PERCHE’ “RISORGIMENTO” E’ DIVENTATO UNA PAROLA MALATA

Dopo oltre mezzo secolo di Repubblica antifascista (complici i neofascisti) oggi si nega l’Unità nazionale. Come riaffermare il valore simbolico, storico e spirituale della Patria

di Sandro Consolato

Sandro Consolato vive a Messina, dove insegna Storia e Lingua latina. E’ direttore della Cittadella, rivista di studi storici e tradizionali romano-italici (Edizioni del Graal). Nel 1995 ha pubblicato il libro “Julius Evola e il buddhismo” (SeaR Edizioni, Borzano). Ha scritto, tra l’altro, saggi sulla Prima guerra mondiale (“1915-1918: una Grande Guerra Romana”, Politica Romana n. 3/1996), sul Risorgimento (“Il Risorgimento come sviluppo della storia sacra di Roma”, Politica Romana n. 4/1997 e n. 5/1998-1999) e sulle figure principali del mondo tradizionalista romano degli inizi del secolo scorso (“Giacomo Boni, il veggente del Palatino”, Politica Romana n. 6, 2004). L’articolo che qui pubblichiamo è la versione ridotta, e senza note a pié pagina, dell’introduzione al suo volume “Dell’Elmo di Scipio. Risorgimento, storia d’Italia e memoria di Roma”, che uscirà nel 2011 in coincidenza con le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.




1861-2011. Lo Stato italiano compie 150 anni il 17 marzo, anniversario del giorno in cui il primo Parlamento nazionale, riunitosi a Torino, proclamò la nascita del Regno d’Italia. I suoi primi 50 anni il nostro Stato unitario li festeggiò nel 1911: a Roma, divenuta finalmente capitale d’Italia nel 1870, e, congiuntamente, a Torino e a Firenze, le capitali provvisorie tra il 1861 e il 1870, ma anche, rispettivamente, la madrina politica dell’Unità e la culla della lingua italiana. Furono festeggiamenti di uno Stato monarchico-costituzionale, liberale e in procinto di farsi liberal-democratico: il governo Giolitti allargava, proprio quell’anno, il suffragio universale a tutti i cittadini maschi con almeno un biennio di Elementari. Si trattò di festeggiamenti solenni, cui diedero il loro contributo letterati e artisti di prestigio come Pascoli e De Amicis, De Carolis e Cambellotti. Fu grandemente valorizzato, nei discorsi, nei testi e nelle immagini, il valore originario e originante, per la civiltà e per l’Unità degli italiani, di Roma caput mundi e caput Italiae. Che l’Italia avesse anche una dimensione culturale plurale non si mancò di sottolinearlo, attraverso l’Esposizione etnografica delle regioni, inaugurata però significativamente il 21 aprile, dies natalis Romae, onde segnalare che la Romanitas non annulla, ma unisce, esalta e proietta su un piano superiore le componenti etniche e culturali di una storia svoltasi in una moltitudine di secoli sul nostro spazio geografico peninsulare e insulare.

Il suo centesimo anniversario di esistenza, lo Stato italiano lo celebrò in tono minore. Tra il 1911 e il 1961 ci stavano in mezzo due guerre, una vinta e una persa, vent’anni di problematico condominio tra la monarchia che aveva creato lo Stato e la dittatura che aveva proclamato l’Impero, poi la Nazione percorsa da eserciti stranieri come ai tempi di Carlo VIII e impegnata in una terribile guerra civile, la liquidazione referendaria dell’ultimo re sabaudo, la nascita di una Repubblica democratica pesantemente condizionata dalla divisione del mondo tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Torino ebbe più spazio di Roma: era la città dell’unica monarchia rimasta in Italia accanto a quella intramontabile del Papa, ovvero della Fiat degli Agnelli, motore dell’unificazione automobilistica degli italiani. L’Italia si avviava a essere ciò che adesso sembra non esser più, cioè un paese appartenente al “primo mondo” dell’industria e dell’economia, ma pure, come lo è ancora, desideroso di contare anche nel grande gioco della politica internazionale, però senza le possibilità politico-militari, e i supporti ideali, per contare davvero, se non come terra di frontiera dell’Impero americano.

Nel 1961 i richiami a Roma antica furono messi in sordina: gli italiani avevano paura a rievocare, con l’Italia, il nome di Roma onnipresente negli anni del fascismo: a piazzale Loreto, in mano al Duce scempiato, avevano posto in mano un’asta di bandiera culminante nel gladio e nell’alloro. Quegli emblemi, come lo stesso fascio littorio con l’aquila, avevano dietro una lunga e nobile storia: la Repubblica degli Scipioni, ma anche quella di Mazzini e Mameli. Ora divenivano sempre più imbarazzanti. Da nascondere sotto terra, assieme al corpo deturpato del Cola di Rienzo del Novecento. Ma se nel 1961, agli italiani, allora divisi soprattutto tra democristiani e comunisti, ma anche tra socialisti, liberali, repubblicani, missini e monarchici, si fosse chiesto se erano per l’appunto italiani, avrebbero tutti risposto di sì. Certo, magari italiani con il cuore a Mosca o in Vaticano, magari non intrepidi sostenitori della sovranità nazionale, ma indubitabilmente italiani, e tali per appartenenza geografica, per cittadinanza, per lingua, per cultura e, nella stragrande maggioranza, per comune religione e ius sanguinis. Di “padani”, di “Celti”, in giro non se ne vedevano. Cominciavano, invece, a fiorire al sud i rivalutatori del Regno delle Due Sicilie: Carlo Alianello con i suoi romanzi (“L’Alfiere” è già del 1942, “L’eredità della Priora” del 1963; il saggio “La conquista del sud”, l’ur-testo del revisionismo risorgimentale meridionale, è invece del 1972), il missino Silvio Vitale con la rivista l’Alfiere (1960). Se a costoro, che erano uomini di cultura e “gentiluomini del vecchio sud”, va riconosciuto il merito di aver comunque mostrato che nel Mezzogiorno non tutto, nel 1860 e dopo, era avvenuto come raccontava la vulgata ufficiale, essi portano tuttavia delle forti responsabilità nell’aver generato anche in molti italiani, meridionali e di destra, l’idea di non essere degli italiani, ma dei “conquistati” dagli italiani, che ormai oggi non si capisce più chi siano, visto che anche il nord “padano” racconta e si racconta di essere stato vittima dell’Italia, tanto da volersene separare.

I 150 anni dell’Unità cadono in un paese forse alla fine della stessa “Seconda Repubblica”, che è in profonda crisi non solo politica e socio-economica, ma anche morale, tanto che molti italiani, soprattutto quelli che in passato avevano saldi valori e riferimenti religiosi e politici, avvertono se stessi come in uno stato confusionale. Il paese non è più tanto diviso tra destra e sinistra, ma tra chi vuole al governo Berlusconi e chi non lo vuole. Ed è anche diviso, cosa molto più importante e drammatica, tra chi ancora si considera italiano e vuole l’unità politica dell’Italia (con o senza federalismo) e chi non si considera più italiano e chiede federalismo o autonomismo come via tattica a una secessione già esplicita nei propri ideali, nei propri simboli e nelle dichiarazioni di principio e strategiche. Le forze politiche che oggi rappresentano questi italiani stanno ostacolando le celebrazioni per i 150 anni dello Stato unitario. Ma il problema non è quello di rovinare una festa; il problema è quello di riportare l’Italia ai tempi, per taluni idilliaci, in cui la Penisola era uno spezzatino politico. Franco Cardini – uno storico che ha anche lui le sue colpe nell’aver diffuso pregiudizi antirisorgimentali, ma che è sicuramente uno studioso di valore e uno spirito indipendente – da qualche parte ha scritto che di cultura nel mondo politico non si occupa più nessuno. Alla cultura, spiegava, ci credevano il fascismo e il comunismo, ma entrambi non esistono più. Ora, io credo che per spiegarci il perché sia potuto montare, al nord e in una certa misura anche al sud (il centro rimane più ancorato a una idea certa della propria italianità), il sentimento antinazionale e antirisorgimentale, occorre non solo fare indagini su produzione economica, tasse e aiuti statali, tassi presunti e reali di laboriosità e criminalità delle varie parti d’Italia ecc., ma chiedersi come abbia potuto diffondersi una cultura, ora più ora meno sofisticata, dell’anti-italianità e, con essa, dell’antiromanità.

Oggi vediamo politici, giornalisti e intellettuali di sinistra, soprattutto di area Pd, che nei salotti televisivi e sui giornali si sbracciano a favore del Tricolore, di Garibaldi, dell’Unità nazionale, a volte sposando perfino la più vecchia e agiografica storiografia (non includo affatto tra i “risorgimentali dell’ultima ora” Lucio Villari, già da parecchi anni sensibile verso tematiche non meramente “contemporaneiste”, ad es. riflettendo sui rapporti tra la Lerici ligure e l’Erice siciliana quali “segno lasciato dall’Italia antica quando, tremila anni orsono, i liguri erano il gruppo etnico più diffuso nella penisola”:” Quanti misteri sulla nascita delle nazioni”, Repubblica, 2.9.1998; o invitando a “pensare in modo nuovo anche la tradizione del patriottismo italiano: che fu un sentimento vero non solo nel secolo scorso ma anche nel nostro e perfino […] in alcune pieghe segrete dell’Italia fascista”: “Patria perduta”, Repubblica, 7.4.1993). Ma, se è vero che il comunismo italiano, quello del Pci, ha avuto, pur nell’obbedienza alla casa madre di Mosca, un suo forte profilo “nazionale”, segnato dal pensiero di Gramsci, è anche vero che esso, col suo filosovietismo e col suo opportunismo, ha arrecato non pochi danni alla Unità e alla sovranità nazionali: favorì la perdita di parte delle terre “redente” che la Jugoslavia si annetté nei modi brutali oggi ben noti, votò a favore del riconoscimento, nella Costituzione repubblicana e antifascista, dei Patti Lateranensi mussoliniani che ridavano al papato margini inverosimili di interferenza nella politica italiana e nella sovranità stessa dello Stato. Poi, per tutta la stagione (dal ’68 ai primi anni 80) in cui fu dominante l’appartenenza della gioventù all’estrema sinistra, complice lo stesso Pci, si impose assolutamente, estendendosi ai libri di scuola, una dottrina “antifascista” che di fatto rendeva “fascista” o “prefascista”, quindi da bollare negativamente, tutta la storia dello Stato italiano. Il potere persuasivo dell’ideologia di sinistra fu peraltro tale, per tutto il periodo della ‘Prima Repubblica’, da riuscire a influenzare decisioni e atti pubblici nonché l’immaginario collettivo (tale immaginario corrotto ben si evidenzia in un Beppe Grillo quando pretende anche lui di raccontare la vera storia d’Italia nei suoi comizi demagogici: v. A. Giuli, “Negazionisti d’Italia”, il Foglio, 7.6.2010). Ha scritto Sergio Romano (“Vademecum di storia dell’Italia unita”, 2009): “Con il fascismo, in tal modo, venne gettato via quasi tutto il Risorgimento, sopravvisse invece l’anti Risorgimento, vale a dire la ‘guerra del brigantaggio’, le lotte operaie, le insurrezioni e le rivolte sociali, anche quando erano soltanto jacqueries di plebi incolte e superstiziose. Il risultato fu un progressivo sovvertimento del calendario della Nazione. Anziché commemorare i suoi successi, il paese cominciò a celebrare le sue sconfitte e le sue sventure. Per non infastidire la chiesa, il XX settembre scomparve dalla lista delle feste civili. Per evitare la parola ‘vittoria’, il IV novembre divenne la giornata delle forze armate. La sconfitta di Adua diventò più importante della conquista di Addis Abbeba, Caporetto più importante di Vittorio Veneto e l’8 settembre la festa del ‘tutti a casa’. Ogni calamità sociale o naturale, dall’emigrazione ai terremoti e alle alluvioni, divenne un’occasione per mostrare l’indifferenza, l’incompetenza e il cinismo delle classi dirigenti, il carattere ‘classista’ delle istituzioni statali”. Stando così le cose, non meraviglia che un Bossi sia stato da giovane vicino al Manifesto, all’Arci, allo stesso Pci, tanto da non distinguersi molto dalla peggiore estrema sinistra, allorché (1994) disse ai suoi di andare a stanare, “uno per uno nelle loro case”, la “porcilaia fascista” di An. Ma non deve neanche meravigliare che nella Lega (come tra i neoborbonici) siano affluiti cattolici integralisti, di area cosiddetta “controrivoluzionaria”, tesi a continuare ai nostri giorni la polemica contro l’Unità, vista solo come figlia di una rivoluzione anticattolica liberalmassonica, e ovviamente anche giudaica, favorita dall’Inghilterra protestante e massonica, così che vedrebbero volentieri il ritorno a una condizione politica pre risorgimentale, con tanto di Roma restituita al Papa (nel primo governo Berlusconi era Irene Pivetti la “bandierina” di consimili idee). Se il Vaticano e la Cei (con talune eccezioni) non hanno pubblicamente incoraggiato tali posizioni – e se è vero che il cattolicesimo italiano ha anche avuto nell’Ottocento un suo filone sicuramente nazionale-unitario antitemporalista (vedi Manzoni); durante il fascismo un filone fortemente nazionalista, tanto da giungere in certi casi a posizioni quasi eretiche (vedi la tragica figura di don Calcagno); nella Italia repubblicana uomini come Mattei, strenuo difensore della sovranità e degli interessi nazionali –, è tuttavia un fatto che la chiesa, già principale responsabile della mancata Unità italiana in secoli che avevano visto nascere altrove stati nazionali potenti, ha vissuto tutta la caduta d’intensità del sentimento nazionale del Dopoguerra come un elemento grazie a cui rafforzare il suo ruolo d’indirizzo politico-morale e i suoi interessi di istituzione sovranazionale, anche se contrari a quelli dello Stato e dell’identità nazionali, proponendosi da ultimo essa stessa (nelle concelebrazioni Stato-chiesa del XX settembre 2010) come elementochiave della legittimazione odierna dello Stato unitario, a prezzi, politici ed economici, non indifferenti.

Il neofascismo, non meno della sinistra e del mondo cattolico, porta pure esso gravi responsabilità nel clima di anti italianità, e perfino di antiromanità, che oggi vediamo in auge. Già Saverio Vertone, politico e intellettuale dai tratti originali (figlio di un ufficiale degli Alpini lucano e di una madre piemontese con avo ministro di Carlo Alberto, a 17 anni “ragazzo di Salò” per amor di Patria, ebbe poi una lunga militanza nel Pci, lasciato sperando in un cambiamento epocale con la nascita di Forza Italia; eletto in Parlamento, si allontanerà da Berlusconi amareggiato e preoccupato per le sorti della Nazione ostaggio della Lega), nel ’92 denunciava come il leghismo avesse trovato spazio e proseliti grazie al fatto che nel Dopoguerra “l’antifascismo ha ripudiato il culto della latinità accettando però senza accorgersene la sistematica denigrazione che ne faceva il germanesimo (Miglio non viene dal nulla)”, mentre il neofascismo si guardava “bene, anche in Italia, dal servirsi di simboli latini”, usando “esclusivamente croci celtiche, svastiche e rune” (Corriere della Sera, 22.11.1992). Dal neofascismo, per quanto a certuni possa sembrare incredibile, arriva infatti buona parte dei costruttori del mito nordico-celtico, e poi medievale-cattolico, della “Padania”. Vertone riteneva che l’influsso del pensiero antimoderno, esoterico e nordicizzante di Evola avesse avuto un suo ruolo, già prima della nascita della Lega, nel preparare il terreno ad una ideologia anti romana e anti italiana. E su questo tema, cioè su quanto abbia effettivamente contribuito un Evola a snazionalizzare la destra italiana, converrà soffermarsi un po’ di più, visto che oggi la destra è qualcosa di molto ampio e variegato e nello stesso tempo di decisivo, contrariamente ai tempi della Prima Repubblica, nel governo del paese.

Nel suo pamphlet anticoncordatario del 1928, “Imperialismo pagano”, Evola, mentre chiedeva al fascismo di diventare veramente romano, cioè pagano, sfuggendo all’abbraccio col Vaticano, chiamava “l’Italia del ’70, l’Italia che vindice dei propri diritti, si insediava in Roma e di Roma affermava l’italianità, reintegrando l’antico inviolabile retaggio della stirpe latina”. Tuttavia, dagli anni Trenta in poi, egli, pur additando sempre la grandezza spirituale e politica di Roma antica come un punto di riferimento, si diede a una svalutazione, dettata dal suo sentire antimoderno, antidemocratico e antinazionalistico, di tutta la storia nazionale posta tra la caduta di Roma e l’avvento del fascismo, regime che fiancheggiò, in modo critico, fino alla fine.

Evola da molti è sbrigativamente considerato un pensatore “fascista”, ma in verità egli fu più correttamente una sorta di platonista, teorico dello Stato trascendentalmente fondato e castalmente ordinato. Poco influente durante il Ventennio, divenne dopo la guerra il principale ideologo delle correnti giovanili dell’estrema destra, dentro e fuori il Msi, ove veicolò il pensiero “tradizionale”, esoterico e antimoderno, e l’idea del ritorno dell’Europa a un Impero ghibellino sovranazionale. Pino Rauti ha raccontato (in M. Brambilla, “Interrogatorio alle destre”, 1994) dei “70-80 giovani reduci” di Salò che a partire dal ’48 si avvicinarono a Evola e ne fecero propri gli orizzonti spirituali e politici. Rauti evidenziava come il tradizionalismo evoliano solo a partire dall’incontro coi giovani romani tornati da Salò cominciò ad avere una discreta influenza nella destra italiana. Questi giovani “vinti” trovarono in Evola soprattutto il maestro capace di offrire loro un significato non contingente, metastorico, al mito della “nobiltà della sconfitta” di cui già vivevano. Essi furono indotti dai libri di Evola a sentirsi l’ultimo anello di un eonico “ciclo dei vinti” di cui facevano parte gli Ari primordiali espulsi dal paradiso artico della Thule, Giuliano Imperatore sconfitto dai “Galilei”, i ghibellini medievali sconfitti dall’alleanza guelfo-mercantile, la nobiltà dell’ancien régime travolta dalla Grande Rivoluzione e dall’avanzare del liberalismo e della democrazia, gli Imperi Centrali abbattuti dall’Intesa, quindi l’Asse annientato dall’alleanza tra sovietismo e liberal-democrazie, le quali ultime erano destinate a conoscere un universale trionfo del comunismo, secondo il principio che la “sovversione” non si può fermare a un grado intermedio. Tale prospettiva, inizialmente fatta propria da un ristretto ambiente del Msi, si sarebbe largamente imposta a tutta l’area della destra radicale decisa ad andar oltre il mero riferimento nostalgico al fascismo, ed Evola sarebbe stato, volente o nolente, “il maestro del ’68 di destra”; ancor oggi, benché molto meno seguito di un tempo, in vari ambienti viene ritenuto un’autorità proprio sul piano più caduco del suo pensiero, quello della visione della storia.

Ora, un dato interessante dell’esperienza di Salò, della storia di quelli che Carlo Mazzantini chiamò “i balilla che andarono a Salò”, fu il partecipare di un immaginario politico-guerriero che era pressoché integralmente tratto dal Risorgimento, anzi: dalla sinistra risorgimentale. Era stato Mussolini stesso a evocare questo immaginario, giacché all’atto di proclamare la costituzione della Rsi da Radio Monaco il 17 settembre ’43, dell’Italia aveva detto: “Quanto alle tradizioni, ve ne sono più repubblicane che monarchiche; più che dai monarchici, l’Unità e l’indipendenza d’Italia fu voluta, contro tutte le monarchie più o meno straniere, dalla corrente repubblicana, che ebbe il suo puro e grande apostolo in Giuseppe Mazzini. Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola: sarà cioè fascista nel senso delle nostre origini”. La Carta di Verona aveva fatto eco parlando di una riforma sociale “riallacciantesi alle secolari tradizioni del nostro umanesimo e del mazzinianesimo nella sua essenza spirituale”, mentre i simboli adottati, gladio e alloro e aquila con fascio “repubblicano” alludevano, s’è già detto, sì all’antica Roma, ma anche alla Repubblica Romana del 1849, ben presente nei francobolli e nei manifesti di Salò. Impressionante è notare come nel giro di un decennio, proprio attraverso l’incontro col pensiero “tradizionale”, la parte per certi versi migliore del neofascismo (migliore in quanto si poneva il problema di un rigoroso orientamento dottrinale), liquidò ogni positivo riferimento al Risorgimento fino al punto di lasciare che le giovani generazioni della destra coltivassero insieme un acceso e spesso acritico sentimento filo-salotino e un’immagine deformata dei valori più autentici, puramente patriottici, che stavano dietro l’esperienza della gioventù idealista che era accorsa al Nord nel ’43-45. Il fatto è che Evola aveva aderito alla Rsi ma, preciserà, solo al suo “lato militare, combattentistico e legionario”, essendo contrario al suo “aspetto soltanto politico, repubblicano e ‘sociale’” (v. “Diario 1943-44”, a cura di R. del Ponte, 1989). Ritornato a Roma da Vienna dopo la sconfitta dell’Asse, a quei giovani reduci di Salò che gli chiedevano lumi su ogni cosa, Evola fornì dunque una filosofia della storia che era quella che già prima della guerra aveva proposto senza successo al fascismo e al nazismo con la sua “Rivolta contro il mondo moderno” (1934), ma a loro volle pure dedicare, nel 1953, un libro nuovo, “Gli uomini e le rovine”, per il quale chiese la prefazione a un uomo che quei giovani adoravano, Junio Valerio Borghese. Il “Comandante”, in verità, dichiarava (v. “Gli uomini e le rovine”, Roma, 2001) la sua non condivisione verso “certe valutazioni storiche” e “certi punti di vista” del libro, e forse avrebbe fatto meglio a esplicitarla in modo preciso, invece di limitarsi ad apprezzare, giustamente, il richiamo al primato dei valori spirituali, politici e guerrieri su quelli economici contenuto nelle parti più belle del saggio evoliano (è importante, in questo contesto, sottolineare la “riabilitazione” di Borghese operata da Renzo De Felice in “Rosso e Nero”, a cura di P. Chessa, 1995: “La X Mas […] fu […] il punto di riferimento per coloro che all’idea fascista anteponevano la difesa dell’onore nazionale e dei confini della patria, contro ‘tutti’ i nemici dell’Italia interni ed esterni”).

“Gli uomini e le rovine”, come poi l’articolo del 1959 “Il volto del Risorgimento” (nell’Italiano, n. 3) ponevano in stato d’accusa “una certa storiografia ‘patriottica’” considerata figlia del “liberalismo rivoluzionario, la democrazia, il pensiero illuministico e massonico”, e quindi di ideologie per Evola nemiche della “Destra non nel senso politico, ma anche e anzitutto ideale e spirituale”. Certo, il filosofo non mancava di riconoscere che “i fatti risorgimentali presi in sé stessi mantengono il loro valore dal punto di vista del terminus ad quem, cioè della costituzione dello Stato italiano”, ma un simile riconoscimento perdeva molto di significato di fronte all’elogio “della Casa d’Austria e di un vincolo dinastico inteso ad ordinare in uno spazio comune ceppi diversi – Boemi, Ungheresi, Croati, ad esempio, non meno di Italiani – ai quali veniva riconosciuto un regime di parziale autonomia” (si noti che la X Mas contrastò nel nostro nordest proprio il ritorno a simili prospettive, là dove le autorità naziste, sottratta al controllo fascista quell’area geografica, la facevano gestire da austriaci, da sloveni, perfino da italiani antifascisti, con un’opera di disitalianizzazione che nelle terre giuliane preannunciava il titismo, ma che godeva del “plauso degli aristocratici austriaci della zona, i quali esultavano a ogni offesa arrecata al fascismo”: R. Lamb, “La guerra in Italia”, Milano, 1995). Né va ignorato che il fatto che Evola accettasse polemicamente come sostanzialmente vera la celebrazione antifascista della Resistenza quale “secondo Risorgimento” faceva sì che la gioventù di destra venisse spinta verso l’“Antirisorgimento”, cioè là dove le forze cattoliche e comuniste dominanti la scena della “Prima Repubblica”, il cui richiamo al Risorgimento si dimostrò presto del tutto ipocrita, volevano che la destra si collocasse per distruggerne il potenziale di risveglio della coscienza nazionale in un’Italia divenuta uno Stato a sovranità limitata. In un interessante articolo apparso sull’Europeo del 21.2.1992 (“Quando Croce fu tentato da Mussolini”), Marcello Staglieno ha evidenziato anche le gravi responsabilità dei liberali come Croce nel negare, con altro scopo, la continuità, pur nell’abbandono degli ideali di libertà, tra Risorgimento e fascismo. Notevole è la testimonianza che Staglieno forniva di un colloquio tra Rosario Romeo ed Ernst Jünger, ove il primo spiegava al secondo che “una delle maggiori colpe di noi storici liberali, specie nel secondo Dopoguerra, è stata forse quella di aver mantenuta valida la netta cesura crociana tra Risorgimento e fascismo”, chiarendo altresì che “gli interventisti avevano combattutto dal 1915 al 1918 nella convinzione che quella fosse la ‘quarta guerra d’indipendenza’. Vi parteciparono, cioè, all’insegna di quegli ideali ‘liberali’ (ma anche ‘libertari’ da parte dei socialisti interventisti) che appartenevano al Risorgimento. Quando però si accorsero – notava Romeo – che nell’immediato primo Dopoguerra l’Italia rischiava di spezzarsi sulla spinta soprattutto della bolscevica Rivoluzione d’ottobre, quegli stessi figli del Risorgimento abbandonarono ogni ideale‘liberale’ e ‘libertario’. E ‘fecero’ (o vi aderirono) il fascismo, in funzione esclusivamente unitaria. […]”. Riferendosi agli anni successivi al 1945, Romeo aveva quindi detto a Jünger che – dopo una guerra perduta, e dopo una guerra civile – la storiografia liberale aveva dovuto insistere sull’estraneità del Risorgimento rispetto al fascismo, soprattutto per fare fronte agli attacchi dell’egemonia culturale marxista. Così facendo, s’era anche manifestata la necessità di sminuire, o quanto meno smettere di enfatizzare, quegli ideali di cui il fascismo aveva pur fatto inflazione: finendo cioè con l’appannare quel sentimento unitario che oggi, dopo anni e anni di malgoverno, inutilmente si tenta di risuscitare”.

Già un discepolo di Evola, Adriano Romualdi, figlio di Pino, uno dei padri del Msi, aveva colto e segnalato (v. “Julius Evola: l’uomo e l’opera”, 1968), “ingenuità storiche” nel “giudizio negativo di Julius Evola su Napoleone, o sul Risorgimento”. E a proposito degli Stati preunitari (cui Evola peraltro, Asburgo a parte, non aveva mai dedicato una riga di apprezzamento), Romualdi scriveva pure: “I principotti italiani erano la caricatura della ‘monarchia tradizionale’”. Osservando poi intorno a sé diversi “camerati” che da Evola “han tratto pretesti per atteggiamenti ‘reazionari’ appartenenti piuttosto al folklore che alla politica, per riesumazioni ‘borboniche’ o medievalistiche’”, il brillante intellettuale di fatto li ridicolizzava; senonché il numero di coloro che traevano quei “pretesti” crebbe sempre di più, portando alla fantasmagorica creazione di un neofascismo che metteva in testa a Mussolini (che non si cessava di omaggiare) l’improbabile cappello del cardinale Ruffo e gli ingombranti stivali del maresciallo Radetzski, creando un ircocervo ideologico nemico di uno dei cardini del fascismo reale, cioè l’unità e l’indivisibilità della Patria, e della stessa idea fascista di un primato della nazione italiana da celebrarsi come passato, presente e futuro. Certo, l’antirisorgimentalismo di Evola non giunse mai, e ciò gli permise di non porsi fuori dai quadri ideali del fascismo italiano, alla contestazione del fatto e del diritto dello Stato unitario: egli si sentiva vicino alla “monarchia costituzionale pura” di età umbertina, lamentando che “in Italia è stata di brevissima durata” (v. “Le sacre radici del potere”, di Julius Evola”, a cura di R. del Ponte, 2010), aveva suggerito a Mussolini la creazione di un elitario “Ordine Fascista dell’Impero Italiano” (“Sintesi di dottrina della razza”, 1941), dopo la guerra si era pronunciato a favore della difesa dello Stato “perfino quando esso è uno ‘Stato vuoto’”, denunciando addirittura i pericoli del regionalismo in Italia: “E’ da dirsi che ogni decentralizzazione non può non agire in modo disgregatore quando vi sia una carenza del potere politico centrale” (“Il fascismo, con note sul III Reich”, 1979). Tutto questo però, evidentemente, non venne sufficientemente considerato da molti suoi lettori ed esegeti. Va aggiunto che l’esoterismo di Evola era qualcosa di troppo alto o comunque inattuale ed esotico per i più, e certi suoi positivi giudizi sul cattolicesimo diventarono non solo motivo di legittimo ritorno alla chiesa per chi dapprima era stato tentato da alcuni orizzonti metafisici, ma anche la porta aperta per il diffondersi del pensiero cattolico-controrivoluzionario di un Attilio Mordini (filo asburgico) e del carlista Francisco Elias de Tejada (nostalgico dell’Impero ispanico di Carlo V), del quale ultimo si poté scrivere che aveva portato un “vero e proprio mutamento di rotta […] nella cultura della destra italiana, della quale rivalutava il patrimonio migliore, l’eredità largamente incompresa, accantonando l’idealismo immanentista gentiliano e rifiutando le suggestioni esotiche di Julius Evola” (G. Ferracuti, “Presenza di Francisco Elias de Tejada nel tradizionalismo italiano”, 1980). Ma un de Tejada negli anni 70 veniva in Italia a insegnare alla destra e al tradizionalismo italiani che “Roma [è] morta mille anni fa” e che l’unità romana dell’Italia era “una chimera umanistica” (“Per una cultura giusnaturalista”, 1981). La gente che ascoltava estasiata queste farneticazioni poi, non si sa come, si presentava nelle liste del, o votava per il, Msi, cioè per il partito che avrebbe dovuto rappresentare il nucleo duro e puro del nazionalismo italiano! Se si comprende tutta questa complessa storia culturale della destra che si svolge tra gli anni 50 e la fine degli anni 80, cioè per tutto il periodo della ghettizzazione politica dell’estrema destra italiana (che allora era la destra italiana tout court), si capirà anche perché non solo da quel mondo ma certamente anche da quel mondo nasce, agli inizi degli anni 90, una Lega che non è solo quella “laica” di un Maroni, già militante di Democrazia proletaria, ma anche quella dei demiurghi simbolici del leghismo, dichiarati nemici tanto della Romanità (che avrebbe distrutto la civiltà ario-padana dei Celti) quanto della Italianità (che ha unito realtà geo-etniche – il nord e il sud – che dovevano restare divise e tolto al Papa il trono che impediva a Roma di far tornare l’Italia romana): i Gilberto Oneto, primo divulgatore del simbolo del “Sole delle Alpi”, il cui animus antiromano e antiunitario si esplicitò, fra l’altro, nell’articolo “Meglio figli di puttana che figli della lupa” (la Padania, 7.6.1998), scritto contro Montanelli, accusato di essere ancora fascista e sbeffeggiato perché discendente del patriota Giuseppe, triumviro di Toscana nel 1849; i Mario Borghezio, l’urlatore dello slogan I-taglia!, esegeta graalico dei riti pseudo-pagani del Po e capace di presenziare tanto alle cerimonie dei caduti della Rsi quanto a quelle degli zuavi pontifici, e nello stesso tempo di congratularsi nel 2008 col sindaco di Capo d’Orlando Enzo Sindoni per la rimozione della targa a ricordo di Garibaldi nella piazza omonima del suo paese, atto che trovò pure il plauso del presidente autonomista della regione Sicilia Raffaele Lombardo (nel frattempo, Sindoni, che accusava Garibaldi di essere un massacratore e un rapinatore del Sud, è stato arrestato, con l’accusa di “truffa aggravata in concorso nei confronti della Pubblica amministrazione per il conseguimento di erogazioni pubbliche”: una vendetta dei Mani di Garibaldi?).

Può apparire spropositato lo spazio che do a Evola e alla cultura di destra in rapporto al tema dell’Unità e del Risorgimento. Allora va chiarito il perché. La cultura della destra radicale ha avuto e ha in proprio una grande attenzione ai temi del mito, del simbolo, del rito; con Guénon ed Evola ha coltivato idee esoteriche, cioè quelle di una spiritualità elitaria distinta dalla semplice religione, ma che può porsi nel centro più occulto tanto delle religioni quanto delle forme politiche, indirizzando l’immaginario collettivo di popoli e nazioni. Il concetto più significativo ripreso da quegli autori è stato quello di Tradizione, da interpretarsi in senso proprio come Sapienza occulta trasmessa, ma in senso più largo anche come concetto identificativo di quelle civiltà che pongono il Sacro come loro centro vitale e sentono la conservazione, la difesa e la valorizzazione dell’antico, e ancor più dell’“originario”, un dovere assoluto, che pone a esse il problema di come affrontare il mutamento e quindi la “modernità”. Gli “studi tradizionali” sono gli studi nati in questo ambito: l’Italia e la Francia sono state le patrie di questi studi nel secolo XX. Porsi dal punto di vista di questa cultura – soprattutto oggi che, a partire dai lavori di Giorgio Galli, si è compreso quanta influenza possa avere sulle scelte politiche la dimensione del “magico” e del “sacro” – per capire cosa è successo e cosa sta succedendo in Italia, è tanto importante quanto il ragionare parlando di economia, sociologia, politica. Quello che viene sottovalutato è che stato creato un mito, quello di una “Padania” e del nord celtico che, per quanto sia grossolano, funziona, come funziona il rito del Po, per quanto appaia più una gran scampagnata che un severo cerimoniale sacro. Questo mito e questo rito hanno risposto a bisogni reali di radici, di identità, di sacralità, anche in termini etnico-culturali, entro un vuoto spirituale che è stato creato dalla secolarizzazione, dalla caduta di ideali forti come il comunismo, dalla globalizzazione, dalla disaffezione verso uno Stato incapace di rispondere adeguatamente ai problemi del presente e di riformarsi efficacemente. Quello che non si comprende è che, se la distruzione della identità italiana nell’immaginario collettivo dall’inizio degli anni 90 avviene soprattutto attraverso miti, simboli e riti, solo attraverso riti, simboli e miti tale identità si può ricomporre, accompagnandola ovviamente a tutta un’opera di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale del paese, che può anche realizzare il federalismo, purché non sia un cavallo di Troia del secessionismo e benché non sia, probabilmente, la vera panacea dei nostri mali. Il vantaggio che ha il partito degli italiani (che io ritengo oggi molto più trasversale di un tempo, capace di raccogliere quadri ed energie a destra come a sinistra, e perfino di spezzare al suo interno il fronte leghista) è quello di potersi avvalere di un mito antico e vero, quello stesso che ha animato lo sforzo di secoli per giungere all’Unità nazionale e che ha reso una scelta obbligata l’avere Roma come capitale dello Stato italiano. Questo mito ha il nome più nobile e più invidiato della storia: quello di Roma.

Vivo da circa trent’anni entro la cultura “tradizionale” e “di destra”, e ritengo di dover considerare con particolare attenzione tale cultura in un discorso attuale sul Risorgimento e l’Unità nazionale, poiché penso che è lì che si sono generati i guasti maggiori, dal momento che l’Italia, paese anomalo per eccellenza, ha visto formarsi nel suo seno, dopo la Seconda guerra mondiale, correnti di destra le cui idee sono andate a rafforzare i sentimenti antinazionali e non filonazionali degli italiani, il che non avviene in nessun’altra nazione. Ciò non è senza rapporto con la complessità del nostro paese e col ruolo antinazionale che ha svolto secolarmente la chiesa cattolica, laddove in altri paesi le chiese cristiane, cattolica compresa, sono state elementi fondamentali dell’unità politica e dell’indipendenza dallo straniero. La mia tesi è che l’Unità antica d’Italia sia una creazione della Roma precristiana e che la chiesa cattolica si sia posta sempre contro l’Unità post antica perché in essa ha, ora per certezza ora per intuitiva sensazione, visto il pericolo del ritorno a una Romanità che non è quella (riassumibile nell’universalismo cristiano e nell’egemonia guelfa) da essa interpretata e veicolata. Certezza, sensazione, che ha un suo fondamento, sempre a mio avviso, poiché ritengo che le forze spirituali che hanno presieduto alla nascita di Roma e della civiltà italica non siano mai state sradicate e da esse abbiano tratto linfa vitale tutti i tentativi degli italiani di ri-sorgere alla passata condizione di grandezza spirituale e civile. Poiché si vuole negare l’Unità nazionale partendo dall’antichità, dall’antichità penso occorra partire per riaffermarla. Che questa non sia un’idea balzana o inattuale lo conferma il fatto che al pubblico oltraggio fatto da Bossi al venerando acronimo SPQR (27.9.2010), che voleva in quel caso colpire stupidamente solo la città di Roma e i suoi abitanti, un antichista come Luciano Canfora (Corriere della Sera, 28.9.2010) ha potuto rispondere che “Con Cesare Roma diventa tutta l’Italia, compresa la Cisalpina. Roma cioè, in quanto concetto giuridico e politico, si identifica – grazie all’estensione della cittadinanza – con l’intera Italia”. Il che deve fare riflettere, tanto più che il commento di Gilberto Oneto (Libero, 1.10.2010) alle “scuse” poi fatte dal leader della Lega agli abitanti di Roma è stato l’articolo “Niente scuse ai romani”, ove si è spiegato che si deve fare a meno tanto degli insulti quanto delle scuse, e piuttosto non smettere mai “di lavorare seriamente per una bella separazione consensuale, anche arrivandoci un po’ alla volta”. Ai leghisti che offendono il simbolo SPQR farebbe bene sapere, come ricorda Canfora, che “populus […] significa al tempo stesso il popolo, ma anche l’esercito. E questo è ovvio in generale nella città-stato antica, che si fonda sulla identità cittadino/guerriero, e in particolare per la città-stato Roma”.

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