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Discussione: Ode alla nazione serba

  1. #1
    Bushidō
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    Predefinito Ode alla nazione serba

    Gabriele D’Annunzio

    Ode alla nazione serba

    I.

    Qual è questo grido iterato
    che lacera il grembo dei monti?
    Qual è questo anelito grande
    che scrolla le selve selvagge,
    affanna la lena dei freddi
    fiumi, gonfia l'ansia dei fonti?
    O Serbia di Stefano sire,
    o regno di Lazaro santo,
    cruore dei nove figliuoli
    di Giugo, di Mìliza pianto,
    lo sai: hanno ricrocifisso
    il Cristo dell'imperatore
    Dusciano ad ogni albero ignudo
    delle tue selve, ad ogni sasso
    ignudo dell'alpe tua fosca,
    gli han franto i piedi e i ginocchi
    a colpi di calcio, trafitto
    con la baionetta il costato,
    rempiuto non d'acida posca
    la sacra bocca ma di bile
    rappresa e di sangue accagliato.

    II.

    Il boia d'Asburgo, l'antico
    uccisor d'infermi e d'inermi,
    il mutilator di fanciulli
    e di femmine, l'impudico
    vecchiardo cui pascono i vermi
    già entro le nari e già cola
    dal ciglio e dal mento la marcia
    anima in cispa ed in bava,
    il traballante fuggiasco
    che s'ebbe nel dosso il tuo ferro
    a Pròstruga, a Vàlievo, a Guco,
    e l'acqua ingozzò della Drina
    fangosa cercando il suo guado
    e forte spingò nella Sava,
    mentre l'ardir dell'aiduco
    Vèlico rideva nell'aspro
    vento come contro al visire
    in Negòtino e le tue squille
    squillavano a Cristo e il tuo monte
    di Bànovo Berdo tonava
    sopra la tua bianca Belgrado;
    III.

    O Serbia, lo squallido boia
    per far di vergogna vendetta
    e per boccheggiare nel sangue
    prima che la lingua s'annodi,
    per comunicare nel sangue
    prima che la lingua s'annodi,
    per anco leccar salso sangue
    prima dell'eterno digiuno,
    per compiere senza rimorso
    la lunga sua vita terrena,
    imperator di pie frodi
    e re di fedele catena,
    con alfine un'ultima stretta
    di laccio, con una suprema
    strangolazione, al soccorso
    chiama i manigoldi bracati
    contro te, cinquanta contr'uno
    che in gola ti caccino il cappio
    corsoio. “O Serbia di Marco,
    dove son dunque i tuoi pennati
    busdòvani? Non t'ode alcuno?”
    IV.

    Sì, gente di Marco, fa cuore!
    Fa cuore di ferro, fa cuore
    d'acciaro alla sorte! Spezzata
    in due tu sei; sei tagliata
    pel mezzo, partita in due tronchi
    cruenti, come l'aiduco
    Vèlico su la sua torre
    percossa. Di lui ti sovviene?
    Rotto fu pel mezzo del ventre,
    e cadde. Il grande torace
    dall'anguinaia diviso
    cadde, palpitò nella pozza
    fumante. Giacquero le cosce
    erculee del cavaliere
    a tanaglia; giacquero in terra,
    si votarono. E nel fragore
    della gorga grido si ruppe:
    “Tieni duro!”. Fiele dal fesso
    fegato grondò. “Tieni duro,
    Serbo!” Dalle viscere calde
    tal rugghio scoppiò: “Tieni duro!”.

    V.

    Tal rugghio la Vila raccolse.
    Tutte le tue Vile di monte,
    tutte le tue Vile di ripa
    raccolsero il ferreo comando;
    e tu 'l riudisti pur ieri.
    L'ode la terra tegnente:
    non verdeggerà per tre anni.
    L'ode su la nuvola il cielo:
    non stillerà per tre anni
    rugiada. Che monta, o guerrieri?
    Il capo del Santo di Serbia,
    il teschio di Lazaro splende
    non nella Sìniza sola
    ma in ogni fiumana. Ecco, ringhia
    il grande pezzato cavallo
    di Marco, e si sveglia l'eroe
    squassando i capelli suoi neri.
    Re Stefano vien di Prisrenda;
    sorge dalla Màriza cupa
    Vucàssino; s'alzano a stormo
    da Còssovo i nove sparvieri.

    VI.

    E grida la candida Vila
    dal crine del Rùdnico monte,
    sopra la Iacèniza lene;
    grida e chiama in Tòpola Giorgio
    che ristà poggiato all'aratro.
    “Or dove sei, Pètrovic Giorgio?
    Qual fumido vino ti tiene?
    Qual t'occupa sogno? Non m'odi?
    Dove sei, buio bifolco?
    Dove sono i tuoi voivodi?
    Dov'è il voivoda Milosio?
    Giàcopo e il calogero Luca?
    e Zìngiaco? e Chiurchia? e Milenco
    della Morava? A simposio
    seggono? Ucciso hanno il giovenco
    e trinciano, e cantano lodi?
    Beono alla gloria di Cristo
    che li aiuti? beono in giro?
    E sul buccellato di farro
    scritto è tuttavia: Cristo vince.
    Ma non v'è quartiere pei prodi.

    VII.

    Bulica il sangue dei prodi
    al cavallo insino alla staffa,
    insino alla staffa e allo sprone.
    Diguazza il fante nel sangue
    insino all'inguine e all'anca;
    v'affoga, se v'entra carpone.
    Le donne rivoltano i morti
    pel bulicame, né sanno
    figlio ravvisare o germano.
    Son tutti un rossore, una piaga
    tutti, come al campo del conte
    i maschi di Giugo Bogdano.
    Più corpi enfii che scerpate
    radiche porta il Danubio
    né sa a qual riva deporre;
    rigurgita il Vàrdari ai groppi;
    la Sava è una vena svenata
    che gorgoglia giù per le forre;
    è schiuma del Tìmaco a sera
    canizie che galla; e la Drina
    veloce è un carnaio che corre.

    VIII.

    Su, Giorgio di Pietro, bovaro
    di Tòpola, su, guardiano
    di porci, riscuotiti e chiama!
    Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi;
    Ianco il savio e Vasso il furente.
    Prenditi con teco gli aiduchi
    che danzano sopra le vette
    degli aceri. Vèlico, or ecco,
    all'anguinaia il torace
    rappicca come prima era,
    e dentrovi il fegato ardente.
    Su, su, porcaro di Dio!
    Il turbo di Mìsara, or ecco,
    pei gioghi della Sumàdia
    raggira l'antica vittoria,
    sparpaglia la nova semente.
    Altre mandrie tu caccerai
    dinanzi a te, altri branchi
    più irti, altro bestiame
    più tetro, altro sagginato
    coiame, altra sordida gente.


    IX.

    Sovvienti? Diceano i padri
    un tempo, sedendo a convito:
    “Ve' porco di Bulgaro nero
    che tutt'oggi dietro ci tenne
    pel tozzo e 'l bicchiere di vino
    e per un lacchezzo d'agnello!”.
    Non per tozzo il Bulgaro nero
    e né per gocciol di vino
    e né per minuzzo di carne,
    ma per tutto prendere alfine,
    per tutto a te prendere alfine,
    per tutto a te togliere alfine,
    la terra il nome il soffio il bianco
    degli occhi lo stampo dell'uomo,
    per questo il Bulgaro nero
    dietro ti venne, alle spalle
    ti dà, alle reni t'agghiada.
    Tre n'hai, e col Bulgaro nero:
    fanno tre viltà una forza.
    Ma guarditi il fegato secco
    Dio, o macellatore di porci.

    X.

    Pigliaron Semendria la regia,
    pigliarono, ed anche la bianca
    città, Belgrado la regia,
    in una geenna di fiamme:
    dal Lìparo al Vràciaro grande,
    fornace fu ogni collina.
    Pigliarono Lùciza, ed anche
    Sclèvene pigliarono, e l'una
    e l'altra colmaron di mosto,
    di lúgubre mosto, due tina.
    Iplana rempieron di vegli
    senz'occhi, di femmine senza
    mammelle, di monchi fanciulli
    carponi a leccar la farina.
    E di Sòpota la meschina
    ei fecero lor beccheria
    trinciandovi la battezzata
    carne (o Battista!), e l'altare
    lor tavola fu sanguinente:
    strapparono al prete la lingua
    con sópravi l'ostia vivente.

    XI.

    Ma ben di Verciòrova scorse
    il Rùmio dagli occhi di druda,
    dal viso di cera dipinto,
    gallare nel freddo Danubio
    i Lurchi enfii, rivoltolarsi
    a mille pel grigio Danubio
    fra Rame Dubràviza i morti,
    fra Sip e Tèchia gli uccisi
    sotto la montagna di Tèchia
    crosciante qual torcia di ragia,
    a grappoli i corpi dei Lurchi.
    Non Lipa è villata che mangi:
    è mucchio che pute. Non colle
    che frutti è Trivùnovo: è mucchio
    che vèrmina. Vrànovo è mensa
    di corbi e Vuiàn d'avvoltoi.
    O razza di Cràlievic Marco,
    l'usura tu fai con la strage!
    Sotto Orsova, dove il mal fiume
    s'insacca, ora Bulgari e Lurchi
    si giungono, stèrcora e fecce.

    XII.

    Sì, presero i valichi e i passi,
    li presero; e noi i nostri guati
    tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia,
    presero, e Strùmiza e Vrània,
    e Cràlievo presero, e Lacle,
    villate e città, mura e ripe;
    ma dove più ossa che selci,
    più teschi che ciottoli dove
    lasciarono? Presero e Nissa
    l'antica, vestita a gramaglia,
    oité, santa Serbia, di neri
    drappi vestita le case
    dolenti ove suda il contagio
    e l'odore vieta la porta.
    Presero e Scòplia l'antica
    (oité, santa Serbia, fa pianto),
    la casa che in prima all'Iddio
    tuo edificasti con pietre,
    e quivi la rocca, la guardia
    dell'imperatore Dusciano.
    O Serbia, in ginocchio fa pianto.

    XIII.

    Poi rìzzati e balza e riprendi
    la chiesa e la rocca, l'altare
    e il mastio, l'impero e la sorte.
    Il verde Vàrdari tingi
    come la Nìssava a Vlasca,
    colora il Vàrdari come
    lo stagno di Vlàsina fatto
    già bulgaro brago di morte.
    Ma il Tìmaco, o gente di Giorgio
    che scannò il suo padre con sacra
    mano perché servo non fosse,
    il Tìmaco tingi in eterno,
    in eternità dell'infamia,
    dalla sorgente alla foce
    e insino alla melma profonda,
    per le tue donne calcate
    dallo stupro contro la sponda,
    pei pargoli tuoi palleggiati
    e scagliati come da fionda,
    per chi teda fu, per chi arso
    fu fiaccola furibonda.

    XIV.

    Tronco s'ebbe Lazaro il capo
    nel piano di Còssovo, e perso
    fu il regno, fu spenta la gloria.
    Da Scòplia il Bulgaro nero
    al piano di Còssovo sfanga
    fiutando l'ontosa vittoria.
    Tieni duro, Serbo! Odi il rugghio
    di Vèlico che si rappicca
    e possa rifà. Tieni duro!
    Se pane non hai, odio mangia;
    se vino non hai, odio bevi;
    se odio sol hai, va sicuro.
    Non erbe coglie nel monte
    la Vila, non radiche pesta,
    per le piaghe a te medicare.
    Non a ferita combatti,
    a morte sì, per l'altare
    combatti e pel focolare.
    Se caschi in ginocchio, ti levi;
    se piombi riverso, e ti levi;
    se prono, e ti levi a lottare.”
    XV.

    Così parla al sangue la Vila
    dal crine del monte, la Vila
    così stride e chiama a battaglia.
    O Serbia, fa cuore! T'è l'odio
    osso del dosso, armamento
    t'è l'odio e t'è vittuaglia.
    A Còciana ancor si combatte
    e si combatte a Piròte;
    a Tètovo è lungo macello,
    e a Babuna tra le due vette.
    A Ràzana i tuoi cavalieri,
    al passo d'Isvòre i tuoi fanti,
    a Glava le donne tue scarne
    con le coltella e le accette.
    Le madri combattono in frotta
    col pargolo al seno e lo schioppo
    alla gota, o dritte su i carri
    tirati dai bufali torvi
    le gravide, o in sella con due
    pistole come la grande
    Ljùbiza, ghiottume di corvi.

    XVI.

    Qual è questo riso che scoppia
    come manrovescio potente?
    È il riso di Vèlico aiduco
    dalla dentatura d'alano.
    Che vede egli? un Bulgaro nero
    perdere i suoi trenta dinari?
    un Lurco basire, calando
    le brache e levando la mano?
    il pennacchin tirolese
    del boia longevo che crocchia
    e affoga nel flusso senile?
    o il tronfio Amuratte alemanno,
    soldano d'eunuchi cinghiati,
    trar la scimitarra scurrile?
    Che vede di turpe e di vile
    lo schernitore, che vede?
    Ve' ve' bagascion di corona,
    ve' bardassa in Cesare vòlto,
    di unguenti asiatici liscio
    che piglia da Cesare Giulio
    il letto di re Nicomede!

    XVII.

    Tastalo con le tue dure
    mani, questo sacco di dolo
    e di adipe, o Vèlico, questo
    sacco di lardo e di fardo.
    Cesare dei Bulgari neri,
    come Simeone, è costui,
    come Caloiàn di Preslavia,
    è questo Coburgo bastardo?
    Tu che metter suoli la lama
    tra i denti, aiduco, se vuoi
    aver la pistola nel pugno,
    tu tagliami questo codardo
    con la squarcina del fiso,
    tagliuzzalo come lombata,
    condiscilo poi con zibetto,
    con cinnamo e con spicanardo.
    Lo manderai così concio
    alle meretrici di Scòplia.
    E che il tuo scherno s'appigli,
    che il tuo riso crepiti e scrosci
    ai tuoi come un fuoco gagliardo!
    XVIII.

    O Serbia, che avesti regina
    di grazia Anna Dandolo e desti
    del ceppo regale di Orosia
    a un Buondelmonte la sposa,
    odi: la Vittoria è latina,
    ed ella è promessa al domani.
    è una pura vergine bianca
    (non è la tua Vila a lei pari)
    più lieve della tua Vila
    selvaggia che col piè nudo,
    in vista dell'oste schierata,
    danzò su le lance dei bani.
    Diceano intanto gli araldi
    in Prìlipa a Marco: “O signore,
    contendono i re, dell'impero.
    A chi sia l'impero e' non sanno.
    Ti chiaman di Còssovo al piano
    che tu dica a chi sia l'impero”.
    Un grida: “Al Latino è l'impero.
    Per forza a lui viene l'impero.
    Roma a lui commise l'impero”.

    XIX.

    Lode all'uno, grazie al verace!
    In Còssovo teco i Latini
    combatteranno domani
    sotto il gonfalone crociato,
    mentre il Lurco “A me è l'impero”
    grugna “ché la forza s'alterna”.
    Sarà coi Latini domani
    la grande lor vergine bianca.
    Già misto il lor sangue col tuo
    ebbero a Valàndovo, sacre
    primizie. Ora Vèlese è rossa
    di quelle, e vermiglia è la Cerna.
    Tra le corna sta di Babuna
    la pertinacia non rotta
    e in Prilipa avvampa la fede.
    O Rumio dagli occhi di druda,
    a che musi verso la steppa,
    bilenco tra rischio e mercede?
    E tu, vil Grecastro inlurchito
    che palpi le sucide dramme,
    non odi il cannone di Dede?

    XX.

    O falso Dace, che vanti
    la gloria del nome latino
    e non pur sei degno del nome
    barbarico ch'era tremendo
    né mondo pur sei della lebbra
    d'Asia che tuttora ti squamma,
    or quando entrerai nella lite?
    Quando la Colonna traiana,
    di pietra fattasi fiamma,
    t'andrà camminando dinanzi
    come la Colonna divina
    in Etam dinanzi ai figliuoli
    d'Israele verso il deserto
    lenito e per l'acque spartite?
    Ma tu, o Greculo, merca.
    Da tempo son morti i tuoi clefti.
    Si leva di giù Bucovalla
    e sputa su te dal carnaio.
    Venditi. Non già ti compriamo,
    non per una sucida dramma.
    Ma ti pagheremo d'acciaio.

    XXI.

    È tempo, è tempo. La notte
    precipita. Sta sopra tutti
    la legge di ferro e di fuoco;
    e questo è il supremo cimento.
    Prudenza è vergogna, disfatta
    il dubbio, delitto il riposo,
    viltà ogni vana parola,
    e l'indugio è già perdimento.
    Popolo d'Italia, sii schiera
    appuntata a guisa di conio,
    schiera di tre canti romana,
    che cozza scinde e s'incugna.
    Popolo d'Italia, sii chiusa
    falange, con fronte ristretta,
    fasciata d'ardore, scagliata
    come un sol vivo alla pugna.
    Popolo d'Italia, sii come
    la forza dell'aquila regia
    che batte con l'ala, col rostro
    dilania, ghermisce con l'ugna.
    E v'è uno Iddio: l'Iddio nostro.

    16 novembre 1915.
    Пројекат Растко Италија: Gabriele D'Annunzio : Ode alla nazione serba

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    Predefinito Rif: Ode alla nazione serba

    I serbi hanno dimostrato carattere durante lo sbrandellamento dei Balcani negli anni '90. Come tutti i popoli est-europei tenuti a bada dai regimi comunisti hanno mantenuto un sano senso di identità ed appartenenza invidiabili per chi si è trovato sotto l'Occidente nel dopoguerra. Indubbiamente la parola d'ordine "Serbia trincea d'Europa" o "Kocobo Je Srbija" - per non parlare della religiosità cristiano-ortodossa e delle quattro C - sono leit-motiv accattivanti.

    Però non ci si dovrebbe lasciare influenzare dalle vicende dei popoli est-europei, pensando maggiormente alle vicende di casa nostra, poichè con serbi e croati l'Italia ha ancora dei conti in sospeso - e ne avrà ancora per molto dal momento che albanesi e bosniaci stanno per entrare in area Schengen dopo la Romania.

  3. #3
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    Predefinito Re: Ode alla nazione serba

    non credo che i Serbi hanno fato le foibe,Istria non e' mai stata zona di interesse territoriale serbo

 

 

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