La natura umana e il socialismo


L’affermazione di un nuovo nazionalismo

La questione si racchiude in una domanda: è la natura umana compatibile motu proprio col socialismo? Questione ampiamente discussa a far principio dagli albori delle organizzazioni sociali che hanno disciplinato la vita dell’uomo, collocandosi pertanto all’origine dell’essenza primaria del socialismo stesso, appunto la socialità.

Ogni strutturazione della vita collettiva degli uomini, da quelle cosiddette “pre-statuali” a quelle manifestatesi intrinsecamente alle moderne forme dello Stato nazionale, ha dovuto porsi dinanzi a questo dilemma. Prima della sovversiva e dirompente esplosione della borghesia sullo scenario politico planetario, infatti, lo Stato o era socialista (pur se ante litteram) o non era. L’affermazione e il consolidamento di un fondamento sociale e comunitario è stata, anzi, la missione primaria di ogni Stato degno di questo nome. La metodologia operativa seguita dagli Stati per riuscire a far fronte a questa esigenza primaria dell’uomo, l’organizzazione dell’unica economia possibile, è stata nel corso dei secoli contraddistinta da un elemento unificante consistente nella necessità di plasmare l’essenza stessa dell’uomo per vincolarla a una organizzazione collettiva cui altrimenti la sua natura sarebbe stata istintivamente refrattaria. Il vero Stato ha quindi avuto storicamente il compito di dare forma (socialista) alla sostanza (individuale) dell’uomo-cittadino; a taluni piace sintetizzare questo concetto parlando di Stato etico. Tale ruolo dello Stato non può essere svincolato da un elemento coercitivo, di variabile durata e intensità, la cui manifestazione permette una chiara risposta alla domanda di cui sopra: è la natura umana compatibile motu proprio col socialismo? No.

Circoscrivendo l’analisi all’ultimo segmento – moderno – della storia mondiale, tale elemento coercitivo si è manifestato, in maniera più o meno esplicita, attraverso la necessità di forgiare la prometeica figura dell’uomo nuovo. Nella visione messianico-marxiana del socialismo, figlia del concetto (propriamente definito “giudaico-cristiano”) lineare del dipanarsi degli eventi storici e dell’escatologia del fine ultimo cui l’umanità tende, tale figura sarebbe dovuta scaturire da un processo di purificazione dolorosa dal peccato originale di cui l’uomo è responsabile. Un processo che prevede quindi il transito terrestre attraverso il capitalismo umano, troppo umano, la purificazione nel fuoco rivoluzionario della lotta di classe e, finalmente, il conseguimento della (altrettanto terrena: è il fondamento del materialismo marxista) organizzazione sociale comunista. Né più ne meno che il processo messianico-cristiano del peccato-crocifissione-regno dei cieli o, per non scomodare la santa chiesa universale, della collodiana trasmutazione dolorosa nelle forme dell’asino finalizzata alla purificazione e alla rettitudine della propria morale.

Nelle teorizzazioni pure del socialismo a-marxista - storicamente configuratesi, in questo ultimo turbinoso secolo, nelle forme politiche dei fascismi europei, nel socialismo arabo, nel bolivarismo latino-americano e nel social-panafricanismo –, figlie di una versione ciclica (propriamente definita “classica”) della storia, il necessario sforzo, da parte degli Stati, nella ricerca dell’uomo nuovo è stato liberato dalle soffocanti forze ‘terrene’ della dottrina marxista e agganciato a un eterno ritorno delle età auree dell’organizzazione sociale e politica degli uomini. In queste, al di là e al di sopra dello starnazzare propagandistico, l’elemento coercitivo, la disciplina se non addirittura la ritualità civile assolutista, volti a favorire l’auspicato delinearsi all’orizzonte delle inconfondibili e virili sagome della nuova antropologia socialista sono stati addirittura elementi fondanti della propria dottrina quale necessario prodromo della futura conversione in chiave politico-economica socialistica della società.



Per entrambe le casistiche si registrano fallimenti. La teoria marxista, fondata sul vuoto della sua visione economicistica, ha avuto naturale evoluzione istituzionale in un funereo e polveroso apparato burocratico che, collassando su sé stesso, ha svelato l’inconsistenza della sua stessa ragione d’essere, in quanto la sua pretesa volontà di creazione dell’uomo nuovo altro non è stata che non una mascherata conferma e riproposizione in chiave egalitaria dell’aberrante figura dell’homo oeconomicus.

La seconda teorizzazione, realmente socialista e riformatrice, continua invece a perdere guerre su guerre. L’accanimento che le forze del capitalismo internazionale e la violenza borghese le riservano sono quanto meno dimostrazioni della sua validità. Tuttavia, il soffocamento sul nascere di tali esperiti tentativi ha reso impossibile il passaggio alla seconda fase in cui la componente esteriormente “totalitaria” dei regimi in cui queste teorie si sono inverate sarebbe naturalmente venuta meno in quanto – in séguito alla riconversione degli atteggiamenti individualistici e alla sicura crescita economica che il socialismo avrebbe causato – il popolo sarebbe divenuto totalitario in sé. Sarebbe allora stato possibile dare una risposta diversa alla domanda con cui si è iniziato: è la natura umana compatibile col socialismo? Si. Ma, si badi, non motu proprio: solo grazie al vero Stato.

Accantonato l’equivoco marxista, quindi, appare evidente come l’unica via da percorrere per il conseguimento del socialismo passi attraverso l’attribuzione a quest’ultimo del solo valore che lo può rendere socialisticamente realizzabile: la comunità nazionale. La chiave di volta su cui la teorizzazione e la prassi politica socialista insistono è quindi il luogo deputato a far coincidere gli interessi e le aspirazioni di quel popolo che del socialismo è beneficiario: lo Stato nazionale. Perché solo in questo si ha socialità, e solo questo può quindi essere l’humus da cui il socialismo stesso può trarre vita.

Un'altra questione, che solo apparentemente è “di terminologia”. Il suffisso della lingua italiana –ismo è caduto in disgrazia. Gli –ismi trasudano infatti adesione incondizionata a quanto sul suffisso insiste, denotano una volontà determinata e lucida che non è più adatta ai tempi moderni. Forse l’unico superstite rimane il relativismo. Davanti a tale elemento linguistico gli uomini liberi però non indietreggiano; e non hanno remore nel definirsi socialisti nazionali.

(Qualcuno – malevolo e morbosamente curioso – li provoca: perché non quindi “nazionalsocialisti”, che ha anche un suono più lineare? La risposta, che la pochezza del loro sguardo non riesce a cogliere, non è – come vorrebbero sentirsi dire - nella damnatio memoriae che, insieme al Dritte Reich, ha marcato a fuoco chi nazionalsocialista si è definito nell’Europa di ottant’anni or sono; risiede invece nella molteplicità dei padri nobili che la dottrina socialista nazionale vanta, e che non si limita al tempestoso Novecento, ma affonda le proprie radici nei millenni, nella nascita stessa del primo uomo giusto, nella prima istanza di libertà e giustizia sociale dell’uomo organizzato in Nazione, tanto nella Grecia dorica quanto nella Siria baathista. Non confinandosi, quindi, nella sola riappropriazione di una – pur recente – esperienza politica.)

Della terminologia chiara e corretta, e soprattutto dei concetti che questa esprime, non bisogna però avere paura. Il presente giornale di definisce “di sinistra nazionale”. Gli uomini liberi che si identificano nella dottrina politica di cui si è trattato si definiscono “socialisti nazionali”. Qualcuno ha addirittura coniato un neologismo, “nazionalitari”, così forzato, così legato a quelle “nazionalità” che “nazione” non sono (per quanto la filologia italica spesso le confonda: nel mondo slavo la distinzione è più identificata nella dualità narod/narodnost) e che trascendono dalla necessaria e fondamentale istituzione dello Stato. Tutto, insomma, pur di non dire quello che dovremmo dire con forza: nazionalisti. La questione è di una semplicità commovente: chi fa riferimento agli insegnamenti del Buddha è un buddista; chi trasmette in codice Morse è un marconista; chi ravvisa nella nazione il luogo geometrico in cui erigere un modello politico e il fondamento caratterizzante lo Stato è un nazionalista. Si obietterà che il termine è consunto e abusato, e trasmette l’immagine di coccarde appuntate, di un patriottismo vuoto e passatista; ma delle parole bisogna riappropriarsi, quando esprimono chiaramente un significato che già ci appartiene.

Semplicemente un nuovo nazionalismo, allo stesso tempo solenne e popolare. Quindi socialista.

Fabrizio Fiorini










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