marcate, che esplosero nel post-Reagan?
    Nel 1994, dopo la schiacciante vittoria repubblicana alle elezioni di midterm, era data per certa la candidatura di Newt Gingrich contro Clinton nelle presidenziali del 1996 su una piattaforma di conservatorismo tradizionale. E' accaduto invece che il GOP ha proposto il moderato Dole, che Gingrich è stato fatto fuori dai propri colleghi di partito, e infine che nel 2000 è diventato Presidente degli USA un repubblicano quale George W. Bush supportato dalla destra cristiana e dai neoconservatori.

    Questo per dire che tutto può succedere nella politica americana e tutto accade con una velocità sorprendente per i ritmi europei.

    Premesso ciò, posso solo fare qualche valutazione di massima e prevedere, come sempre succede in America, che il GOP presenti fra due anni un candidato conservatore che rappresenti anche le istanze dei moderati e degli indipendenti.

    Difficilmente potrà essere Sarah Palin, figura fortemente divisiva che tuttora risulta perdente nei sondaggi contro Obama, unica tra i candidati repubblicani.

    Non sarà Rand Paul e come lui nessuna "wild nut" libertaria.

    Ha delle chance Marco Rubio, così come Tim Pawlenty e potrebbe tornare in corsa anche Romney. Ma è ancora presto per individuare il "favourite son" repubblicano che fra due anni sfiderà Obama (o, magari Hillary... e sarebbe tutta un'altra partita).

  8. #8
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    Predefinito Rif: La Bibbia e il fucile

    il fucile non mi pare una prerogativa conservatrice negli USA

 

 

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