Vivere felici in barba agli economisti…
Nei giorni scorsi Marcello Foa ha scritto un articolo sul miracolo del North Dakota, l’unico Stato americano che ha rifiutato di aderire al Federal Reserve System. La morale é molto semplice: felicità è vivere senza la Fed. Ovvero: il North Dakota dipende da una Banca centrale indipendente, la quale, anziché rincorrere e propagare le chimere dei mercati finanziari, opera dal 1920 al servizio della comunità locale con risultati strepitosi: crescita sostenuta, nessun deficit, disoccupazione bassissima. Al punto che molti altri Stati come California e Florida vogliono imitarla.
Oltre a questo articolo Marcello Foa ne ha scritto un altro che riguarda l’Italia. Marco Fortis, uno dei pochi economisti italiani capaci di sviluppare un pensiero autonomo e innovativo, rivela che le aziende italiane sono seconde solo alla Germania in termini di competitività nel commercio mondiale e dunque davanti alla Cina, dato questo sconosciuto ai più.[Ci si riferisce in effetti alle aziende dell'Italia del Nord, cioè padane..]
Inoltre Fortis sostiene che, in tema di riforme, sia sbagliato continuare a inseguire modelli stranieri, in quanto da un lato sono illusori (vedi capitalismo anglosassone basato sul debito privato), dall’altro non pertinenti (vedi capitalismo tedesco caratterizzato dalla presenza di diversi grandi gruppi, che invece mancano in Italia).
Il messaggio é: per prosperare davvero bisogna avere la forza di non lasciarsi lavare il cervello dalla propaganda e di trovare formule adatte alla propria realtà, infischiandosene dei moniti e dei latrati della maggior parte degli economisti.


Il record delle aziende italiane: seconde al mondo per l’export
I dati controcorrente della Fondazione Edison: altro che declino. Fortis: «Il Paese regge meglio di quanto si creda. Anche sul debito».
di Marcello Foa
Il Giornale mercoledì 10 novembre 2010
Esiste una verità formale, che parla di un’Italia in declino e sempre in ritardo rispetto agli altri Paesi occidentali. Ed esiste una verità sostanziale, di un’Italia che resiste molto meglio di quanto si creda e che in certi settori brilla.
La prima fa notizia, assecondando un pessimismo diffuso. La seconda è colta solo da economisti del calibro di Marco Fortis, responsabile dell’Ufficio economico di Edison, che questa mattina a Milano, assieme al professor Alberto Quadrio Curzio, presenterà il volume La fondazione Edison. Dieci anni per l’economia italiana in Europa. «Non si tratta di sostenere visioni ottimistiche, ma realiste», spiega Fortis.
Ad esempio impostando il discorso in modo diverso sulla produttività delle aziende italiane. «Se si chiede: è facile essere produttivi nel nostro Paese? La risposta non può che essere no - dichiara al Giornale - Ma se si guardano i risultati, la risposta è straordinariamente positiva. Altro che decadenza! Le aziende italiane sono seconde solo alla Germania in termini di competitività nel commercio mondiale, ma davanti alla Cina».
Trattasi dei dati elaborati dalla Fondazione Edison sulla base del Trade performance index, ma che trovano conferma anche nelle statistiche Istat. Per buona parte dello scorso decennio l’export delle medie imprese italiane ha segnato tassi di crescita cumulativi pari al 43%, appena due punti sotto quelle tedesche, ma molto di più di quelle francesi (+16%) o giapponesi (+25%).
Fortis sostiene, in perfetta solitudine, una realtà ignota ai più: «La meccanica italiana genera più valore aggiunto di tutta l’industria farmaceutica della Ue»; il che apre un altro squarcio, sovente taciuto: statisticamente questo Paese investe poco nella ricerca, eppure i livelli di eccellenza delle imprese specializzate nel nostro Paese sono straordinari, proprio grazie a un’innovazione che l’analisi economica tradizionale non riesce a cogliere.
Anche sugli effetti della crisi dei subprime Fortis va controcorrente. «L’Italia ne ha sofferto, come noto, ma lo stock di ricchezza delle famiglie è già tornato ai livelli del 2007 e i consumi hanno retto». E questo perché la struttura dell’economia privata italiana è molto più solida di Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Spagna che in passato hanno registrato performance straordinarie, ma drogate in quanto basate su un debito privato che oggi va ripagato e che mette in crisi i bilanci delle famiglie di questi Paesi, dove «il reddito è alto, ma eroso da rate spesso pesantissime».
Il debito pubblico resta preoccupante, sbaglia però chi pensa che l’Italia stia per diventare un’altra Grecia. «È inutile confrontare il debito pubblico con il Pil, perché il Pil non è mai servito a ripagare il debito - aggiunge Fortis -; il vero raffronto è con la ricchezza familiare netta delle famiglie. Così il quadro cambia drasticamente: si passa dal 116% al 65%».
E se si considera il debito aggregato (pubblico più privato) i dati sono ancora più confortanti per il nostro Paese: «Il grado di copertura, sempre paragonandolo alle ricchezze familiari, è pari a 2,6, stabile da un decennio, mentre in Gran Bretagna è passato dal 3,4 al 2,2. E negli Usa è andata anche peggio». Per intenderci: il patrimonio degli italiani è due volte e mezzo superiore al totale dei debiti del Paese.
E, dunque, quando si parla di riforme è sbagliato tentare di imitare la Germania. La soluzione c’è già e, in fondo, è semplice: occorre rafforzare il suo «quarto capitalismo», ovvero le imprese medie orientate all’export. Parola di Fortis.

North Dakota, il miracolo fatto in casa
di Marcello Foa
Il Giornale martedì 09 novembre 2010
Sviluppo dell’economia a livelli cinesi, disoccupazione ai minimi storici, bilancio dello Stato in attivo È il risultato della scelta di non aderire alla Banca centrale Usa: al suo posto opera un istituto locale.
Qual è lo Stato che può vantare una disoccupazione al 4,4%? E aumenti del Pil a due cifre con incrementi dei redditi delle persone fisiche pari al 23% tra il 2006 e il 2009?
Uno pensa: non può essere che la Cina.
Sbagliato.
Anche nell’ansimante America c’è chi va alla grande.
L’autore di questo miracolo è il North Dakota, ovvero uno dei piccoli e in apparenza marginali tra i 50 che compongono la federazione statunitense.
La sua fortuna?
Aver dato retta, tra il 1915 e il 1920, alla Nonpartisan League, un movimento locale che l’establishment tentò di fermare bollandolo come populista, ma che in realtà era lungimirante. Quel movimento indipendente propose agli elettori del North Dakota di non aderire al Federal Reserve System ovvero al circuito finanziario imperniato sulla Fed, la Banca centrale americana.
Pensavano che non ci si potesse fidare dei banchieri di Wall Street e che fosse più saggio avvalersi di un Istituto indipendente. Il tempo ha dato loro ragione.
Il successo del North Dakota è tutto qui: pur usando il dollaro come valuta di scambio, oggi è l’unico Stato americano che non dipende dalla Federal Reserve. A garantire le sue riserve sono i cittadini, i quali, in caso di dissesti finanziari non potrebbero avvalersi dell’assicurazione federale sui depositi. Lo Stato corre un rischio, ma ipotetico: in oltre 90 anni di vita l’istituto non è mai stato in difficoltà ed è passato indenne attraverso ogni crisi.
Per legge lo Stato e tutti gli enti pubblici devono versare i fondi nelle casse della Banca centrale del North Dakota, che li usa non per ottenere utili mirabolanti, né per oliare indebitamente le banche private, ma per aiutare la crescita dello Stato. Di fatto agisce come un’agenzia di sviluppo economico locale e dunque sostiene progetti d’investimento, concede finanziamenti a tassi molto bassi, nonché un numero impressionante di prestiti agli studenti a condizioni eque.
Sarà per la mentalità contadina di quella gente o per le virtù civiche sia degli amministratori della banca che dei cittadini, ma il tasso di spreco e di inefficienza è bassissimo. Per dirla in altri termini: quegli investimenti non sono sprecati in progetti insensati o improduttivi, dunque non producono carrozzoni parapubblici con interessi e prospettive clientelari, ma producono ricchezza nel territorio e dunque nuovo gettito fiscale, nuovi fondi per la banca; insomma, generano un ciclo virtuoso.
Sembra l’uovo di Colombo, ma altro non è che il trionfo del buon senso. In ultima analisi lo scopo della banca centrale di un Paese dovrebbe essere quello di agevolare uno sviluppo economico armonioso e senza squilibri finanziari o inflazionistici. La Bank of North Dakota ci riesce a tal punto da chiudere ogni anno in utile (nel 2009 per 58 milioni di dollari), denaro che torna ai legittimi proprietari ovvero ai contribuenti.
Il sistema funziona così bene che diversi Stati americani vogliono imitarlo. E mica solo staterelli, anche colossi come California, Ohio, Florida, stufi di un meccanismo che negli ultimi trent’anni ha creato una ricchezza illusoria.
La Federal Reserve, infatti, non appartiene ai cittadini americani, ma alle banche, che pertanto sono i suoi azionisti di riferimento, così come, peraltro, avviene per la Banca d’Italia. Il liberista Ron Paul da anni sostiene, inascoltato, che una Banca centrale non è nemmeno contemplata dalla Costituzione americana e che di fatto tradisce lo spirito dei fondatori degli Stati Uniti d’America. Furono gli ambienti di Wall Street, nel 1914, a indurre il presidente Wilson a creare la Fed, la quale, però, nel corso dei decenni ha assunto compiti e generato dinamiche devianti, sottraendo al popolo la sovranità finanziaria.
Contrariamente alla Fed, la North Dakota Bank non ha bisogno di considerare interventi straordinari a sostegno di un’economia asfittica, né di comprare i Buoni del Tesoro invenduti, per la semplice ragione che lo Stato non ha debiti ed è addirittura in surplus. La North Dakota Bank non ha seguito la moda dei subprime, né della cartolarizzazione dei debiti, né delle altre diavolerie finanziarie escogitate negli ultimi anni dai dissennati e avidissimi manager delle grandi banche d’affari. Ha continuato ad essere una banca centrale al servizio della comunità locale, capace di mettere a disposizione dei privati le risorse necessarie per avviare imprese che poi non vivono di sussidi, ma secondo le regole di mercato. È la rivincita di un’America semplice e vincente, ma di cui nessuno parla mai.
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