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  1. #11
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    Predefinito Rif: "Democratici di Sinistra" - Storia,Personaggi,Politica

    Un video estremamente riassuntivo che parla dello scioglimento del PCI e delle vicende dei suoi eredi,tra scissioni e divisioni,triste ma ma riflettere.

    L'espresso - Addio al Pci: 20 anni fa
    VOTA NO AL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE
    UN NO COSTITUENTE PER LA DEMOCRAZIA CONTRO L'AUSTERITA'
    http://www.sinistraitaliana.si/ - http://www.noidiciamono.it/

  2. #12
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    Predefinito Rif: "Democratici di Sinistra" - Storia,Personaggi,Politica

    LE CRITICHE DA SINISTRA AL PASSAGGIO PCI-PDS

    Le analisi sul passaggio dal PCI al PDS si sono susseguite anche dopo,ad avvenuta trasformazione,spesso e volentieri di natura critica ,da sinistra.
    Ecco un articolo di Vittorio Gioiello dalla rivista l'Ernesto (espressione di una corrente interna di Rifondazione Comunista).

    Dal Pci al Pds. Storia critica di un "passaggio di campo"
    di Vittorio Gioiello

    su L'ERNESTO 2/2010 del 25/08/2010

    Per Berlinguer, il Pci si distingue dai partiti socialdemocratici europei in questo: i comunisti non rinunciano a costruire una società di liberi e uguali, né a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la produzione delle condizioni della loro vita

    1. PREMESSA
    Con queste note intendiamo mettere in evidenza che non vi era nessuna “situazione oggettiva” che comportasse lo scioglimento del maggiore partito comunista d’occidente, che nelle analisi dell’ultimo Berlinguer, quello che, dopo l’esperienza negativa della “solidarietà nazionale”, rompe la camicia di forza che la destra del partito gli aveva stretto intorno, vi erano in nuce gli elementi teorici per affrontare la fase che si era aperta nella crisi capitalistica. E il “nuovismo” su cui si disloca il nuovo gruppo dirigente non ha alcun fondamento, se non quello legato alla “bramosia del potere”, giocata in modo del tutto subalterno alle classi dominanti. È Gramsci che legge in modo corretto il rapporto tra conservazione e innovazione: “In realtà, se è vero che il progresso è dialettica di conservazione e innovazione e l’innovazione conserva il passato superandolo, è anche vero che il passato è cosa complessa, un complesso di vivo e di morto […] Ciò che del passato verrà conservato nel processo dialettico non può essere determinato a priori, ma risulterà dal processo stesso, avrà un carattere di ne - cessità storica, e non di scelta arbitraria da parte dei cosiddetti scienziati e filosofi” [1]. “Indimenticabile ‘89” [2]: così è stato definito quell’anno dall’allora segretario del Pci, Achille Occhetto, che ne trarrà il convincimento di cambiare nome al suo partito. Al contrario di quanto era avvenuto dopo la repressione della protesta studentesca di piazza Tien an men a Pechino, il 3 giugno dello stesso anno: nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del 18 giugno, il Pci aveva tenuto e il suo segretario aveva sostenuto che non c’era necessità di cambiare nome al partito, visto che ciò che era successo a Pechino non aveva nulla a che fare con la storia dei comunisti italiani. Invece la “fine della guerra fredda” spinse Occhetto a enunciare la necessità di “andare oltre” la tradizione dello stesso partito comunista italiano. E, naturalmente, finì per identificare la storia del Pci con quella dei partiti al potere nei regimi dell’Est. Questi funambolismi sono tipici del personaggio, ma per comprendere, al di là degli aspetti trasformistici di Occhetto, le vicende che hanno portato alla fine del Pci bisogna risalire alla fine dell’esperienza della “solidarietà nazionale”. Non è possibile, nell’economia di questo articolo, analizzare nello specifico i caratteri della cosiddetta “anomalia italiana” (o “caso italiano”), che, non a caso, ha suscitato la particolare “attenzione” della Trilateral. Ci limitiamo a constatare che è nel triennio della solidarietà nazionale che avviene una rottura tra la politica del Pci e la società italiana. Iniziato con la vittoria del Pci (l’“anomalia italiana”), il triennio si conclude non solo con la sua pesante sconfitta politica, ma soprattutto con il mutamento di segno politico- culturale che quella vittoria implicava e registrava. E per illuminare il contesto ideale e politico attuale è proprio dall’analisi sugli anni ’70 che bisogna partire. Da allora si avvia un processo di distruzione di ogni legame sociale, che produce una cultura della società sostanzialmente nichilista. Questo esito è determinato dalla espulsione del marxismo dalla storia del nostro paese, e ha fatto sì che la critica del marxismo sia approdata, inevitabilmente, verso la destra radicale.

    2. ASPETTI DELL'OFFENSIVA NEO-CONSERVATRICE
    Infatti, negli anni settanta si dispiega, a livello internazionale, l’offensiva neo-conservatrice con questa lettura: vi è un crisi della democra - zia prodotta da un sovraccarico di domanda, è necessaria una riduzione della complessità per realizzare la governabilità del sistema. Quella che diventa vera e propria teoria dominante, prefigurandosi come una nuova teoria generale, è il neo-funzionalismo sistemico o teoria della complessità, elaborata da Niklas Luhmann. La parola chiave della teoria luhmaniana è complessità e vuol rappresentare la crisi di ogni “spiegazione semplice” del mondo e dei processi sociali: “il mondo è complesso e rende sempre più inafferrabile la totalità degli elementi e dei dati”. Perciò, non è più pensabile alcun “soggetto generale” che riesca a conoscere la totalità. Traducendo e banalizzando (ma neanche eccessivamente): non è pensabile che un partito, una organizzazione, un intellettuale collettivo, riesca ad interpretare il mondo nel suo complesso. Ed è ovvio che, se non riesce ad interpretarlo, è assurdo che pretenda di trasformarlo! Questa cultura politica ha come obiettivo quello di produrre una sorta d’impotenza a leggere i processi storici nel loro reale svolgimento. E il suo carattere dominante risiede nel suo essere teoria generale, teoria che tende ad uniformare forme di stato e forme di governo della società all’interno delle categorie di “governabilità”, “stabilità” ed “efficienza” tipiche del pensiero conservatore [3]. È la teoria che, a metà degli anni settanta, indirizza i lavori dell’allora costituenda Trilateral. Diverrà il punto di riferimento teorico del cosiddetto “nuovo corso” occhettiano.

    3. L'IDEOLOGIA NEOLIBERISTA
    Sempre negli anni settanta cominciò a guadagnare il centro della scena il movimento neoliberista, sostenuto da vari think- tank ben finanziati (derivanti dalla società di Mont Pelerin, come l’Institute for Economic Affairs di Londra e la Heritage Foundation di Washington), con crescente influenza all’interno del mondo accademico, in particolare all’Università di Chicago, dove dominava Milton Friedman. Elemento centrale nella nuova filosofia della destra radicale è quello rappresentato dai temi dell’anticollettivismo e dell’antistatalismo. L’antistatalismo è stato rimesso a nuovo grazie all’avanzata sul piano internazionale del monetarismo. Sono le panacee dell’individualismo possessivo e del libero mercato di Hayek e Friedman, che ribaltano il keynesismo imperante nel dopoguerra. Vi è stata una riscoperta della scuola austriaca con beatificazione di Hayek, von Mises e Popper. Come ai primi del novecento, ci si ispira all’“economia delle scelte” che ha assunto la forma di una riscoperta della scuola austriaca di Carl Menger e prosecutori. È la teoria marginalista, che muove da una psicologia dei bisogni da soddisfare. Secondo i marginalisti, infatti, costi e prezzi relativi della sfera produttiva sono determinati dal mercato dei bisogni – o del consumo, come si preferisca dire. Di qui la presunta “sovranità del consumatore” rispetto al produttore, che diventa, inconsapevolmente, un pubblico servitore, che rischia di non incontrarsi coi consumatori. Muovere, per la determinazione dei valori/ prezzi relativi, dal mercato della produzione anziché muovere, per imputazione, dal mercato dei consumi è, per i marginalisti (o neoclassici), tanto un errore teorico che misconosce i criteri di scelta, quanto un rischio di socialismo e di marxismo, in quanto Marx su questo “errore” imposta le sue teoriche di sfruttamento ecc. È all’interno di questo quadro politico- culturale che va analizzato il processo che sfocia nello scioglimento del PCI e alle varie sequenze che portano alla formazione del PDS, dei DS e infine del PD.

    4. IL COSIDDETTO "NUOVO CORSO" SOCIALISTA E NORBERTO BOBBIO
    E venendo alle vicende italiane, altro aspetto di cesura, rispetto all’analisi marxista, è la considerazione della necessità di passare dal “totalitarismo”, categoria entro cui viene identificata la storia passata, alla “rivoluzione liberale”. A dare vita a questa operazione è Norberto Bobbio, il quale nella seconda metà degli anni ’70 muta radicalmente giudizio sul marxismo italiano, su Gramsci, sul Pci, rispetto al modo come egli stesso si era rapportato a tali questioni negli anni ’50. Del Pci Bobbio mette in discussione il carattere democratico, considera la dottrina dell’egemonia di Gramsci come una variante della dittatura del proletariato, sino a riproporre contro il Pci e il marxismo italiano la nozione di totalitarismo e, più in generale, una veduta della storia d’Italia incentrata sulla contrapposizione tra totalitarismo e liberalismo, nella quale è contenuta, seppure in nuce, la tematica della cosiddetta II Repubblica. È in questo contesto che nasce e si afferma Craxi, il quale ha contribuito ad accelerare e a rendere esplicita la crisi del sistema politico italiano. Basta pensare al ruolo svolto dal tema del “presidenzialismo” e a quello della “Grande Riforma”. In tale contesto va collocata anche la nascita della destra, la formazione di uno spazio politico a destra, nel quale la contrapposizione tra liberalismo e totalitarismo assume più coerentemente la forma di una rottura di sistema. È tutta una cultura, presidenzialista e antipartitocratica, che entra ora in contatto con la società. Un ruolo fondamentale in tutto ciò lo ebbe, innanzitutto, Cossiga, il quale dal Quirinale rimise in circolo due capisaldi fondamentali della tradizione missina (la critica antipartitocratica connessa all’ipotesi di una riforma in senso presidenzialistico; la questione del superamento della pregiudiziale antifascista) che rilanciarono di fatto il paradigma neofascista. La centralità di Craxi, prima, e poi la presidenza Cossiga innescano una fase di radicalizzazione che favorisce di fatto lo sviluppo della destra. Ma questo passaggio non sarebbe avvenuto senza la trasformazione del Pci in Pds, il modo in cui il Pci è uscito di scena, rimuovendo e condannando la sua storia.

    5. L'ULTIMO BERLINGUER, LA QUESTIONE MORALE
    Berlinguer dal 1981 aveva tentato di rimediare agli sbandamenti degli anni della “solidarietà nazionale”. Riferendosi al pensiero di Gramsci, l’ultimo Berlinguer, quello che rompe con la politica della solidarietà nazionale, fa della questione morale il cardine di una strategia politica che si rivelerà quasi profetica, prima del tempo. La centralità della questione morale nasce, fondando la proposta politica di un’alternativa democratica, nei giorni successivi al terremoto dell’Irpinia e della Basilicata del novembre del 1980. Nasce dopo aver visto le macerie del terremoto e quelle delle istituzioni colpevoli dei drammatici ritardi nei soccorsi denunciati dal Presidente Sandro Pertini: quelle macerie mettevano a nudo quanto fosse corroso e malato un sistema politico e istituzionale. In quei giorni Berlinguer afferma in un’intervista che “il processo di distacco tra Paese e istituzioni” è arrivato ad un punto drammatico. “La questione morale esiste da tempo. Ma ormai essa è diventata la questione po - litica prima ed essenziale, poiché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni”. Teme che “lo scivolamento verso esiti oscuri e avventurosi prima o poi divenga inevitabile”. Vede il rischio – quale profezia quattordici anni prima della “discesa in campo” dell’uomo delle televisioni! – che questa crisi si risolva “invocando un uomo forte”, e “cambiando il carattere parlamentare della nostra democrazia”. Il 28 luglio 1981 Berlinguer rilascia una celebre intervista al direttore de la Repubblica in cui sottolinea tematiche che oggi, a 29 anni di distanza, tornano ad essere drammaticamente attuali. Vi si afferma che i partiti sono soprattutto macchine di potere e di clientela; hanno scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente; sono senza idee e ideali, con programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “ sotto- boss”. Analizzando la crisi capitalistica, Berlinguer prosegue: “pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Ma siamo convinti che si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, della sfiducia, della disperazione” [4]. È dalla negazione di questa strategia che nasce la “svolta” occhettiana. Ma prima di giungere “all’indimenticabile ‘89” occorre analizzare i prodromi di una linea subalterna all’ideologia dominante, che matura ben prima di quella data emblematica.

    6. LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE
    È sempre Berlinguer, nella prefazione ai Discorsi parlamentari di Togliatti [5], a focalizzare il nesso tra questione morale e questione istituzionale: “La profonda esigenza di restituire alle istituzioni la funzionalità e il ruolo che spetta loro in una Repubblica democratica a base parlamentare viene distorta e tradita. Attraverso alcune delle ‘riforme’ di cui si sente oggi parlare si punta a piegare le istituzioni, e perciò anche il parlamento, al calcolo di assicurare una stabilità e una durata a governi che non riescono a garantirsele per capacità e forza politica propria. [...] Anche la irrisolta questione morale ha dato luogo non solo a quella che, con un eufemismo non privo di ipocrisia, viene chiamata la Costituzione materiale, cioè quel complesso di usi e di abusi che contraddicono la Costituzione scritta, ma ha aperto anche la strada al formarsi e al dilagare di poteri occulti eversivi - la mafia, la camorra, la P2 - che hanno inquinato e condizionano tuttora i poteri costituiti e legittimi fino a minare concretamente l’esistenza stessa della nostra Repubblica. Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e di meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero anche formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni”. È palese, quindi, l’opposizione di Berlinguer a qualunque ipotesi di cosiddette “riforme istituzionali”.

    7. INGRAO SUL TERRENO DELLE "RIFORME ISTITUZIONALI"
    Di converso, alla fine degli anni Ottanta, in un “Osservatorio Istituzionale” curato dal Centro per la ri - forma dello stato, allora presieduto da Pietro Ingrao, si è testualmente sostenuto dinanzi alle pressioni del Psi di Craxi che “l’ipotesi di riforme avanzata (elezione diretta del capo dello stato) e la procedura suggerita per realizzarla (referendum propositivo) non possono tuttavia essere pre - giudizialmente demonizzate”, e ciò sul presupposto che “il regime presidenziale è solo una tra le molteplici forme di governo sperimentate nella vicenda degli stati democratici, moderni e contemporanei”. Particolarmente dal 1987 - prima quindi della caduta del “muro di Berlino” - la deriva ha preso corpo preciso dopo la sortita dello stesso Ingrao a favore di un governo costi - tuente a termine per una più rapida attuazione delle riforme istituzionali “più urgenti” con la partecipazione dei comunisti; per “un riesame del sistema elettorale” [6] sulla scia di tutto un arco di proposte avanzate da destra, variamente ma univocamente orientate a ritornare a soluzioni di stampo autoritario, contro la proporzionale e per l’uninominale, con il mistificante richiamo alla contrapposizione tra un presunto “accrescimento del potere di scelta del corpo elettorale” e del peso negativo del sistema dei partiti di massa, che la cultura dominante della destra sociale e politica ha sempre bollato nei termini della cosiddetta “partitocrazia” con lo storico obiettivo di delegittimare il pluralismo sociale, l’autonomia sociale e politica della classe operaia, e quindi le organizzazioni in cui essa aveva con la resistenza trovato gli strumenti di rafforzamento delle lotte contro il capitalismo. La proposta di Ingrao precisava addirittura che l’obiettivo era quello di una “alternativa” di programma e di schieramento alle politiche della Dc, e più chiaramente e pericolosamente per consentire quel metodo di “alternanza” nella direzione del paese - e quindi al Governo - che era alla radice della linea di condotta spregiudicata già affermata nei fatti dal craxismo e dall’intero Psi in nome della “grande riforma”, volta a istituzionalizzare la preminenza dell’esecutivo e dei poteri forti sulle assemblee elettive e quindi contro il principio della sovranità popolare. La proposta allora minoritaria dell’autore di Masse e potere, si è rapidamente fatta strada con Occhetto che, nel 1986 (quando era “coordinatore” della segreteria del Pci) cominciò a parlare di “democrazia compiuta” per superare la proporzionale nelle elezioni locali. E nel 1987 (quando era “vicesegretario” dello stesso Pci) si spinse ad un più generale “ripensamento di leggi elettorali” compresa quella nazionale, che si inquadrasse nel “mutamento di ottica” con il noto slogan della “discontinuità” fondata sulla critica alla cosiddetta “democrazia consociativa” in nome della riconosciuta esigenza di “governare più che di mediare”. Occorreva prefigurare una strategia di “alternativa” imperniata sulle riforme istituzionali che lasciasse alle spalle una posizione “oggettivamente” (anche se “no - bilmente”) conservatrice”, ponendo in primo piano “la questione del Governo”, prendendo nelle mani le ragioni “della stabilità”, della capacità di governo, della efficacia e della efficienza dell’azione pubblica”. Non si può non osservare che se la cultura di governo è quella che vede perseguire riforme istituzionali come rafforzamento dell’esecutivo, vuol proprio dire che si configura come cultura “neutra” che accomu - na, in nome dell’efficienza, chiunque sia al governo per stabilizzare il potere sociale dominante. Al contrario, la cultura marxista e alternativa al capitalismo deve coerentemente puntare sul potere delle masse e, per esse, degli strumenti di democrazia di base e delle assemblee elettive, nella logica con cui le lotte degli anni 1968-75 avevano creato spezzoni di potere nuovo verso la democratizzazione e la socializzazione del potere che oggi non vengono neppure rammentate, in nome della rincorsa acritica al “cambiamento”, al “nuovo”, in generale alle riforme istituzionali. Il PCI era stato di “opposizione”, non già perché (come ogni formazione politica) non avesse in prospettiva il compito di portare la classe operaia alla direzione dello stato, sibbene perché poneva come condizione che il programma di governo comprendente i comunisti aprisse una fase di attuazione dei principi costituzionali di democrazia sociale. Per mettere ulteriormente in evidenza la subalternità di un intero gruppo dirigente al tema delle “riforme istituzionali”, giova ricordare come Aldo Tortorella, allora responsabile della commissione per le politiche istituzionali del PCI, nel febbraio del 1987, in una relazione al CC, attua anch’egli una rottura con la strategia che aveva collocato, fino a quel momento, il partito tra le forze che con più coerenza difendevano il sistema politico uscito dalla Costituente. In quel CC Tortorella afferma che il “nuovo PCI” è tra le forze che vogliono “sbloccare il sistema politico”. Il senso di quella affermazione Tortorella lo specificherà in un saggio del gennaio 1988 su Politica ed economia: “La rivendicazione, da parte di Togliatti, delle regole liberal-democratiche e della idea di nazione come patrimonio essenziale del movimento operaio e socialista, fu determinante per il radicamento e per l’educazione del PCI. Non giovò invece una distinzione tra ‘democrazia formale’ e ‘democrazia sostanziale’, concepita come se la seconda assorbisse la prima […] Non era esatta l’idea che la trasformazione dei rapporti proprietari determinasse di per se stessa una condizione superiore di democrazia”. Il rifiuto della distinzione tra democrazia formale e democrazia sostanziale non poteva significare altro che la chiusura con l’elaborazione togliattiana della “democrazia progressiva”. Bisognava liberarsi della “doppiezza” togliattiana. Se Togliatti aveva sostenuto l’esistenza di un nesso dialettico e inscindibile tra “democrazia” e “socialismo”, nelle tesi del XVIII Congresso si affermerà che “la democrazia è la via al socialismo”.

    8. UN ALTRO "NUOVO CORSO" ... OCCHETTIANO
    Il “nuovo corso” (così verrà definito il ribaltamento di strategia) si colloca su un terreno democratico-borghese, se non liberal-borghese. Dahrendorf, Hirschman, Thurow, Wlazer, Kelsen vengono “scoperti” ed assunti. La stagione dei diritti parte da qui: è l’a - mericanismo. Infatti, negli Usa dilagano teorie atomistiche che identificano l’espansione della democrazia con l’accrescimento progressivo dei diritti individuali. Si imbracciano, perciò, i diritti di “cittadinanza sociale” inesorabilmente car - tolari e privi di reale consistenza e si abbandona la lotta per un nuovo tipo di “potere”, che aveva comportato strategie “reali” così legate alla materialità dei rapporti sociali da scatenare contro il movimento operaio italiano e la democrazia l’ideologia del centro sinistra, l’ideologia del fascismo, il terrorismo “nero” e “rosso”, l’organizzazione di poteri “occulti” di vecchio e nuovo conio come mafia, camorra, ‘ndrangheta da un lato, e servizi segreti di Stato, massoneria di varia collocazione come la P.2, centri di potere internazionale, dall’altro. Il primo congresso dopo la morte di Berlinguer - il XVII - si svolge a Firenze nell’aprile 1986. In quel congresso viene sancita l’appartenenza del Pci alla sinistra europea di cui si dichiara “parte integrante”. È la sanzione del prevalere della destra comunista che ha in Napolitano il suo esponente principale. Sono parole che vanno nella direzione auspicata dalla corrente migliorista: l’omologazione del PCI nell’ambito delle forze che si riconoscevano nell’Internazionale socialista, la fine della berlingueriana “diversità comunista”. In un’intervista a Critica marxista dell’aprile 1981 Berlinguer metteva in evidenza come: “la difficoltà in cui si sono imbattuti i partiti socialdemocratici sta […] in ciò: che la loro politica, illudendosi di essere ‘realistica e concreta’, nei fatti è diventata spesso adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi dell’impegno al cambiamento dell’assetto dato, li ha portati cioè all’offuscamento e alla perdita della propria autonomia ideale e politica dal capitalismo. La nostra d i v e r s i t à r ispetto alla socialdemocrazia sta nel fatto che a quell’impegno trasformatore e a quella autonomia ideale e politica noi comunisti non rinunceremo mai”. Ciò che distingue il Pci dai partiti socialdemocratici europei sta dunque per Berlinguer nell’anomalia con cui i comunisti “stanno nella storia”: nel credere alla costruzione di una m a rxiana “società di liberi e di uguali”, ovvero alla possibilità di trasformare i rapporti sociali di produzione, in modo da rendere la società a misura d’uomo, facendo avanzare forme nuove di socialismo. Il Pci non deve omologarsi agli altri. Più democrazia e più socialismo devono essere gli ingredienti. Non solo l’una o solo l’altro. Nella stessa intervista Berlinguer specifica quale concezione debba caratterizzare la “diversità” dei comunisti: «La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo, sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire una ‘società di liberi e uguali’, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la ‘produzione delle con - dizioni della loro vita’». E prosegue: “Oggi, lo sforzo della classe operaia (e del partito) per affermare la propria autonomia ideale e politica rispetto alla società capitalistica, nasce dalla ripulsa dei ‘valori’ dominanti. Per esempio, uno dei valori costitutivi e fondanti delle società capitalistiche è l’individualismo, la contrapposizione fra gli individui, la lotta di ciascuno contro tutti gli altri, di ciascun gruppo o corporazione chiusa in se stessa contro tutte le altre. La classe operaia, e noi comunisti, tendiamo ad affermare invece il valore della solidarietà di classe e della solidarietà di tutti gli oppressi e gli sfruttati. Con ciò è chiaro che noi apriamo una lotta, perché siamo convinti della necessità, della possibilità e della utilità generale di costruire rapporti nella società e nello Stato fondati sul ribaltamento di quel valore, di quella idea base del capitalismo, che è appunto l’individualismo” [7]. Il prius della “diversità” di Berlinguer non stava, quindi, nell’etica, ma in una concezione della politica e degli obiettivi della politica. Altro aspetto da mettere in evidenza sulle tesi del XVII congresso è la lettura degli aspetti contradditori della società: è il congresso ove accanto alla “contraddizione di classe” si leggono “le contraddizioni trasversali” (dell’ambiente, della vita e del rapporto uomo-donna). Questa “scoperta” verrà giocata tutta in termini antioperai. Viene decretata la fine della centralità della classe operaia come conseguenza del passaggio dal “lavoro”, ai “lavori” tecnicamente qualificati e differenziati da quelli dell’operaio-massa, pervenendo così ad un completo rovesciamento delle proprie posizioni teoriche e strategiche. Anche su questo terreno vi è una subalternità all’ideologia dominante

    9. FINE DEL LAVORO?
    Agli inizi degli anni ottanta la diffusione della microelettronica diventa di massa, con il dilagare del personal computer e con l’introduzione su larga scala di sistemi di con - trollo di processo e di controllo informa - tivo nelle unità produttive. A fronte di questi processi vi è la rinuncia ad analizzare i meccanismi attraverso i quali l’innovazione tecnologica nasce, si diffonde, incide sull’occupazione e sul tempo libero, sulle condizioni di vita e di lavoro. Si sconfina, invece, in predizioni millenaristi - che, come quelle della “fine del la - voro” o della “soddisfazione totale dei bisogni” attraverso l’automazione. Buona parte di queste estrapolazioni sono identiche a quelle che verso la metà degli anni sessanta si facevano a proposito dell’informatica. Analoghe le speranze: due soli calcolatori sarebbero bastati a soddisfare le esigenze di calcolo mondiali (previsione del presidente della IBM negli anni cinquanta); i lavori noiosi e ripetitivi sarebbero stati eliminati. C’è un paradigma dilagante che de - scrive (non analizza) l’innovazione microelettronica, e che si esprime nei seguenti termini: poiché la microelettronica sostituisce anche il lavoro intellettuale, questo significa la “fine del lavoro”: tutto il lavoro verrà svolto dalle macchine, e quindi per l’uomo non ci sarà più lavoro. Poiché non vi sarà più lavoro manuale, non vi sarà più produzione di beni fisici, ma prevalentemente di informazione e di servizi a questa connessi: “il lavoro immateriale”. Ciò significa la “fine della società industriale”, che era fondata sulla produzione di beni fisici, e la nascita della società “post-industriale”, fondata su piccole unità produttive e sulla produzione di servizi. Poiché l’automazione opera in gran parte attraverso “sistemi”, a sua volta impone nell’organizzazione del lavoro l’adozione di forme non tayloristiche. Ciò rappresenta, come tendenza, la “fine del taylorismo”, organizzazione del lavoro tipica della società industriale. Fine della produzione di beni fisici, fine del taylorismo, emergenza di nuovi strati di tecnici come strati portanti della produzione, fine della classe operaia: tutto questo prefigurerebbe il supe - ramento del capitalismo. L’attuale automazione non deriva tanto dalla “rivoluzione tecnicoscientifica” quanto dalla crisi del ca - pitale, e dal tentativo di uscirne. Le nuove tecnologie mirano a contra- stare la caduta della produttività del lavoro (mediante l’aumento del suo controllo da parte del capitale). Sennonché, le contraddizioni del capitale non scompaiono in virtù delle “nuove tecnologie”. Il palliativo “tecnologico”, a lungo termine, le approfondisce: perseguendo ciascuno il proprio fine individuale (abbassare i costi e alzare i profitti), i capitalisti fanno cadere il tasso di profitto del capitale totale. Inoltre, le tecnologie non sono neutre, ma si inseriscono in un modo di produzione determinato, in una fase concreta del suo sviluppo. Le “nuove tecnologie”, quindi, lungi dall’attenuare le leggi che portano all’autosoppressione del capitale, a lungo termine ne accentuano la vigenza. Occorre, perciò, rimuovere la falsa idea che l’innovazione tecnologica sia tale da rompere la continuità con la manifestazione organica del capitale industriale-finanziario emersa già agli inizi degli anni ’30. La questione era già presente in Berlinguer, che in una intervista all’Unità del dicembre 1983 afferma che è “assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche della informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica” [8].

    10. IL RAPPORTO INFORMAZIONE/DEMOCRAZIA
    Altro aspetto riguarda il carattere intrinsecamente “democratico” assegnato allo sviluppo delle comunicazioni in rete. Ancora una volta alla tecnologia viene assegnato un ruolo taumaturgico nel risolvere questioni di fondo della società, ruolo che viene oltremodo ingigantito dallo sviluppo di Internet: le tecnologie sarebbero in grado di per sé di aprire la strada alla democrazia diretta. Questo grandioso disegno è caldeggiato dalla forme nuove del potere economico rappresentato dalle multinazionali, a cui risulta difficile riconoscere un atteggiamento ricettivo nei confronti delle istituzioni democratiche; d’altro lato vi sono gruppi che, annunciando l’avvento imminente di una repubblica elettronica, denunciano il tentativo da parte del potere politico di voler esercitare un controllo normativo sulle reti, che si configurerebbe come minaccia per i potenziali contenuti emancipatori delle tecnologie informatiche. Una posizione oltremodo simile a quella delle multinazionali, che rifiutano qualsiasi forma di controllo statale, ma al solo scopo di favorire, a proprio vantaggio, una radicale liberalizzazione dei media e delle reti. Una strategia questa meramente finalizzata a trasferire il potere di controllo dallo stato ai privati. Circa la conclamata possibilità di accesso alla rete, risulta chiaro che, via Internet, l’utente è libero di decidere con quali persone o cose vuole mettersi in contatto. Bisogna tuttavia intendersi e si tratta di un punto cruciale nell’odierno dibattito sul rapporto informazione-democrazia: una cosa è la possibilità di un libero accesso all’informazione, tutt’altra la probabilità che i cittadini possano farne uso. Nell’intervista precedentemente citata, Berlinguer sgombera il campo da tante illusioni sull’utilizzazione della “rete” come strumento di democrazia diffusa: “La ‘democrazia elettronica’ limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone […] io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi” [9].

    11. "NUOVISMO" E "DISCONTINUITA'"
    Prima del XVIII congresso il “revisionismo occhettiano” ha un momento di rilevanza con l’intervista sulla Rivoluzione francese rilasciata a L’ Espresso. “Il PCI - afferma Occhetto - è figlio della rivoluzione francese. Abbiamo riconosciuto ‘la democrazia come valore universale’ […] affermato proprio in quella dichiarazione”. Occhetto aggiunge che va rigettata, però, la successiva esperienza giacobina, che “rappresentava un disvalore perché aveva in sé le radici del totalitarismo”. L’intervista è rilasciata in occasione del bicentenario della Grande rivoluzione; lo scopo evidente della tesi di Occhetto stava nel ridimensionamento della Rivoluzione d’ottobre, accantonata insieme a 70 anni di storia e di idealità comuniste per lasciare spazio al richiamo agli ideali liberali sanciti dalla rivoluzione del 1789. Un’operazione propagandistica, senza alcun fondamento sul piano storico-teorico. Che il PCI – come tutti i partiti comunisti del ‘900 – fosse figlio dell’Ottobre e non del 1789 era indubbio. Giova anche ricordare come Marx, nella sua critica alla “Dichiarazione” e ai “diritti”, denunciasse i limiti dell’emancipazione politica, che non era in grado di toccare le differenze tra cittadino e borghese, tra l’eguaglianza formale del cittadino e la disuguaglianza reale che si riscontra tra i membri della società civile/ borghese. È la questione che sarà presente ai costituenti italiani, che formalizzeranno le norme per realizzare l’eguaglianza sostanziale. Il XVIII Congresso si svolge a Roma nel marzo 1989 con Occhetto segretario generale, eletto nel giugno 1988. Il progetto alla base del congresso è quello di sconfiggere la destra del partito. Paradossalmente questa prende una serie di colpi in un congresso che si colloca, dal punto di vista politico-ideale, tra i più a destra nella storia del Pci. Infatti, guida l’operazione una logica che spinge alla rottura con la tradizione comunista. Chiave di volta è l’idea di “discontinuità”. L’obiettivo della politica diviene “cambiare”, “modernizzare”, non più trasformare i rapporti sociali in nome dell’eguaglianza.

    12. TOGLIATTI SOTTO ATTACCO
    La tradizione togliattiana, e lo stesso Togliatti, sono fatti oggetto di più attacchi, di diversa natura. Il 25 febbraio 1988 l’Unità pubblica un articolo di Umberto Cardia in cui si sostiene la tesi, peraltro non nuovissima, che Ercoli non avrebbe fatto tutto il possibile per salvare la vita di Antonio Gramsci. Il primo atto significativo di Occhetto, dopo la sua elezione a segretario, è quello di dare ampia diffusione al giudizio pronunciato in un discorso tenuto a Civitavecchia in occasione dell’inaugurazione di un busto a Togliatti, secondo cui il fondatore del “partito nuovo” era stato “inevitabilmente corresponsabile di atti dell’epoca staliniana, piena di ombre per il movimento operaio”. La messa in scena ha un’ampia eco, perché viene concepita nel clima ancora arroventato dalla campagna di diffamazione della figura di Togliatti alimentata dal Psi nei mesi precedenti. Il suo aspetto più grottesco risiede nel fatto che trentadue anni prima (nel rapporto al Comitato centrale del Pci del giugno 1956) Togliatti aveva già affrontato l’argomento in termini ben più schietti e puntuali, riconoscendosi “corresponsabile” della politica di Stalin, compresi i suoi atti “criminali”, senza invocare l’attenuante della “situazione oggettiva”.

    13. "PULIZIA TEORICA"
    Il XVIII congresso è una specie di prova generale della “svolta”. Lo scrive esplicitamente Claudia Mancina (allora vice-direttrice dell’Istituto Gramsci, successivamente, nei primi anni ’90, responsabile culturale del PDS). In un articolo sul M a n i f e s t o, nell’ottobre 1988, sostiene che il “nuovo corso” del PCI andava considerato a partire “dal peso delle macerie” costituito dal consumarsi della tradizione teorica e politica di questo partito e, più in generale, del comunismo. All’allora responsabile culturale, Fabio Mussi, accadrà di rimproverare gli intellettuali perché rimpiangono quel “bambolotto di pezza” che il PCI aveva rappresentato. Non si balocca certamente Michele Salvati che usa l’espressione “pulizia teorica” in un articolo del 1989: via Gramsci, ma soprattutto via Marx, causa dell’errore primigenio. A questo proposito Salvati si esercita in un’ipotesi di storia controfattuale: “Che cosa sarebbe stato il socialismo senza Marx?”. La risposta è chiara: ci saremmo risparmiati gli orrori del Novecento e dalle rivoluzioni del 1848 sarebbe scaturito in linea diretta il “riformismo ragionevole”. “Pulizia teorica” è la sostanza della “svolta” [10]. Bisognava prendere le distanze dalla tradizione comunista. La generazione dei quarantenni deve accedere al potere. Bisogna “dare spazio ai giovani”, una questione di scheda anagrafica. Di qui il delirio del “nuovismo”. Nella relazione di apertura del congresso Occhetto pronuncia l’aggettivo “nuovo” 48 volte, nella replica si supera: 49 volte. Avendo espulso dall’analisi storiografica l’indagine sugli anni ’70 (avendo negato il marxismo) non rimaneva che definire il ventennio successivo come nuovo e incomparabile rispetto al decennio precedente e, insieme, ritenere che innovare non fosse nient’altro che distruggere il passato. È il postmodernismo che si costituisce su due assunti:
    a) il “nuovo” considerato come momento centrale di ogni analisi, di ogni discorso;
    b) la “discontinuità” come presupposto di ogni proposta politica, fondata sulla “incomparabilità” del presente dovuta alla scomparsa di una visione retrospettiva, la sua cesura netta con la storia passata che comporta una concezione del presente come privo di ogni storicità.
    Gramsci, nei Quaderni, asserisce che “giudicare tutto il passato filosofico come un delirio o una follia non è solo un errore di antistoricismo [...] ma […] suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato. […] Se questo modo di giudicare il passato è un errore teorico, […] potrà avere un qualche significato educativo, sarà ispiratore di energie? Non pare, perché la questione si ridurrebbe a presumere di essere qualcosa solo perché si è nati nel tempo presente, invece che in uno dei secoli passati. Ma in ogni tempo c’è stato un passato e una contemporaneità e l’essere ‘contemporaneo’ è un titolo buono solo per le barzellette” [11]. A proposito di elementi di novità Occhetto sancisce la nascita del “governo ombra”, scimmiottando il modello inglese (quale innovazione!) e, per la prima volta nella storia del PCI, si avvale di uno staff personale.

    14. LO SCIOGLIMENTO DEL PCI
    Il lasso di tempo che separa il XVIII dal XIX Congresso (congresso straordinario) - che si svolge a Bologna nel marzo 1990 e che approverà a maggioranza la proposta formulata da Occhetto di promuovere una nuova formazione politica in cui dissolvere il Pci – passa alla storia come il dibattito sulla “cosa”. Da parte della maggioranza si parla molto della “novità” della formazione politica cui si intende dare vita e della necessità di realizzarla con “nuovi interlocutori”. Si mitizza la cosiddetta “sinistra sommersa” e le risposte entusiaste vengono dai Verdi, da ex militanti di Lotta Continua, da spezzoni di quella che era stata l’area del 1977. Fa da battistrada la rivista Micromega. Il primo convegno dei “club” (come allora si definirono), indetto da una lettera firmata da Paolo Flores d’Arcais, Antonio Lettieri, padre Pintacuda ed altri, si tiene nel febbraio 1990. In quella occasione Norberto Bobbio saluta la “svolta” come “una magnifica avventura”. L’opposizione si costituisce in due mozioni, una firmata da Ingrao, Tortorella, Natta, Chiarante, Castellina, Magri, Garavini e altri; l’altra firmata da Cossutta. Una minoranza che ottiene circa il 34% di consensi. Un inciso, vista la provenienza dell’attuale segretario del PD: senza l’Emilia Romagna il rapporto di forze sarebbe stato molto più equilibrato. Infatti le federazioni di questa regione danno il 40% dei delegati alla maggioranza. Il “delegato occhettiano tipo” è un funzionario del partito, membro delle potenti federazioni dell’Emilia Romagna. Durante il congresso Occhetto non pronuncia nemmeno una volta il nome di Marx nei suoi discorsi. Alcuni libri, scritti di recente, hanno analizzato nello specifico questo percorso ed ad essi rimandiamo [12]. Il XX e ultimo Congresso si tiene a Rimini nel gennaio-febbraio 1991. Una parte dell’opposizione, guidata da Cossutta e Garavini decide di dar vita a un nuovo partito, quello della Rifondazione comunista.

    NOTE

    1 A. Gramsci, Quaderni del carcere , Torino, Einaudi, 1975, Q. 10, pp. 1325-26.
    2 Cfr. A. Occhetto, Un indimenticabile ‘89, Milano, CDE, 1990.
    3 Dei numerosi scritti di Niklas Luhmann suggeriamo: Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 1979; Come è possibile l’ordine sociale, Bari, Laterza, 1985.
    4 In “Conversazioni con Berlinguer”, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 255.
    5 Palmiro Togliatti, Discorsi parlamentari, Roma, Camera dei deputati, 1984, prefazione di Enrico Berlinguer.
    6 Intervento di P. Ingrao, in Atti del XVII Congresso, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 280.
    7 C f r. Critica marx i s t a, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 10-12.
    8 In “Conversazioni...”, p. 354.
    9 Ivi.
    10 M. Salvati, La svolta, un atto dovuto, in Interessi e ideali, Milano, Feltrinelli, 1990, pp. 82-91.
    11 A. Gramsci, Quaderni…, Q. 11, pp.1416- 17.
    12 Cfr. Giuseppe Chiarante, La fine del PCI. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo congresso 1979-1991, Carocci, 2009; Lucio Magri, Il sarto di Ulm, Il Saggiatore, 2009; Guido Liguori, La morte del PCI, manifestolibri, 2009; Adriano Guerra, La solitudine di Berlinguer, Ediesse, 2009. Tutti recensiti ne l’ernesto n. 1/2010
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    Predefinito Rif: "Democratici di Sinistra" - Storia,Personaggi,Politica

    IL NUOVO PARTITO,LA SCISSIONE DI RIFONDAZIONE,LE CRITICHE DEGLI ESTERNI E LO SCIVOLONE SULL'ELEZIONE DI OCCHETTO

    Il Partito Democratico della Sinistra non ebbe certo un inizio facile : una fetta del Fronte del NO guidata da Cossutta (che nel Congresso precedente del 1990 si era difatti presentato in una mozione a parte rispetto a quella di Ingrao) annunciava la scissione e la nascita di una "cosa" comunista,gli esterni (la cosiddetta sinistra "diffusa") criticava la struttura del nuovo Partito ed infine lo smacco,per Occhetto,della mancata elezioni a Segretario del nuovo partito alla prima votazione.
    Una serie di ostacoli che molto probabilmente hanno portato al contenimento di quel passaggio,di quella trasformazione,alla riduzione della portata storica e strategica di quella operazione politica.

    I DUBBI DEGLI ESTERNI 'STATE DISEGNANDO UN PARTITO CHIUSO'02 febbraio 1991 — pagina 12

    RIMINI A poco più di ventiquattr' ore dal battesimo del Pds esplode il dubbio dell' esterno. Esplode fragoroso, al tramonto della prima giornata di dibattito, nelle ultime secche parole di Toni Muzi Falconi, l' uomo che avrebbe dovuto condurre nel porto di Occhetto la flottiglia irregolare della sinistra dei club: Personalmente la mia decisione di aderire al Pds è condizionata dalla qualità dello statuto che emergerà da questo congresso. Per molti in sala il riferimento è oscuro. Non per le decine che in quegli stessi minuti stanno affrontando, nella sala blu del retro-congresso, la lunga e convulsa maratona notturna sulla magna charta del Pds, il libro delle regole, la carta costituzionale che nasce senza costituente. Una maratona che viene abbandonata a metà dai duri del no, infuriati per il rifiuto dell' ipotesi federativa. Sui 12 titoli e 66 articoli della bozza faticosamente limata in dieci mesi di lavoro, ora rischia di infrangersi anche l' abbraccio annunciato fra Occhetto e la sinistra diffusa. In quel testo, insiste aspro Muzi Falconi, c' è un partito anche più chiuso del vecchio Pci. Dov' è finito il partito aperto, il partito dell' ascolto, il partito meno partito?. Dove sono finiti, spiega scendendo dal palco agli amici esterni allarmati, i cinque punti fondamentali che avevamo proposto? Bocciati, o ignorati. Non si parla più di adesione debole, cioè la quasi-tessera che consentirebbe a molti indecisi di impegnarsi col Pds su progetti definiti, magari a termine. Niente primarie per scegliere i candidati alle elezioni, niente certificazione ufficiale dei bilanci, poco chiara la distinzione fra dirigente e funzionario politico a tempo pieno. E soprattutto niente elezione diretta di segretario e direzione, ma una struttura interna nuovamente piramidale, stratificata, in fondo ancora leninista: un elefantiaco consiglio nazionale di oltre cinquecento membri, quasi un congresso stabile, e poi cerchi sempre più ristretti e gerarchici fino alla segreteria e al segretario. Un' architettura non democratica, s' indigna Muzi Falconi, contro la quale si è raccolto un inedito, anche se minoritario, fronte del rifiuto: quelli del no, che vedono sbarrata la strada al loro sogno federalista, gli esterni e la loro speranza di un partito a struttura agile e non rigida, e perfino i non più mansueti delegati emiliani, che in nome del regionalismo sono pronti a spendere tutta la loro forza (un terzo del congresso) per una soluzione tipo Spd (dove una buona parte del comitato centrale viene eletto dalle organizzazioni periferiche). E così il dubbio corrode il già debole comun denominatore dell' arcipelago simpatizzante. Divisi in almeno tre famiglie (la Sinistra indipendente, i club, i cani sciolti raccolti là dove la Costituente ha emesso qualche timido vagito), impossibili da definire se non in negativo (esterni, dice la scostante segnaletica congressuale; non iscritto riportano i cartellini di identificazione), si sono scoperti ancora più dispersi di quanto immaginavano. Giovedì sera una riunione plenaria dei 315 esterni si è risolta in un fallimento: un documento contro le correnti e il rischio della cooptazione non è stato neppure posto ai voti. Qualcosa in più è riuscita a fare ieri sera la riunione dei club, approvando un esplicito no alle correnti organizzate che accoglie tutte le preoccupazioni di Muzi Falconi e anche qualcuna di più, e fra le condizioni essenziali per la partecipazione al Pds mette la dichiarazione formale che lo statuto sia provvisorio. Ma il clima resta inquieto. Le ipotesi sono due, entrambe piene di rischi. La prima: accettare la griglia delle correnti, entrare nel Pds in quota Occhetto e dunque schierarsi nella battaglia interna. La seconda: chiamarsi fuori e presentarsi al voto di domenica con una lista propria ma finendo così tramutati controvoglia in quarta mozione. Sono realista dice lo storico Gian Giacomo Migone le correnti ci sono e temo che dovremo sopportarle per un po' , purché non diventino strutture stabili. Ma all' amico Chiarante chiedo: a voi del no fa piacere vederci ingabbiati?. Siamo trecento individui, non siamo una corrente, siamo contro le correnti, esclama lapidario Paolo Flores D' Arcais, di cui si parla come candidato alla segreteria Pds assieme all' economista Michele Salvati. Ma il correntismo è contagioso, e se perdiamo questa sfida avverte l' ex parlamentare europea dc Gaiotti De Biase, pronta ad aderire al Pds è una buona ragione per lasciare il partito, anche fra dieci mesi. La via d' uscita, labilissima, è forse lo statuto in progress che propone Luciano Ceschia, o quel consiglio costituente che Migone vorrebbe vedere al posto dell' elefantiaca assemblea nazionale. - MICHELE SMARGIASSI

    L' ULTIMA NOTTE DA COMUNISTI01 febbraio 1991 — pagina 13

    RIMINI E' l' una e trenta del mattino in una stanza dell' hotel Ambasciatori, i muscoli delle gambe fanno male per la prolungata immobilità di uomini da ore incollati alle sedie, la relazione di Achille Occhetto è un ventaglio di fogli sparsi ma finalmente distillati, approvati, buoni per l' uso. In quella pila di carte ci sono migliaia di parole, frutto di una prolungata caccia all' aggettivo giusto, di una al tempo stesso spontanea e maniacale cura dei dosaggi, degli effetti, dei significati. Tutto viene riletto e rivagliato: è finita, va bene e probabilmente nessuno dà peso al fatto che il termine comunista compaia solo due volte. Solo per dire della feconda presenza dell' idealità comunista contraddetta e calpestata dall' esperienza storica del comunismo internazionale. Comunismo: un ricordo, una traccia, non un dolore e neanche un rimpianto. Qualcosa che scivola via e che non ingombra l' ultima notte di quello che fu il Partito comunista italiano. Poche ore dopo, stavolta forse volutamente, alla prima occasione per menzionare il suo partito, Occhetto dirà: Ma di quale salto all' indietro del Pds si parla.... Pds dunque, e così sia. E' stata una notte senza brindisi e senza lacrime, il comunismo non esigeva più nemmeno addii. Qualcuno, giorni fa, aveva pensato e proposto di salutare il Pci che se n' è andato, di rendere esplicito il funerale e il battesimo. Era stata immaginata una scenografia col simbolo della falce e martello che si allontanava e quello della quercia che prendeva il campo, una sorta di ammaina e alzabandiera. Non se ne farà nulla perché sarebbe stato a suo modo un film doloroso e perché, a giudizio di Occhetto e dei suoi, non ce n' è bisogno: per i fondatori del Pds il comunismo è entrato nella storia e non soltanto da stanotte. E allora è inutile rimuovere davanti alla platea i vecchi simboli, anzi l' indicazione che viene da Botteghe Oscure è di conservarli, sia pure in bacheca. Come quella bandiera della Comune di Parigi che sta senza stonare nella sede nazionale del partito ora anche gli emblemi di settanta anni potranno restare nelle sezioni, negli uffici, nei corridoi. Pezzi di storia sottratti al tribunale della politica, oggetti di memoria e non di culto. Non ci sarà bisogno di regalarsi a Natale, come pure è già avvenuto, falci e martelli e i vecchi simboli e cimeli non finiranno nel circuito commerciale del collezionismo un po' politico e un po' morboso. Così almeno vuole Botteghe Oscure: appendere alle pareti quel che è stato, senza passioni. E tra la gamma dei sentimenti che accompagnano l' ultima notte comunista del segretario non c' è neanche melanconia, l' indugio di uno sguardo all' indietro. La tv è accesa a basso volume nell' ansia di notizie che arrivino dal fronte di guerra, l' attesa è per come verrà accolta l' indomani la professione di pacifismo di governo che Occhetto ha appena finito di mettere su carta. Un pacifismo rivendicato con orgoglio e nel quale, almeno nelle sue motivazioni esplicite, è arduo rintracciare qualcosa di quello che fu la lettura comunista della pace e della guerra. Nel mondo che Occhetto dipinge sull' orlo del baratro non ci sono nazioni patria dei circoli militari e imperialistici e neanche fedeltà internazionali. Ci sono soprattutto uomini di buona volontà e perciò Wojtyla appare come l' interlocutore più immediato. Così come non ci sono proletari e capitalisti a spingere o a frenare sulla strada della giustizia sociale. L' universo del Pds conosce soprattutto cittadini in cerca della realizzazione concreta dei loro diritti. Quando, alle due del mattino, quella luce si spegne nella stanza d' albergo diventa perfino scorretto annotare che il comunismo non c' è più: nelle pagine e nella mente di Occhetto il comunismo non c' è e basta. Ha ragione il segretario del partito che nasce a non temere nemmeno l' impatto emotivo del partito che è morto. In questa notte quelli che non sono convinti del suo Pds dibattono e riflettono sul come dimostrarne la fragilità del programma, l' approssimazione delle alleanze. S' ingegnano gli uomini e le donne del no ad Occhetto a garantirsi la possibilità di fare la loro politica all' interno del Pds. Perfino coloro che non vogliono stare un minuto in questo partito non più comunista non gridano al tradimento nella notte di Rimini, piuttosto all' errore, al colpevole sbaglio nella scelta dei valori. E non ci sono concitate rincorse ma solo tranquilli percorsi sui lungomare appena sporcati di nebbia. E neppure tribuni in sale fumose e vibranti, solamente cene in cui soltanto la topografia dei posti a tavola denuncia le differenze politiche. Nessuno tira l' alba in questa notte, non il segretario del Pds che chiude la sua fatica constatando come tutti i nodi siano stati tagliati e come ormai sia davvero tempo di vedere se la nuova barca cammina e non di che materiale sia fatta. Occhetto ha pensato ai cattolici, ai socialisti, ai giovani, ai verdi, alle donne. Verso ognuno c' è una scommessa e una speranza, da ognuno Occhetto in questa notte si augura applausi e teme sordità. Quella del Pds sarà una strada piena di ostacoli dolorosi, ma una ferita non c' è o, se mai c' è stata, è già rimarginata: quella della rinuncia al comunismo. Hanno detto ad Occhetto che il congresso sarà aperto dalle note dell' Internazionale: nessun problema, quell' inno non evocherà nulla che non sia più compatibile con la nuova creatura politica. Non ci saranno in sala né patemi né sussulti, al massimo il Pds si ricorderà di avere una storia su cui affacciarsi. Trascorre così l' ultima notte comunista del partito di Togliatti, Longo e Berlinguer: senza le gramaglie di un funerale, i furori di un abbandono, il dolore di una perdita. E al massimo Occhetto si sveglia, riguarda la sua relazione, aggiunge un aggettivo dimenticato a spiegare la natura del suo pacifismo, cambia una parola per rendere più stringente il suo invito al governo a ritirare le truppe italiane nel Golfo, forse neanche si sofferma su quel comunismo che nella sua relazione sopravvive ormai più come vittima che come protagonista di questo secolo, e infine si tuffa in un congresso che, in perfetta sintonia con lui, comunista non è più, anzi comunista non è. - dal nostro inviato MINO FUCCILLO

    E D' ALEMA TIRA IL CARRO DEL CONGRESSO
    03 febbraio 1991 — pagina 9

    RIMINI Massimo D' Alema, ovvero portiamo a casa, al riparo, il Pds prima che la nuova merce marcisca ferma al confine tra la politica, la morale e l' ideologia. Tutto il resto è poesia, intrisa di nobilissime parole e fondatissimi dubbi, ma pur sempre poesia. Massimo D' Alema, lo sdoganatore di un Congresso che fatica a trovare la maggioranza con cui concludersi e di un partito-bambino già orfano del traguardo dell' alternativa. Massimo D' Alema, che sempre sembra avere in testa un pensiero più complesso delle parole che pronuncia mentre Occhetto dice tutto quello che pensa. Ieri si poteva vedere, senza nemmeno aguzzare troppo la vista, un partito danzare con qualche voluttà sull' orlo del baratro dell' opposizione a vita. Schizzata via l' alternativa in un futuro remoto, sfuggita dalle mani come una saponetta l' alleanza col Psi, bruciati alle spalle i ponti del consociativismo eternamente ricontattato con i democristiani, più volte s' era affacciata dalla tribuna e in platea la vertigine dell' opposizione come destino obbligato e missione salvifica del Pds. Come e peggio del Pci. E anche il Congresso si era imballato: quale maggioranza sul Golfo, sulle navi, sulla guerra? Occhetto con Ingrao senza Napolitano? Oppure il contrario? Con chi il centro, con la sinistra o con la destra? La prima strada sbarrata dal peso di una scelta politica che potrebbe marchiare il Pds come partito riformista soprattutto a chiacchiere, la seconda impercorribile perché gli occhettiani dovrebbero votare contro quella frasetta sulle navi italiane da ritirare scritta nella relazione di Occhetto. Occorreva sdoganare e in fretta: il bilancio della sosta forzata metteva paurosamente in rosso i conti di questo Congresso. E D' Alema, da buon imprenditore della politica, come si conviene a un curatore d' interessi della azienda che nasce, ha provato a scuotere il Congresso dall' ipnosi indotta dall' anatema di Craxi e dal valzer delle mozioni. L' importante è passare il confine e quindi D' Alema ha suggerito, più che esibito, due classici lasciapassare dell' imprenditorialità politica, comunista ma non solo. Primo, la scommessa sul centro. Non una parola pro o contro il ritiro delle navi: che Ingrao presenti la sua mozione se vuole e se la voti e altrettanto faccia Napolitano se crede. L' importante è approvare la relazione del segretario e la nascita del Pds e, se non se ne può fare a meno, che piovano mozioni sul Golfo che mai diventeranno maggioranza e quindi politica vera. Altro confine, altra sbarra calata e dietro un guardiano di nome Craxi: blandirlo non si può più di quanto si è fatto offrendogli anche i voti del Pds per un candidato socialista a Palazzo Chigi o al Quirinale, buttarlo giù non riesce, allora non resta che distrarlo per portarsi al di qua della barriera, poi si vedrà. Se l' alternativa non c' è più per decreto di Craxi, il Pci non c' è più per scelta dei comunisti. Resta quel 20 e passa per cento dei voti in Italia che ora sono perciò liberi di fare maggioranza, sui programmi se non sui governi, con chiunque non abbia orrore di essere d' accordo. Con la Dc? Forse talvolta o talvolta con gli stessi socialisti. Niente opposizione a vita dunque, ma la promessa-minaccia di usare la chiave del Pds per aprire ogni porta del cambiamento. E, se Craxi non verrà, inutile star lì a dannarsi come già accenna la destra del Pds o peggio congratularsi per lo scampato pericolo di ogni contaminazione governativa come già assapora la sinistra. Scommessa sul centro dunque e scongelamento dei voti disponibili in Parlamento e nel paese. D' Alema il capitale in mano al Pds invita a investirlo subito e, di fronte ai puri di cuore e ai deboli di memoria, ricorda che il Pds è anche figlio di una sconfitta storica, di una tragedia della sinistra. Figlio unico di madre vedova, non ci sarà una seconda possibilità, non c' era un altro progetto possibile, insieme a salvare il mondo che si pensi anche a salvare il solo partito credibile degli ex comunisti in Italia. Così spinge lo sdoganatore, all' alba della domenica si vedrà se il Congresso avrà gradito. - dal nostro inviato MINO FUCCILLO

    ECCO IL GRUPPO DEI 'RIFONDATORI'
    05 febbraio 1991 — pagina 5

    RIMINI Per loro il congresso si è chiuso quando Occhetto ha finito di leggere la replica. Hanno rifiutato di unirsi al lunghissimo applauso che dava l' addio al Pci e il benvenuto al Pds, si sono chinati a raccogliere le valigie infilate sotto i banchi e hanno cercato la sala E della Fiera. Lì, in una conferenza stampa ben presto trasformatasi in un' assemblea con canti applausi e tante lacrime, gli irriducibili del no hanno annunciato che nascerà un partito della rifondazione comunista. Domenica a Roma, probabilmente al cinema Adriano, è in programma il primo raduno nazionale di quello che per ora intende avere i caratteri di una rete di circoli e comitati. Ci saranno sicuramente gli undici senatori che, guidati dagli ex membri della direzione del Pci Armando Cossutta, Lucio Libertini e Ersilia Salvato, ieri hanno costituito un gruppo autonomo a Palazzo Madama. E la relazione d' apertura toccherà con ogni probabilità a Sergio Garavini, l' ex sindacalista della Cgil diventato ora il punto di riferimento dei neocomunisti alla Camera dei deputati. E' stato proprio lui, nella conferenza stampa di Rimini, ad annunciare la decisione di non aderire al Pds e, come logica conseguenza, di non rientrare più in sala perchè lì c' è il congresso del nuovo partito. Un nuovo partito nato senza una piattaforma politica e senza un gruppo dirigente, ha dichiarato ieri sera Garavini dopo aver appreso la notizia della mancata elezione di Occhetto. Libertini, dal canto suo, ha visto nel clamoroso scivolone dell' appena nato Pds un sintomo chiaro della sua crisi d' identità: come può un partito far convivere in sè il riformismo di Napolitano, il libertarismo di Ingrao, le tendenze liberal-democratiche e le ispirazioni kennediane?. Ma qual è la consistenza della pattuglia scissionista? Nessuno per ora ha fatto conti precisi. L' unico dato sicuro è che all' appuntamento nella sala E della Fiera hanno risposto una novantina di delegati e circa 200 invitati. Ma attenzione, avverte Libertini, a concludere che sia un mini-esodo senza prospettive: Bisogna capire che si tratta di un processo afferma il deputato torinese Molti militanti si sono fatti vivi con noi per dirci ci stiamo pensando. La nostra iniziativa intende offrire una sponda a chi si sente spiazzato dallo scioglimento del Pci. Oreste Della Posta, 36 anni, vice sindaco di Aquino, provincia di Frosinone, è tra i novanta delegati che domenica scorsa hanno detto subito di sì, e poi sono scappati verso il primo treno. Perchè non entro nel Pds? Stia a sentire. Faccio il ferroviere e guadagno 1 milione e 600 mila lire al mese, 400 mila lire vanno via con l' affitto, mia moglie non ha un lavoro. Sarà un frasario vecchio, ma io appartengo a quelle che un tempo si chiamavano classi subalterne, e dei miei problemi a questo congresso non ha parlato nessuno. Del resto, sarei ingenuo ad aspettarmi che lo facessero Napolitano o Flores d' Arcais. Non è questione di emozioni e di ideologia, vado via dal Pds semplicemente per una questione di interessi. Giudicata dalla platea della sala E, la Quercia ha un difetto imperdonabile: è troppo poco antagonista al sistema capitalista. Non potrà essere dunque nemmeno il partito di Aurelio Crippa, segretario della Camera del lavoro di Sesto San Giovanni, l' ex Stalingrado d' Italia. Iscritto dal ' 58, il sindacalista se ne va da Rimini portandosi dentro la rabbia di veder smantellata una forza che ha dato una spinta reale alla democrazia e alla condizione degli operai. Nella loro disperata battaglia controcorrente, gli irriducibili potranno contare su alcune roccaforti. La più munita sembra quella di Torino: su 8 delegati del no eletti nel capoluogo piemontese, nessuno ha aderito al Pds. Anche in Toscana i duri hanno un buon seguito, concentrato soprattutto nelle federazioni di Massa e di Viareggio. A Roma, pare che quasi la metà dei delegati del no siano intenzionati a traslocare nei comitati della rifondazione comunista. In Parlamento, come accennato, è folta soprattutto la pattuglia dei senatori: oltre a Cossutta, Libertini e la Salvato, entrano nel nuovo gruppo Salvatore Crocetta, Angelo Dionisi, Luigi Meriggi, Rino Serri, Stojan Spetic, Giuseppe Vitale e Paolo Volponi. A Montecitorio, con Garavini, passerà sicuramente tra le file neocomuniste Girolamo Tripodi, sindaco di Polistena, in Calabria. Ma circolano anche i nomi della livornese Edda Fagni e della spezzina Luigia Rosaia Cordati. - p v

    I FRANCHI TIRATORI SILURANO IL LEADER
    05 febbraio 1991 — pagina 2

    RIMINI Giglia Tedesco non trova proprio le parole. L' impeccabile presidentessa dell' ultimo congresso del Pci e del primo del Pds cerca di attutire il colpo esagerando con le spiegazioni preventive: Ci sono state molte assenze, molti compagni erano già partiti, altri non sapevano neppure di dovere votare. Ma alla fine deve dirla come va detta: L' elezione del segretario nazionale è da considerarsi nulla. Sono le 15.30. Nella sala che si va già svuotando non tutti si rendono conto della catastrofe. Molti assistono solo, allibiti, alle grandi falcate con cui un Occhetto terreo in volto guadagna l' uscita, protetto da agitassime guardie del corpo, poi lo vedono montare sulla Lancia grigia che parte sgommando verso l' aeroporto. E' successo quel che nessuno avrebbe pensato o sperato. Il Pds è senza segretario. Occhetto non ce l' ha fatta, per dieci voti ha mancato il quorum dei 274 sì, cioé la metà più uno dei membri del nuovo parlamentone Pds. La spiegazione dei primi minuti, quella dell' incidente tecnico, frutto della congiura fra le troppe assenze impreviste e uno statuto rigidissimo, non tiene, non spiega tutto. I registri di scrutinio dimostrano ben presto che al segretario sono venuti meno una trentina di voti, della sua stessa maggioranza. E il battesimo del Pds si trasforma in una pessima alba tempestosa. I titoli dell' Unità Che cambiamento di atmosfera in una manciata di ore. Domenica notte, Occhetto era andato a dormire tranquillo, liberato da un peso lungo quindici mesi. Nel ristorante dell' hotel Ambasciatori, suo quartier generale ormai in smobilitazione, aveva cenato con Livia Turco, Fabio Mussi, Cesare Salvi e gli inseparabili Dioscuri: De Angelis e Falomi. Insalata di gamberi, spaghetti alle vongole, tutto di buon appetito. Avevano brindato al Pds, per buon auspicio avevano intonato in coro, euforici come studenti in gita, il Va' pensiero. Poi una pennichella di un' ora, interrotta da un decisivo salto al congresso per varare lo statuto e di nuovo a dormire, verso le tre di notte. I titoli dell' Unità Alle dieci e mezza di mattina, Occhetto arriva alla fiera raggiante, fresco come una rosa, sollevato, loquace, mentre dal palco precario del salone spoglio in cui il congresso ha dovuto rifugiarsi, Petruccioli spiega ad una platea irrequieta, stanca e caciarona le modalità di elezione del consiglio nazionale. E' ancora presto. Il delegato di Bologna Achille Occhetto, in attesa di diventare segretario, va a sedersi democraticamente in platea, tra il compagno Gino Cesaroni, sindaco di Genzano, e la compagna Roberta Tortorici, direttrice del carcere di Velletri. Visto che stavolta non ho pianto?, butta lì ai cronisti, poi sfoglia l' Unità e si finge indignato: Potevano almeno fare il titolo in rosso. Giacca sportiva, cravatta fantasia e sciarpa rossa firmata, Occhetto si gode la mattina più bella della sua vita. Segretario della quercia: suona bene, imponente, scherza, e così passano una, due ore, Occhetto scalpita, ma Petruccioli quanto la fa lunga?, e finalmente si vota, poi i delegati semplici se ne vanno, quelli eletti nel consiglio nazionale restano per votare il segretario, ultimo atto solenne. Sulla scheda, solo le caselle sì, no e astenuto: perchè tutto è certo, tutto è scontato, i cronisti guardano l' orologio e consultano l' orario ferroviario. E invece no. L' ora del giallo suona alle 15 in punto. Gli scrutatori sul palco hanno già intuito, parlottano smarriti. Un sussurro arriva all' orecchio di Occhetto, che sbianca in viso. Andiamo al bar, si alza e parte quasi di corsa. Si fa servire al banco un Johnny Walker e lo butta giù in due sorsate. Poi torna in sala. Gli viene incontro Walter Veltroni: Dobbiamo riconvocare il consiglio nazionale. E allora vi cercate un altro segretario, è la risposta gelida. Dietro al palco, un mesto consulto con Violante, Mussi, Fassino. Poi Occhetto si gira verso la presidenza: Li volete leggere o no i risultati?, e Giglia Tedesco esegue: 264 sì, 102 no, 41 astenuti, 6 bianche, 2 nulle. Nel vecchio Pci, Occhetto sarebbe segretario. Nel Pds, col suo statuto nuovo di zecca, no. L' articolo 32 parla chiaro: ci vuole la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto, non dei votanti. Solo adesso ci si rende conto di che trappola si tratta. Una maledetta congiura di eventi, casualità e leggerezza, s' affannano a spiegare gli uomini del segretario rimasti sul campo, abbacchiati come soldati disarmati. E' solo un incidente tecnico, si giustificano a gran voce, un incidente frutto del perverso intreccio fra il nuovo statuto eccessivamente garantista e le 132 defezioni: tante, troppe, tra i 547 membri del consiglio nazionale eletto pochi minuti prima. I segretari regionali ci avevano assicurato che la gente c' era, impreca D' Alema, ma a che serve recriminare, la frittata è fatta, lo statuto approvato nella notte a scatola chiusa non perdona, si vendica della confusione in cui ha visto la luce. E gli sconfitti non sanno con chi prendersela. In qualsiasi partito un segretario che prende due terzi dei voti sarebbe stato eletto. Siamo prigionieri dei giuristi si lamenta ancora D' Alema. E' stata una concessione garantista alle minoranze, si difende il giurista Violante, con questi meccanismi democratici però bisogna imparare a fare i conti. Un incidente, un' ingenuità, si sbraccia Piero Fassino; una sciocchezza organizzativa, non si doveva votare oggi, incalza Quercini; insomma è un crescendo di mea culpa: Disordine, fretta, sciatteria, enumera Giuseppe Vacca. Bisognava aspettare qualche giorno, convocare il consiglio con calma, con tutti i presenti piange lacrime pentite il riformista Pellicani anche quelli che forse non sapevano nemmeno di essere stati eletti. Da una riunione volante esce la consegna: negare finché si può che si sia trattato di un incidente politico, dare la colpa al maledetto statuto, quel meccanismo ipergarantista sentenzia Mussi dove gli assenti finiscono per votare contro il segretario. A Occhetto non sono mancati i voti ma i votanti, insiste Giglia Tedesco, un quorum così alto non esiste neppure per l' elezione del presidente della Repubblica. E D' Alema, sulla base di suoi calcoli, spiega che la maggioranza è stata compatta, abbiamo votato in 263 e abbiamo preso 264 voti, dunque la battaglia era persa in partenza. Risultato previsto Ma qualcuno, intanto, fa meglio i conti. Spulcia le liste di scrutinio, scorre i nomi uno per uno. E s' accorge che qualcosa non quadra, che al segretario mancano una trentina di voti della sua stessa maggioranza. La mozione uno infatti conta circa 370 seggi nel consiglio nazionale; al momento del voto, dicono i verbali e conferma più tardi l' occhettiano Quercini, ne mancavano 76. Dunque sulla carta Occhetto avrebbe dovuto disporre di oltre 290 voti. Se la matematica non fa scherzi, almeno trenta uomini del sì nel segreto dell' urna hanno tradito il leader. Chi? Si apre la caccia all' ipotesi, al sospetto, alle accuse, al non sono stato io. Chi sono i 41 astenuti, franchi tiratori imprevisti che hanno fatto naufragare Occhetto? E' superfluo che Bassolino protesti di non aver partecipato a complotti: anche se i suoi fossero stati tutti presenti, sarebbero stati appena una ventina. E allora, chi? I riformisti, accredita la voce sonante del corridoio occhettiano. Mai messo in dubbio il sostegno a Occhetto, replica Napolitano. Ma dall' ultramigliorista Corbani arriva quella che ha tutto l' aspetto di una rivendicazione: Quando si cerca l' isolamento sono questi i risultati. Ieri Occhetto ha detto: basto io, non mi servono i riformisti, non mi serve Tortorella, il risultato non poteva che essere questo. E' l' eco della battaglia notturna sul Golfo, che ha segnato la nascita del grande centro occhettiano: per fermarlo, per condizionarlo, qualcuno può aver pensato fosse utile un segnale. Qualche consenso in meno del previsto al segretario. Ma se è così, il siluro è andato ben oltre il bersaglio, per il perfido intervento di quelle regole nuove che molti non hanno neppure fatto in tempo a leggere. Ed ora è tutto l' edificio costruito da Occhetto che traballa, la minoranza intravvede la possibilità di riaprire tutti i giochi, non accetta una seconda meccanica tornata di voto, ora vuole una riflessione politica. Volano a Roma intanto i colonnelli di Occhetto; prende il treno il popolo dei delegati perplessi e preoccupati. Che figuraccia mormora una toscana, e forse pensa al sorriso beffardo di Craxi. Tornano deserte le strade di Rimini, malinconica madrina di un battesimo a metà. - dal nostro inviato MICHELE SMARGIASSI

    GENERALI E COLONNELLI ECCO GLI ESERCITI DEL PDS
    08 febbraio 1991 — pagina 12

    ROMA Di Fiera in Fiera (da Rimini a Roma) il Pds si prepara a un breve, imprevisto supplemento di congresso. Nessun dubbio che la fine del centralismo democratico e l' impatto delle correnti nel partito nuovo siano stati traumatico. Ed è stato anche emblematico di quel che potrebbe diventare la gestione del partito in assenza d' un forte patto di maggioranza sottoscritto e accettato. Nel Pds si fronteggiano due anime esplicite (quelli che hanno voluto e promosso la svolta, la maggioranza uscita dall' identità e dalla prospettiva comunista; quelli che, in minoranza, restano fedeli alla loro idealità sperando in un ripensamento della storia) e alcune correnti. Non sono gruppi tradizionali cementati dall' uso del potere, dagli strumenti per conservarlo, dalla gestione delle tessere. Ma sono correnti di pensiero, tenute insieme da teorie del cambiamento, da idealità diverse. E dalle prospettive di schieramento: con vocazioni di governo o con tentazioni d' opposizione continua. Per il segretario, dopo un anno di estenuanti trattative interne per avvicinare al gruppo di maggioranza (Occhetto e D' Alema con i miglioristi di Napolitano) parti almeno del dissenso radicale che fa capo a Ingrao e Tortorella, l' equilibrio è difficile da raggiungere. La guerra nel Golfo ha complicato tutto. Ha diviso la sinistra in tutto il mondo. Ha lacerato il Pds in congresso decapitandone (a voto segreto) l' esordio. Ha creato seri problemi ai moderati riformisti che avevano raccordato la posizione del Pds con quella della Spd tedesca, nella delicata diplomazia di avvicinamento all' Internazionale socialista. Avviato da un' apertura a Craxi sull' unità a sinistra (lasciata cadere dall' interessato) il congresso s' è chiuso polemico verso il Psi. Spiazzando ancora una volta le premesse della svolta. Mettendo nell' angolo gli sforzi riformisti (promotori del cambio) per un disgelo a sinistra. Ecco chi sono i principali protagonisti della battaglia nel Pds. D' ALEMA VOLA IL CENTRO SENZA LE ALI? ROMA Si definisce un surgelato leale. Surgelato perché è proverbiale la sua freddezza politica. Leale perché (a quarant' anni, come coordinatore della segreteria è il numero due del Pds) smentisce chi sospetta che la sua influenza nel partito possa non essere estranea ai clamorosi risultati di lunedì. Massimo D' Alema, Aramis per via dei baffetti da moschettiere, in realtà da mesi è il promotore esplicito dell' operazione purè, di fatto scomposizione e autosufficienza della maggioranza congressuale. Operazione forse all' origine dello sfregio d' un voto che ha colpito anche lui. L' immagine alimentare, più volte evocata, serve a render chiaro il concetto che il purè sta bene con spezzatino o bollito o altro menù politico gli si voglia affiancare. Nel caso con miglioristi o ingraiani. D' Alema è convinto che la storia ha sconfitto il comunismo e dunque indebolito irrimediabilmente i movimenti politici che ad esso originariamente si ispiravano. Crede nella svolta ma (a differenza dei riformisti) diffida del Psi: interpretando così l' anima d' un partito ancora largamente antisocialista, se non altro per reazione. E infatti pur insistendo sull' offerta al partito di Craxi per l' alternativa, avverte che se non ci stanno, cercheremo altre vie, e può capitare di tutto. Sarebbe bastata quest' affermazione (oltre alla relazione iniziale di Occhetto in politica estera che trovava in D' Alema, ironicamente, l' unico soddisfatto) a far montare l' irritazione dei riformisti. A confermare la tentazione d' un riequilibrio interno che, all' insegna del taglio delle ali estreme nel partito, ignorando tatticamente lo scontro sul ritiro dal Golfo, disegnava già le premesse d' una maggioranza centrista. Con due forni di ricambio ai lati. NAPOLITANO L' ALLEATO ABBANDONATO ROMA Un quindici per cento diventato intransigente. In certo modo l' asse portante della svolta di Occhetto (quantomeno nella fase iniziale, fino al congresso di Bologna), teorico puntiglioso della distensione a sinistra, via via contraddetta dal clima di questi mesi fino all' epilogo congressuale. Leader dei pignolisti (neologismo critico per fondere migliorismo e pignoleria quanto a stile politico), Giorgio Napolitano ha confermato nel finale di partita congressuale tutto il rigore e la convinzione delle motivazioni che hanno accompagnato la sua presenza in maggioranza. Pur essendosi presentato al congresso come corrente autonoma, nell' ambito della mozione di Occhetto, pur essendo il regista e custode della svolta riformista rivendicata anche dal segretario all' insegna dello strappo col passato, garante del complesso tirocinio che porterà il Pds nell' Internazionale socialista, Napolitano era risultato il grande sconfitto delle assise di Rimini. Prima di Occhetto, lunedì. Nonostante le smentite è pressochè certo che ai problemi tecnici (favoriti da uno statuto che il no ha ottenuto molto garantista) s' è sommata la protesta di alcuni fra i 91 consiglieri riformisti. La schermaglia sul Golfo, anzi sul ritiro italiano, è stata l' ultimo atto d' un congresso che ha visto il segretario su posizioni analoghe a quelle di D' Alema, teorico d' una maggioranza autosufficiente dalla destra (migliorista) e dalla sinistra (di Ingrao). Scelta rafforzata dall' assenza di documenti conclusivi che valessero a rassicurare i promotori della svolta contro cambiamenti d' indirizzo. La bocciatura del segretario finiva così per punire l' assenza di quella chiarezza (politica) senza pasticci (di maggioranza) che i riformisti avevano chiesto invano. PIETRO INGRAO L' APOSTOLO DEI COMUNISMI ROMA E' passato qualche tempo da quando l' ironia dei compagni di partito definiva Pietro Ingrao pacem in tennis, mettendo insieme la sua vocazione di pacifista a oltranza con la passione per la racchetta. Ora l' arcigno leader del no, gran guru del Manifesto che ne ha cantato le posizioni fino all' imbarazzo di lunedì, ayatollah d' un patrimonio ideologico diventato idealità comunque da conservare, può osservare con qualche distacco l' esito del voto contro il segretario (anche se le telecamere lo mostrano finalmente sorridente). Soddisfatto magari no. Anche se fino all' ultimo s' è battuto contro il Pds cercando di correggerne i dati costitutivi, quel brutto voto indebolisce l' eredità del Pci nel momento più delicato. Però, politicamente parlando, a Ingrao non può aver fatto troppo dispiacere scoprire l' inconsistenza politica della coalizione di Occhetto e per converso la inattesa preziosità del suo gruppo d' opposizione, che pure alla fine aveva un po' mitigato il giudizio concedendo qualche astensione e forse anche qualche voto al segretario. La guerra nel Golfo ha rilanciato Ingrao, ha rivalutato il suo pacifismo che s' alimenta di immagini apocalittiche, l' attenzione terzomondista che sa catalizzare nel partito. E nello scontro congressuale tra emozione e ragione, tra idealità e pragmatismo i 142 consiglieri del no hanno in larga parte negato il voto a un segretario che pure aveva tenuto in gran conto le ragioni di questa parte del Pds. Anche perché un gran lavoro sullo Statuto (sulla norma catenaccio che ha bocciato Occhetto) era stato fatto dal Giuseppe Chiarante. L' obiettivo era tutelare le minoranze, a farne le spese è stata la maggioranza. Forse aveva ragione Natta: attenti, il congresso non è scontato. BASSOLINO IL PENDOLO ANTAGONISTA ROMA Quindici mesi di pendolare incertezza. Poi il ritorno alle origini. Antonio Bassolino scelse subito Occhetto e la svolta, nel novembre dell' 89. Ma poi gli toccò la sorte più amara. Andare a Fiumicino ad accogliere Pietro Ingrao (all' oscuro di tutto) di ritorno dalla Spagna, per aggiornarlo. Assorbendone il primo gelido furore. Di estrazione ingraiana, aveva immaginato un ponte, una mediazione impossibile fra vecchio e nuovo. All' inizio d' ottobre la rottura col segretario. L' accusa (poi smentita) di tradimento. La decisione di formalizzare la scelta autonoma in congresso. Resa evidente già poco dopo alla Fiera di Roma, quando toccò a lui (che ne aveva l' incarico, mai revocato) esporre le linee del programma del nuovo partito. Parlò da comunista a un partito che già dal congresso di Bologna aveva deciso di uscire anche formalmente da quel percorso ideale. Applausi freddi, sbrigativi dalla maggioranza; convinti dall' opposizione. Subito dopo la decisione di misurarsi al congresso all' insegna d' un documento autonomo (oltre il sì e il no), nella prospettiva d' un partito antagonista e riformatore. Nella febbre lessicale di questi mesi riformatore è tutt' altro che riformista. Quest' ultima è la confezione politica dell' area moderata del partito, la destra migliorista che si richiama ai gruppi laburisti e socialisti europei, ai democratici americani. Riformatore vuol essere più a sinistra. E l' area di Bassolino (che schiera 29 consiglieri nazionali, nove dei quali esplicitamente sosterranno oggi Occhetto) proclamandosi anche antagonista mette in bilancio una prospettiva d' opposizione anzichè di governo. E infatti al congresso di Rimini s' è riunita alla matrice ingraiana. - di GIORGIO BATTISTINI
    Ultima modifica di SteCompagno; 08-01-11 alle 22:58
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  4. #14
    gira così
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    Citazione Originariamente Scritto da SteDiessino Visualizza Messaggio
    La tua precisazione Mons è giusta,infatti scriverò un post anche sul passaggio PDS-DS e posterò articoli relativi alle varie componenti ( "cespugli" ) che si unirono al PDS per fondare i DS.

    Però devi ammettere che fu una operazione di pura ingegneria partitica,il 70-80% dei dirigenti dei DS erano ex-PDS,gli Stati Generali della Sinistra del 98 furono un pretesto per il PDS per eliminare Falce e Martello e posizionarsi compiutamente nel solco del Socialismo Europeo oltrepassando la fase post-comunista.

    Il 3d abbraccia il PDS e i DS,si chiama "Democratici di Sinistra" ma non intende analizzare esclusivamente quel partito che operò dal 98 al 2007.
    Conosco persone che non hanno mai votato PCI né PDS ma hanno sempre votato DS ed Ulivo.

  5. #15
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    Citazione Originariamente Scritto da Leone Visualizza Messaggio
    Conosco persone che non hanno mai votato PCI né PDS ma hanno sempre votato DS ed Ulivo.
    anch'io ma sono una minoranza

    comunque pescherò articoli anche sul passaggio PDS-DS quando in seguito agli Stati Generali della Sinistra nacque la nuova aggregazione tra Pds,Comunisti Unitari,Cristiano Sociali,Laburisti e Sinistra repubblicana.
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  6. #16
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    Predefinito Rif: "Democratici di Sinistra" - Storia,Personaggi,Politica

    Un bel video-riassunto del Documentario realizzato dai Comunisti Italiani a 20 anni dalla Bolognina.

    Spezzoni di Cuperlo,Occhetto,Diliberto,RussoSpena ecc..

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  7. #17
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    Predefinito Rif: "Democratici di Sinistra" - Storia,Personaggi,Politica

    Il messaggio agli elettori di Occhetto per il Pds , elezioni politiche del 1992

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  8. #18
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    Predefinito Rif: "Democratici di Sinistra" - Storia,Personaggi,Politica

    Puntata molto bella de La Storia siamo Noi con spezzoni di Berlinguer,Occhetto,D'Alema,Veltroni e Fassino

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  9. #19
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    Predefinito Rif: "Democratici di Sinistra" - Storia,Personaggi,Politica

    Perr quanto riguarda il PCI presto una bella mostra organizzata dall'Istituto Gramsci a cui hanno lavorato molto i Democratici di Sinistra (che ovviamente sono ancora attivi)

    Da Gramsci al Migliore
    in mostra 70 anni del Pci

    Tra sette giorni via alla mostra romana: opere d'arte, cimeli e qualche nostalgia
    FABIO MARTINI



    ROMA
    Attorno all’Acquario Romano da alcuni giorni i camion stanno scaricando scatoloni su scatoloni, sui quali compare una scritta enigmatica: «Pci, mostra sul comunismo». Cosa contengano di preciso quegli involucri imballati nessun lo sa e persino Ugo Sposetti, uno degli artefici dell’iniziativa, fa il misterioso: «Vedrete, sarà una bella mostra, di più non so...». Già tesoriere dei Ds, da anni supervisore del patrimonio che proviene dal Pci, comunista all’antica, il compagno Sposetti fa un po’ il gigione. Sa bene che durante le feste di Natale, nella sede che ancora appartiene ai Democratici di sinistra - e dove lui ha il suo ufficio - i funzionari della exQuercia hanno lavorato a tempo pieno per la realizzazione della mostra “Avanti popolo, il Pci nella storia d’Italia”, che verrà inaugurata il 14 gennaio, in occasione del novantesimo anniversario della nascita del Partito comunista italiano.

    La mostra racconterà i settanta anni di storia del Pci, dal 1921 al 1991 e anche se un’aura di mistero circonda i reperti che verranno esposti, si sa che la Fondazione Gramsci e quella del Cespe (depositarie degli archivi del Pci) assieme alla Fondazione dei Democratici di sinistra hanno messo a disposizione l’intero patrimonio. E dunque è facile immaginare che saranno esposti i cimeli più significativi della storia del Pci. Reperti ad alta intensità emotiva, non soltanto per chi ha militato in quel partito, sciolto venti anni orsono. E dunque, vecchissime tessere consumate nelle tasche dei militanti o nascoste durante il ventennio fascista, bandiere rosse con la falce e il martello, volantini sbiaditi, murales di anni lontani, minute di verbali di sezione, busti di capi comunisti. Accanto al patrimonio delle memoria militante, saranno esposti alcuni dei quadri che grandi pittori - come Renato Guttuso, Ennio Calabria, Mario Schifani, Alberto Sughi - regalarono al partito nel dopoguerra.

    E si preannunciano anche reperti sfiziosi come il servizio da caffè col quale Palmiro Togliatti allietava gli ospiti dei partiti fratelli. O qualche intellettuale organico salito al piano nobile del “Bottegone”. Già, Togliatti. Proprio il “Migliore” (leader del Pci nella stagione stalinista e in quella democratica), questa estate era stato il protagonista involontario di una gaffe. Il 20 agosto, quando tutti erano in vacanza, l’ufficio stampa del Pd aveva annunciato che l’indomani una delegazione del partito avrebbe deposto una corona sulla tomba di Togliatti, in occasione del quarantaseiesimo anniversario della morte. Iniziativa originale non soltanto perché Togliatti è stato un grande ma controverso leader del Pci, ma anche perché - come fece notare allora Arturo Parisi, «non si ricordano eguali commemorazioni annuali per il quarantaseiesimo anniversario di grandi esponenti democratici».

    Una sorta di tic quella corona al Verano che aveva riproposto, con tanto di “prova”, la riserva espressa dai dirigenti del Pd di estrazione non-Pci circa il permanere di mentalità e di un egemonismo di tradizione comunista. Anche per questo motivo Sposetti ha fatto le cose per bene. Il Pd non c’entra nulla con l’organizzazione della mostra: l’esposizione, sotto l’egida degli eventi per i 150 anni dell’unità, è “firmata” dalla Fondazione Gramsci e Cespe, nel passato entità “satellite” del Pci, ma oggi estranee al Pd. Spiega Sposetti: «Una mostra che è un atto dovuto: il Pci è un partito che appartiene alla storia nazionale, ma che ha concluso politicamente la sua vicenda». E il professor Parisi che tante volte ha duettato con Sposetti, annuisce: «Formalmente un’operazione ineccepibile e apprezzabile, perché chi celebra la storia del Pci come un fatto compiuto sembra prenderne commiato.

    Un’operazione che sfugge alle rimostranze di chi solitamente recrimina sulla classe dirigente ex Ds, comunisti senza comunismo, che non hanno preso commiato da nomi, simboli e linguaggio del passato». La mostra non si fermerà a Roma. E destinata a diventare itinerante e per il momento sono previste soste a Livorno (la città dove il Pci nacque dopo la storica scissione dal Psi), a Genova, a Perugia, a Milano, a Bologna. Potrebbero essere in tanti a vederla e Paolo Gentiloni, un altro dei fondatori del Pd che non viene dalla storia del Pci, non se la prende: «L’operazione è legittima e nobile, anche se scherzando, ci si potrebbe chiedere: coloro che visiteranno la mostra, penseranno al film “Goodbye Lenin”? Immagineranno di trovarsi davanti ad un pezzo di storia o sogneranno?»

    Da Gramsci al Migliore in mostra 70 anni del Pci- LASTAMPA.it
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