Ricorre oggi il centoduesimo anniversario del famigerato terremoto calabro-siculo, entrato nell'immaginario collettivo quale manifestazione suprema di fato ineluttabile e natura crudele... sorgente aspra di interrogativi esistenziali tuttora aperti.
Un argomento carico di orrendo fascino, spunti di ricerca e aspetti densi di mistero... come accade ogni qual volta la soglia tra morte e vita si fa labile e sottile.
Ecco, per cominciare, un mio articolo apparso anni fa sul quotidiano locale... che è stato il nucleo primigenio di uno studio assai più corposo, anch'esso ormai pubblicato.
E la vita trionfò sulla morte
Conseguenze psicologiche e aspetti sociali del terremoto del 28 dicembre 1908
di Francesco Cuzari
Quando il baluginio dell'alba livida di quel ventotto dicembre disperse un'oscurità breve eppure interminabile, Messina apparve somigliante, scrisse Concetto Marchesi, a «un'enorme, mostruosa e irregolare cava di pomice, desolata e cinerea». La cortina del porto, secondo i cronisti dell'epoca, pareva «sorridere come un bocca sdentata»; le mura degli edifici sembravano «sbocconcellate dalle mandibole immani di un mostro», e da esse, come da immense forche, pendevano corpi umani. Il cielo plumbeo sovrastava un paesaggio da incubo, da incantesimo malefico. Si udivano urla, pianti e risate. Per terra e fra i ruderi si intravedevano carte da gioco, biglietti di auguri e altri piccoli e macabri cimeli di una serenità violata a tradimento.
Ma il sisma, che secondo alcuni sopravvissuti era stato accompagnato da un'aurora boreale e da una pioggia di stelle cadenti, non si era limitato a distruggere palazzi e a uccidere alla cieca. L'intero ordine costituito, con i suoi valori e i suoi equilibri etici e familiari, giaceva anch'esso sotto le macerie, spodestato da un'anarchia presociale in cui l'unica legge rimasta era quella del più forte. Essere morti era la norma, essere vivi era l'eccezione. Su una porta fu scritto: «Tutti salvi. Famiglia Serrao».
Niente rimaneva della città dalle rigorose gerarchie sociali, mirabilmente dipinta dal Boner nelle sue novelle; niente rimaneva della città in cui il dottor Vincenzo Cammareri era stato considerato un eccentrico poiché, dopo le scosse del 1894 e del 1896, si era fatto costruire una casa dai muri rinforzati; niente rimaneva della città in cui ogni borghese era chiamato “professore”. Qualsiasi titolo, ormai, sarebbe sembrato una beffa.
Diversi cittadini che, poche ore prima, erano andati a dormire tranquilli e benestanti, si ritrovarono improvvisamente sul lastrico, costretti a nutrirsi di erbe e radici. Talvolta, andarono perduti i sacrifici di generazioni. Il banchiere Mauromati si presentò al Prefetto scalzo e nudo, chiedendo un paio di scarpe e un cappotto. L'ingegner Soave, stimato professionista, perse tutta la famiglia e, impazzito, fu portato a Catania. Mentre lo trascinavano via, gridava: «Nulla è successo a Messina! Proprio nulla! Soltanto la mia famiglia è distrutta!». La catastrofe venne, infatti, anche paragonata a una sorta di rivoluzione, poiché aveva colpito senza clemenza il lusso e lo sfarzo, risparmiando, in misura maggiore, la povertà.
Nei giorni successivi, i superstiti, pallidi e con gli occhi sbarrati, avvolti in tende o tappeti oppure vestiti di cenci, si aggiravano tra i ruderi, sedevano sui sassi o si scaldavano dando fuoco a ciò che restava della loro casa. Molti feriti, che magari si erano trascinati in cerca di soccorso fino all'Ospedale Civico per poi accasciarsi nel vederlo ridotto a uno scheletro, chiedevano solo di bere e di morire. C'erano uomini vestiti con abiti femminili e, viceversa, alcune donne indossavano pastrani o giubbe militari. Rifugiati in improvvisate capanne, preistoriche e zingaresche, sembravano personaggi di un grande affresco raffigurante i “Vinti” di verghiana memoria.
Non mancavano, fra loro, atti di pietosa abnegazione, ma c'era anche qualcuno che, inebriato dal solo fatto di essere in vita, osservava con compiacimento le disgrazie altrui o, addirittura, si rendeva protagonista di episodi ignobili. Alla contessa Massei, che invocava aiuto, tagliarono le dita per portarle via gli anelli; a una donna che chiedeva qualcosa da mangiare, attraverso un buco, spararono con il moschetto. Rapidamente, si diffuse una sorta di esasperata insensibilità, di anomala abitudine al dolore. Paradossale motivo di gioia era, per taluni, il ritrovamento del corpo dei congiunti, che riconoscevano senza disperazione, a volte con un moto di raccapricciante felicità. Ciò risaltava di fronte al vistoso strazio dei parenti che giungevano da fuori. Anche i casi di follia non mancavano, eppure Claudio Treves, su Il Tempo del 6 gennaio 1909, poteva constatare che «a tutt'oggi, di laggiù, non è segnalato un solo caso di suicidio».
Nel frattempo altri, approfittando della momentanea mancanza di militari (che, in gran parte, erano stati falciati dalla scossa...), si davano ai saccheggi, anche perché i furti, al cospetto di quel male assoluto, non erano più avvertiti come peccati. Un tale, che aveva preso un sacco di farina, fu fermato da un maresciallo dei Carabinieri. «A chi hai rubato quel sacco?», chiese quest'ultimo. «A chi? – rispose l'altro. – «Al Padre Eterno ca nni conza sti festi ». Il fenomeno fu represso con il pugno di ferro. E pensare che, non di rado, anche i soldati, in cerca di cibo, dovevano improvvisarsi scassinatori.
La situazione era aggravata dagli incendi, per lo più dolosamente appiccati proprio per generare confusione e distrarre le guardie. Nessuno si stupiva di quelle fiamme sinistre, che completavano uno scenario già spettrale. Il lezzo di morte, che in vicinanza degli agrumeti si mescolava al profumo dei limoni, impregnava le divise dei soccorritori, costretti a lavorare muniti di fialette di sali e batuffoli di ovatta. Sotto l'influenza di una certa letteratura ottocentesca, ci si immedesimava, inoltre, nella condizione dei sepolti vivi, tentando di immaginare i loro pensieri.
In molti cominciarono a chiedersi, ossessivamente, perché la città protetta dalla Madonna della Lettera fosse stata colpita da un simile flagello, di quali atroci colpe si fosse macchiata. Dino Provenzal, nel suo contributo per la Rivista di Psicologia del marzo 1909, ricordò che, durante i sussulti della fatidica mattina, aveva pensato: «Dato che Dio esista, il terremoto l'ha mandato lui; pregare è un assurdo dunque; morrò: aspettiamo». Per strada, capitava di scorgere gruppi di donne che, come invasate, urlavano che la vendetta divina si era compiuta. L'evento tellurico era sentito come un inspiegabile trionfo del male sul bene, un'incomprensibile frattura storica e religiosa. Si diffuse, inoltre, la convinzione che il disastro, dopo un mese lunare, si sarebbe ripetuto. A tal proposito, Giuseppe Antonio Borgese terminava la sua corrispondenza per La Stampa del 17 gennaio 1909 commentando: «In questa provvisoria sospensione delle leggi naturali a cui il terremoto ha sostituito, prima del Governo, una sua legge marziale, si abbandona la scienza e si accolgono con pronto consenso le profezie superstiziose, si citano i vaticini delle sonnambule e degli astrologhi, si rievoca la grande eclissi del 1905 a cui seguirono inondazioni ed eruzioni e distruzioni di città, e si contano le notti che ci separano dalla fine del mese lunare, dal secondo terremoto. Tutte le notti, quando la solita scossa incrudelisce sui morti, le sentinelle stanche e taciturne balzano spaventate sentendo passare un nemico che non risponde al chi va là e che non cade sotto la mitraglia...».
Eppure, fra rischi di epidemie e sterili polemiche, la vita avrebbe, man mano, ripreso il sopravvento. Lo si intuì quando, in quel contesto apocalittico, nacquero i primi bambini. Fu la tranquillizzante dimostrazione che i dettami della natura, nonostante tutto, vigevano ancora.