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    Arrow Appunti per un libro nero del comunismo italiano

    Armando DE SIMONE - Vincenzo NARDIELLO

    Appunti per un libro nero del comunismo italiano





    In appena tre anni, con il loro libro "eretico" che parla dei "crimini del Pci", sono diventati un caso editoriale, avendo fatto il tutto esaurito, girando l'Italia in lungo e in largo, accompagnati da polemiche, boicottaggi e violenze da parte di new-global e centri sociali, ma anche da un incredibile consenso di critica e di vendite. Giunti alla soglia della terza edizione del loro libro, "Appunti per un libro nero del comunismo italiano", edizioni Controcorrente, Napoli tel. 081/ 5520024 - 081/ 421349






    De Simone e Nardiello, facciamo come si dice, le presentazioni...

    "Siamo due giornalisti napoletani, dalla storia professionale e cultura politica diversa: infatti, dalla sinistra riformista e libertaria proviene Armando De Simone, 49 anni, dalla destra missina Vincenzo Nardiello, 29 anni. Una significativa produzione editoriale per De Simone (giunto con questo al suo quinto libro), l'esordio editoriale per Nardiello. Una differenza che non ha impedito un incontro che oltre che professionale è umano, fatto di collaborazione ed amicizia. Anzi per certi versi, la nostra diversità di esperienze politiche e di vita, ci hanno aiutato ad evitare i rischi della propaganda e dell'autorefenzialità"

    Siete giornalisti e non storici. Eppure il vostro libro parla di fatti storici...

    "Non c'è alcuna contraddizione: noi sappiamo bene che i libri di storia devono essere fatti dagli storici. Ma quando questi ultimi si sottraggono, per i motivi più diversi, al loro preciso dovere, per dei giornalisti come noi non resta altro da fare che raccontare. Con la speranza che, grazie alla nostra "provocazione", gli storici si decidano a fare il loro mestiere senza paraocchi e "timori" ideologici".

    Come spiegate il successo di "Appunti per un libro nero del comunismo italiano" giunto in tre anni alla terza edizione?

    "Noi crediamo che in Italia esiste una domanda di verità storica molto forte Nella storia recente d'Italia, infatti, ed in particolare in quella del comunismo italiano, esistono dei "buchi neri". In queste foibe della memoria sono precipitate molte atrocità, delle quali, pochi, fino ad oggi, hanno avuto consapevolezza. Tranne, ovviamente, quella classe dirigente comunista che, grazie a questa storia "senza colpevoli e senza giustizia", si è spalancata la via della totale impunità "culturale", dell'estraneità presunta e dell'incontestabile "verginità". Clamorose "dimenticanze" del dibattito politico, dei mezzi d'informazione e degli studiosi, hanno, insomma, reso possibile, soprattutto in Italia, un processo di mistificazione della Storia".

    Una sorta di amnesia collettiva?

    "Meglio sarebbe chiamarla, come dice Stephan Courtois nell'intervista che fa parte del nostro libro, un "processo di amnesia - amnistia". Grazie a questo processo gli eredi politici dei Gulag, nonostante la caduta del Muro e la scomparsa delle dittature comuniste in Europa, hanno potuto riciclarsi e occupare il potere".

    Insomma, dopo il Muro non c'è stata alcun processo di Norimberga, come avvenne per il nazismo?


    "Esattamente. Questa mancata Norimberga "rossa", anche se apparentemente sembrerebbe un salvacondotto, di fatto è stato un boomerang. La mancata chiarificazione storica ha, di fatto, stroncato sul nascere qualsiasi tentativo di costruzione di una sinistra politica moderna ed europea. La presenza dell'ingombrante catafalco del comunismo, totem gestito da potenti e inviolabili lobby, ha costretto il cammino di qualsivoglia soggetto politico di sinistra, con i suoi sensi vietati, zone proibite e tabù inviolabili, all'interno di un percorso obbligato, la cui finalità era proprio la non rimozione del totem"

    Questo spiegherebbe il fallimento delle varie "Cose" postcomuniste?

    "La vera anomalia che ha bloccato l'autentica evoluzione dei DS è stata proprio l'aver voltato pagina, senza una seria rottura con il passato. Una pagina che è stata girata senza essere letta, nella speranza che il suo contenuto potesse essere dimenticato in un sol colpo da un popolo che troppo spesso ha dimostrato di avere la memoria corta. Tentativo vano: così non è, e non potrà essere".

    Per dirigenti che sono stati comunisti è difficile leggerla quella pagina?

    "Troppi sono gli orrori, le omissioni, le complicità, i crimini impressi con il sangue su quella pagina. Per dirla con le parole di Gustaw Herling, il polacco-napoletano che fu il primo a denunciare, inascoltato, la sua esperienza nei Gulag dell'Est, "la fine ingloriosa del comunismo su scala quasi universale, fa sorgere il problema dei partiti comunisti occidentali. Quello italiano, per esempio, il più numeroso e potente in Occidente, con una delle miracolose "trasformazioni" italiane non solo ha cessato di esistere e ha rapidamente cambiato pelle, ma è stato colpito da una totale amnesia quanto al suo passato storico. Per lunghi decenni aveva avallato più (Togliatti) o meno (Berlinguer) tutte le ufficiali menzogne sovietiche, propagando persino le versioni o interpretazioni particolarmente rivoltanti".

    E adesso, qual è l'atteggiamento della classe dirigente diessina?

    "Adesso tace, Occhetto, D'Alema e Fassino parlano come se l'imbarazzante passato non fosse mai esistito. Infatti, è mai esistita l'Unione Sovietica? Esiste ancora, sotto un nome diverso, una parte dell'ex patria del proletariato mondiale? Eppure anche qui si sentirebbe l'esigenza del rendiconto per uno dei milioni di ingannati e truffati. Per poter veramente aprire la strada alla fiducia".

    In Italia le coppie giornalistico-storiche hanno sempre avuto fortuna...


    "Speriamo bene anche per noi. Nel campo della divulgazione storica, per esempio, esistono esempi illustri, come Montanelli e Cervi, tanto per citarne due. Siamo convinti che alla Storia servano dei divulgatori, per permettere a chiunque, anche senza preparazione e inclinazione agli studi storiografici, di accostarsi ai fatti, per costruirsi una propria opinione. E la scuola giornalistica aiuta a trovare il linguaggio e la coloritura adeguata per parlare ad un pubblico molto vasto. Il successo di vendite del libro conferma questa tesi".

    Prossimi impegni comuni?

    "Stiamo allestendo la nuova edizione del libro, che conterrà molti fatti, documenti e citazioni non riportate nelle prime edizioni. Anche alla luce dell'uscita di testi di altri autori, come quello di Giampaolo Pansa. Il lettore ci perdonerà questo pizzico di vanagloria: in fondo ci sentiamo, e un po' lo siamo, degli apripista. E poi stiamo ultimando un libro sulla storia del nostro Paese alla luce delle rivelazioni che stanno emergendo dal dossier Mitrokhin, o di altri dossier provenienti dall'apertura di archivi dei servizi dell'Est. Non ha idea di quanti fatti della storia italiana ancora oscuri ricevono da questi dossier un'illuminazione del tutto diversa..."








    Appunti per un libro nero del comunismo italiano
    Ultima modifica di stanis ruinas; 12-01-11 alle 08:35
    “Non vi è socialismo senza nazionalizzazione e socializzazione delle industrie” STANIS RUINAS

  2. #2
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    Predefinito Rif: Appunti per un libro nero del comunismo italiano

    Franco CASCONE

    Il comunismo non è morto





    Non nascondo che anch'io ho assistito all'evento (lo racconterò ai miei nipoti): finalmente ieri sera si è avuta l'ufficialità della fine di un incubo che - se non fosse stato per il buon Fassino - avrebbe tormentato i miei sogni per chissà quante altre notti.


    Ma, come diceva un bravo uomo di televisione ... non finisce qui. Sarà stata l'emozione, sarà stato l'eccessivo carico di adrenalina che mi pervadeva il corpo, ma mi sono ritrovato a guardare la tv fino a tarda notte. Non riuscivo a dormire. Guardavo lo schermo assorto nei miei pensieri, l'ennesima rassegna stampa, l'ennesimo tg, facendo un pò di sano zapping che fa tanto bene all'animo, quando ho capito il motivo reale dell'insonnia.

    La 7: Giuliano Ferrara, la Palombelli e poi c'era Lui. Il paladino delle ingiustizie, il difensore di tutti gli oppressi, di tutti gli sfruttati, l'acerrimo nemico di ogni forma di sopruso e sopraffazione: Fausto Bertinotti.

    Non vi nascondo che ho subito pensato che la nottata sarebbe stata di quelle che non dimentichi.

    Poi .... sorpresa. Interlocutore video-collegato dal carcere Don Bosco di Pisa, Adriano Sofri.

    La cosa prometteva bene.

    Subito prendeva la parola Sofri, il quale dopo una premessa abbastanza lunga fatta di un linguaggio (ad onor del vero) forbito, chiedeva all'inossidabile Fausto: "Vorrei chiedere all'amico Bertinotti (amico e non compagno: sigh ... i tempi cambiano), che essendo persona intelligente ma anche gentile - per ciò sono sicuro vorrà rispondere - che senso ha avere nel nome del proprio partito la parola comunismo? Una utopia che tanto male ha fatto a tante persone. Mi ritengo complice e responsabile delle nefandezze conseguenti al perseguimento di quel sogno. Volendo guardare al passato, abbiamo commesso molti errori. Abbiamo esitato a giudicare la Cambogia di Pol Pot e non parlerò di ferite aperte come Cuba o la Corea del Nord. Finalmente - e meno male - è finito quello che per tanti è stato un incubo. Alla luce di tutto ciò ... perchè ancora usa la parola Comunismo?"

    Non stavo nella pelle.

    Mi brillavano gli occhi.

    Mi sono messo in posizione, quasi per non perdere nessuna delle parole che fossero uscite da quelle labbra. Volevo che il tempo avesse cominciato a scorrere al rallentatore per meglio metabolizzarle.


    "Non vi nascondo la difficoltà a parlare di queste argomentazioni". Ebbene si, zio Fausto esordiva così.

    Nel mio corpo l'adrenalina organizzava festini a ritmo tecno-house.

    "Il Comunismo nasce come liberazione dell'uomo da ogni forma di sfruttamento e di alienazione. Esso va interpretato come ricerca di una società migliore. Noi ci chiamiamo rifondazione comunista perchè il comunismo è molto di più di quello che è successo, delle vicende vissute. Il comunismo è un processo storico che trascende la società capitalistica. La mia idea di comunismo è quella di un movimento che abbatta l'ordine delle cose esistenti. Che abbatta questa società fondata sul mantenimento del lavoro salariato (forma di sfruttamento). Nonostante il fallimento drammatico - avete sentito bene, zio Fausto parla di fallimento drammatico. Troppo per una sola serata!!! - i principi e gli ideali che hanno ispirato quel movimento sono ancora attuali."

    Volevo che quella discussione non finisse.

    Dopo la pubblicità Ferrara interviene "capovolgiamo il ragionamento: non è che il sogno era bellissimo, ma il suo perseguimento ha portato a situazioni orribili; ma era il sogno ad essere orribile".

    Non mi dilungo oltre.

    Anche perchè la cosa è finita di li a poco. Non prima però che la Palombelli (unico intervento in tutta la trasmissione, almeno quella che sono riuscito a vedere) avesse punzecchiato il buon Fausto (ebbene si, anche lei) sul fatto che i difensori degli oppressi sono le associazioni umanitarie che accolgono i poveri immigrati o quelli che vanno a portare il proprio aiuto alle popolazioni afghane o irakene.

    E non prima che il "grande Fausto", il "Fausto nazionale", rispondesse ad un'ultima domanda.


    "Dov'è finito il comunismo?"

    "Noi dobbiamo essere grati al Comunismo. Grazie ad esso sono state fatte una serie di riforme spronate dalle rivolte studentesche e dalle lotte operaie degli anni che vanno dal 68 al 73/74. Oggi i comunisti si sono evoluti diventando movimento (sapevo dove voleva andare a parare :-)): un movimento che contesta la morte per fame, la morte per malattia, la precarietà, la guerra. Un movimento che come il comunismo dice che un altro mondo è possibile."

    Lo sapevo.

    Il comunismo non è morto.

    Ha solo cambiato nome.

    Oggi si chiama movimento no-global.

    E chissà quante altre facce possiede.













    Il comunismo non è morto
    “Non vi è socialismo senza nazionalizzazione e socializzazione delle industrie” STANIS RUINAS

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    Predefinito Rif: Appunti per un libro nero del comunismo italiano

    Ugo FINETTI

    Il Pci & l'«identità» italiana

    tratto da: Studi Cattolici, n.541 marzo 2006.






    Ricordare il XX Congresso del Pcus del febbraio 1956, e soprattutto come mezzo secolo fa i comunisti italiani - guidati da Palmiro Togliatti - reagirono di fronte all'abbattimento del «culto della personalità» di Stalin, è illuminante circa quanto è avvenuto in questi anni in Italia dopo il crollo del Muro di Berlino e il dissolvimento dell'Urss e del suo sistema di «Stati satelliti». In Italia il crollo del comunismo, dal punto di vista della storiografia sul Pci è stato contenuto equiparandolo in sostanza a una sorta di secondo «rapporto Krusciov» su efferatezze accadute in Urss. Ancora una volta, cioè, si ostentano sorpresa e rammarico preoccupandosi di rivendicare, però, una propria estraneità e originalità. Nel complesso la storiografia dominante che in Italia si occupa del Pci tende a considerare questo partito sostanzialmente come un «fenomeno a parte» rispetto alla vicenda complessiva della storia del comunismo in Europa.

    Si insiste infatti nella tesi del «Togliatti italiano», del «parlare italiano» del Pci fino a ripercorrere gli stessi anni della Resistenza, della Liberazione e del dopoguerra - come ha fatto Giorgio Napolitano, che pur è il leader più innovatore e animato da spirito critico dell'ex Pci, nel suo saggio «Dal Pci al socialismo europeo», ed. Laterza - senza mai nominare Stalin. Alla chiamata in causa della storia stalinista del Pci, e del suo essere stato comunque parte integrante di un «movimento operaio internazionale», si replica agitando lo spettro dell'«anticomunismo viscerale» e rivendicando invece il ruolo importante svolto dal Pci nella edificazione della democrazia in Italia e per la sua difesa.

    Ma la tesi incentrata sul Pci come forza democratica non è molto pertinente e fondata. Anche Dc e Psi erano partiti democratici, e tuttavia ciò non li ha esentati da una disamina talora persino spietata. In particolare, nessuno nega che il Pci abbia concorso a fondare e a qualificare la vita democratica italiana come ha sottolineato persino il principe dell'«anticomunismo viscerale», l'autore del «Libro Nero del comunismo»: "I partiti comunisti", scrive Stéphane Courtois a proposito dell'Europa occidentale, "hanno favorito l'ingresso di ceti popolari nel campo della democrazia moderna; hanno determinato presa di coscienza, educazione, organizzazione in campo politico e sindacale in particolare nelle relazioni con la nazione, lo Stato e l'imprenditoria". E aggiunge, per quanto riguarda specificamente l'Italia: "Il Pci è stato un fattore importante di stabilizzazione di uno Stato unitario e di integrazione nella società e nelle istituzioni democratiche, in particolare dei contadini emigrati dal Mezzogiorno e diventati operai nel Nord".

    In nome della richiesta di un'analisi «politica» e dell'indubbio concorso dato dal partito di Togliatti alla costruzione dell'Italia liberata non si sciolgono quindi i nodi che invece pone il recente studio di Franco Andreucci, «Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda» (Bononia University Press 2005, pp. 302, euro 19).

    I tre nodi

    Andreucci è lo storico che negli anni '70 insieme a Paolo Spriano - fatto che Giorgio Napolitano «cancella» quando si sofferma sull'argomento - aveva curato l'edizione delle Opere di Togliatti per la casa editrice del Pci (Editori Riuniti) dopo la scomparsa di Ernesto Ragionieri. Successivamente Andreucci era entrato in rotta di collisione con la dirigenza delle Botteghe Oscure per la reticenza ad aprire gli archivi sugli anni Cinquanta e Sessanta; quindi, dopo il crollo dell'Urss nel 1992 era stato al centro delle polemiche per aver scoperto la lettera di Togliatti sul massacro degli alpini italiani in Urss. Dopo quello che egli stesso chiama un periodo di isolamento, Andreucci ha dato alle stampe questo brillante studio, frutto di ricerche condotte anche nella sua attività accademica negli Stati Uniti, soprattutto rompendo il provincialismo dei «baroni» italiani della storiografia comunista con la conoscenza della saggistica mondiale sul comunismo e sul Pci e avvalendosi in particolare di studiosi finora sconosciuti in Italia come Nathan Leites.

    I nodi che affronta Andreucci sono soprattutto tre: il rapporto tra Pci e stalinismo, tra Pci e democrazia occidentale, tra Pci e anticomunismo democratico.

    Il Pci e comunque chi è stato comunista, di fronte al crollo del sistema dei regimi comunisti, possono davvero invocare un'eccezione culturale, dichiararsi «altro», delineare per sé stessi una «storia a parte» rifiutando e condannando ogni analisi comparata che dia una visione d'insieme del movimento comunista, per esempio, in Europa occidentale? Certamente un partito di 1 milione e 800 mila iscritti non può essere considerato la fotocopia di partiti clandestini o di poche decine di migliaia di aderenti. Il Pci ha «parlato italiano» sin dal 1943-'44, anche prima dell'arrivo di Togliatti. Ma il problema storico è appunto questo: il dare e avere tra comunismo e Paese. In sostanza, si tratta dei tema posto dallo stesso Giorgio Amendola nel Pci all'inizio degli anni Sessanta: le «corresponsabilità» di Togliatti e del comunismo italiano anche in riferimento al dopoguerra. E le osservazioni critiche di Andreucci esplicitano quelle sottintese da un altro dirigente comunista come Giancarlo Pajetta quando scriveva: "Non so che cosa sarebbe accaduto anche a noi se, alla caduta di Badoglio, fossimo stati portati subito ad assumere tutto il potere. Anche noi venivamo dal carcere, dal confino, dall'esilio... Da molto tempo ormai non avevamo un contatto diretto con il Paese e la sua vita. Forse in questo eravamo anche noi simili al gruppo dirigente ungherese". E aggiungeva: "Non ho mai parlato con Togliatti di Stalin. Ho certo sentito di lui qualche frase di convinta stima". Il secondo punto che pone la lettura di Andreucci riguarda la «distanza critica» che il Pci ha marcato nei confronti di ciò che i comunisti definivano «democrazia formale» e Togliatti considerava, ancora nel 1964 nel suo ultimo editoriale su «Rinascita» «riformismo borghese». È stato un punto di eccellenza della cultura comunista l'insistere sulla tesi di un pericolo fascista sempre incombente e attuale, connaturato alla vocazione autoritaria e antidemocratica del capitalismo e della borghesia in Italia. Andreucci, limitandosi agli anni di Stalin, ragiona sulla identità comunista italiana, sulla rivendicazione costante di una «diversità» e «alterità» rispetto alla democrazia e al socialismo occidentale. Non è un'illazione, bensì una costatazione.

    Non è folclore

    Oggi, infatti, si tende troppo a rappresentare il Pci della Resistenza e del dopoguerra come un partito democratico al pari degli altri e il cui stalinismo era «un di più», un fatto quasi folcloristico: per la qual cosa, mettendo tra parentesi il «culto della personalità», il risultato sarebbe quello di un partito sostanzialmente riformista e, come esempio concreto, si cita il Piano del Lavoro della Cgil guidata da Di Vittorio. In realtà, quel che viene «messo tra parentesi» non è folclore. Si pensi non solo alle risoluzioni sulla «vigilanza rivoluzionaria», ma soprattutto a come nel 1951 il Pci celebrava il suo trentennale: il libro che rappresenta la prima storia del Pci pubblicato in quell'occasione è un testo molto eloquente, soprattutto nella sua requisitoria contro le «illusioni parlamentari e legalitarie». Il testo, licenziato dallo stesso Togliatti e pubblicato sotto gli auspici della Direzione nazionale del Partito, si riferisce proprio alla politica di quegli anni mettendo in guardia dalle "illusioni parlamentari e legalitarie createsi in una parte delle file del Pci in seguito alla partecipazione al governo: numerosi comunisti non avevano compreso che la partecipazione al governo non può essere efficace se non viene sostenuta continuamente dalla lotta attiva delle masse e dalla loro continua vigilanza" (1). È una prosa che ripropone il rapporto masse/istituzioni secondo il modello di conquista del Parlamento attuato in Cecoslovacchia. Analogamente il tanto esaltalo Piano del Lavoro per la ricostruzione economica nazionale (Giorgio Napolitano evoca come modello addirittura il New Deal, Keynes e Roosevelt), presentato con la benedizione di Togliatti al Congresso della Cgil a Genova il 2 ottobre 1949, è un «libro di sogni» redatto sulla falsariga dei Piani di una democrazia popolare dell'epoca. È probabilmente quanto sarebbe stato approvato dal governo della sinistra stalinista in caso di vittoria del Fronte Popolare. Si tratta cioè di un «Piano Triennale» che, "elaborato con la partecipazione di valorosi tecnici di ogni ramo della produzione", prometteva agli italiani la quasi immediata piena occupazione utilizzando "milioni di lavoratori e i tecnici disoccupati", "tutte le materie prime disponibili e tutte le possibilità di lavoro esistenti in Italia", grazie a "nuove centrali idroelettriche, case, scuole, ospedali, acquedotti, fognature, strade, opere di bonifica, di irrigazione di terre". Identificare oggi sul piano storico, come politica riformista, il Movimento dei Consigli di Gestione che animava quella operazione propagandistica richiede una certa spregiudicatezza. Allora anche il Movimento dei partigiani della Pace sarebbe da considerare un'iniziativa pacifista, non filosovietica né antiamericana.

    Una specifica «Weltanschauung»

    La concezione comunista - antiriformista e antidemocratica - scaturiva da una specifica Weltanschauung: tutto ciò che era anticomunismo e antisovietismo appariva come un'entità a deriva fascista. Di qui la teorizzazione del fascismo come sempre attuale, incombente, vocazione innata della borghesia e del capitale nonché la tesi sempre sostenuta da Togliatti fino alla morte della inesistenza in Italia di uno «spazio socialdemocratico». In Italia il Pci non praticava una politica di fatto socialdemocratica, ma allevava «idee assassine» secondo la lettura classista della storia, per cui gli avvenimenti e l'agire politico rispondono allo schema della lotta tra Vecchio e Nuovo, tra ciò che è destinato storicisticamente a prevalere e ciò che è destinato a dileguare. Il Nuovo è anche l'Essere, mentre il Vecchio, ciò che si oppone al crescere del Nuovo e del Divenire, è comunque il Non-Essere, un mondo, un insieme di entità destinato a dissolversi e che serve solo a ritardare il Divenire. Per i comunisti la Storia è una ruota che va avanti anche attraverso tragedie individuali e, quindi, che cosa deve fare il rivoluzionario? Il rivoluzionario ha la missione di accelerare la ruota della Storia. Come? Levando, sottraendo, annientando quanto può essere di ostacolo al moto salvifico della Storia. I comunisti hanno partecipato alla Resistenza avendo come modello la guerra di Spagna, e non hanno esitato a riproporne lo schema sanguinario nella «guerra civile» in seno ai partigiani e agli antifascisti. Pertanto nel dopoguerra - per anni - là dove erano «egemoni», come in Emilia, si sono comportati al pari del Ku-klux-klan in Alabama: non il «sangue dei vinti», ma (come ha ricordato in particolare Ermanno Gorrieri in «Ritorno a Montefiorino») colpendo soprattutto non fascisti e antifascisti.

    Infine c'è il terzo punto: il fatto che l'anticomunismo democratico sia stato spesso confuso con il fascismo e che in Italia studi pregevoli non hanno avuto diritto di accesso. Nel nostro Paese si tende ancora spesso - come osserva appunto Andreucci - a "unificare sotto un'unica cappa l'anticomunismo del Patto anti-Komintern e quello di Angelo Tasca, quello del senatore McCarthy e quello del mondo degli emigrati russi fra le due guerre".

    Uno dei meriti di Andreucci è appunto quello di richiamare studi non secondari, verso i quali c'è stato un sostanziale embargo culturale. Contrapporre - come ha fatto per esempio in polemica con Andreucci anche la rivista dei «miglioristi» dei Ds, «Le ragioni del socialismo» di Emanuele Macaluso - nel campo delle analisi sociologiche sul comunismo ai non tradotti o ignorati Nathan Leites, Harold Lasswell e Bertram Wolfe come unica «letteratura scientifica» gli studi di Tarrow, Pizzorno e Farneti è estremamente limitativo e rivelatore della reticenza e dell'arretratezza dell'editoria italiana. Proprio a proposito di queste opere (che risalgono all'epoca di Berlinguer, scritte nel 1979, nel 1981 e nel 1983), Gaetano Quagliariello parla di «vulgata funzionalista» nelle pagine iniziali di un suo recente saggio su «Il Pci, il Pcf e le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop». Si tratta, secondo Quagliariello, di "interpretazioni di tipo funzionalista", in quanto rivolte ad "accreditare su di un piano di pretesa neutralità scientifica - sostenuta dall'utilizzo del metodo logico-deduttivo proprio della scienza politica - la supposta equiparazione del Partito comunista italiano ai partiti d'integrazione di massa della tradizione socialdemocratica". In questa mancata apertura editoriale alla bibliografia richiamata da Andreucci vi è ancora l'eco del pregiudizio di stampo comunista contro il «pericolo» di contaminare la ricerca storica con quelle che la Commissione culturale del Pci nel dicembre 1957 definiva come «ideologie del neocapitalismo», «cultura borghese», «cultura anglosassone», «visione agnostica della realtà».

    Una parte importante, anche se ancora minoritaria, degli storici italiani lamenta infatti come, dopo il crollo dell'impero comunista e l'apertura degli archivi degli Stati e dei partiti comunisti dell'Est europeo, in Italia ci si sia sostanzialmente opposti a una visione d'insieme del funzionamento del comunismo internazionale. È quanto aveva già denunciato da parte sua uno storico francese di sinistra, Mare Lazar, rilevando l'ostilità degli accademici italiani di sinistra di fronte al suo libro sul comunismo francese e italiano, «Maisons rouges». Gli storici italiani, osservava Lazar, non amano che il Pci sia considerato nel quadro di una physionomie d'ensemble, nel contesto cioè del movimento comunista.

    La natura della «diversità»

    A mezzo secolo dal crollo dello stalinismo, e a più di dieci anni dalla caduta dell'impero sovietico, la resa dei conti con il comunismo italiano - il nodo da sciogliere - riguarda appunto la natura della irriducibile «diversità» vantata dai comunisti italiani. Una «diversità» per certi aspetti ancora attuale. Come mai, per esempio, i gruppi dirigenti post-comunisti che hanno operato scelte che con il comunismo non hanno più nulla a che fare, rimangono tuttavia «uniti e compatti», e cioè non riescono ad accettare - addirittura fìsicamente una persona che non sia stata comunista come dirigente politico del loro partito post comunista?

    Tra gli studi sull'evoluzione dei partiti comunisti non editi in Italia c'è, in particolare, quello di Nikolaos Marantzidis. dell'Università di Salonicco, che, applicando i modelli tratti dal saggio sul marketing di Hirschman, «Repose to decline in Firm. Organisation and States», ha descritto la fuoriuscita dal comunismo dei vari Partiti comunisti europei negli anni Novanta secondo la triade exit, voice, loyalty. E cioè, prendendo il caso di un prodotto che entra in crisi sul mercato perché contestato dai consumatori, si esaminano le possibilità di reazione in tre modi: 1) cambiando nome (exit): 2) riproponendo il prodotto, però modificato, accollando così una parte delle critiche (voice); 3) tenendo duro e puntando allo zoccolo duro della fidelizzazione (loyalty). Su questa base si sono seguite l'evoluzione del mondo comunista, le sue diverse risposte ed evoluzioni.

    Noi in Italia siamo l'unico caso in cui abbiamo sotto gli occhi tutte e tre i casi: l'exit di D'Alema e Fassino; il voice di Bertinotti: il loyalty di Cossutta e Diliberto, sempre però con gruppi dirigenti «blindali», impermeabili a ogni figura non educata nel Pci. Il problema della «diversità» in quanto «aristocrazia» della sinistra in particolare e della politica in generale - in che cosa consiste? Secondo Togliatti sin dall'immediato dopoguerra, come ricorda Andreucci citando un discorso del «Migliore» sui rapporti con i socialisti, era basato sui «titoli nobiliari» che il Pci poteva ostentare per sottolineare una diversità intesa già allora come superiorità. Questi «titoli nobiliari», sotto Togliatti, erano in sostanza l'appartenenza al «movimento operaio internazionale», allo Stato maggiore della rivoluzione mondiale, all'essere avanguardia consapevole di una rivoluzione mondiale che, grazie al Pci, s'irradiava in Italia rendendola partecipe di un processo di emancipazione universale. Con Berlinguer questa diversità/aristocraticità venne invece richiamala negli anni Settanta - insistendo sulla dimensione davvero rivoluzionaria dei comunisti per fuoriuscire dal capitalismo in Italia; è il richiamo non alla fedeltà all'Urss, bensì al leninismo inteso come il modo di essere comunisti nella società capitalistica; una sorta di essere nel mondo, ma non del mondo: austerità contro consumismo. Successivamente con l'esaurirsi della «spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre», dopo il colpo di Stato in Polonia, Berlinguer iniziò a prefigurare un orizzonte già postcomunista: la diversità/superiorità dell'homo comunista, definita mettendo la «questione morale» al posto del leninismo. Ma si tratta sempre di interpretazioni autoreferenziali. Questa «diversità» comunista, che indubbiamente c'è stata e ancora si fa sentire nell'autosufficienza dei vertici dei tre partiti postcomunisti, è però poco convincente spiegarla sul piano storico secondo le tesi dei diretti interessati, indicandola in una superiore onestà, cultura e bontà e comunque riciclando la lettura classista del Novecento inteso come teatro di scontro tra - da un lato - capitalismo reazionario a deriva fascista e - dall'altro - movimento operaio e democratico a guida salvifica comunista prima e postcomunista dopo.

    L'importanza dello studio di Andreucci risiede proprio nella capacità di affrontare il fenomeno del comunismo italiano, e della sua «diversità» nella società italiana, mettendolo a fuoco in modo comparato (che non significa ridurre la specificità) con gli altri partiti comunisti e soprattutto, ricostruendolo come profilo antropologico: dal suo immaginario collettivo (l'invenzione della tradizione leninista italiana, le utopie, il controllo dei sentimenti, i paradigmi manichei) alla sua ritualità quotidiana (l'iniziazione, il funerale, l'espulsione). La lettura di Andreucci evidenzia l'arretratezza di tanta diffusa storiografia sul Pci, specificamente di quella saggistica che ha portato uno dei principali studiosi del comunismo mondiale come Robert Conquest ad additare l'Italia come l'ultimo rifugio della Stalinophilia. In effetti è difficile trovare altrove, nelle democrazie occidentali, il caso in cui sul primo quotidiano nazionale un autorevole accademico - Luciano Canfora - arrivi a sostenere che in Urss, tra il 1925 e il 1945, si sarebbe svolta "una guerra civile ininterrotta condotta con ferocia e senza esclusione di colpi", mettendo Stalin sullo stesso piano delle sue vittime e descrivendo "la democrazia come una lunga serie di sistemi repressivi".

    Note:
    1) Paolo Robotti - Giovanni Germanetto, «Trent'anni di lotte dei comunisti italiani (1921-1951)», Edizioni Cultura sociale, Roma 1952.










    Il Pci & l'«identità» italiana
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    Predefinito Rif: Appunti per un libro nero del comunismo italiano

    Paolo GRANZOTTO
    Il terrore rosso in presa diretta
    tratto da: Il Giornale, 03.04.2004

    «Lo stalinismo e la sinistra italiana» di Zaslavsky spiega quali furono (e sono) le radici del successo dell'ideologia comunista





    Avendo vissuto lo stalinismo, Victor Zaslavsky non ne parla solo da storico qual è. Molte pagine del suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, pagg. 275 euro 17,50), sono autobiografiche e ricordano che cosa significava, anche nelle piccole faccende quotidiane, fare i conti con una tirannia che in Italia suscitava -e in parte suscita tuttora- «manifestazioni di ammirazione quasi patologiche». Mentre da noi l'Urss veniva esaltata come il regime «più libero di tutti», mentre milioni di «compagni» inneggiavano a Stalin, i cittadini sovietici, e Zaslavsky fra questi, conoscevano «la sensazione di agghiacciante paura alla vista dei furgoni neri della polizia, noti come "Marussia nera" o "corvo nero", in cui trasportavano gli arrestati o i detenuti, paura che saliva al grado di terrore paralizzante alla vista dei furgoni bianchi con la scritta "Carne" che verso la fine degli anni Quaranta furono utilizzati per lo stesso scopo. L'espressione corrente era "essere preso". Significava essere non solo arrestato o condannato, imprigionato o addirittura fucilato, ma tutte queste cose insieme. Chi era "preso" spariva nel nulla».

    CONTROLLI SUI «COMPAGNI»

    Quello era lo stalinismo, «infinita violenza inflitta in tutti noi che si rifletteva in una paura viscerale, instillata quotidianamente». Riprendendo una domanda dello storico americano Mark Lilla, Zaslavsky chiede: cosa può aver indotto pensatori e scrittori a giustificare le azioni di un tiranno e a negare qualsiasi differenza sostanziale tra quella tirannia e le società dell'Occidente libero? Cosa può aver indotto Luigi Longo a dichiarare alla Camera dei Deputati: «Anche a un esame sommario, il regime sovietico appare senz'altro come il più popolare, il più democratico, il più libero di tutti»? O Rossana Rossanda a sostenere che i meriti dello sviluppo stalinista, i benefici dell'alfabetizzazione e dell'industrializzazione pesano più delle vite di qualche milione di vittime? O Domenico Cacopardo a scrivere sull'Unità, riferendosi allo stalinismo: «Un processo rivoluzionario non può essere giudicato dal numero delle vittime, una dalla qualità dei suoi ideali e dagli effetti che ha prodotto nel mondo»?
    Se il dominio stalinista all'interno dell'Urss, scrive Zaslavsky, «fu basato anzitutto sul tenore, sull'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e ideologica, reale o potenziale e, soltanto in secondo luogo, sul monopolio ideologico», il controllo stalinista sul Pci e i partiti alleati «era determinato principalmente dal potere dell'ideologia, rafforzato dal prestigio dell'Unione Sovietica vittoriosa e sostenuto da cospicui finanziamenti». Ma questo non basta a spiegare la fede cieca, la mobilitazione permanente, il furore dell'intolleranza ideologica, la devozione quasi animalesca al partito, l'esaltazione -l'estasi, si potrebbe dire- che caratterizzava (e caratterizza tuttora) i seguaci dello stalinismo. Possono aiutare queste righe scritte da Xenia Sereni, moglie di Emilio, direttore di Critica marxista, comunista ortodosso che al tempo della rivolta ungherese si schierò dalla parte dell'Urss: «Il partito si è fuso con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti».
    Spiega Zaslavsky che «partendo dall'estremo razionalismo e pragmatismo della dottrina marxista-leninista si arriva al totale irrazionalismo, alla reificazione del partito, percepito non come entità astratta bensì come "essere" dotato di volontà, di ragione e di chiara comprensione dei propri interessi». Da qui il «monoideismo rivoluzionario», cioè la concentrazione totale sull'idea della rivoluzione e sulla propria predestinazione messianica, il dinamismo e l'«avanguardismo» che si manifestava nell'ininterrotta corsa in avanti, nel «rifiuto dei comuni sentimenti umani» e nella dedizione al compito esclusivo della lotta per la liberazione sociale». Grazie alla seppur parziale disponibilità degli archivi del Kgb e del Gru, Zaslavsky ha potuto affinare le ricerche su quegli anni e sugli uomini che abbracciarono e promossero lo stalinismo. Il risultato sono pagine assai interessanti sui rapporti fra il Cremlino e il partito socialista di Nenni; sulla crisi fra Stalin e Tito e le sue ripercussioni in Italia; sull'apparato paramilitare del Pci (la così detta «Gladio rossa», a proposito della quale Zaslavsky annota: «La presenza all'interno di uno stato democratico di una organizzazione armata di massa non soltanto schierata con una potenza straniera, ma capace di ricorrere all'insurrezione -e presumibilmente in certe condizioni pronta a farlo- fino a scatenare una guerra civile, è un fenomeno unico nella storia dell'Europa occidentale del dopoguerra); sui rapporti tra Cremlino e Botteghe Oscure alla vigilia delle elezioni del '48 con l'opzione della insurrezione armata; sui finanziamenti sovietici al Pci (svariati milioni di dollari l'anno. Accusa alla quale le sinistre rispondono con un ritornello sempre uguale: la Dc prendeva i soldi dagli Stati Uniti. Ma come rileva Zaslavsky «i finanziamenti per favorire il regime democratico plutipartitico e quelli per instaurare un regime monopartitico dipendente dal sistema totalitario richiedono una valutazione storica completamente diversa») e alla stampa comunista.
    Ne trasse vantaggio principalmente l'Unità, ma ne beneficiò anche Paese Sera, Il Nuovo Spettatore di Antonio Tatò (la cui redazione, si legge nella nota di pagamento del Politburo, «svolge una vibrata critica alla politica degli Stati Uniti e alla posizione proamericana di vari politici d'Europa»), Orizzonti che, sempre a giudizio del Politburo, «pone tra i suoi scopi principali una presentazione obiettiva della situazione nell'Urss». A tenere le fila dei finanziamenti era Armando Cossutta, il quale non si limitò a sollecitarli per i giornali, ma anche, come risulta da una serie di documenti d'archivio, chiedeva a Mosca, ottenendolo, «che il Pci venga aiutato all'addestramento di istruttori e specialisti in comunicazioni radio, messaggi in codice, tecniche di camuffamento e di travestimento».
    Uno dei capitoli più notevoli è dedicato allo «stalinismo di ritorno», ovvero al ruolo -sul quale gli archivi gettano nuova luce- di Palmiro Togliatti nella rivolta ungherese del 1956. Krusciov, come è noto, era indeciso sul da farsi e in soccorso dei falchi del Cremlino giunse Togliatti che inviò due telegrammi cifrati «rivolgendo inaudite critiche ai dirigenti sovietici, rimproverandoli per le divisioni interne e per l'incapacità di prendere una decisione chiara e precisa». Scrive Zaslavsky che «insistendo sulle misure drastiche e violente, Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l'invasione» ricordando ai dirigenti del Cremlino «l'inviolabile principio della irreversibilità delle conquiste socialiste: una volta arrivato al potere, il partito comunista non lo lascia mai, perché la rivoluzione socialista non può fare compromessi né retrocedere».


    BUDAPEST INSANGUINATA

    Il 4 novembre del '56 le truppe sovietiche occuparono Budapest. Due giorni dopo su l'Unità Pietro Ingrao zittiva il dissenso scrivendo che «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». Col sostegno di un'ampia documentazione, Zaslavsky demolisce dunque il mito di un Pci non prono alle direttive di Mosca, di uno stesso Togliatti che avrebbe goduto di ampia discrezionalità al punto d'imboccare autonomamente la «svolta di Salerno» (per non dire della diffusa leggenda di un «Togliatti liberale» e della sua presunta influenza moderatrice su Stalin). Il rapporto tra il Pci e l'Urss, scrive Zaslavsky, «era molto complesso e in nessun modo potrebbe essere presentato come una totale subordinazione di Botteghe Oscure alla leadership sovietica», ma le decisioni finali di Mosca erano sempre determinanti e ai leader dei "partiti fratelli" rimaneva l'unico compito di eseguirle». Quanto a Togliatti, «la sua aspirazione fu sempre quella di diffondere l'influenza sovietica in Europa occidentale e in Italia e nello stesso tempo di tenere l'Italia fuori dal diretto controllo sovietico. Una valutazione dell'opera di Togliatti deve da una parte tener presente la sua posizione moderata a capo del Pci, ma, dall'altra, non deve trascurare il fatto che, sia nella sua veste di dirigente del Comintern, sia dopo il ritorno in Italia, cercò di difendere in primo luogo gli interessi della politica estera sovietica». Eppure ancor oggi e non solo da parte dei vetero stalinisti o della sinistra in genere, egli viene ricordato come un grande statista al servizio del proprio Paese.










    Il terrore rosso in presa diretta
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    Augusto DEL NOCE
    La morale catto comunista (cattolici e Pci)
    tratto da: Il Sabato, 22.8.1987, n. 34.





    Cl malata d'affarismo dovrebbe imparare dalla tensione ideale dei credenti confluiti nel Pci. E' la tesi di padre De Rosa. Del Noce ribatte


    Sulle perplessità che l'intervista rilasciata a «Panorama» dal padre Giuseppe De Rosa vicedirettore e notista politico della «Civiltà cattolica» e pubblicata nel numero del 26 luglio, suscita, è stato già scritto nell'editoriale del numero 30 de «Il Sabato». Alle osservazioni di tale articolo che perfettamente condivido intenderei aggiungerne alcune altre.
    Anzitutto nel riguardo del giudizio sul Documento dei 39 che il Padre interpreta in termini di pura manovra politica: se la Dc fosse stata sconfitta e in conseguenza se De Mita avesse dovuto lasciare la Segreteria allora sarebbe stata l'ora di Cl che si sarebbe presentata per quel che è, all'insegna di un partito politico sostanzialmente confessionale e avrebbe cercato di operare una scelta tra i capi storici della Dc.
    Giulio Andreotti come padre temporale coadiuvato da Forlani e da Piccoli. L'accusa alla precedente gestione sarebbe quella obbligata di volere un partito laico e tecnocratico. In realtà si tratterebbe dell'abbandono dell'impostazione stessa che aveva dato Sturzo come quella di un partito laico ad ispirazione cristiana. Il Padre non arriva veramente a dire: Cl nega la distinzione tra scelta politica e scelta di fede quale è stata sancita dal Concilio Vaticano II. Lascia però che i lettori lo pensino.
    Ora tra i firmatari del documento non avrebbero ammonito la Dc a non cedere ad una concezione laicista e tecnocratica se l'interpretazione in questo senso dell'autonomia politica non esistesse almeno allo stato di tentazione: o più che tentazione dato che il dipartimento culturale della Dc si è espresso, diversi mesi orsono, nella proposta di una piena laicità. Cerchiamo di dare una definizione precisa delle due linee divergenti. Penso che si debba dire così. Per quella che per brevità chiamerò linea laica, compito storico della Dc è portare i cattolici, ancora spesso chiusi in dichiarate o meno nostalgie tecnocratiche, ad una piena adesione della coscienza democratica moderna caratterizzata nonché dal suffragio universale, dalle libertà politiche delle rappresentanze parlamentari dalla ricerca dell'elevazione democratica e culturale del popolo indipendente dalle fedi religiose pur nel rispetto di ognuna di esse. Così da sottrarli ad una situazione psicologica di minorità verso il mondo moderno fino a ieri da loro non compreso e ingiustamente criticato.
    Non che per gli assertori stessi di questa concezione la vita religiosa sia confinata nel privato senza relazioni con la vita pubblica. Essa dovrebbe agire come forza vitalizzante rispetto ad un compito che resta laico per sua natura.
    Per l'altra linea, accentuante la nota religiosa, il compito di un partito cristiano si configurerà come quella di chi muovendosi nell'ambito della democrazia, pur essendo intransigente nel difendere il metodo della libertà, abbia come suo fine ultimo la rimozione degli ostacoli di varia natura che distraggano dall'attenzione ai valori religiosi e che possano anzi rivelare i vari sentimenti di indifferenza nei loro riguardi. Piena affermazione della democrazia nel senso della pari dignità della persona umana. Piena affermazione della libertà come condizione perché la verità possa venire accolta come tale; ma, come è scritto nel documento, la difesa della libertà viene a coincidere con la difesa del primato della società sullo Stato e sui partiti. Ora, che cosa presenta al primo sguardo la società di oggi? L'esistenza di una laicistica crociata per l'indifferenza religiosa più pericolosa di una diretta propaganda atea. Si riconosce in linea di principio il «diritto di credere» ma si vuol portare alla persuasione che la religione è superflua rispetto all'organizzazione della città umana. A ben guardare si tratta della vecchia questione della possibilità della «città degli atei», tesi che già era stata prospettata all'inizio dell'illuminismo, in linea ipotetica dal Bayle e contro cui era diretta l'intera opera del Vico, incomprensibile senza questa chiave. E a me sembra che autonomia della politica non voglia dire separazione di sfere. Aggiunge ancora il Padre: «Formigoni vorrebbe rappresentare una Dc nella Dc e questo non sta bene». Mi limito ad osservare che si tratta della ricerca di una precisa interpretazione del senso di democrazia cristiana e che questa ricerca è doverosa per chiunque voglia aderirvi, e quella diversità di intendimenti che è corrente in ogni partito, è constatazione così ovvia che proprio «non sta bene» insistervi.
    Aggiunge ancora il Padre: «I comunisti cattolici erano diversi [dai ciellini], avevano grandi speranze e grandi ideali. Credo che il Pci li abbia messi in disparte. Mentre invece le operazioni politiche di Cl (il Padre fa l'esempio del dialogo con Martelli a proposito della questione scolastica) apparterrebbero alla «bassa politica». Dunque secondo uno dei più autorevoli critici politici della Compagnia di Gesù i catto-comunisti erano -o sono- anime ardenti e generose che pagavano di persona pronti a subire l'impopolarità sacrificati dagli stessi comunisti. Se furono gli artefici della proposta del compromesso storico l'aggettivo «storico» corregge il sostantivo e gli conferisce una carica ideale. Invece i ciellini ambiscono all'immediato successo e sono pronti a non ideali compromessi. «Grande politica» quella dei primi; «bassa» quella dei secondi.
    Andiamoci adagio. Ho conosciuto negli ultimi anni della guerra e in quelli del primo dopoguerra molti catto-comunisti e posso certamente testimoniare della loro sincerità e buona fede. Non hanno però avuto occasione di manifestare il loro eroismo così che li ho trovati nei decenni successivi tutti in ottime posizioni (meritatissime date le loro qualità intellettuali). Ma non mi consta abbiano incontrato ostacoli o tanto meno persecuzioni per le loro concezioni politiche e religiose. Dico questo senza la minima intenzione di svalutazione e di biasimo; ma resta pure il fatto che sono stati tra i pochi la cui sincerità e valore furono sempre riconosciuti. E neppure si può dire che il Pci li abbia messi in disparte se oggi rappresentano una notevole parte degli Indipendenti di sinistra e non è vero che gli Indipendenti di sinistra giochino una funzione subordinata dovendo assolvere al compito di sottrarre i comunisti dall'isolamento. Viceversa coloro che militano in Cl o nel Movimento popolare hanno spesso dovuto subire ostracismi da altre associazioni cattoliche o dalla stessa Dc.
    Questo discorso ci porta a definire le differenze tra i catto-comunisti e i ciellini per riguardo al loro atteggiamento rispetto al comunismo. Le date contano: i catto-comunisti sorgono nell'atmosfera della seconda guerra mondiale quando si giudicava, a torto, che il fascismo fosse anzitutto anticomunismo e che l'anticomunismo venisse col coinvolgere tutte le espressioni di civiltà giungendo alla barbarie radicale; e che le colpe dell'antireligione comunista dovessero essere cercate nelle costanti alleanze del mondo cattolico, o delle varie confessioni religiose con le forme, nonché più arcaiche, altresì più egoistiche di conservazione. Un giudizio corrente negli anni Quaranta vedeva nel fascismo la forma reazionaria della borghesia; ebbene i catto-comunisti intendevano separare il cattolicesimo dalla reazione borghese.
    Cl sorge invece al momento del grande «Kulturkampf» mosso da laicisti e da marxisti, in Occidente ancor più dai primi che dai secondi, contro il cattolicesimo, di quella crociata per l'indifferenza religiosa di cui ho detto dianzi.
    È a partire da queste diverse occasioni che si spiega la diversa attitudine riguardo ai comunisti. Per i catto-comunisti il comunismo esprimeva il movimento di una storia provvidenzialmente diretta e di cui i cattolici fino allora non avevano inteso il senso così da procedere ad incomprensive condanne. Si trattava quindi di un processo dei cattolici verso il comunismo; l'avversario massimo era il fantasma dell'integralismo cattolico di cui si era soliti vedere la più perfetta incarnazione nella figura di Pio XII. Volendo combinare la loro fedeltà alla religione con la fedeltà alla storia, i cattocomunisti pensavano che la politica e l'economia marxistiche potessero venire dissociate dalla sovrastruttura atea.
    In Cl invece c'è la documentata certezza che il marxismo sia una filosofia prima che un'economia e una politica; che nel leninismo e in quello che fino a oggi ne è seguito nei partiti comunisti vada cercata la ragione prima dell'espansione, senza analogie storiche, dell'ateismo che c'è oggi nel mondo e che in Occidente ha dato luogo ad una borghesia di nuovo tipo le cui valutazioni possono generalmente venir riferite alle posizioni di pensiero che accetta la «pars destruens» del marxismo rispetto ai valori assoluti consacrati dalla tradizione e insieme ne neutralizza lo spirito rivoluzionario attraverso il comunismo.
    Tuttavia Cl sa bene che le posizioni esplicitamente atee (a differenza di quelle che si fondano sull'indifferenza religiosa) non possono alla lunga durare. Sul piano mondiale il comunismo era caratterizzato come giustamente fu osservato dall'interdipendenza di tre fattori: l'idea di un unitario «imperium mundi» successivo alla rivoluzione mondiale, da quella di una religione secolare come speranza di un'universale liberazione e da quella di un'organizzazione di conquistatori del mondo, di rivoluzionari di professione. La crisi dell'interdipendenza è stata conseguente alla fine della religione secolare ossia di quella secolarizzazione del messianismo che aveva portato taluni a parlare di Marx come dell'ultimo profeta ebraico. Tutti gli aspetti di crisi del comunismo mondiale dipendono dalla caduta senza possibilità di resurrezione della religione secolarizzata.
    Così la politica di Gorbacev sembra trovare fondamento nella rinuncia obbligata alla rivoluzione mondiale; e perciò ha concesso, forse al di là degli stessi propositi del suo leader, al comunismo italiano una maggiore autonomia. Ma questa autonomia ha coinciso non a caso con lo scoppio della maggiore crisi che il Pci abbia finora incontrato e al dilemma a cui si trova dinnanzi. Si dirigerà verso una possibile grande sinistra? Può farlo ma a condizione di subordinarsi ad una borghesia che non è più quella dell'ascesi capitalistica e neanche quella della classe-non classe mediatrice di contrasti economici attraverso concetti etico politici secondo un compito che le assegnava Croce. È invece la nuova borghesia edonistica della società consumistica ed opulenta, che tra l'altro impedisce quella formazione della classe proletaria diretta rivoluzionaria cui pensava Marx.
    Il comunismo ruppe con la socialdemocrazia accusandola di cedere alla borghesia e di diventarne il sostegno. Oggi, nella grande sinistra, toccherebbe al comunismo di farsi sostegno di questo stadio ultimo e peggiore della borghesia. Come ho già notato in due articoli pubblicati su «Il Tempo» il 19 e il 23 luglio, viene in mente il giudizio che Bordiga poco prima di morire aveva pronunciato sulla linea che aveva prevalso nel comunismo italiano e che, lungi dal portare il comunismo al potere, aveva a suo giudizio dato "vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalista e dei suoi beneficiati, giù giù fino alle schiere dei mezzi borghesi, intellettuali e laici". Se appena sostituiamo qualche parola, troppo legata ad un comunismo arcaico, e introduciamo quella di «mercificazione totale» abbiamo il ritratto perfetto di quello che oggi sarebbe il risultato della «grande sinistra».
    Certamente la linea di Bordiga si presentava come irrealistica e utopica; ma oggi la linea gramsciana, che finora ha sostanzialmente diretto la politica comunista, verifica a sua volta la validità delle critiche di Bordiga. Di qui la necessità per il Pci di riformarsi per sottrarsi ad un declino irreversibile.
    Se vuole evitare la linea catastrofica della grande sinistra, non può che rivedere il suo rapporto con il mondo cattolico. Che quello che chiamiamo il mondo moderno borghese si sia costituito contro il cattolicesimo o comunque in un orizzonte del tutto estraneo ad esso, è quello che nessuno mette in discussione. E sono noti i debiti del pensiero marxiano rispetto alla critica contronvoluzionaria e antiborghese della restaurazione cattolica in tutta una tradizione che giunge a Bloy e a Bernanos e che anche in Italia trovò manifestazione in molte pagine di Giuliotti e di don De Luca.
    Il processo sarebbe sicuramente l'inverso di quello del catto-comunismo: ai comunisti non si chiederebbe certo una conversione religiosa -non foss'altro perché i campi della religione e della politica sono distinti- ma soltanto il giudizio storico una volta caduta la religione secolare sulla maggiore parentela con il pensiero cattolico rispetto a quella con la borghesia laicista.
    È inutile aggiungere che il processo si presenta come lungo e che non si possono attendere riflessi politici immediati. Ma quello che mi premeva chiarire è la posizione nei riguardi della borghesia e del comunismo che hanno i catto-comunisti e che ha Cl e che non può essere assolutamente confusa con «l'intransigenza morale» dei primi e la «bassa politica» dei secondi come sembra pensare padre De Rosa.











    La morale catto comunista (cattolici e Pci))
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    NIKOLAY LENIN



    COLPEVOLE DI CRIMINI CONTRO L'UMANITA'.

    Lenin è uno dei padri del comunismo, ancora oggi portato in trionfo dai comunisti.

    Già nel 1920 Lenin stava distruggendo un'intera popolazione,quella cosacca, fucilando gli uomini e deportando donne,vecchi e bambini, radendo al suolo poi i loro territori per consegnarli ai nuovi occupanti non cosacchi.

    10 agosto 1918. Telegramma di Lenin al Comitato esecutivo del Soviet di Penza.

    "Compagni! L'insurrezione dei kulak nei vostri distretti deve essere soffocata senza pietà. Lo esigono gli interessi della rivoluzione intera, perché ormai è cominciata dappertutto la battaglia finale contro i kulak. Bisogna dare un esempio. 1-Impiccare (e dico impiccare in modo che tutti vedano) non meno di 1000 kulak, ricconi, noti succhiasague 2-Pubblicarne i nomi 3-Appropriarsi di tutto il loro grano. Fate così in modo che tutti lo vedano e tremino e pensino: questi ammazzano e continueranno ad ammazzare i kulak. Telegrafate che avete ricevuto ed eseguito queste istruzioni. Vostro Lenin."
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