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  1. #1
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    Predefinito La rivoluzione è contagiosa

    Il ricorso al suicidio come estremo tentativo di ribellione alla miseria e alla repressione si sta espandendo velocemente all’interno dei paesi arabi. Tunisia, Algeria, Egitto e perfino Mauritania. Lunedì 17 gennaio un giovane mauritano si è dato fuoco a Nouakchott, di fronte al palazzo presidenziale, per esprimere la sua rabbia nei confronti del regime guidato dal generale golpista Abdelaziz, secondo quanto riferito da fonti giornalistiche locali. Lo stesso giorno, al Cairo, il proprietario di un piccolo ristorante si è cosparso di benzina davanti al Parlamento ed ha appiccato le fiamme sul proprio corpo. Il gesto è stato imitato la mattina seguente da altri due giovani egiziani, immolatisi di fronte al palazzo dove si riunisce il Consiglio dei ministri. I tre, come del resto il giovane mauritano, si trovano ricoverati con ustioni diffuse su tutte le parti del corpo. In Algeria sono già sette i tentavi di suicidio segnalati da mercoledì 12 gennaio. L’ultimo caso martedì 18 gennaio: una donna si è data fuoco nella provincia di Sidi Belabs (600 km a sud-ovest di Algeri) dopo che le autorità locali si erano rifiutate di concederle una sovvenzione per l’alloggio. Prima di lei due giovani disoccupati, uno nella regione di Mostaghanem (350 km ad ovest di Algeri) e l’altro nei dintorni di Tebessa (al confine con la Tunisia) avevano tentato di mettere fine alla loro vita con le stesse modalità.
    L’estremo gesto compiuto da Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid il 17 dicembre scorso, che ha dato il via al sollevamento del popolo tunisino fino alla destituzione del dittatore Ben Ali, sembra avere un eco e una diffusione sorprendente tra le società arabe e arabo-berbere della regione, accomunate dalla gestione autoritaria e repressiva del potere e dalla grave condizione socio-economica cui si trovano a far fronte. Bouazizi, ventiseienne disoccupato morto il 4 gennaio a causa delle ustioni, è divenuto un martire della “rivoluzione del gelsomino” ed un’icona di riferimento sia in Maghreb che nell’intero mondo arabo. Il rischio di contagio preoccupa i regimi dell’area, legittimati non certo dal consenso popolare ma dallo stato di polizia con cui da decenni sorvegliano popolazioni fino ad oggi rimaste asservite. I vari Bouteflika, Mubarak e perfino i loro sostenitori occidentali (USA e Francia), pur felicitando il popolo tunisino, si sentono più che mai minacciati dal pericolo che il seme rivoluzionario si espanda alle altre società della regione.

    Di seguito un articolo sullo stesso tema pubblicato dal quotidiano algerino El Watan il 16 gennaio 2011.

    I regimi arabi in stato di allerta

    La caduta del potente Zine El Abidine Ben Ali dopo ventitre anni di dominio assoluto, sotto le pressioni di una autentica rivolta di popolo, mette i regimi arabi in stato di allerta. Coscienti della loro ampia impopolarità, della loro illegittimità e del risentimento covato dalla popolazione, i dirigenti arabi cercano di premunirsi contro la diffusione di uno “scenario alla tunisina”.
    Pur precipitandosi a dichiarare il proprio sostegno al popolo tunisino in rivolta e ormai rivoluzionario, i regimi arabi si preparano fin da ora a neutralizzare un possibile contagio. “La rivoluzione tunisina è il primo sollevamento popolare di questo tipo che riesce a rovesciare un capo di stato in un regime arabo. Può essere una fonte di ispirazione per l’intera regione”, afferma Amir Hamzawi, ricercatore alla fondazione americana Carnegie Endowment. Secondo lui “gli ingredienti che si trovano in Tunisia sono infatti presenti in tutta l’area”. Le società arabe vivono tutte nelle stesse condizioni di quella tunisina: popoli asserviti, opposizioni represse, diritti negati, libertà confiscate, corruzione generalizzata e miseria diffusa.. Questa constatazione è valida per l’insieme dei regimi arabi. Dal Marocco all’Algeria, dall’Egitto alla Giordania, ritroviamo questi fattori “detonatori”. L’ingiustizia sociale e la chiusura dello spazio politico stanno generando disgusto, ripugnanza ed esasperazione.

    Similitudini
    Le società arabe, che si sentono in uno stato di totale abbandono, rischiano di riversare la loro rabbia per strada, nelle piazze, come hanno ben dimostrato i tunisini, vissuti sotto uno dei più duri regimi di polizia fin dal momento dell’indipendenza (1956). Ormai niente è impossibile. Quanto successo in Tunisia mostra che il cambiamento può venire dalle società stesse, che nessun dittatore può resistere alla volontà di un popolo unito in rivolta. “Speriamo che quanto accaduto in Tunisia possa ripetersi in altri paesi arabi, dove i dirigenti stanno arrugginendo ai loro posti di comando”, commenta il direttore di una televisione libanese. L’esperienza tunisina dimostra infatti che non c’è più bisogno di una democrazia esportata a colpi di bombardamenti e invasioni, all’americana, per liberare i popoli oppressi.

    Una straordinaria capacità di adattamento
    “L’eco di questo evento, senza precedenti nel mondo arabo, si farà sentire senza ombra di dubbio in più di un paese nella regione”, dichiarava il giornale libanese Annahar nell’editoriale pubblicato ieri. Alcuni egiziani si sono uniti, venerdì al Cairo, ad un gruppo di tunisini che stavano celebrando, di fronte alla loro ambasciata, la fuga del presidente Ben Ali, ed hanno chiesto a loro volta la partenza di Hosni Mubarak, al potere dal 1981. “Egiziani ascoltate i tunisini, ora è il vostro turno!”, erano gli slogan scanditi dai manifestanti.
    In Giordania migliaia di persone hanno manifestato in diverse città per protestare contro la crescita della disoccupazione e dell’inflazione, ma anche per invocare la fine del regime. In Algeria gli scontri sono cominciati ad inizio gennaio, dopo l’innalzamento dei prezzi dei prodotti di largo consumo. Ma anche se il messaggio proveniente dalla Tunisia è percepito in modo chiaro, il suo impatto a corto termine e i rischi di contagio restano difficili da valutare nell’immediato. I regimi autoritari arabi hanno dimostrato di avere una buona capacità di adattamento alle novità e ai venti di cambiamento. Alcuni esempi meritano di essere sottolineati. La rivolta algerina del 1988, assetata di diritti e di libertà, è stata dirottata ed ha permesso al sistema politico di rigenerarsi instaurando una democrazia di facciata. Anche in Siria la “primavera di Damasco” sbocciata nel 2000 è stata soffocata sul nascere. Diversamente dal regime di Ben Ali, estremamente totalitario e repressivo, in Algeria, in Marocco e in Egitto gli apparati di potere concedono piccole valvole di sfogo alla società civile e alle opposizioni. Altri invece, immersi nel petrolio come l’Arabia Saudita e la Libia, riescono a comprare il silenzio dei rispettivi popoli.
    Per Claire Spencer, a capo del programma Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto Chatam House (Londra), la possibilità che l’Algeria segua una evoluzione “alla tunisina” resta tuttavia un grande punto interrogativo. E’ evidente che la maggior parte dei regimi arabi siano sotto tensione di fronte all’eventualità di un contagio della rivoluzione tunisina. Ma è difficile dire con altrettanta certezza se un simile scenario possa riprodursi in altri paesi arabi. Quando si arriva alla rivolta di piazza, tutti gli scenari diventano possibili…perfino i più cupi.
    (Mokrane Ait Ouarabi)
    (r)umori dal Mediterraneo: La rivoluzione è contagiosa
    "Non abbiamo l'unione sociale ma solo quella economica e finanziaria. Finchè non capiamo questo, non capiremo perché i populisti hanno tanto successo!". Gabriele Zimmer
    Gratteri: "L'Ue è una prateria per le mafie"

  2. #2
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    Predefinito Rif: La rivoluzione è contagiosa

    ---comunque vadano le cose le rivoluzioni che stai attendendo non faranno migliori i popoli arabi; avranno sempre bisogno di un autocrate che li tenga in soggezione come stanno da sempre dopo la cacciata dalla Spagna nel XV sec.
    GLF

  3. #3
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    Predefinito Rif: La rivoluzione è contagiosa

    Citazione Originariamente Scritto da joseph Visualizza Messaggio
    ---comunque vadano le cose le rivoluzioni che stai attendendo non faranno migliori i popoli arabi; avranno sempre bisogno di un autocrate che li tenga in soggezione come stanno da sempre dopo la cacciata dalla Spagna nel XV sec.
    Sti gran cazzi, se non altro stanno dimostrando di avere più coglioni di noi. Già questo dovrebbe far rodere il culo agli italiani ma a quanto pare il barattolo di vasellina è senza fondo.

  4. #4
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    Predefinito Rif: La rivoluzione è contagiosa

    Sarà stata una strana coincidenza ma le rivelazioni ( scontate?) del sito Wikileaks hanno generato un’ondata a catena di sommosse popolari e tumulti di ogni genere in Nord Africa. In realtà non sono fatti nuovi ma forse quello che sta mettendo in allarme è l’ effetto domino delle rivolte. L’Egitto aveva fatto notizia con la rivolta del pane di qualche anno fa. Ed ora ritorna ad essere protagonista in quanto teatro dello scontro di civiltà e del conflitto religioso con l’attacco alla chiesa coopta di Alessandria che alcuni interpretano come un rivolta contro il governo ed il regime di Mubarak. Nel leggere le analisi della situazione politica in Egitto ci viene naturale il paragone con la situazione in Tunisia e in Algeria, al centro delle pagine di cronaca relative alla politica internazionale di questi giorni. Paesi che si ribellano al grido di “Kifaya” (Basta!). Sappiamo bene che la situazione è diversa da un paese all’altro. Ma c’è un filo conduttore che le unisce. La “hogra”. termine in arabo dialettale utilizzato nei vari paesi del Nord Africa che intende quel sentimento di umiliazione, frustrazione, rabbia e impotenza che deriva da un continuo sottostare all’ arroganza dei potenti, alle ingiustizie e soprusi delle forze dell’ordine e dei funzionari pubblici. Ma la “hogra” è più semplicemente quel sentimento che deriva dall’ ingiustizia sociale, dalla sperequazione economica e dalla repressione politica. E “mahgur” umiliato si è sentito Mohammad, il 26enne tunisino che il 17 dicembre scorso si è dato fuoco perché un poliziotto gli ha sequestrato il banchetto della frutta e verdura al mercato, incassando anche uno schiaffo per essersi ribellato al commissariato. L’ accadimento ha dato inizio agli scontri nel paese. La popolazione ne aveva abbastanza. Frustrata da una disoccupazione giovanile dilagante; da un regime di corruttela e clientelismi; da un controllo militare invasivo; da un impoverimento della popolazione dovuto anche ad un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità; ne aveva abbastanza soprattutto della mancanza di libertà. Il pane è diventato il simbolo della lotta. Una lotta che per questo è stata definita l’Intifada del pane e poi la rivolta del gelsomino, fiore simbolo del paese, quando i manifestanti hanno continuato la protesta in una maniera non violenta. Ad oggi però, il calcolo dei morti tra i manifestanti è di circa 80 persone. Il governo di Ben Ali dopo aver tentato di riesumare lo spettro del terrorismo; dopo aver tentato la via della negoziazione, promettendo di abbassare i prezzi del pane, dello zucchero e dell’olio; dopo aver detto di non voler ricandidarsi alle prossime elezioni del 2014; dopo aver puntato ad un governo di riconciliazione nazionale; dopo aver rimosso il Ministro dell’interno ed aver dato disposizioni alle forze dell’ordine di non sparare in alcun caso sulla folla; dopo aver promesso di garantire la libertà di stampa assoluta, la popolazione ha rifiutato il compromesso e al grido di “Dégage” si è visto costretto a scappare in Arabia Saudita, portando con sé tesori e ricchezze, lasciando al paese la libertà anche se nel caos totale. Ora si tenta di costituire un governo di transizione per arrivare alle elezioni anticipate da qui a sei mesi. Ma la popolazione è ancora per strada. L’esercito con il popolo contro la polizia da sempre fedelissima al regime. Si teme che ci possano essere sostenitori di Ben Ali a decidere le sorti di questa fase delicata. Nel frattempo le proteste nonostante la censura hanno invaso il cyberspazio. E’ sul web che si è scatenata una vera e propria cyber-guerra per raggirare i blocchi e i controlli della censura. Gli internauti, i blogger sono i veri protagonisti della dissidenza. Con un tam tam di video, foto, reportage amatoriali sui più frequentati social network. Questo mostra quanto oramai la diffusione di internet come mezzo di informazione faccia tremare anche i sistemi più intoccabili e i vecchi sovrani. Molti sono i blogger che ci danno notizie in tempo reale diffondendo foto e video, esprimendo un malessere, una condizione. E in musica come al cinema, la maggior parte degli artisti fanno della hogra la loro fonte di ispirazione. L’arresto del rapper tunisino El Général che nella sua canzone rais al bled aveva criticato il regime di Ben Ali ha globalizzato la protesta sociale, mobilitando anche la diaspora tunisina soprattutto europea. Ed infatti si teme anche questo. In Europa potrebbero esserci eco tra i migranti nel silenzio più assoluto dei nostri governanti. L’Italia e la Francia infatti tacciono imbrigliate nei meandri dell’ alta politica tra accordi commerciali ed economici e questione migratoria. Il quotidiano francese Le Monde sostiene che è la disoccupazione soprattutto giovanile ad avere provocato le sommosse della Tunisia intorno al 14% con 75% della popolazione che non raggiunge neanche i 30 anni. La Tunisia di Ben Ali ha investito nello sviluppo economico ,nelle riforme e nella democratizzazione del paese, riformando e andando in alcuni casi contro i dettami originari dell’Islam. La poligamia ad esempio in Tunisia è stata bandita. Ma il percorso di modernizzazione del paese non è bastato. E’ chiaro. Governi che pur avendo investito molto nell’istruzione non hanno saputo creare delle opportunità di lavoro per quelle migliaia di giovani diplomati, laureati, con diplomi di master e dottorati che non trovano alcun sbocco nel loro paese. Capita spesso di trovare un fruttivendolo con un dottorato in Geografia, un tassista con una laurea in giurisprudenza, e giovani donne delle pulizie con una laurea in economia piuttosto che in lingue straniere. Ma soprattutto si tratta di sistemi politici che non hanno saputo garantire al popolo un diritto inalienabile, la libertà. La repressione, la coercizione, la paranoia del controllo dei servizi segreti, in agguato ovunque ha portato la popolazione ad esplodere. Una popolazione di giovani senza futuro, senza opportunità che fa della hogra la sua condizione esistenziale. L’unica via di uscita rimane la fuga. Si scappa dal proprio paese e si diventa harraga (migranti, coloro che bruciano i documenti o le frontiere). In arabo classico haraqa significa bruciare ed il termine via usato nella lingua parlata per intendere all’abitudine che hanno i migranti, che tentano di raggiungere l’Europa in modo illegale, di bruciare i documenti durante il viaggio per non essere mandati indietro una volta intercettati ma si intende anche il fatto di “bruciare le frontiere”). La via illegale è l’unico modo per partire dato che quella legale è per pochi eletti. Ci sono due possibilità. Bruciare le frontiere e i documenti oppure scendere in strada e urlare “Kifaya”. Arab News , l’agenzia di stampa dell’Arabia Saudita sostiene che non bisogna pensare che i fatti tunisini siano isolati. Si tratta di una condizione che interessa anche altre regioni. In effetti è l’iniqua distribuzione delle risorse e la mancanza di libertà il problema. E non è una questione solo tunisina. L’effetto domino ha interessato anche l’ Algeria, l’Egitto, dove forse per emulazione un giovane si è dato fuoco. Il Governo libico, in modo preventivo, ha annunciato di detassare l’importazione dei beni di largo consumo per evitare il rialzo dei prezzi ed ha inoltre esortato le banche a concedere prestiti e mutui a tassi agevolati alle famiglie più povere. E il Marocco? Altra faccia della stessa medaglia. Periodicamente per le strade di Rabat ci sono manifestazioni di studenti laureati e dottori di ricerca che protestano contro le politiche insufficienti del governo per inserirli nel mondo del lavoro. Per far fronte alla situazione il governo di Rabat ha liberalizzato le licenze dei taxi in modo tale da dare opportunità ai giovani laureati di poter diventare tassista. Ma basterà? E intanto la “hogra” dilaga. Ma per trovare una situazione simile non dobbiamo attraversare il Mediterraneo. Le rivolte dei giovani nord africani ricordano le proteste studentesche dei mesi scorsi in Italia e le degenerazioni degli scontri a Roma del mese scorso. Rabbia e desiderio di riscatto sociale delle future generazioni di paesi europei sempre più vecchi unite da un destino simile a quelle di paesi nordafricani sempre più giovani. Disoccupazione, aumento dei prezzi dei generi alimentari di largo consumo, insofferenza verso i governanti. La “hogra” pervade tutti. Nord Africa? No, Italia. Cosa succederà ora? Staremo a vedere.
    La hogra infiamma il Nord Africa
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    Gratteri: "L'Ue è una prateria per le mafie"

 

 

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