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  1. #41
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    Predefinito Rif: LAVORATOOOORIIIII????!! Dario Fo: "Marchionne è un pericolo per la democrazia!"

    [QUOTE=Max69;1803004]
    Citazione Originariamente Scritto da Mauri61 Visualizza Messaggio

    da Wikipedia




    IGNORANTE RECIDIVO!


    .
    Wikipedia...
    Peccato che gli autori di tale tema abbiano omesso particolari fondamentali del processo ostridicolo:

    Te li posto, così magari è la volta che la pianti di rimestare la solita bratta:

    Il processo si celebra a Varese, dove è stampato «II Nord». La prima udienza si svolge il 7 febbraio 1978.Fo racconta che, non ancora diciottenne (è nato a Sangiano, Varese, il 24 Marzo 1926), collaborava con il padre, esponente della Resistenza nel Varesotto. Preso tre volte dai tedeschi, e sempre scappato, si era arruolato volontario nei paracadutisti di Tradate, ma lo aveva fatto per non destare sospetti, anzi d’accordo con i partigiani amici del padre. Tanto che il suo sogno era sempre stato quello di unirsi alla formazione militare Lazzarini, la banda partigiana terrore dei nazifascisti sulla riva orientale del Lago Maggiore. Falso quindi che sia stato repubblichino, falso che sia stato rastrellatore, falso, falsissimo, che sia stato «intruppato nel battaglione “A. Mazzarini” della Gnr».
    Nel frattempo, il giornalista e storico Luciano Garibaldi ha condotto una ricerca sulla strana vicenda e ne pubblica i risultati in un ampio reportage sul settimanale «Gente» in edicola il 4 marzo 1978. Cè la foto di Dario Fo in divisa da parà repubblichino. Cè il ritratto da lui fatto dei suoi camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («sono apocrife e sono state aggiunte da altri», dirà il comico). Soprattutto ci sono le testimonianze di una decina di ex-camerati di Tradate, tra cui l’ex-sergente maggiore istruttore dei paracadutisti fascisti, Carlo Maria Milani (“L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante il rastrellamento della Val Cannobina per la riconquista dell’Ossola, il suo compito era portare le bombe”), e - assolutamente esplosiva - quella del leggendario comandante partigiano Giacinto Lazzarini, si, proprio lui, il mito della giovinezza di Fo.
    Lazzarini, a quell’epoca sessantaseienne, è un superdecorato e probabilmente tutti pensavano fosse morto (in effetti la sua formazione era stata sterminata dai fascisti durante la battaglia di Gera di Voldomino, Varese, il 7ottobre 1944: 54 morti). Nell’intervista afferma: “Le dichiarazioni di Dario Fo destano in me non poca meraviglia. Dice che la casa di suo padre era a Porto Valtravaglia, era un “centro” di resistenza. Strano. Avrei dovuto per lo meno saperlo. Poi dice che “era d’accordo con Albertoli” per raggiungere la mia formazione. Io avevo in formazione due Albertoli, due cugini, Giampiero e Giacomo. Caddero entrambi eroicamente alla Gera di Voldomino, e alla loro memoria è stata concessa la medaglia di bronzo al valor militare. Forse Fo potrà spiegare come faceva ad essere d’accordo con uno dei due Albertoli di lasciare Tradate nel gennaio 1945, quando erano entrambi caduti quattro mesi prima. Senza dire, poi, che i cugini Albertoli erano tra i più vicini a me e mai nessuno dei due mi parlò di un Dario Fo che nutriva l’intento di unirsi alla nostra formazione”.
    «Ad ogni, modo - dice ancora Lazzarini - se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non lo ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Sarebbe stato un titolo d’onore, per lui. Perché mai tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».
    L’inchiesta di Luciano Garibaldi ha l’effetto di rendere incandescente il processo di Varese. Milani e Lazzarini vengono citati e ascoltati dal tribunale. Milani ha un duro confronto con Fo, al termine del quale viene denunciato dagli avvocati del futuro Nobel per falsa testimonianza. Lazzarini, un autentico eroe della resistenza, è ascoltato l’11 aprile.
    Finalmente, dopo 34 anni, Fo ha l’occasione di trovarsi faccia a faccia con colui che, stando alla biografia “La storia di Dario Fo”, di Chiara Valentini, fu l’idolo della sua gioventù, il leggendario comandante Lazzarini, il Che Guevara del Varesotto, il Chiapas dei nazifascisti. Che fa? Lo abbraccia? No. Lo fa ricoprire di contumelie dal suo amico ed ex-partigiano Leo Wachter, il quale, tirando la corda, dice al tribunale: “Lazzarini? Mai sentito nominare”. Con fierezza colma di sdegno, Lazzarini, al presidente che gli chiede se per caso egli usasse un nome di copertura, risponde. “No, il mio nome era Lazzarini, il bandito Lazzarini!”.
    Il processo dura un anno e si conclude, dopo oltre dieci udienze, il 15 febbraio 1979, con una sentenza che assolve per intervenuta amnistia il direttore, de “II Nord” e condanna il collaboratore per la sola asserzione “Fo intruppato nel battaglione “A. Mazzarini” della Gnr”.
    Nella sentenza si legge tra l’altro: “E’ certo che Fo ha vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate. Lo ha riconosciuto lui stesso - e non poteva non farlo, trattandosi di circostanza confortata da numerosi riscontri probatori documentali e testimoniali - anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell’infiltrato pronto al doppio gioco. Ma le sue riserve mentali lasciano il tempo che trovano”. E ancora: “Deve ritenersi accertato che delle formazioni fasciste impegnate nell’operazione in Val Cannobina facessero sicuramente parte anche i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate. ( … ) Non è altrettanto certo, o meglio è discutibile, che vi sia stato impiegato Dario Fo. Ma (…) la milizia repubblichina di Fo in un battaglione che di sicuro ha effettuato qualche rastrellamento, lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile di tutte le attività e di ogni scelta operata da quella scuola nella quale egli, per libera elezione, aveva deciso di entrare.
    E’ legittima dunque per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore”.

    La sentenza non fu appellata e dunque è definitiva. Per la giustizia, Fo è stato repubblichino, paracadutista e rastrellatore. Quanto all’ex-sergente maggiore Carlo Maria Milani, processato per falsa testimonianza , fu assolto dal pretore di Varese il 16 maggio 1980 con formula piena; perché il reato non sussiste. Sentenza anch’essa definitiva.
    Ultima modifica di Mauri61; 17-01-11 alle 09:14
    Non rispondo a mitomani, onanisti e depensanti...a questi ci dovrebbe pensare l'ASL.

  2. #42
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    Predefinito Rif: LAVORATOOOORIIIII????!! Dario Fo: "Marchionne è un pericolo per la democrazia!"

    Citazione Originariamente Scritto da Max69 Visualizza Messaggio
    e riguardo al salto della quaglia, tu che sembri fan di socialisti di destra e radicali portavoce,
    ???????????????:gratgrat:
    Esattamente a chi ti riferisci? non ho mai espresso simpatie per socialisti, per personaggi di destra o radicali in genere. Sicuro che non ti stia confondendo con qualcun altro? Non è carino attribuire a qualcuno simpatie politiche arbitrariamente, solo perché non coincidono con le tue.

    Citazione Originariamente Scritto da Max69 Visualizza Messaggio
    Se c'è una cosa che tutti riconoscono è l'immensa coerenza negli anni di Dario e Franca.
    Certo: sempre a dietro la parte che assicura loro fama, simpatie da pseudocontestatori, ma sempre integrati nel sistema.

    Citazione Originariamente Scritto da Max69 Visualizza Messaggio
    No perchè allora di :
    Capezzone
    Ferrara
    Ferltri
    Cicchitto
    Brunetta
    Frattini
    Pannella
    Mastella
    Bossi

    cosa dovremmo dire, essendo il loro salti quaglieferi, costanti, ripetitivi e cronici?

    Tu dì pure quello che vuoi, io di loro non parlo e non li considero.

    Citazione Originariamente Scritto da Max69 Visualizza Messaggio
    Ma non mi sembra che per questi saltoquagliferi, tu abbia squarash di rabbia....

    Eppure li voti...

    m
    Ora mi spieghi da che cosa desumi che io abbia mai votato per qualcuno dei personaggi in questione (a parte il fatto che uno di loro non si è mai presentato ad elezioni di sorta), e soprattutto come avresti fatto ad osservarmi nel segreto della cabina elettorale. A meno che non parti dal principio che chi non è di destra è di sinistra e viceversa, perché è da quando posto che esprimo chiaramente la mia repulsione per il bipolarismo e per il principio o con noi o contro di noi.

    Tanto per chiarire.
    .
    L'ultimo uomo ad essere entrato in Parlamento con intenzioni oneste.

    Non basta negare le idee degli altri per avere il diritto di dire "Io ho un'idea". (G. Guareschi)

  3. #43
    email non funzionante
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    Predefinito Rif: LAVORATOOOORIIIII????!! Dario Fo: "Marchionne è un pericolo per la democrazia!"

    Fiat - È l’ora della verità per il capitalismo E per la classe operaia

    Il capitalismo, vero, è quello di Marchionne, e lo sarà sempre ed ovunque

    La previsione marxista di un capitalismo destinato a cadere in crisi sempre più gravi e che si alimenta solo con la vita dei suoi schiavi salariati, è ogni giorno più confermata.

    L’attacco della Fiat è quello che si verifica in tutti i paesi e in tutte le categorie e non è, come sostiene il sindacalismo di regime, e anche la sua sinistra, la Fiom, “scelta” di una particolare “cultura aziendale” e di un amministratore delegato “amerikano” e liberista.

    L’intero capitalismo è afflitto da una generale crisi di sovraproduzione. Nell’auto si calcola che in Europa e in USA la sovracapacità produttiva oggi sia fra il 30 e il 40%. Questo processo, non voluto da nessuno ma risultato naturale e spontaneo delle leggi che regolano la produzione capitalistica, ha condotto ad una elevata concentrazione – altra classica previsione marxista – col passaggio a poche aziende sovranazionali in competizione per la vita o per la morte. Tutte le case costruttrici sono quindi costrette a sfruttare in modo parossistico i propri lavoratori; quelle che non l’hanno già fatto a fondo presto lo faranno.

    L’accordo di Mirafiori dimostra che non può esistere un capitalismo “dal volto umano”. La Fiat, come la maggior parte delle aziende, per cercare di restare in vita deve esasperare lo sfruttamento dei suoi operai. Lo fa già da anni, e con l’avvallo di tutti i sindacati, Fim, Uilm e anche Fiom. Finché oggi i ritmi di lavoro divengono tali da non poter essere accettati dai lavoratori, nemmeno col lavorio di convincimento dei sindacati confederali, ma solo imposti.

    Allora crolla la finzione della democrazia in fabbrica. La Fiat non può più permettersi che i carichi di lavoro più pesanti siano anche solo in parte vanificati dal ricorso dei lavoratori a quei mezzi con cui essi – nella loro attuale incapacità di una vera lotta frontale – riuscivano finora a sfuggire un poco a quell’inferno, come le due ore di sciopero a fine turno o il ricorso alla malattia.

    Se non c’è più spazio per fingere la conciliazione degli interessi, la concertazione, non ci sarà nemmeno per quel sindacato che su quel principio di “relazioni industriali” si è costruito. Restano in piedi solo due tipi di sindacato: o quello dichiaratamente a servizio dell’azienda, e da questa “riconosciuto”, o il sindacato di classe, per costituzione nemico del padrone, fondato solo sulla sua forza di organizzazione e di mobilitazione, e non riconosciuto da nessuno, se non dalla classe lavoratrice.

    Gli accordi di Pomigliano e di Torino segnano una tappa in direzione di questo processo, non il suo compimento.

    La Fiom per molti decenni è stata preziosa per la Fiat, e buona parte del padronato la considera ancora tale. I borghesi sanno che privare i lavoratori di un inquadramento sindacale che predica la conciliazione degli interessi, spingendoli verso la costruzione di un vero e combattivo sindacato di classe costituisce un passo pericoloso. La ragione glielo mostra prematuro, non ancora necessario. Ma, di questi tempi di catastrofe, la ragione non basta e la lotta di classe, primo motore del divenire sociale, nelle sue forme determinate s’accende da sola. Quando la barca del capitalismo affonda le apparenze debbono passare in secondo piano, si sollevano i veli ipocriti: il Capitale tutto e tutti pretende trascinare con sé nell’abisso.

    La Fiat ha dovuto mettere Confindustria e sindacati confederali davanti al fatto compiuto. La situazione è troppo grave per trastullarsi con i tempi lunghi delle “trattative”: occorre ubbidienza e disciplina, da tempo di guerra.

    Staremo a vedere se il futuro svolgimento della crisi generale consentirà che, se la Fiat ha fatto tre passi avanti, Confindustria e confederali ne facciano almeno uno o due, varando un nuovo accordo sulla rappresentanza e la “democrazia sindacale”; vedremo se la Fiat potrà rientrare nelle nuove regole, e se la Fiom riavrà i “diritti” in Fiat.

    Si capisce bene che, se nella vicenda Fiat la Fiom ha potuto assumere atteggiamenti da vittima, ciò non è dovuto a una sua natura di sindacato di lotta e di classe. La Fiom è stata “licenziata” dalla Fiat, la quale non è oggi in condizione di tollerare ed ospitare nei suoi stabilimenti nemmeno una finzione di sindacato. Il che sarebbe un fatto positivo, nel senso che indica la necessità di uno vero sindacato, che non chieda il permesso del padrone per organizzarsi, partendo da fuori della fabbrica, e dal padrone non si faccia raccogliere le quote.

    La Fiom da sempre ha ricercato l’unità con Fim e Uilm e con queste ha “contrattato” e firmato tutti i peggioramenti con l’azienda.

    Nel 1986 a Termoli con la firma della Fiom è stato introdotto per la prima volta il lavoro notturno obbligatorio per le donne, e poi negli altri stabilimenti.

    Sempre Termoli fu prima a passare nel 1994 dai 15 ai 18 turni. Poiché quell’accordo, firmato anche dalla Fiom, fu respinto dai lavoratori nel referendum, nell’occasione furono mobilitati i massimi vertici dell’organizzazione per rimediare alla volontà “democraticamente” espressa dai lavoratori. Per due settimane nelle assemblee i delegati Fiom, insieme a quelli Fim e Uilm, terrorizzarono i lavoratori con la minaccia dello spostamento della produzione da Termoli a... Mirafiori. Queste le belle parole dell’allora segretario Fiom Claudio Sabattini: «Se deciderete per il no [come se col referendum gli operai non avessero già deciso!] noi rispetteremo la vostra decisione. Però non si dica che non vi abbiamo avvisato che così veniva distrutta una realtà industriale al Sud». Almeno oggi Marchionne non ha l’ipocrisia di dire che in caso di voto contrario rispetterebbe l’opinione espressa dai lavoratori! La sostanza del ricatto è la medesima.

    Nel 2008 alle Meccaniche di Mirafiori avvenne lo stesso, con la Fiom che firmava l’accordo per il passaggio ai 18 turni e che fu respinto al referendum dai lavoratori, fra cui anche alcuni delegati Fiom.

    Nella vicenda attuale, da Pomigliano a Mirafiori, Landini ha ripetutamente dichiarato la disponibilità della Fiom ad accettare l’aumento dei ritmi.

    La Fiom, come la Fim e la Uilm, ha sempre accettato il principio secondo il quale i lavoratori debbono farsi carico della competitività dell’azienda. Mai si è posta sul piano di classe, esprimendo la necessità che gli operai si oppongano ad essere messi in concorrenza con quelli delle altre case automobilistiche in Europa e nel mondo, perché altrimenti non c’è limite ai peggioramenti, fino al consumarsi del fisico dell’operaio. Facendo suo invece il principio secondo il quale è interesse anche degli operai rendere l’azienda più competitiva la Fiom ha assecondato il capitale a dividere e sfruttare i lavoratori di tutti i Paesi. Ancora peggio, fra gli stessi stabilimenti in Italia, come nell’esempio di Termoli, o con la firma del patto territoriale per la Fiat di Melfi.

    Tutta questa impostazione dell’azione sindacale, prettamente “borghese”, lega le sorti dei lavoratori a quelle dell’azienda invece che alla loro capacità di unirsi al di sopra delle imprese e delle categorie. Questa linea politica non è nemmeno oggi messa in dubbio dalla Fiom, ma rivendicata, anzi, esibita per dimostrare la pretestuosità delle “scelte” di Marchionne. La Fiom è vittima innanzitutto di se stessa e non vuole e non può, per quello che è e per tutto quanto ha fatto in passato, agire come un sindacato di lotta, scontrandosi frontalmente con la Fiat e con tutto il padronato.

    Ma nemmeno può accettare la morte della “democrazia sindacale” firmando gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, perché così perderebbe quel ruolo mediano che è nella sua natura – e di cui ancora può avvalersi in tutte le altre fabbriche – e finirebbe per non distinguersi affatto da Fim e Uilm.

    Quanto occorso dall’accordo per Pomigliano, del 15 giugno, a quello per Mirafiori, del 23 dicembre, conferma che l’attacco sferrato dalla Fiat non ha affatto mutato l’atteggiamento della Fiom. Nonostante fin dall’accordo di Pomigliano fossero chiare le intenzioni della Fiat e del padronato, come la stessa Fiom ha subito denunciato, essa non ha proclamato immediatamente lo sciopero generale di tutta la categoria a difesa del contratto nazionale, e nemmeno quello di tutti i lavoratori Fiat. La vicenda di Pomigliano è rimasta una questione dei lavoratori di quello stabilimento, per di più in cassa integrazione, nonostante fosse evidente che riguardava non solo tutti gli operai Fiat e nemmeno i soli metalmeccanici ma tutta la classe lavoratrice.

    A luglio la Fiom ha poi proclamato una giornata nazionale di mobilitazione dei metalmeccanici, non per uno sciopero ma per una manifestazione, da tenersi... tre mesi dopo, il 16 ottobre.

    Quando il padronato ha compiuto il passo successivo, con la disdetta il 7 settembre del contratto metalmeccanico del 2008, dimostrando quanto denunciato fin da Pomigliano, e cioè l’intenzione di distruggere il contratto nazionale di categoria per sostituirlo con contratti aziendali, la Fiom ha risposto con 4 ore di sciopero divise per azienda.

    Alla manifestazione del 16 ottobre a Roma Landini ha lanciato la richiesta alla Cgil di indire uno sciopero generale. Nell’attesa della proclamazione dello sciopero, che non c’è stata, la Fiom si è ben guardata dal cominciare intanto a indire lo sciopero generale della categoria.

    Si è giunti così all’accordo per Mirafiori del 23 dicembre e la Fiom si è finalmente risolta a indire lo sciopero. Ma per il 28 gennaio, due settimane dopo il referendum sull’accordo, senza alcuna intenzione quindi di influire sul suo esito. Si tratta ancora di uno sciopero per esprimere la propria opinione contraria, non certo per respingere con la forza il nuovo pesante attacco.

    La vittoria del “no” al referendum comporterebbe necessariamente una successiva mobilitazione dei metalmeccanici. Ma la Fiom, che non ha voluto né potuto mettere in campo una simile mobilitazione in questi sei mesi, non può né vuole farlo ora. Non vuole, perché è intimamente legata a una pratica di ricerca del compromesso col padronato che le garantisca tutti quei diritti sindacali sui quali vive la sua struttura e che non può compromettere con una vera lotta generale contro di esso. Non può perché tutta la sua azione sindacale passata, imperniata sulla ricerca della conciliazione degli interessi col padronato, non ha rafforzato ma demolito la capacità di lotta dei lavoratori.

    D’altro canto la Fiom è stata emarginata solo in due stabilimenti Fiat. Può ancora contare sulla consapevolezza di buona parte del padronato che ben sa che “se c’è un sindacato che fa accordi è la Fiom”, per dirla con Landini.

    La Fiom quindi non conta affatto di porsi sulla strada della ricostruzione della forza dei lavoratori per respingere gli attacchi odierni e futuri. E nemmeno per difendere se stessa. Fino all’ultimo cercherà una sponda fra le fazioni del padronato che le garantisca la prosecuzione della sua funzione conciliatoria, anche se verrà condotta in spazi sempre più angusti e puramente simbolici. Fino all’ultimo difenderà la “democrazia” e proprio per questo si rifiuterà di impostare la sua azione sull’unico piano reale, quello dei rapporti di forza. Questa condotta è fallimentare e suicida come, con una piccola anticipazione di più grandi episodi futuri, ha dimostrato la vicenda Fiat.

    * * *

    L’esito del referendum di Mirafiori è stata una prova d’orgoglio degli operai. In gran parte non hanno ceduto al ricatto dell’azienda. Una prova di coraggio che dimostra come la classe operaia non sarà mai definitivamente piegata e succube alle esigenze del capitalismo, come la descrivono e la sognano gli ideologi della borghesia.

    Ma non è un referendum che decide la vittoria o la sconfitta in una battaglia sindacale. Questa è il risultato delle forze materiali messe in campo. Tanto quanto sono forze materiali quelle succhiate dall’azienda, dal Capitale, al fisico e alla mente degli operai, ogni giorno della loro vita. Altrettanta forza deve essere impiegata dai lavoratori per opporsi alla violenza del Capitale che vuole strappare loro ancora più fatica, sudore, logoramento fisico e mentale, per donarlo al profitto.

    Questa forza non è un segno di penna su una carta, ma sono scioperi, assemblee, riunioni. Veri scioperi: non limitati all’azienda o al reparto ma estesi il più possibile a tutta la classe operaia. Vere assemblee: fuori dall’orario di lavoro, fuori dalla fabbrica, nelle sedi delle organizzazioni operaie, insieme ai lavoratori di tutte le aziende.

    Tutto questo non c’è stato prima del referendum. Tutto questo se ci fosse stato avrebbe reso vuoto di significato l’esito di una conta dei voti che mostra la menzogna insita nel principio "una testa, un voto". Non solo a decidere per gli operai sono stati quadri e impiegati. Ma nel referendum gli operai in lotta mettono sullo stesso piano il loro voto con quello di chi nulla ha scarificato di sé per la battaglia, i crumiri, gli individualisti, i deboli di fronte al ricatto padronale.

    Diverso il voto nelle assemblee operaie e sindacali. Vota chi c’è, chi fa la fatica di recarvisi. Si vota per alzata di mano, non nel segreto dell’urna, e si è responsabili di quel che si fa di fronte agli altri. Ma un’assemblea non è un organismo conciliatorio, riconosciuto cioè dall’azienda. È un organismo di lotta, di una sola parte, dei lavoratori, e non serve ad accettare o meno un accordo, serve a decidere se continuare la lotta contro di esso. Se gli operai arrivano a riporre solo in un referendum le sorti della battaglia hanno già perso.

    Partito Comunista Internazionale

    Il Partito Comunista, n.344

 

 
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