FMI, le novità a caro prezzo



Ufficialmente si magnifica l’apertura ai Paesi emergenti. Di fatto la contropartita è il raddoppio del capitale, che salirà a oltre 750 miliardi di dollari

Basterebbe il frasario utilizzato da Dominique Strauss-Kahn, per allarmarsi e domandarsi dove stia l’inghippo: «È una decisione storica, la più decisiva nei 65 anni di vita del Fondo e quella che rappresenta il maggiore spostamento di influenza in favore delle economie emergenti e quelle in via di sviluppo, riconoscendone un ruolo crescente nell’economia mondiale».
Un inno alla modifica dell’assetto originario. Un inno, apparente, al ridimensionamento del potere detenuto dagli Stati che finora hanno dominato il Fondo Monetario Internazionale, a vantaggio di altri soggetti che in passato avevano avuto minor peso. Innanzitutto sparisce uno dei privilegi istitutivi, l’appartenenza di diritto all’organo di gestione (Executive Board, composto da 24 membri e correntemente definito col solo termine “board”) di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna. Poi i Paesi Ue, peraltro avviati a una possibile rappresentanza unitaria, rinunciano a due degli otto posti di cui dispone attualmente.
Ma tutto questo, se non si conosce il meccanismo di voto all’interno dell’Fmi, può risultare fuorviante. A differenza delle normali assemblee di tipo politico in cui vige, almeno formalmente, il classico principio “una testa, un voto”, in questo caso si applica invece una logica da società per azioni, per cui l’incidenza dei singoli dipende dal valore delle rispettive quote. Per restare nell’ambito dei primi venti, al di sotto dei quali la partecipazione è talmente polverizzata da diventare irrilevante, gli Usa svettano su tutti col 17,41 per cento, seguiti a congrua distanza da Giappone (6,46), Cina (6,39) e Germania (5,59), mentre in fondo alla scala c’è la Turchia che si ferma a quota 0,98. Una distribuzione che risponde a una logica tanto precisa quanto inderogabile: lasciare le leve del comando nelle mani di Washington e dei suoi alleati europei. Stante che le decisioni di maggior rilievo devono essere prese con maggioranze qualificate molto superiori al 50 per cento, le nazioni occidentali hanno sempre avuto, nei fatti, un diritto di veto.
La domanda da porsi è proprio questa: trasferendo il 6% dei diritti di voto dalle economie industriali a quelle dinamiche, che cosa cambia sul piano sostanziale? E se non cambia un granché, perché si procede a queste modifiche e, soprattutto, le si presenta come una svolta epocale? Le risposte si annidano nel secondo aspetto della riforma. Le quote dei membri, infatti, dovranno essere incrementate massicciamente, fino a raddoppiare la dotazione del Fondo e portarlo a 755,7 miliardi di dollari.
In altre parole, assistiamo a un cospicuo aumento di capitale in cambio di un blando riallineamento degli equilibri interni. A fronte delle “concessioni” politiche, che peraltro sono pressoché obbligatorie a fronte dei mutamenti sopravvenuti nel quadro internazionale e, in particolare, della poderosa ascesa dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), l’Fmi moltiplica le proprie risorse finanziarie. E lo fa proprio in un momento in cui la contrazione del credito, determinata dalla crisi esplosa nel 2008 e tuttora in corso, riduce di molto il potere di intervento economico, e di condizionamento politico, del sistema bancario. Così come nel caso del G20, e anzi in maniera ancora più stringente, l’aspetto cruciale non è il numero dei membri che si riuniscono per decidere il da farsi, ma l’effettiva possibilità di discostarsi dalle strategie in corso. Altrimenti, ancora una volta, quella che viene spacciata per un’apertura a nuovi contributi si riduce a essere solo un’operazione di facciata. Il vecchio trucco di far sembrare un atto democratico e liberale quella che in realtà è solo una cooptazione.



FMI, le novità a caro prezzo, Federico Zamboni