Rinascita Balcanica

Le parole del Generale Fabio Mini, ex comandante della Missione della Kfor in Kosovo, nell'intervista rilasciata alla redazione di Rinascita Balcanica. Un'analisi forte e pragmatica delle manipolazioni mediatiche, politiche e militari subite dagli Stati dei Balcani, nel quadro più vasto e terribile dell'imposizione del potere della Nato e delle strutture di potere sovranazionali. "Le strutture che manovrano gli Stati e fanno i propri interessi non sono sempre invisibili. Anzi, quelli che manipolano e calpestano appartengono in maggioranza a strutture che sono invisibili soltanto a chi non vuole vedere", dichiara il Generale Mini.

I Governi occidentali hanno esercitato molte pressioni per dare agli albanesi del Kosovo uno Stato. Eppure, la dichiarazione di indipendenza di Pristina specifica che resta in vigore la risoluzione 1244 dell'ONU, tale che il potere di fatto continua a rimanere nelle mani della missione internazionale. La stessa missione europea si trova ora in una situazione di impasse dopo che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha confermato la permanenza della UNMIK in territorio kosovaro. È possibile affermare dunque, secondo lei, che sia stato concesso solo un contentino agli albanesi del Kosovo per raggiungere invece altri scopi?
Non direi che si tratta di un contentino. Ritengo che sia stato fatto un grosso regalo a quanti, albanesi e non albanesi, volevano smantellare l’attuale ordine giuridico mondiale che si fonda sul principio della sovranità degli stati e sulla unica competenza delle Nazioni Unite nella gestione della sicurezza internazionale. La dichiarazione unilaterale non avrebbe nessun significato pratico se non fosse seguita dai riconoscimenti degli Stati e questo sta avvenendo da parte di quelli che da tempo vogliono delegittimare le Nazioni Unite seguiti a ruota da altri Paesi impotenti di fronte alle pressioni . La 1244 è stata violata da coloro che hanno proclamato l’indipendenza ma ancor di più da chi gliel’ha scritta. E non sono stati i kosovari. Il fatto che tutti dicano che la risoluzione rimane in vigore serve solo a mascherare la premeditazione della violazione. Il potere non è nelle mani della Unmik, che oggi è più debole che mai e non passerà nelle mani né dell’Europa né dei kosovari. Resta nelle mani dei provocatori e dei profittatori di qualsiasi parte che hanno interessi illeciti che solo uno stato illecito può garantire. Resta nelle mani di quelli che fregandosene di tutti i kosovari e della loro dignità vogliono usare il Kosovo come il grimaldello per forzare il quadro di legittimità sul quale si fonda tutto il sistema politico mondiale attuale.

Generale Mini, nella sua intervista al Corriera della Sera, lei ha dichiarato che "il nuovo Stato del Kosovo conviene solo ai clan", in quanto "sarà un porto franco per il denaro che arriva dall'Est". Secondo lei, dunque, è possibile affermare che vi sono delle strutture invisibili dietro gli Stati che manipolano e calpestano le Carte Costituzionali per raggiungere i propri scopi?
Tra i profittatori di un quadro di legalità violata ci sono le parti politiche, quelle economiche e, non ultime, quelle criminali. Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio ma il Kosovo è uno dei tanti esempi di sovrapposizione di questi interessi. Le strutture che manovrano gli Stati e fanno i propri interessi non sono sempre invisibili. Anzi, quelli che manipolano e calpestano appartengono in maggioranza a strutture che sono invisibili soltanto a chi non vuole vedere. Chi ha occhi per vedere ed un cervello proprio per giudicare può individuare strutture e persone con nome e cognome. Di esse si sa cosa fanno e perché. Si conoscono le sedi e le attività. Non è necessario pensare soltanto all’occulto o all’esoterico o ai soliti servizi segreti deviati per scoprire trame illecite e destabilizzanti, basta consultare documenti e dati pubblici, conti correnti, connessioni d’affari e soprattutto basta avere memoria: le persone coinvolte sono quasi sempre le stesse o i loro cloni.

Oggi assistiamo ad una vera e propria "guerra fredda" all'interno delle Nazioni Unite. Secondo lei, le divisioni e le pressioni interne sono la prova che si cerca di cancellare l'Onu, per rafforzare la Nato o creare altre strutture sovranazionali?
Da quasi vent’anni è in atto un tentativo di stabilire un Nuovo Ordine Internazionale. Il modello della globalizzazione economica avrebbe dovuto guidare quello di un nuovo quadro istituzionale. Alla fine della guerra fredda ci si è resi subito conto che le Nazioni Unite dovevano essere riformate per adeguare la sicurezza e i rapporti internazionali ai nuovi rapporti di forze. Il modello che sembrava ineluttabile era quello unipolare con gli Stati Uniti alla guida e a guardia del mondo in maniera diretta e indiretta attraverso degli organi delegati: i cosiddetti vice sceriffi. L’Australia si è assunta questo ruolo in Asia, Israele in Medio Oriente e la Nato in Europa. In particolare, la Nato ha ricevuto anche il compito di impedire la nascita di una forza di sicurezza europea e di guidare l’espansione occidentale ad est approfittando della debolezza russa. Gli Stati Uniti si sono riservati il ruolo dominante in tutto il mondo ed hanno assunto come priorità strategiche il contenimento economico e militare della Cina e l’abbattimento di tutti i regimi islamici autocratici detentori delle enormi risorse petrolifere.
In questo progetto i Balcani dovevano essere assimilati e questo poteva essere fatto essenzialmente smembrando la Jugoslavia. Laddove l’assimilazione non fosse stata possibile, i Balcani dovevano essere ribalcanizzati frazionandone i territori, limitandone la sovranità, la libertà e il progresso economico e lasciando chi si opponeva nel limbo o nel caos. Per quanto possa sembrare assurdo questo progetto all’inizio non aveva una connotazione imperialistica, ma rispondeva al genuino desiderio degli Stati Uniti di imporre, dopo la Guerra Fredda, un assetto più governabile e gestibile. Quando però si parla di interessi statunitensi, si parla essenzialmente di una politica di potenza e non di semplice solidarietà. Una politica in minima parte guidata dal governo e quasi totalmente asservita a logiche e lobby economico industriali. I risultati sono stati evidenti proprio con i Balcani e il Kosovo in particolare. Non è stato fatto nulla per impedirne lo sfaldamento e per evitare il ritorno dei nazionalismi più disumani. Le stesse persone che hanno condotto le varie guerre balcaniche sono le stesse che hanno addestrato e alimentato le bande paramilitari, che hanno dato vita a dei mostri giuridici, che hanno imposto trattati ineguali e che hanno alimentato il caos plaudendo alle cosiddette indipendenze su base etnica.
Se il progetto ha avuto “successo” nei Balcani e nell’Europa orientale, è stato meno fortunato nelle espansioni in Russia, Medio Oriente e Asia. La Russia si è ripresa più presto di quanto la Nato si aspettasse, il terrorismo islamico ha trasformato le guerre in Medioriente e in Asia Centrale in ostacoli insormontabili e pozzi senza fondo. Il presunto alleato di ferro in Asia, il Pakistan di Musharraf si è dimostrato vulnerabile mentre la Cina e l’India non intendono assolvere un ruolo marginale.
La lotta quindi non è “fredda” e non si limita ai corridoi ovattati dell’Onu. E’ guerra aperta che vede gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e qualche alleato volontario o involontario contro tutto il sistema giuridico che giustifica gli attuali equilibri. Il Kosovo è una delle tante battaglie, come quelle mai sopite del Tibet, del Xinjiang, del Caucaso, dell’Iran, della Korea, di Taiwan e così via.

Il Presidente Giorgio Napolitano ha dichiarato che occorre istituire un "Nuovo Ordine Mondiale" per combattere il terrorismo e risolvere le controversie internazionali. A che tipo di struttura crede si riferisca il Presidente?
Penso che si riferisca ad una rivitalizzazione dell’Onu in chiave multilaterale con più paesi chiamati a gestire la sicurezza internazionale. E’ un progetto che ha senso solo se i paesi designati a guidare la sicurezza mondiale rappresentano posizioni diverse, se sono autonomi, se hanno opinioni proprie giustificate da interessi collettivi e dalla ricerca della pace e dello sviluppo umano e se hanno il coraggio di sostenerle e difenderle. Oggi solo Cina e Russia sembrano avere alcune di queste capacità nei confronti della posizione dominante degli Stati Uniti, ma fanno già parte di questo consesso che dimostra tutta la sua inefficienza e non sembrano molto impegnate nella ricerca della pace e dello sviluppo umano. Non credo che l’Onu in via di fallimento possa essere la base del rafforzamento multilaterale e la tendenza generale riscontrabile nei Balcani e nel resto del mondo è proprio per la sua completa delegittimazione. Per questo penso che fino a quando non cambiano le condizioni di equilibrio e non si sviluppa nei paesi civili la coscienza della propria autonomia, l’idea del multilateralismo e della solidarietà internazionale è destinata ad essere un auspicio senza fondamento pratico.

Dopo la dichiarazione unilaterale dell'Indipendenza del Kosovo, crede che anche l'Italia potrebbe avere gli stessi problemi nei confronti dei movimenti independentisti? Ma soprattutto, crede che la questione del Kosovo metta in discussione la sovranità degli Stati?
Il regime di sovranità degli stati è stato messo in ginocchio non tanto dalla dichiarazione d’Indipendenza ma dall’accordo di alcuni Stati di riconoscerla come legittima. Oggi qualsiasi paese deve prenderne atto e temerne le conseguenze. Non si tratta soltanto di salvaguardare l’integrità degli stessi Stati ma quella di garantire un quadro di riferimento globale corretto e giuridicamente ineccepibile. Nessun Stato al mondo oggi può più ritenersi sovrano perché il quadro giuridico che lo garantiva è stato violentato. Quindi è vero che gli Sati che hanno movimenti di secessione come l’Italia sono i primi ad essere in pericolo di vere e proprie destabilizzazioni, ma è anche vero che nessun Stato al mondo ha più riferimenti certi di legittimità. La legge del più forte o di chi grida e minaccia di più non è sufficiente a sostituire il quadro alterato. Per quanto siano forti e potenti, tutti gli Stati hanno vulnerabilità che possono metterli nelle mani di ricattatori e di sfruttatori. Gli stessi Stati Uniti sono oggi ostaggio di molti pseudo alleati e di tutti gli avversari che li costringono ad un dissanguamento continuo di uomini, mezzi, risorse, prestigio e credibilità.

Secondo quanto affermato dall'Ambasciatrice serba a Roma, Sanda Raskovic-Ivic, l'Italia nel giro di due anni ha cambiato radicalmente la sua posizione nei confronti del Kosovo, negando così il suo sostegno alla Serbia. Perché questo cambiamento?
L’Italia di questi ultimi dieci anni appartiene al novero dei paesi a sovranità limitata. Non ha mai voluto esprimere una politica propria in ambito Nato ed è tranquillamente passata da un sostegno agli interessi collettivi a quello degli interessi del più forte. Non ha voluto o potuto esprimere un forte appoggio neppure per l’Europa e di fatto quando si è trattato di scegliere tra l’unità europea e l’acquiescenza nei confronti degli interessi americani ha sempre optato per quest’ultima. Il sostegno alla Serbia, se mai c’è stato, non poteva più proseguire di fronte alle pressioni americane. E’ una triste realtà che viene resa drammatica dal fatto che la politica di acquiescenza finora adottata non ha portato alcun vantaggio né all’Italia né all’Europa. Non ha neppure portato benefici agli stessi Stati Uniti che dovendo ricorrere alla forza e all’arroganza non hanno fatto altro che perdere credibilità e autorevolezza.

Stando agli ultimi dati rilevati, da quando si è insediata in Kosovo la missione internazionale dell'ONU, il traffico di droga e di armi, nonché le rappresaglie e le discriminazioni razziali nei confronti del popolo serbo, sono notevolmente aumentati. Allo stesso modo, sono aumentati anche i casi di corruzione tra le classi politiche. Come spiega questi dati? Ma soprattutto che modello di democrazia cerchiamo di esportare?
La spiegazione sta nella errata interpretazione da parte della Nato e della Unmik della sicurezza del Kosovo. Per anni si è ritenuto che le minacce alla sicurezza del Kosovo venissero dalle forze armate serbe. Abbiamo passato 4 anni a controllare i sentieri da possibili infiltrazioni dell’esercito serbo e intanto si permettevano i traffici illeciti e le corruzioni interne. Quando da comandante di Kfor ho cercato di spostare l’attenzione sulle vere minacce sono stato ascoltato da tutti i miei superiori anche statunitensi, ma guardato con diffidenza dai burocrati della politica Nato che pensavano che volessi intromettermi nei loro affari. Purtroppo nella Nato non comandano i generali sul campo ma i burocrati e i generali da corridoio.
Così ho faticato molto a convincere la Nato che la sicurezza del Kosovo non dipendeva da quanti carri armati serbi si muovevano intorno a Rudare, ma dalla crescita della criminalità, dalla corruzione, dall’inefficienza, dalla discriminazione etnica, dal mancato rilancio dell’economia, dal mancato rispetto delle minoranze, dalla parzialità della ricostruzione e della giustizia, dalla politica fallimentare dei ritorni dei rifugiati e del ripristino dei diritti di proprietà e, infine, dal rifiuto assoluto, quasi maniacale, di autorizzare il dialogo tra Unmik, Kfor e Belgrado. Sono riuscito a fare qualcosa per riequilibrare le percezioni, ma non mi sono mai fatto illusioni sulla capacità di imprimere un vero cambiamento. In realtà ero consapevole di costituire io stesso una vera e propria minaccia al sistema di omertà che tendeva a nascondere i molti insuccessi per non confessare le responsabilità.
Non mi è dispiaciuto svolgere questo ruolo perché mi ha dato modo di impegnarmi per tutto il popolo del Kosovo e per il rispetto delle regole. Sono ancora oggi convinto che il sistema democratico non si possa esportare né imporre con la forza, l’adulazione o il ricatto. Ogni nazione se lo deve costruire giorno per giorno stabilendo una legalità che salvaguardi la civiltà, l’umanità e gli interessi della collettività e non soltanto quelli della maggioranza. La democrazia intesa solo come diritto di voto non serve a niente se i candidati da eleggere sono imposti dall’esterno o se hanno ancora le mani sporche di sangue e il fucile fumante. La stessa democrazia della maggioranza è la forma più debole, perché più di altre si avvicina alla dittatura della maggioranza che tende sempre a soffocare i diritti dei deboli.
Nei Balcani in questi ultimi vent’anni abbiamo invece assistito a proposte di democrazia zoppa e di prevalenza etnica. Tra le difficoltà nel proporre un modello multietnico e collaborativo non ho trovato solo la diffidenza dei burocrati e la palese ostilità di quelle poche centinaia di kosovari albanesi che si vedevano minacciati da un sistema di legalità. Ho trovato resistenza anche da parte di molti serbi ai quali ogni ammissione di responsabilità o concessione di diritti alla popolazione k-albanese sembrava una sconfitta. In particolare ho notato l’atteggiamento ostile di alcuni rappresentanti della chiesa serbo-ortodossa del Kosovo. E spesso ho pensato che non avessero alcun interesse per i kosovari, ma che stessero combattendo con le stesse armi del nazionalismo e dell’estremismo che rinfacciavano ai propri avversari. Se la situazione è precipitata è stato anche per questo atteggiamento di chiusura al dialogo che è stato un grande favore a coloro che volevano infliggere il colpo mortale alla Serbia e che volevano mortificare tutto il popolo kosovaro sostenendolo in un'operazione di delegittimazione dell’ordine mondiale. I kosovari, e mi riferisco ai due milioni di individui per bene appartenenti ad ogni etnia, non meritano di entrare nella storia degli Stati come fuorilegge.

Come lei sa bene, dopo i bombardamenti del 1999, il Kosovo è stato teatro di speculazioni ancora oggi non chiare. Una di queste è il giallo legato alla miniera della Trepca, che è stata data in concessione a società occidentali e successivamente chiusa perché causava un grande inquinamento. Cosa può dirci lei della strana controversia della miniera della Trepca?
Posso solo parlare di quello di cui sono stato testimone. Il complesso della Trepca era un gioiello di produzione, ma un esempio negativo di rispetto per l’ambiente e per le persone. La lavorazione dello zinco elettrolitico che a Mitrovica aveva uno degli impianti più avanzati era finita per la distruzione delle grandi vasche provocata da un improbabile guasto proprio durante il primo periodo di controllo di Kfor. Durante il sopralluogo che ho fatto personalmente dopo tre anni dall’evento ho ricavato l’impressione che si fosse trattato di un sabotaggio. Qualcuno non voleva che gli impianti potessero aiutare il Kosovo a risollevarsi. Albanesi o Serbi? Non lo so, ma non escluderei neppure le responsabilità di qualche trafficante internazionale. I depositi avevano montagne di concentrato di piombo e zinco che stavano per essere cedute per quattro soldi. Il reparto di costruzione delle batterie era condotto da quattro operai sdentati che, pur essendo più giovani di me di vent’anni, sembravano miei nonni: tanta era stata la devastazione fisica a contatto con acidi e piombo.
Il curatore della fabbrica, un tedesco molto efficiente, tentava di convincere Unmik a mantenere il sussidio per i seimila operai serbi e seimila albanesi che non avevano più lavoro. Molti di questi a cinquant’anni avevano il fisico completamente distrutto e non potevano affrontare alcuna riconversione produttiva. Avevano diritto ad una pensione anticipata e ad un risarcimento per i danni fisici subiti durante gli anni di miniera. Unmik si rifiutava perfino di continuare a dare un sussidio di pochi euro. La Trepca per me rimane l’esempio di una cattiva gestione ambientale e di sicurezza del lavoro prebellica, di una inutile vendetta durante la guerra e di un massacro umanitario ed economico dopo la guerra. Per molti altri è e sarà un grande affare.

Come spiega il fatto che Bernard Kouchner, Presidente dell'Organizzazione Médécins Sans Frontières e regista del documentario sui "campi di stupro" della Bosnia, rivelatosi poi un evidente falso, sia divenuto responsabile della Missione ONU in Kosovo e poi Ministro degli Esteri francese?
Evidentemente non tutti credono alle cosiddette prove inconfutabili. Non tutti sono capaci di produrle e non tutti sono ascoltati alla stessa maniera quando le producono in sede internazionale. La politica è piena di queste sorprese. Per dimostrare le bugie e le nefandezze degli altri bisogna però fare ammenda delle proprie. Non si può neppure pensare che i crimini degli altri giustifichino i propri. Chi vuole accusare deve prima liberarsi dei propri pesi morali e materiali. Kouchner si era distinto per il suo impegno umanitario. A chi vedeva nel dramma del Kosovo soltanto la dimensione umanitaria della popolazione albanese e non vedeva le strumentalizzazioni e l’uso deliberato della “bomba umanitaria”, Kouchner sembrava il più adatto ad intervenire. In effetti i suoi provvedimenti di emergenza in Kosovo sono stati adeguati ed efficaci.
Purtroppo, come quasi tutti i suoi successori e molti comandanti di Kfor, non è riuscito ad acquistare una visione equilibrata e oggettiva dei problemi. Proprio nel suo periodo sono avvenuti i più efferati episodi di contropulizia etnica e la sua amministrazione ha aiutato l’assunzione del potere da parte di capi UCK che oggi sono definiti da un k-albanese molto noto, come Pacolli, come “poco presentabili”. L’attività di Kouchner come Ministro degli esteri è influenzata dall’appartenenza ad un governo di destra ed è ancora molto segnata dai vecchi pregiudizi formati in maniera molto comprensibile negli anni d’impegno umanitario. Lo dimostra nei Balcani, ma anche nell’interventismo militare in Iran, in Africa e in Asia. Quando dal campo sanitario e umanitario è passato a quello politico forse ci abbiamo rimesso tutti. Lui compreso.

A distanza di anni, vogliamo ricordare la famosa strage di Racack del 1999, durante la quale persero la vita circa 45 kosovari, preceduta nei giorni precedenti dallo scontro tra l'UCK e l'esercito serbo. Allora, il Capo della Missione OSCE in Kosovo, William Walker, richiamò l'attenzione dei giornalisti affinchè documentassero il "genocidio" compiuto dall'esercito serbo. Eppure, un agente dei servizi segreti francesi, Henri Brunel, affermò che in quell'occasione i corpi furono portati lì intenzionalmente, per "inscenare" una strage che non era avvenuta. Cosa pensa lei di quest'episodio, dopo anni di esperienza nei Balcani?
Quando nel 2000 ho assunto la carica di Capo di Stato Maggiore del Comando della Nato del Sud Europa che aveva la responsabilità di tutte le operazioni nei Balcani ho voluto studiare e approfondire le tappe fondamentali che avevano portato alla guerra della Nato alla Serbia. Racack è stato l’episodio che ha fatto fallire i colloqui di Rambouillet e quindi ha avuto il primo posto nella mia attenzione. Quasi tutte le versioni ufficiali erano da un lato reticenti e dall’altro ideologicamente deviate. Ho poi avuto modo di verificare sul terreno molte delle incongruenze che comunque alcune fonti internazionali avevano denunciato. Mi sono convinto che il massacro era stato inscenato, ma questo non mi meraviglia. In guerra anche i morti combattono. Non mi meraviglia neppure che l’ambasciatore Walker e il suo vice abbiano avallato immediatamente l’ipotesi dell’eccidio. Bastava vedere il curriculum di Walker e l’identità dei suoi verificatori per stabilire che il loro interesse non era né verificare né prevenire né testimoniare la verità: dovevano soltanto creare le premesse per un esito già scontato.
Ciò che mi ha meravigliato è stata la reticenza del team di patologi investito del caso dall’Unione Europea. La dottoressa Helena Ranta, dentista, a capo del team di esperti finlandesi pur non avendo alcun elemento oggettivo ha avallato immediatamente e pubblicamente la tesi dell’eccidio. Non si sa se abbia mai depositato la relazione ufficiale delle autopsie. Fatto sta che i risultati ufficiali degli esami vengono pubblicati dai suoi colleghi J. Rainio, K. Lalu, A. Penttila nel 2001 su una rivista di patologia medica canadese (Forensic Science International). I risultati delle autopsie non forniscono alcuna prova che si sia trattato di un eccidio, anzi il tipo di ferite, le armi usate, i vestiti, le condizioni dei corpi, la mancanza di spari ravvicinati e di mutilazioni intenzionali (alcuni corpi si presentavano senza arti o senza testa per danni causati post mortem da animali selvatici o randagi), tutto conduce alla conclusione che le vittime sono state uccise in un periodo da 10 giorni a un mese prima del ritrovamento, in varie parti del territorio e in diverse condizioni. Questa documentazione passa ovviamente inosservata. Nel 2002 quando mi reco a Racack gli stessi soldati finlandesi che controllano la zona mi raccontano ancora la storiella dell’eccidio e si dicono fieri che sia stato un team di dottori finlandesi a denunciarlo. Potenza della propaganda!

Come lei sa, i bombardamenti della Nato nel 1999 si concentrarono nel territorio del Kosovo utilizzando una tipologia di armi evidentemente destinata a colpire infrastrutture e grandi strutture economiche, e non l'esercito o le bande armate. È stato così definito un "bombardamento umanitario" anche se è stato danneggiato soprattutto il territorio. Perché secondo lei è stato pianificato questo tipo di attacco?
L’intento dei bombardamenti non era quello di salvare la popolazione dalle rappresaglie e dalla pulizia etnica che comunque erano state fatte dalle forze serbe e soprattutto dalle bande paramilitari che forse neppure Milosevic era in grado di controllare. I bombardamenti erano una punizione. Sia in Kosovo che in Serbia l’idea era quella di operare una distruzione strutturale che fiaccasse la volontà di resistenza serba e che provocasse danni permanenti o per lo meno duraturi all’apparato produttivo. Dal punto di vista prettamente militare una settimana di bombardamenti sui centri di comando e controllo e sulle formazioni meccanizzate e corazzate sarebbe stata più che sufficiente a mettere fuori uso le minacce più serie. Ma anche questo non era lo scopo. Si pensava inizialmente ad una occupazione militare del Kosovo e ad un intervento di terra che avrebbe dovuto seguire i bombardamenti aerei, ma la Nato si rese subito conto che un contingente di 60000 uomini come era l’ARRC dislocato in Macedonia non avrebbe assicurato una vittoria indolore di fronte ad una eventuale resistenza serba militare e paramilitare.
Era anche stato ipotizzato l’utilizzo delle formazioni UCK in veste di fanteria della Nato, ma anche questo era visto con molto scetticismo da quanti nella Nato (ed erano molti) non si fidavano affatto dell’UCK. L’unica soluzione rimaneva perciò la distruzione sistematica e ripetuta delle risorse della Serbia. In questo quadro i bombardamenti sono durati ben 78 giorni con una spesa di otto miliardi di dollari e le forze serbe non sono state cacciate da nessuno. Hanno accettato di ritirarsi con le proprie armi e, a Kumanovo, la Nato ha riconosciuto ai serbi quello che era stato rifiutato a Rambouillet e che aveva provocato il fallimento dei negoziati: la sovranità della Serbia sul Kosovo. La Nato non è tuttavia riuscita ad evitare che le bande UCK procedessero alla contropulizia etnica nei confronti dei serbi del Kosovo. E questa è stata la prima vera sconfitta sul piano militare e umanitario.

Lo Stato italiano ha oggi riconosciuto i danni subiti dall'esercito italiano a causa del bombardamento all'uranio impoverito. Allo stesso tempo è stata presentata all'ONU un progetto di risoluzione che porti a riconoscere anche i danni subiti dalla popolazione colpita. Secondo lei, vi sarà mai un reale risarcimento per i civili? E se si, quali implicazioni si avrebbero?
Nonostante le varie prese di posizione ufficiali in Italia si stenta ancora a riconoscere la causalità fra uranio impoverito e molte patologie tumorali. Per molti casi di possibile correlazione ce ne sono tanti altri che non sono correlabili perché le vittime non sono mai neppure state in teatri operativi. Io ho più volte espresso il parere che le patologie tumorali subite dai militari debbano comunque avere il riconoscimento di dipendenza da una causa di servizio. Non possiamo penalizzare i casi correlabili perché ce ne sono di non correlabili. Se questo vale per i militari deve a maggior ragione valere per le popolazioni civili che hanno subito gli effetti dell’uranio e comunque di tutti gli interventi armati o le conseguenze sull’ambiente e la salute degli interventi armati. Penso che si riuscirà a stabilire questo principio e spero che non si limiti solo al caso dell’uranio impoverito. Ci sono decine di patologie e di danni genetici che si provocano anche per l’inquinamento ambientale indotto dalle distruzioni di fabbriche, raffinerie e depositi chimici. Ci sono intere generazioni perdute per molti motivi. Ciò che invece vedo molto più difficile è che ci sia qualcuno che se ne assuma la responsabilità e che paghi.

Michele Altamura