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    Predefinito 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    Ricorre oggi il centoduesimo anniversario del famigerato terremoto calabro-siculo, entrato nell'immaginario collettivo quale manifestazione suprema di fato ineluttabile e natura crudele... sorgente aspra di interrogativi esistenziali tuttora aperti.

    Un argomento carico di orrendo fascino, spunti di ricerca e aspetti densi di mistero... come accade ogni qual volta la soglia tra morte e vita si fa labile e sottile.

    Ecco, per cominciare, un mio articolo apparso anni fa sul quotidiano locale... che è stato il nucleo primigenio di uno studio assai più corposo, anch'esso ormai pubblicato.


    E la vita trionfò sulla morte

    Conseguenze psicologiche e aspetti sociali del terremoto del 28 dicembre 1908

    di Francesco Cuzari



    Quando il baluginio dell'alba livida di quel ventotto dicembre disperse un'oscurità breve eppure interminabile, Messina apparve somigliante, scrisse Concetto Marchesi, a «un'enorme, mostruosa e irregolare cava di pomice, desolata e cinerea». La cortina del porto, secondo i cronisti dell'epoca, pareva «sorridere come un bocca sdentata»; le mura degli edifici sembravano «sbocconcellate dalle mandibole immani di un mostro», e da esse, come da immense forche, pendevano corpi umani. Il cielo plumbeo sovrastava un paesaggio da incubo, da incantesimo malefico. Si udivano urla, pianti e risate. Per terra e fra i ruderi si intravedevano carte da gioco, biglietti di auguri e altri piccoli e macabri cimeli di una serenità violata a tradimento.
    Ma il sisma, che secondo alcuni sopravvissuti era stato accompagnato da un'aurora boreale e da una pioggia di stelle cadenti, non si era limitato a distruggere palazzi e a uccidere alla cieca. L'intero ordine costituito, con i suoi valori e i suoi equilibri etici e familiari, giaceva anch'esso sotto le macerie, spodestato da un'anarchia presociale in cui l'unica legge rimasta era quella del più forte. Essere morti era la norma, essere vivi era l'eccezione. Su una porta fu scritto: «Tutti salvi. Famiglia Serrao».
    Niente rimaneva della città dalle rigorose gerarchie sociali, mirabilmente dipinta dal Boner nelle sue novelle; niente rimaneva della città in cui il dottor Vincenzo Cammareri era stato considerato un eccentrico poiché, dopo le scosse del 1894 e del 1896, si era fatto costruire una casa dai muri rinforzati; niente rimaneva della città in cui ogni borghese era chiamato “professore”. Qualsiasi titolo, ormai, sarebbe sembrato una beffa.
    Diversi cittadini che, poche ore prima, erano andati a dormire tranquilli e benestanti, si ritrovarono improvvisamente sul lastrico, costretti a nutrirsi di erbe e radici. Talvolta, andarono perduti i sacrifici di generazioni. Il banchiere Mauromati si presentò al Prefetto scalzo e nudo, chiedendo un paio di scarpe e un cappotto. L'ingegner Soave, stimato professionista, perse tutta la famiglia e, impazzito, fu portato a Catania. Mentre lo trascinavano via, gridava: «Nulla è successo a Messina! Proprio nulla! Soltanto la mia famiglia è distrutta!». La catastrofe venne, infatti, anche paragonata a una sorta di rivoluzione, poiché aveva colpito senza clemenza il lusso e lo sfarzo, risparmiando, in misura maggiore, la povertà.
    Nei giorni successivi, i superstiti, pallidi e con gli occhi sbarrati, avvolti in tende o tappeti oppure vestiti di cenci, si aggiravano tra i ruderi, sedevano sui sassi o si scaldavano dando fuoco a ciò che restava della loro casa. Molti feriti, che magari si erano trascinati in cerca di soccorso fino all'Ospedale Civico per poi accasciarsi nel vederlo ridotto a uno scheletro, chiedevano solo di bere e di morire. C'erano uomini vestiti con abiti femminili e, viceversa, alcune donne indossavano pastrani o giubbe militari. Rifugiati in improvvisate capanne, preistoriche e zingaresche, sembravano personaggi di un grande affresco raffigurante i “Vinti” di verghiana memoria.
    Non mancavano, fra loro, atti di pietosa abnegazione, ma c'era anche qualcuno che, inebriato dal solo fatto di essere in vita, osservava con compiacimento le disgrazie altrui o, addirittura, si rendeva protagonista di episodi ignobili. Alla contessa Massei, che invocava aiuto, tagliarono le dita per portarle via gli anelli; a una donna che chiedeva qualcosa da mangiare, attraverso un buco, spararono con il moschetto. Rapidamente, si diffuse una sorta di esasperata insensibilità, di anomala abitudine al dolore. Paradossale motivo di gioia era, per taluni, il ritrovamento del corpo dei congiunti, che riconoscevano senza disperazione, a volte con un moto di raccapricciante felicità. Ciò risaltava di fronte al vistoso strazio dei parenti che giungevano da fuori. Anche i casi di follia non mancavano, eppure Claudio Treves, su Il Tempo del 6 gennaio 1909, poteva constatare che «a tutt'oggi, di laggiù, non è segnalato un solo caso di suicidio».
    Nel frattempo altri, approfittando della momentanea mancanza di militari (che, in gran parte, erano stati falciati dalla scossa...), si davano ai saccheggi, anche perché i furti, al cospetto di quel male assoluto, non erano più avvertiti come peccati. Un tale, che aveva preso un sacco di farina, fu fermato da un maresciallo dei Carabinieri. «A chi hai rubato quel sacco?», chiese quest'ultimo. «A chi? – rispose l'altro. – «Al Padre Eterno ca nni conza sti festi ». Il fenomeno fu represso con il pugno di ferro. E pensare che, non di rado, anche i soldati, in cerca di cibo, dovevano improvvisarsi scassinatori.
    La situazione era aggravata dagli incendi, per lo più dolosamente appiccati proprio per generare confusione e distrarre le guardie. Nessuno si stupiva di quelle fiamme sinistre, che completavano uno scenario già spettrale. Il lezzo di morte, che in vicinanza degli agrumeti si mescolava al profumo dei limoni, impregnava le divise dei soccorritori, costretti a lavorare muniti di fialette di sali e batuffoli di ovatta. Sotto l'influenza di una certa letteratura ottocentesca, ci si immedesimava, inoltre, nella condizione dei sepolti vivi, tentando di immaginare i loro pensieri.
    In molti cominciarono a chiedersi, ossessivamente, perché la città protetta dalla Madonna della Lettera fosse stata colpita da un simile flagello, di quali atroci colpe si fosse macchiata. Dino Provenzal, nel suo contributo per la Rivista di Psicologia del marzo 1909, ricordò che, durante i sussulti della fatidica mattina, aveva pensato: «Dato che Dio esista, il terremoto l'ha mandato lui; pregare è un assurdo dunque; morrò: aspettiamo». Per strada, capitava di scorgere gruppi di donne che, come invasate, urlavano che la vendetta divina si era compiuta. L'evento tellurico era sentito come un inspiegabile trionfo del male sul bene, un'incomprensibile frattura storica e religiosa. Si diffuse, inoltre, la convinzione che il disastro, dopo un mese lunare, si sarebbe ripetuto. A tal proposito, Giuseppe Antonio Borgese terminava la sua corrispondenza per La Stampa del 17 gennaio 1909 commentando: «In questa provvisoria sospensione delle leggi naturali a cui il terremoto ha sostituito, prima del Governo, una sua legge marziale, si abbandona la scienza e si accolgono con pronto consenso le profezie superstiziose, si citano i vaticini delle sonnambule e degli astrologhi, si rievoca la grande eclissi del 1905 a cui seguirono inondazioni ed eruzioni e distruzioni di città, e si contano le notti che ci separano dalla fine del mese lunare, dal secondo terremoto. Tutte le notti, quando la solita scossa incrudelisce sui morti, le sentinelle stanche e taciturne balzano spaventate sentendo passare un nemico che non risponde al chi va là e che non cade sotto la mitraglia...».
    Eppure, fra rischi di epidemie e sterili polemiche, la vita avrebbe, man mano, ripreso il sopravvento. Lo si intuì quando, in quel contesto apocalittico, nacquero i primi bambini. Fu la tranquillizzante dimostrazione che i dettami della natura, nonostante tutto, vigevano ancora.
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 28-12-10 alle 11:12
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

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    MESSINA, 28 DICEMBRE 1908


    Non era ancora l'alba quando, all'improvviso, la furia dell'inferno si scatenò nel dolce anfiteatro dello Stretto. Messina fu colta alla sprovvista. Nessuno di quelli che erano sulla terra ferma potè capire. Si udì dapprima un boato profondo, poi la terra parve volersi scrollare di dosso le case, come fa un cavallo imbizzarrito. Le acque nel centro del porto sembrarono aprirsi. Si levarono ondate immense. Lo scoppio d'ira del mare si ripetè quattro volte nello spazio di mezz'ora, spazzando via case ed esseri viventi. Quando la luce diventò più chiara, Messina era crollata di schianto e dalle sue rovine si levava, terribile e disperato, l'urlo dei sepolti vivi.

    La spaventosa catastrofe era accaduta nel volgere di pochi minuti: in trentadue secondi la scossa sismica, sussultoria e ondulatoria, aveva raso al suolo Messina, Reggio e tutto il litorale calabro. Nelle case sventrate, gli orologi segnavano le 5,20. In quel preciso istante, i sismografi di tutto il mondo avvertirono il sinistro segnale della lontana, immensa tragedia: il pennino dei pendoli oscillanti tracciò un disordinato scarabocchio, traducendo in grafico la simultanea fine di più di ottantamila vite.

    Dall'epoca di Ercolano e Pompei fino all'atomica di Hiroshima, nulla di più atroce è mai accaduto sulla terra. Eppure, di un disastro così smisurato, nelle altri parti d'Italia e del mondo si ebbe più il presentimento che la certezza: telegrafo e telefono rimasero implacabilmente muti. Ogni mezzo di comunicazione con i luoghi colpiti era distrutto. Neppure i superstiti si resero subito conto della vastità della distruzione. Fu una piccola torpediniera, la meno danneggiata dal terremoto, a dover fare il primo, inorridito bilancio. Inviata da Messina fino a Scilla, trovò macerie e morti. Allora riprese il mare e, costeggiando la Calabria, risalì di porto in porto, di rovina in rovina: Messina, Reggio, Villa, Scilla, Pellaro, Bagnare, Palmi, Cannitello, Sant'Eufemia erano distrutte.

    Per i primi quattro giorni Messina fu isolata dal resto del mondo.

    L'agonia della città fu terrificante: ottantamila dei suoi abitanti erano passati dal sonno alla morte, travolti e soffocati dalle macerie. La città era un'unica piaga urlante. Dalle tubature del gas, dai lumi a petrolio era sprizzata la scintilla di un incendio che rendeva più infernale e sinistro quello spettacolo di morte. Schiacciati tra le macerie delle abitazioni crollate, migliaia di messinesi imploravano aiuto. I superstiti giacevano inebetiti sotto la pioggia fitta, mentre la terra era ancora scossa da fremiti.

    Nei quattro maremoti successivi, il mare aveva rigettato a riva i cadaveri di quelli che avevano cercato scampo sulle banchine del porto. Nessuno poteva porgere aiuto ai sepolti vivi. Una tetra pazzia piombò sulle menti sconvolte, un terrore sovrumano dominò, cupo e irrefrenabile, nella città distrutta. Mentre le ore e i giorni passavano, i lamenti che salivano dalle macerie insanguinate si affievolivano. Molti feriti morirono prima di essere medicati. Sui tavoli di marmo di un caffè distrutto, gli ufficiali medici delle navi russe improvvisarono un posto di medicazione.

    Un ospedale da campo venne allestito fra le tende di un circo equestre. Le navi accorse da ogni parte divennero ospedali galleggianti. I senzatetto avevano fame e sete e molti di essi impazzirono di dolore. Non c'era acqua, non c’erano viveri né disinfettanti e medicinali a sufficienza. Gli incendi divampavano ancora. Ombre insidiose di saccheggiatori si profilavano sulle macerie, abbattuti senza esitazione da soldati e marinai in osservanza alla legge marziale.

    Tutto venne fatto pur di porgere aiuto e sollievo: il giorno del suo arrivo, la corazzata Makaroff dissetò i superstiti distribuendo l'acqua delle sue caldaie. I marinai, per ore ed ore, non ebbero altro da offrire ai feriti che un dito da succhiare, intinto nell'acqua piovana.

    Le squadre di soccorso si aggiravano fra le rovine con il viso avvolto nei fazzoletti imbevuti di acido fenico. L'aria era irrespirabile a causa dei cadaveri insepolti. Alla fine, essendo umanamente impossibile trovare il luogo e il tempo per dare sepoltura ai morti, macabri roghi levarono le loro fiamme acri e sinistre.


    La ricerca dei corpi

  3. #3
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    Predefinito Rif: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 21-12-12 alle 01:04

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    Predefinito Rif: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    Il primo telegramma parte alle 9.10 dalla prefettura di Catania: "Ore 05.20 di stamattina avvertitasi violenta scossa di terremoto ondulatorio durata vari secondi. Popolazione impressionatissima. Telegrammi giunti finora da diversi comuni della provincia accennano soltanto danni fabbricati ma senza disgrazie".

    E’ la mattina di lunedì 28 dicembre 1908. Presidente del consiglio e ministro degli Interni è Giovanni Giolitti. Quando il telegramma spedito da Catania arriva negli uffici del Ministero degli Interni, nessuno si scompone: l’Italia è un paese sismico, le scosse sono quasi di routine. Per cui la giornata dei ministeriali romani continua a scorrere tranquillamente. Intanto, in Sicilia, l’impiegato Antonio Barreca cammina sconvolto lungo la linea Messina-Siracusa. Dopo tre ore di marcia arriva alla stazione di Scaletta. Da lì riesce a trasmettere un telegramma di due sole parole: ”Messina distrutta”. Giolitti lo legge e poi lo cestina: questo Barreca deve essere un pazzo. Eppure qualcosa non quadra: notizie su danni provocati da un terremoto arrivano arrivano da tutte le prefetture di Sicilia e Calabria. Solo i telegrafi di Messina e di Reggio tacciono. Perché?

    La risposta arriva alle 17.25 con un altro telegramma, firmato dal tenente di vascello Belleni, comandante della torpediniera Spica: Messina e Reggio non esistono più. Ma, ancora a tarda sera, ai giornalisti che si accalcano intorno a lui per avere notizie, Giolitti dice: "Non è possibile, qualcuno ha confuso la distruzione di qualche casa con la fine del mondo."

    E’ facile dare la colpa alla solita inefficienza italica se a Roma ancora si ignorava quasi tutto, mentre squadre di marinai russi e inglesi erano già sbarcati a Messina per soccorrere i sopravvissuti.


    E si capisce perché quando, la mattina di martedì 29, anche il nostro esercito sbarcò sul luogo del disastro, l’accoglienza non sia stata proprio cordiale: ”Ora venite, ora che è finito tutto!”, inveiva la folla. Per gli uomini del Sud era la conferma che il Meridione era solo terra di conquista del Regno savoiardo.


    Ultima modifica di Silvia; 29-12-10 alle 00:31

  5. #5
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    Predefinito Re: Rif: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    "Invano
    cerchi tra la polvere,
    povera mano, la città
    è morta. È morta ... "

    S. Quasimodo











    Foto di Luca Comerio (1878-1940)

  6. #6
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    Predefinito Re: Rif: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    28 Dicembre 1908 - 28 Dicembre 2012


    La storia costruisce i suoi imperi, si pavoneggia nell'arte, organizza i suoi massacri, oscilla schiacciata dalla gravità terrestre. E va avanti nel buio pesto del caso, senza il dovere dovuto della pietà.
    Così un mattino, quando la notte non ha ancora concesso nessuno dei suoi neri atomi all'albeggiare del sole, un tremore appena accennato s'incunea nel cuore dello Stretto. Un boato scatena scatenato l'ira della terra, scrollandosi di dosso intere esistenze e quant'altro si permetta di giacervi sopra.
    Silenzio.
    Si curva nelle sue viscere per trenta secondi, gemendo nell'acqua del mare che si issa verso l'alto come una mobile montagna bianca, schizzando di sé il cielo fino a mischiarsi tra le nuvole. La massa liquida grida cocciandosi caotica nel suo furore, avanzando verticale contro le rive. Cade come piombo su chi scappa e chi ancora dorme ignaro, assassina salmastra bramosa di morte.
    Naufragio di terre.
    Invade la vita stessa predandola senza una ragione in ogni sua forma.
    Poi, sazia, ritira le sue molecole sporche di sangue trascinandole nel suo bacino naturale, e dopo qualche altro sussulto quasi s'addormenta, mentre l'alba illumina fredda il massacro.
    Silenzio.
    Ventotto dicembre millenovecentootto, il tempo si ferma alle cinque e venti antimeridiane, il mondo si sveglia contando settantasette mila morti.


    Da Recitativo per la memoria – Domenico Loddo (Jason editore)

  7. #7
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    Predefinito Re: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    Marco Bucciantini

    SI RUPPE LA TERRA, POI SI ALZÒ IL MARE




    Se il cielo non fosse stato nascosto e riparato dalle nubi, il terremoto avrebbe portato via anche le stelle, e quello spicchio di luna così sottile da sembrare una falce affilata, che s'intravide - un attimo appena - all'ora del tramonto.

    Trentasette secondi. Alle 5 e 21 del mattino Messina, Reggio e altri 388 comuni furono flagellati dal più devastante sisma che abbia mai colpito l'Europa. Scosse di grado XI della scala Mercalli (7,1 magnitudo Richter). Si ruppe la terra, si scatenò il mare. Circa 150mila i morti. I sopravvissuti, i testimoni, raccontarono l'apocalisse.

    Il comandante del traghetto Calabria,in navigazione sullo Stretto. «Un fragore cupo sembra venire dalle profondità del mare e mi inchioda. Sento il Calabria colare a picco, con rapidità spaventosa, e l'urlo di terrore si leva dai passeggeri. Allumate dai bagliori fuggevoli dei fari di bordo, due muraglie di acqua scavano un baratro in cui lo scafo s'inabissa. Con la stessa rapidità, si risale in superficie. Ed ecco spegnersi sulle due rive i lumi di Villa, di Reggio, di Messina».

    William Owen, comandante del mercantile inglese Afonwen, ancorato nel porto siciliano. «Una gigantesca forza da sotto sollevò il bastimento. Il lento boato che pareva del tuono divenne uno schianto di distruzione. L'oscurità regnò fino a che l'alba non svelò la distruzione. Per trentacinque minuti noi si stette sempre in procinto di sommergere, con il ponte inclinato di 25 gradi. Guardammo nuovamente la terra e questa sembrò aver preso qualche colore fantastico, tra il giallo e il grigio cenerino. La città era nera dal fumo, qua e là interrotta da lingue di fuoco».

    Monforte, telegrafista della stazione di Messina: «Eravamo in tre al telegrafico, io, il signor Sergi e il signor Uccello. Ero alla Morse quando cominciò la scossa. Sussulti violenti durarono trenta secondi e si sentì un grido altissimo, un'invocazione suprema, un gemito di pianto che tutta Messina levava al cielo prima di morire. I muri erano sbattuti come foglie. Tegole, davanzali, finestre piovevano nelle strade. Il movimento divenne ondulatorio, fu la fine di tutto. Dagli squarci nell'edificio una luce intensissima, sembrava un'aurora boreale. Ricordo i rumori: prima uno solo, enorme, come se mille cannoni fossero stati sparati assieme. Poi un temporale di pietre. I tonfi delle case, le urla. E le campane della cattedrale cadere e pensai: addio Messina, addio vita, siamo tutti morti».

    Giuseppe Valentino (che poi fu sindaco di Reggio) dall'altra parte dello Stretto dorme nella casa al terzo piano di un palazzo: «Balzai dal letto e trascinai mia moglie presso mio figlio Felice, undicenne, stringendoci tutt'e tre in gruppo. Svenni. Riaprendo gli occhi vidi mia moglie: un'immagine bianca, l'ultima, poi un sussulto vorticoso, rabbioso, salito dalle profondità della terra e quindi il silenzio di morte. Ero avviluppato dai rottami, il corpo confuso con le macerie. Mio figlio squarciò il silenzio, invocando la madre. Non poteva più rispondere, nemmeno mio fratello, di qualche camera più discosto. Felice si accaniva nel grido filiale, "Papà, non c'è speranza, sparami". Rispondevo e il terriccio mi assaliva le labbra, la polvere soffocava il respiro, il supplizio era così atroce che la fine stessa invocavo col desiderio».

    Agostino Rocca, in seguito fondatore di un grande gruppo siderurgico, era allora un bambino che il 27 dicembre andò a letto appena finita la cena, come vuole la buona educazione che a quei tempi è legge. Il giorno dopo si tornava a scuola, le vacanze natalizie erano un breve sollievo. Baciò i genitori. Mamma stava suonando il piano, l'Appassionata di Beethoven. Nell'emergere dal sonno, si confuse: «Possibile che la sveglia sia così potente?». Si tirò la coperta sugli occhi, vide il fratello straziato da una trave e le cameriere correre dalla sorella più piccola, ma la camera di Elisa è sparita. Una parte della casa fuma dagli sprofondi e s'è inghiottita anche i genitori.




    Gaetano Salvemini, storico, docente a Messina. Perse tutta la famiglia, il Corsera lo dette per morto. «Di slancio andai alla finestra. Feci in tempo a spalancarla che la casa precipitò e tutto disparve in un nebbione denso, tranne il muro dove stava la finestra. Mi avvinghiai alle tende per senso di disperazione. Caddi, ma le macerie sotto avevano ormai ridotto l'urto». Scavò con le sue mani i corpi dei cinque figli morti, della moglie e della cognata.

    Antonio Barreca, ambulante postale, riuscì a raggiungere a piedi, dopo tre ore, la stazione di Scaletta e di lì trasmettere a Riposto - che inoltrò a Siracusa e quindi a Roma - la notizia: «Messina distrutta». Giolitti - che ebbe il telegramma solo nel pomeriggio - non volle crederci.

    Il comandante della torpediniera Spica, ferma nello Stretto, ha un quadro ridimensionato ma lucido del disastro: «Ore 5,20 terremoto distrusse buona parte Messina - Giudico morti molte centinaia - ...urgono soccorsi, ogni aiuto insufficiente».

    Piedi scalzi che pestano rovine, corpi nudi che vagano nello spazio nuovo e azzerato e si radunano sul lungomare e si contano: pochi, pochissimi, e gli altri? Messina brilla della luce fredda della tragedia. L'alba e la polvere ingannano occhi che devono ricomporre la realtà, per capire e cercare. Incipriano i volti e soffocano le voci che chiamano dalla terra, sepolte e ancora vive, sepolte vive. È un tempo impossibile, inutile: per i morti e per i superstiti. Lo è soprattutto per quelli non più vivi e non ancora morti. Respirano sotto le macerie, cheteranno poco a poco. Se prima tutto è stato violento e veloce, adesso la tragedia è lenta, inesorabile e beffarda come il mare che ritira e poi torna.

    All'alba di martedì 29 ecco i soccorsi, prima i russi e gli inglesi con la Royal Navy di pattuglia nel Mediterraneo. La Marina italiana è ferma a Napoli. Lo Stato arriva poco per volta, «ora venite? Ora che il terremoto è finito?», fino a piazzare 14 mila militari male organizzati tanto che il colonnello inglese Charles Delmè-Radcliffe sentenziò: «Con soccorsi tempestivi e coordinati si sarebbero potute salvare almeno diecimila vite in più». Sotto, c'è chi aspetta: Benedetto Bensaia, macellaio, viene scavato vivo due settimane dopo il sisma. Si era riparato nel vuoto ricavato fra due travi incrociate. Teneva in braccio i due figli, li ha visti morire di inedia. Urlava e picchiettava con le nocche sulle tavole: lo udì un militare che si era fermato in via Verdi per pisciare. Uscì bestemmiando, convinto di essere rimasto laggiù per tre notti. A Reggio "i nostri" giunsero 24 ore dopo: metà della popolazione era morta.

    Sono giorni senza regole in una terra desolata. Saccheggi, fame, il terremoto divorò l'umanità, la trasformò, l'arrestò ai suoi stadi primitivi. Giunsero gli sciacalli perfino dalle campagne. Si arrivò alle fucilazioni dei predoni, si distinsero i russi della corazzata Cesarevic, i marinai della flotta baltica godevano di una certa libertà per l'affetto dei siciliani, commossi dalla solidarietà. Esecuzioni spesso sommarie, mai inventariate. La "macchina" si organizzò: in poco tempo il Comitato centrale di soccorso voluto da Giolitti poté gestire 25 milioni di lire (il grosso venne dall'estero, fra i più generosi gli inglesi e gli italiani d'Argentina, una donazione robusta è del Re, molto è raccolto dal territorio italiano). Sullo Stretto, gli orfani vagano contesi dal Patronato laico dello Stato e dalla Chiesa, che si appoggia a navi spagnole per razziare i bambini e spedisce in zona l'esperto d'infanzia don Luigi Orione. Sarà il "padre" che crescerà duemila ragazzi negli istituti. La terra continuò a brontolare per settimane, senza riposo, dopo il tramonto.




  8. #8
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    Predefinito Re: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    27 - MESSINA

    Il ministro svedese non rese mai la medaglia di Messina al governo italiano: devo sempre averla in qualche cassetto, con la mia coscienza pulita e nessuna maggior confusione nella mia filosofia. Infatti non c'era nessuna ragione perché non dovessi accettare questa medaglia, perché quello che ho fatto a Messina fu ben poco in confronto di ciò che ho visto fare col pericolo della vita a centinaia di persone mai nominate e ricordate. Io stesso non correvo altro pericolo all'infuori di quello di morire o per fame o per la mia stupidità. E' vero che ho riportato in vita per mezzo della respirazione artificiale un certo numero di persone, quasi soffocate, ma ci sono pochi medici infermieri e guardacoste che non abbiano fatto altrettanto senza ricompensa. So che da solo trassi una vecchia fuori da quella che era stata la sua cucina, ma so anche che l'abbandonai nella strada con le gambe fratturate, invocando aiuto.
    Certamente c'era poco da fare fino all'arrivo della prima nave-ospedale, poiché non c'era più materiale di medicazione né medicinali disponibili. Ci fu anche la bambina nuda che trovai in un cortile: la portai nella mia cantina, dove dormì tranquillamente tutta la notte coperta col mio mantello, succhiando di tanto in tanto, nel sonno, il mio dito. La mattina la portai dalle monache di santa Teresa; in quello che restava della loro cappella, c'era già più di una dozzina di bambini sdraiati per terra, che strillavano dalla fame, perché durante i primi giorni non fu possibile trovare nemmeno una goccia di latte in tutta Messina. Mi meravigliavo sempre del numero di bambini salvi, raccolti fra le rovine o trovati per le strade. Sembrava che Dio Onnipotente avesse accordato loro un po' più di misericordia che agli adulti. Essendo rotto l'acquedotto, non c'era nemmeno acqua, se non in qualche pozzo fetido inquinato dalle migliaia di corpi putrefatti sparsi per tutta la città. Niente pane, niente carne, quasi niente maccheroni, niente legumi, niente pesci: la maggior parte delle barche da pesca erano affondate o si erano sfracellate per il maremoto che aveva spazzato la spiaggia portando via a centinaia le persone che vi si erano affollate in cerca di salvezza. Una gran parte di questi corpi furono ributtati sulla sabbia, dove giacquero per giorni, marcendo al sole. Anche il più grande pescecane che abbia mai visto (lo stretto di Messina ne è pieno) fu gettato sulla sabbia, ancora vivo. Assistei con occhi da affamato, mentre lo tagliavano in pezzi, sperando di afferrarne una fetta anch'io. Avevo sempre sentito dire che il pescecane è molto buono da mangiarsi. Nella sua pancia c'era l'intera gamba d'una donna con una calza di lana rossa e una grossa scarpa, come se fosse stata amputata da un chirurgo. Meglio non parlare di quello che mangiavano le migliaia di cani e gatti randagi, che giravano fra le rovine durante la notte, finché venivano acchiappati e divorati dai vivi appena possibile. Io stesso ho arrostito un gatto sulla mia lampada a spirito. Per fortuna c'erano in abbondanza arance, limoni e mandarini da prendere nei giardini. Il vino non mancava, l'invasione delle migliaia di cantine e negozi di vino cominciò proprio il primo giorno; la sera quasi tutti erano più o meno brilli, me compreso; era una vera benedizione, toglieva la sensazione di fame e ci dava più coraggio per addormentarci. Quasi ogni notte c'erano delle scosse, seguite dal rombo delle case che crollavano e da rinnovate grida di terrore nelle strade.
    Per lo più dormii bene a Messina, nonostante l'inconveniente di dover costantemente cambiare il mio alloggio notturno. Le cantine erano naturalmente i posti più sicuri, se si riusciva a vincere l'ossessionante paura d'essere intrappolati come topi da un muro crollante. Era ancora meglio dormire sotto un albero in un aranceto, ma dopo due giorni di pioggia torrenziale, le notti diventarono troppo fredde per un uomo il cui corredo stava tutto nello zaino che portava sulla schiena. Cercavo di consolarmi della perdita del mio prediletto mantello scozzese, pensando che probabilmente copriva abiti ancora più logori dei miei. Però non li avrei cambiati con dei migliori, anche se avessi potuto. Soltanto un uomo coraggioso si sarebbe sentito a suo agio con un abito decente fra tutti quei superstiti in camicia da notte, impazziti dal terrore, dalla fame e dal freddo, e del resto non avrebbe potuto conservarlo a lungo.
    Che furti, ai vivi ed ai morti, assalti e perfino uccisioni avvenissero prima dell'arrivo delle truppe e della dichiarazione della legge marziale, non c'è da meravigliarsi. Non conosco paese dove questo non sarebbe successo in simili indescrivibili circostanze. A peggiorare le cose, l'ironia della sorte aveva voluto che, mentre fra le centinaia di carabinieri che erano nel Collegio Militare soltanto quattordici sopravvivessero, la prima scossa aprisse le celle della prigione accanto ai Cappuccini a più di quattrocento delinquenti, illesi, condannati a vita. E' certo che questi avanzi di galera, dopo aver derubato i negozi per vestirsi e gli armaioli per armarsi, si davano alla pazza gioia con ciò che rimaneva della ricca città. Forzarono perfino la cassaforte del Banco di Napoli, uccidendo due guardie notturne. Però, tale era il terrore che prevaleva in tutti, che molti di questi banditi preferirono costituirsi ed essere rinchiusi nella stiva d'un piroscafo nel porto, piuttosto che restare nella città condannata che pure offriva così uniche occasioni. Io, personalmente, non fui mai molestato da nessuno; al contrario, furono tutti gentili con me in modo commovente e mi aiutarono come si aiutavano a vicenda. Quelli che trovavano abiti o cibo erano sempre pronti a dividerli con chi non ne aveva. Da un ladro sconosciuto mi fu perfino regalata un'elegante vestaglia, uno dei più graditi regali che abbia mai ricevuto. Una sera, mentre passavo davanti alle rovine d'un palazzo, notai un uomo ben vestito, che gettava a due cavalli e ad un asinello, prigionieri nella loro scuderia sotterranea, qualche pezzo di pane e un mazzo di carote.
    Attraverso uno stretto spacco del muro potevo appena vedere gli animali condannati. Mi disse che veniva lì due volte al giorno, portando quel che poteva trovare. Lo spettacolo di questi poveri animali che morivano di fame e di sete gli era così doloroso, che avrebbe preferito ucciderli con la rivoltella, se ne avesse avuto il coraggio, ma non aveva mai avuto il coraggio di uccidere nessun animale, nemmeno una quaglia17. Guardai con sorpresa il suo viso bello, intelligente e piuttosto simpatico e gli domandai se era siciliano. Mi rispose di no, ma che aveva vissuto in Sicilia per diversi anni. Cominciò a piovere a dirotto e andammo via. Mi domandò dove abitavo, e quando gli risposi in nessun posto, guardò i miei abiti fradici e offrì di ospitarmi per la notte: viveva lì vicino con due amici. Brancolammo fra immensi blocchi di muratura e mucchi di mobili sfracellati di ogni specie, scendemmo una gradinata e ci trovammo in una grande cucina sotterranea, fiocamente illuminata da una lampada a olio appesa al muro sotto un'oleografia della Madonna.
    Per terra c'erano tre materassi: il signor Amedeo disse che avrebbe gradito che dormissi sul suo; egli e i suoi due amici sarebbero rimasti fuori tutta la notte per cercare alcune cose sotto le rovine delle loro case. Ebbi una cena eccellente, il secondo pasto decente che avevo avuto dal mio arrivo a Messina. Il primo lo avevo avuto qualche giorno prima, quando, inaspettatamente, ero capitato nel giardino del Consolato americano durante una gioconda colazione, presieduta dal mio vecchio amico Winthrop Chandler che era arrivato quella mattina stessa col suo yacht carico di provvigioni per la città affamata.
    Dormii profondamente tutta la notte sul materasso del signor Amedeo e mi svegliai al mattino col ritorno del mio ospite e dei suoi due amici dalla loro pericolosa spedizione notturna, pericolosa davvero perché sapevo che le truppe avevano ordine di far fuoco su chiunque tentasse di portar via qualcosa, anche dalle rovine della propria casa. Buttarono i loro fardelli sotto il tavolo e si gettarono essi stessi sui materassi; quando me ne andai erano profondamente addormentati. Sebbene sembrasse stanco morto, il mio gentile ospite non si dimenticò di dirmi che avrebbe gradito che restassi con lui quanto volessi; e naturalmente non domandavo di meglio. La sera seguente cenai ancora col signor Amedeo: i suoi due amici erano già addormentati sui loro materassi, tutt'e tre dovevano essere di nuovo al lavoro notturno dopo mezzanotte. Non ho mai visto un uomo più amabile del mio ospite. Quando seppe che ero al verde si offrì subito di prestarmi cinquecento lire, e mi rincresce dover confessare che gliele debbo ancora. Non potei fare a meno di esprimere la mia sorpresa che si fidasse di prestare il suo denaro ad uno sconosciuto.
    Mi rispose con un sorriso che non sarei stato seduto al suo fianco se non avesse avuto fiducia in me.
    Il pomeriggio seguente sul tardi, mentre mi trascinavo a quattro zampe fra le rovine dell'Hôtel Trinacria in cerca della salma del console svedese, fui affrontato improvvisamente da un soldato che mi puntava contro il fucile. Venni arrestato e condotto al posto di guardia più vicino. Avendo superato la difficoltà preliminare di identificare il mio oscuro paese e avendo esaminato il mio permesso firmato dal prefetto, l'ufficiale di servizio mi lasciò libero, poiché il mio unico corpus delicti consisteva in un registro svedese mezzo carbonizzato. Lasciai il posto piuttosto inquieto, perché avevo notato lo sguardo scrutatore dell'ufficiale quando gli avevo detto che non potevo dare il mio preciso indirizzo, non sapendo nemmeno io il nome della strada in cui abitava il mio gentile ospite. Era già completamente buio, presto cominciai a correre, perché mi pareva di sentire passi furtivi dietro di me come se qualcuno mi seguisse, ma raggiunsi il mio ricovero notturno senz'altre avventure. Il signor Amedeo e i suoi due amici erano già addormentati sui loro materassi.
    Affamato come sempre, sedetti a divorare la cena che il mio gentile ospite mi aveva lasciato sul tavolo. Avevo l'intenzione di star sveglio finché essi stessero per partire e di offrire il mio aiuto al signor Amedeo quella notte per le ricerche. Mi stavo proprio dicendo che era il meno che potessi fare per ricambiare le sue gentilezze verso di me, quando ad un tratto sentii un acuto fischio e il rumore di passi. Qualcuno scendeva le scale. In un attimo i tre uomini addormentati balzarono in piedi. Udii un colpo, un carabiniere cadde dall'alto delle scale sul pavimento, ai miei piedi. Mentre mi chinavo rapidamente su di lui per vedere se era morto, vidi chiaramente il signor Amedeo che puntava la sua rivoltella contro di me. Nello stesso istante, la stanza si riempì di soldati, udii un altro sparo e, dopo una disperata lotta, i tre uomini furono sopraffatti. Mentre il mio ospite mi passava davanti ammanettato con una solida corda intorno alle braccia e alle gambe, alzò la testa e mi guardò con un lampo selvaggio di odio e di rimprovero, che mi fece gelare il sangue nelle vene. Una mezz'ora dopo ero di nuovo al posto di guardia, dove venni rinchiuso a chiave per la notte. La mattina dopo venni interrogato ancora dallo stesso ufficiale, e senza dubbio debbo la mia vita alla sua intelligenza. Mi raccontò che i tre uomini erano malfattori condannati a vita, fuggiti dalla prigione vicina ai Cappuccini, tutti «pericolosissimi». Amedeo era un famoso bandito, che aveva terrorizzato per molti anni i dintorni di Girgenti, con un bilancio di otto omicidi. Era anche stato lui con la sua banda a forzare il Banco di Napoli e ad uccidere i guardiani la notte precedente, mentre io ero profondamente addormentato sul suo materasso. I tre uomini erano stati fucilati all'alba. Avevano chiesto un prete, confessato i loro peccati ed erano morti senza paura. Il maresciallo disse che voleva complimentarmi per la parte importante che avevo avuto nella loro cattura. Lo guardai negli occhi e dissi che non ero orgoglioso della mia opera. Mi ero convinto già da lungo tempo che non ero adatto a far la parte di accusatore e meno ancora quella di esecutore. Non era affar mio, forse era il suo o forse anche non lo era. Dio sapeva come colpire quando voleva, sapeva prendere una vita come sapeva darla.
    Disgraziatamente per me, la mia avventura arrivò all'orecchio di qualche giornalista che gironzolava intorno alla zona militare (nessun giornalista poteva entrare nella città in quei giorni e per buoni motivi) in cerca di notizie sensazionali, tanto più gradite quanto più incredibili. Certamente questa storia sembrerà abbastanza incredibile a coloro che non erano a Messina durante la prima settimana dopo il terremoto. Soltanto una fortunata mutilazione del mio nome e della nazionalità mi salvò dal diventare famoso. Ma quando quelli che conoscevano bene il lungo braccio della Mafia mi dissero che questo non mi avrebbe salvato dall'essere assassinato se fossi restato a Messina, veleggiai il giorno seguente con alcuni guardacoste, attraverso lo stretto, verso Reggio.
    Anche Reggio, dove ventimila persone erano state uccise di colpo dalla prima scossa, era indescrivibile e indimenticabile. Ancora più terrorizzante era lo spettacolo dei piccoli villaggi sulla costa sparsi fra gli aranceti, Scilla, Canitello, Villa San Giovanni, Gallico, Archi, San Gregorio, prima forse il più bel luogo d'Italia, allora un vasto cimitero con più di tremila morti e parecchie migliaia di feriti, che giacquero fra le rovine durante due notti di pioggia torrenziale seguite da una tramontana gelida, assolutamente senza assistenza e con centinaia di esseri seminudi che correvano come pazzi per le strade, strillando per la fame. Più al sud l'intensità della convulsione tellurica sembrava aver raggiunto il suo massimo grado. A Pellaro, per esempio, dove dei cinquemila abitanti soltanto duecento scamparono, non si poteva nemmeno distinguere dove erano state le strade. La chiesa, piena zeppa di gente terrorizzata, crollò alla seconda scossa uccidendo tutti. Il cimitero era cosparso di bare spaccate, letteralmente gettate fuori dalle fosse: avevo già visto lo stesso orrendo spettacolo nel cimitero di Messina. Sui mucchi di rovine della chiesa sedevano una dozzina di donne, tremando nei loro cenci. Non piangevano, non parlavano, stavano lì con le teste chine e gli occhi socchiusi. Ogni tanto una di esse alzava la testa e fissava con occhi vuoti un vecchio cencioso prete che gesticolava fra un gruppo d'uomini lì vicino. Ogni tanto alzava il pugno con una terribile maledizione in direzione di Messina, attraverso lo stretto: Messina la città di Satana, Sodoma e Gomorra insieme, la causa di tutta la loro miseria.
    Non aveva sempre predetto, lui, che la città dei peccatori finirebbe col...? Una serie di gesticolazioni sussultorie e ondulatorie con ambedue le mani per aria non lasciava nessun dubbio su quello che aveva predetto. Castigo di Dio! Castigo di Dio!
    Detti un piccolo panino, tolto dal mio tascapane, alla donna che mi stava accanto con un bambino in grembo. Lo afferrò senza dir parola, trasse subito di tasca un'arancia, me la porse, staccò con un morso un pezzetto del panino per metterlo in bocca alla donna dietro di sé che stava per diventare madre, e cominciò a divorare voracemente il resto come un animale affamato. Mi raccontò con voce bassa e monotona che lei, con il bambino al petto, si era salvata non sapeva come, quando la casa era crollata con la prima «staccata»; che aveva lavorato fino all'indomani per cercar di tirar fuori gli altri due suoi bambini e il loro padre dalle rovine: aveva sentito i loro gemiti finché non s'era fatto giorno. Poi era venuta un'altra «staccata» e tutto fu silenzio. Aveva un brutto taglio sulla fronte, ma la sua «creatura» era completamente salva, grazie a Dio. Mentre parlava dava da poppare al bimbo, un magnifico maschio, completamente nudo, forte come Ercole bambino, niente affatto disturbato da quanto era successo. Nel cestino accanto a lei un altro bambino dormiva sotto qualche fuscello di paglia marcia: l'aveva raccolto per la strada, nessuno sapeva di chi fosse. Mentre mi alzavo per andarmene, il bambino senza madre cominciò a piagnucolare; essa lo strappò dal cestino e lo mise all'altro seno. Guardai l'umile contadina calabrese dalle membra forti e dal petto largo con i due splendidi bambini che poppavano vigorosamente ai suoi seni e ad un tratto ricordai il suo nome. Era la Demetra della Magna Grecia, dove era nata, la Magna Mater dei Romani. Era Madre Natura: dal suo largo petto correva, come una volta, il fiume della vita sopra le fosse dei centomila morti.
    O Morte, dov'è la tua spada? O Tomba, dov'è la tua vittoria?

    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 29-12-15 alle 01:11

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    Predefinito Re: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

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    Predefinito Re: 28 dicembre 1908 - Risvolti antropologici di una catastrofe

    28 dicembre 1908 - 28 dicembre 2015


    La Stampa di martedì 29 dicembre 1908 si apriva con una serie di brevi dispacci, arrivati da vari punti della penisola. Il quarto era datato 28 e proveniva da Moncalieri: Stamane, ore 5,22, amplissima registrazione di terremoto lontano. E in effetti era lontanissimo, come i tecnici di quell'osservatorio compresero diverse ore dopo: gli apparecchi avevano registrato il terremoto di Messina. E se avevano potuto farlo, a oltre mille chilometri di distanza, era perché la città sullo Stretto, 150 mila abitanti, non esisteva più.

    Ma nessuno poteva saperlo in quella tragica giornata, mentre affluivano alla redazione dei vari giornali brandelli di notizie. L'effetto congiunto di terremoto e maremoto, sbriciolando la città, aveva interrotto tutte le comunicazioni. E così i quotidiani dovettero mettere insieme una serie di telegrammi giunti da località periferiche e raccogliere i «si dice» che si susseguivano di continuo nel corso delle ore. La sola notizia di fonte credibile veniva dalla controtorpediniera Spiga, sfuggita fortunosamente alla mareggiata nello stretto, che aveva risalito le coste della Calabria fino a quando aveva trovato un telegrafo in grado di trasmettere a Roma. Il suo telegramma diceva: «Una parte di Messina è distrutta. Centinaia di case sono crollate. Si presume che ci siano centinaia di vittime.» Era solo una piccola parte della verità..

    Nella livida luce dell'alba invernale, scosse di immane potenza si susseguirono per trentadue interminabili secondi. Immediatamente dopo, in un silenzio surreale, un rombo sordo che sembrava venire dal fondo del mare. In rapida successione, come un gigantesco maglio liquido, immense ondate investirono la città già devastata dal sisma: inghiottito il porto, le barche scagliate con violenza sopra le macerie dei palazzi, scomparsa la stazione e i binari, interi convogli ferroviari scaraventati lontano come giocattoli di latta, sbriciolate abitazioni e imponenti edifici. Tra le macerie, decine di migliaia di abitanti erano sepolti vivi, intrappolati accanto ai morti. I boati, seguiti dal fragore di nuovi crolli, sembravano non avere più fine.

    La catastrofe era stata totale.





 

 
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