Originariamente Scritto da
Italianista
Il risultato elettorale del 25 aprile sembrerebbe fornire più di un elemento di conforto alle insistenti speculazioni relative ad un rapido ingresso dell’Islanda nella UE, tema diventato improvvisamente di estrema attualità in seguito all’impatto della crisi finanziaria globale sull’economia dell’isola. Per la prima volta la vittoria è andata al partito social-democratico, da tempo unico attore euroentusiasta nel panorama politico islandese. L’elettorato ha così manifestato il suo risentimento contro la destra conservatrice, accusata di aver favorito l’ipertrofia finanziaria che ha portato il sistema bancario verso il collasso una volta che il deleveraging degli investitori istituzionali internazionali ha portato al crollo del valore delle attività che gli istituti di credito islandesi avevano posto in garanzia sulla loro abnorme esposizione. Il nuovo primo ministro Johanna Sigurðardóttir già in campagna elettorale aveva annunciato l’intenzione di sottoporre la candidatura per l’ammissione nella UE già nel giugno 2009, incoraggiata dalla dichiarazione del Commissario all’allargamento Olli Rehn secondo cui l’Islanda potrebbe far parte dell’Unione nel giro di due anni. Oltre al favore della Commissione, l’ingresso islandese gode anche di quello della prossima presidenza di turno, spettante alla Svezia.
Nonostante la congiuntura apparentemente favorevole, è possibile individuare diversi elementi in grado di indurre un certo scetticismo, di ordine politico, istituzionale ed economico. La politica sembra essere l’ostacolo più importante. La maggioranza riposa infatti su una coalizione fra social-democratici e sinistra ambientalista, euroscettica e tradizionalmente legata all’industria della pesca. Sebbene l’appartenenza allo Spazio Economico Europeo abbia già integrato l’Islanda in buona parte dell’acquis comunitario, in particolare per quel che concerne commercio, concorrenza e libera circolazione, la politica europea per la pesca non si estende all’isola. La piena membership comunitaria comporterebbe non solo l’adeguamento del Paese alle quote-pesce e alla capacità delle flotte – temi sui quali la negoziazione è possibile – ma anche l’apertura delle acque islandesi ai pescherecci provenienti da altri membri dell’Unione. La stessa Sigurðardóttir ha più volte sottolineato come non avrebbe mai consentito una compromissione della sovranità islandese sulle risorse naturali come risultato dell’adesione alla UE. Sebbene negli ultimi anni il Paese abbia sviluppato una strategia di diversificazione della propria economia – con successo per quanto riguarda l’alluminio, che ha superato il pesce come principale commodity esportata, e con meno successo per quanto riguarda i servizi finanziari – la pesca continua ad infiammare il dibattito pubblico sull’adesione e il partito social-democratico non ha un consenso sufficiente per una prova di forza sul tema.
Vi è inoltre da tenere in considerazione che il momento politico è pessimo, data la fase non proprio brillante del processo di integrazione europea. Qualora il Trattato di Lisbona fosse affossato ancora una volta dal referendum irlandese, la necessaria unanimità per lanciare i colloqui di adesione con l’Islanda potrebbe essere facilmente rotta data la diffusa ostilità per ulteriori allargamenti e le tensioni politiche con la Gran Bretagna, ormai non solo relative alla pesca ma anche e soprattutto all’insolvenza dei fondi islandesi indebitati sui mercati finanziari britannici. L’Amministrazione conservatrice di Geir Haarde avrebbe infatti deciso la nazionalizzazione punitiva di Glitnir e Kaupthing come una mossa per evitare azioni legali britanniche. Da parte loro, gli inglesi hanno congelato asset islandesi per 4 miliardi di sterline utilizzando pretestuosamente le normative anti-terrorismo.
Dal punto di vista istituzionale, l’Islanda dovrebbe procedere ad un complesso adeguamento della costituzione per entrare nella UE. Tale emendamento richiederebbe il consenso sia dell’attuale parlamento che del nuovo, e le divergenze sul tipo di modifica sono all’ordine del giorno. Una volta scongiurata la necessità di un referendum sull’avvio dei negoziati di adesione, precedentemente ventilato per l’insistenza della sinistra ambientalista, difficilmente l’ingresso vero e proprio potrebbe incontrare il favore popolare che, dopo il picco del 52% toccato al momento dell’esplosione della crisi, sembra ora sceso al 38% (sondaggi Gallup). L’esperienza norvegese, con ben due fallimenti referendari, è piuttosto viva nell’elettorato islandese.
Il terzo ostacolo, di ordine economico, è relativo all’adesione all’euro. La grande maggioranza della popolazione preferirebbe un’adozione dell’euro senza l’onere della membership nell’Unione Economica e Monetaria, che implicherebbe l’adesione alla UE. La procedura standard per l’ingresso nella moneta unica richiederebbe dunque non meno di 4 anni, nei quali lo sforzo per l’aggiustamento dei parametri macroeconomici si annuncia enorme: inflazione al 15%, tassi di interesse al 17%, deficit al 10% del PIL e debito schizzato oltre il 100% a causa dell’intervento pubblico per la stabilizzazione della Corona sono evidentemente pessime credenziali.
Lo scenario della piena adesione sembra dunque tutt’altro che probabile. Possibile, invece, l’adozione unilaterale dell’euro, consigliata dal Fondo Monetario Internazionale – che erogando un pacchetto di salvataggio di 10 miliardi di dollari ha di fatto assunto voce in capitolo nelle scelte di politica economica di Rejkyavik – ma decisamente sconsigliata dalla Commissione e dalla Banca Centrale Europea. L’Islanda sembra per ora piuttosto timorosa di eventuali rappresaglie da parte delle istituzioni europee, tuttavia i precedenti di Montenegro, Andorra e Kosovo dimostrano che tali istituzioni non hanno alcun mezzo per impedire l’adozione unilaterale della moneta unica da parte dei non-membri. La prudenza sarebbe consigliata dal fatto che la stessa Eurozona è al momento sottoposta ad un forte stress politico ed economico, in particolare per il tentativo della Francia di Sarkozy di rimuovere Jean-Claude Juncker dalla Presidenza dell’Eurogruppo e all’esplosione dei differenziali nelle partite correnti intra-Eurozona. Inoltre l’eurizzazione è anche l’opzione favorita dall’opinione pubblica islandese che, in rotta con la fallimentare gestione della crisi da parte della Banca Centrale a causa della catena di errori che hanno seguito la nazionalizzazione di Glitnir – che ha finito per deteriorare il rating del debito sovrano al punto da far svalutare la Corona e renderla inefficace per interventi di ricapitalizzazione d’emergenza delle altre banche – non considererebbe particolarmente problematica la perdita della sovranità monetaria. Pragmaticamente, l’Amministrazione islandese sa bene chi è che conta a Francoforte e che anche un’adozione standard e la presenza negli organi della BCE non renderebbe il Paese più influente nella politica monetaria dell’Eurozona.
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