Z. Bauman, C. Lévi Strauss e le strategie dell'assimilazione e dell'esclusione dello 'straniero' | Laurentius | Il Cannocchiale blog
<< L'impresa di costruzione dell'ordine è una guerra di logoramento dichiarata contro gli stranieri e tutto ciò che è anomalo >>[1]. Zygmunt Bauman, parlando della società occidentale moderna, parte da questo presupposto per iniziare a parlare di qualcosa che interessa in ultimo, con modalità differenti, ogni società umana. << Per combattere questa guerra, citando Lévi Strauss, venivano impiegate ciclicamente due trategie alternative ma anche tra loro complementari. La prima era 'antropofagica': consisteva nell'annullare gli stranieri 'divorandoli' per poi metabolizzarli rendendoli una copia perfetta di se stessi. Questa era la strategia dell''assimilazione': rendere simile il dissimile; soffocare le distinzioni culturali o linguistiche; proibire tutte le tradizioni e i legami ad eccezione di quelli che favorivano il conformismo verso il nuovo e pervasivo ordine; promuovere e rinforzare il solo e unico criterio della conformità. La seconda strategia era 'antropoemica': 'espellere' gli stranieri all'interno delle mura ben visibili del ghetto o dietro gli invisibili e non meno tangibili divieti di 'condivisione', 'connubium' e 'commercium'; "compiere un rituale di purificazione" attraverso l'espulsione degli stranieri oltre le frontiere del territorio amministrato; o quando nessuna delle due misure era applicabile, distruggere gli stranieri fisicamente >>[2].
Stranieri? Chi sono gli 'stranieri'? Chi proviene da fuori uno Stato, secondo il punto di vista di chi è cittadino di quello stesso Stato, certo, ma soltanto? Forse, allora, chi proviene da realtà (sociali, geografiche e culturali) più lontante da noi, al di fuori dei confini politici europei o, meglio, dell'Unione Europea (la quale non include affatto TUTTI gli Stati europei)? Chi è dunque 'straniero', nella nostra società? E, soprattutto, qual è il suo ruolo e perché, che egli sia assimilato o respinto, è tanto importante per una società come la nostra?
Essere 'stranieri', oggi più che mai, potrebbe derivare sempre meno da fattori culturali ('culturali' in senso strettamente antropologico, come fattore di distinzione tra popolazioni dalla differente evoluzione storica). Il mondo intero, sempre più 'occidentalizzato' - non nel senso che anche lontane realtà umane si rifanno meramente a schemi culturali e sociali presi a modello dalla società occidentale, ma sempre più in balìa della cultura eurocentrica, ad iniziare dagli schemi economici ai quali Paesi come la Cina o l'India si sono dovuti ormai rifare o a causa dei quali altri ancora vengono schiacciati, come condicio sine qua non del benessere euro-americano -, è occupato, e lo è stato soprattutto da questi ultimi decenni, a sfumare idealmente i confini tra gli uomini, illudendosi di poter abolire non tanto le 'differenze' in sé, quanto i conflitti conseguenti alla costante presa di coscienza dell'esistenza di tale differenza. Oggi, infatti, vige come regola presunta l'uguaglianza, che più che mai fa sentire la sua eco nell'adoperatissima (e violentatissima) parola democrazia.
Ma qui sorge un'ulteriore domanda: cos'è la 'democrazia'? La parola, com'è ben noto, deriva dalla lessicalizzazione delle due parole greche démos, ovvero 'popolo' e krátos, ovvero 'potere'. Il 'popolo' menzionato, il démos, è però assunto come un unico blocco, con un unico colore, un unico pensiero e, di conseguenza, con un'unica volontà. Nella parola non viene semanticamente contemplata alcuna possibilità di 'deviazione' rispetto a ciò che viene inquadrato come démos. La stratificazione sociale (dovuta ad una serie di fattori varianti da gruppo umano a gruppo umano), in quanto carattere fondamentale e ragion d'essere di una società, non viene contemplata. 'Democrazia' diventa dunque un mezzo legittimamente utilizato dalla classe sociale dominante (di qualunque tipologia essa sia) in nome di una presunta maggioranza di pensiero per garantire un'uniformità che la stessa classe sociale dominante considera e diffonde come l'unica possibile, e dunque 'vera' e 'inappellabile'. Ogni opinione, idea, pensiero differente rispetto a quello appartenente alla classe dirigente diventa 'antidemocratico', ostile, opposto: in una parola, 'diverso', 'straniero'. L'essere 'stranieri', in una società come quella post-moderna occidentale, è dunque ben lungi dal riguardare soltanto chi proviene da territori geo-politici o da situazioni socio-culturali diverse da quelle in cui ci si stabilisce per vivere. La democrazia mostra così un altro suo volto, antipodico rispetto a quello di più ampia diffusione che la vorrebbe come la soluzione socio-politica più idonea per il conflitto contro la diversità che ha sempre riguardato l'umanità di qualunque tempo e luogo: la democrazia mostra il suo impietoso e contraddittorio volto di produttrice di diversità, vere o presunte. 'Uniformare', in nome della democrazia, equivale dunque a 'violare' una libertà: quella di essere diversi, di essere stranieri. 'Violare' possiede la medesima radice morfologica di 'violenza'. Non è infatti possibile concepire una società umana 'livellata', in cui non esistono diversificazioni sociali, politiche, individuali, e ciò perché carattere umano universale è quello dell'esistenza di una identità personale e di una sociale. Quella personale si inscrive a pieno titolo in quella sociale, poiché è in essa che viene a formarsi e a svilupparsi; ma anche quella sociale è necessariamente determinata da quella personale, dato che una società umana da null'altro è composta se non da individui. Ma è un principio antropologico ben conosciuto, quello secondo cui non esiste né potrebbe mai esistere un'identità, se non in rapporto ad una diversità, ad un'alterità. E' infatti il confronto tra concezioni e percezioni differenti della realtà, tra diverse discretizzazioni del continuum spazio-temporale a determinare la costruzione identitaria, ovvero un raggruppamento sintagmatico di elementi 'utili' al fine di riuscire a determinare la conoscenza di se stessi, come individui e come società, con il conseguente scarto degli elementi ritenuti 'inutili' a tale fine, non 'inesistenti'. Si è qualcosa perché qualcun altro non lo è, o meglio: si dice di essere qualcosa perché qualcun altro dice di non esserlo, ed è proprio questo che disegna i contorni, i con-fini mentali che hanno la caratteristica di limitare, ma anche di definire, qualcosa di preciso, di controllabile, di ordinato e dunque di conoscibile.
Tornando ai concetti di 'democrazia' e di 'uguaglianza', dunque, appare falsante pensarli come qualcosa di ideologicamente 'puro'. Lo 'straniero' esiste ed esisterà sempre, anche in una società che si autopretende mono-culturale. Appare per questo inconcludente ogni metodo antropofagico o antropoemico attuato dalle società occidentali (guidate dalle loro classi dirigenti), società che proprio in quanto tali non possono non essere costituite da diversità (interne o provenienti dall'esterno: in questa sede non è questo il problema) che in ultimo non fungono ad altro che alla conoscenza stessa di chi le considera tali.
BIBLIOGRAFIA
[1] Bauman Z., La società dell'incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 57
[2] Ibidem