Mercoledì 27 Maggio 2009 – 104 – Raffaele Ragni



Tra le tante possibili definizioni della parola sviluppo, accogliamo quella proposta da Gilbert Rist (1996, foto) secondo cui esso consiste in una serie di misure che, per assicurare la crescita del sistema economico, costringono a trasformare - cioè a distruggere - l’ambiente naturale ed i rapporti sociali preesistenti in vista di una produzione crescente di merci destinate, attraverso lo scambio, alla domanda solvibile. Più che un’ideologia, è una credenza - qualcosa in cui si crede, poiché tutti ci credono - tipica del nostro tempo, costantemente ravvivata dalle proiezioni degli esperti, che studiano la congiuntura per rassicurare gli operatori che tutto andrà bene. Un’errata previsione o il fallimento di un’iniziativa sono soltanto occasioni per rinnovare le promesse e dilazionare il risultato. Nulla scalfisce l’autorità degli sviluppisti perché la credenza, di cui sono i divulgatori, si è profondamente radicata nella collettività, dopo secoli di dogmatismo laico e progressista.
E’ un’idea tipicamente illuminista, ripresa dagli economisti classici, che tutti i popoli, partendo da uno stadio primitivo, debbano progredire verso la civiltà seguendo tutti lo stesso percorso, anche se alcuni detengono un indiscutibile vantaggio. Uno degli ultimi enciclopedisti - Marie Jean Antoine Caritat marchese di Condorcet (1794) - attribuisce agli europei la missione di rivelare agli altri popoli le verità utili alla felicità ed offrire loro i mezzi per conseguirla. Per Jean Baptiste Say (1828) lo stadio superiore nell’evoluzione sociale dell’umanità è caratterizzata dalla produzione industriale, che permette di soddisfare una grande varietà di bisogni, per cui le società inferiori, momentaneamente situate ai margini del progresso, dovranno adeguarsi al modello di civiltà rappresentato dalle nazioni industrializzate oppure saranno distrutte. L’idea che lo sviluppo rappresenti una fatalità è condivisa sia da Adam Smith (1776), secondo cui il progresso verso la prosperità è una necessità naturale conforme all’ordine delle cose, sia da Karl Marx (1867), per cui un Paese industrialmente avanzato mostra a quello più arretrato l’immagine del suo avvenire.
Viene attribuito al presidente Harry Spencer Truman - lo stesso che decise di sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki - il merito storico di aver introdotto, nel lessico dell’economia e della politica internazionale, la divisione del mondo tra Paesi sviluppati e sottosviluppati. Nel 1949, al celebre punto quarto del tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, egli indica il sistema liberalcapitalista come modello di riferimento per tutti i popoli della terra ed impegna gli Usa ad aiutare la crescita delle regioni economicamente arretrate. Inizia così l’era dello sviluppo.
I primi tre punti del discorso di Truman riguardavano i capisaldi del neoimperialismo americano: il sostegno all’Onu, la ricostruzione dell’Europa mediante il piano Marshall, l’imminente costituzione della Nato. Il punto quarto, coerente con i primi tre, propugnava sostanzialmente di estendere al mondo intero la politica di aiuti fino ad allora elargiti a certi Paesi dell’America Latina. Truman non inventò nulla. La nuova concezione dello sviluppo, sintetizzata nella locuzione international development of economically backward areas, era stata delineata da Paul Rosenstein-Rodan nel 1944 ed aveva già trovato espressione, nel dicembre 1948, in due risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu. Invece il termine undeveloped areas pare sia stato utilizzato per la prima volta nel 1942 da Wilfred Benson, un funzionario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Il ruolo del presidente americano fu quello di ufficializzare un lessico ed un progetto epocali, conformi al ruolo internazionale che gli Stati Uniti avevano assunto dopo la seconda guerra mondiale. Gli Usa avevano interesse a smantellare gli imperi europei per avere libero accesso a nuovi mercati. La decolonizzazione fu il prezzo imposto agli alleati per l’intervento contro il fascismo e per l’impegno militare contro il comunismo.
La dicotomia tra sviluppati e sottosviluppati elimina ogni differenza relativa alla natura dei popoli ed alla capacità di conseguire determinati risultati economici. I Paesi sottosviluppati possono eguagliare in tempi brevi i livelli di crescita di tutti gli indicatori di benessere tipici dei Paesi sviluppati (PIL, reddito pro-capite, occupazione, investimenti) a condizione che accettino un ruolo ben preciso nell’economia globale. Nell’era dell’imperialismo il verbo sviluppare è intransitivo: i popoli si sviluppano, più o meno rapidamente, a seconda della razza. Dopo la seconda guerra mondiale diventa transitivo. La parola sviluppo comincia ad indicare una serie di obiettivi da programmare ed azioni da attuare. L’aiuto tecnologico e finanziario delle organizzazioni internazionali, o degli operatori economici dei sistemi industrialmente avanzati, sviluppa le aree del mercato mondiale più o meno arretrate. Al contrario, il sottosviluppo è una condizione definita dalla mancanza di iniziative che producono ricchezza. Non è l’inverso dello sviluppo, ma è soltanto il suo stato embrionale. Per eliminarlo basta accelerare la crescita.
Così i poveri e gli oppressi cambiano nome. Da colonizzati diventano sottosviluppati. Dal canto loro i colonizzatori smettono di portare civiltà - concetto obsoleto dai contenuti razzisti, comunque vago e discutibile - e cominciano a promuovere sviluppo - ideale umanitario e universale, sempre quantificabile con esattezza mediante strumenti econometrici. Secondo la teoria degli stadi dello sviluppo, elaborata dall’economista americano Walt Whitman Rostow (1960), la crescita economica di qualunque nazione avviene per tappe secondo una progressione geometrica, paragonabile al meccanismo dell’interesse composto. Distrutti i vincoli tradizionali, tutte le società seguono lo stesso percorso, dal decollo (take-off) alla generalizzazione del consumo di massa. Il comunismo è considerata una malattia che può colpire la società, in una fase di transizione, se non riesce ad organizzare efficacemente le forze produttive che conducono alla modernizzazione.
La teoria degli stadi dello sviluppo era funzionale all’ingerenza occidentale nella politica economica dei Paesi di nuova indipendenza e, al tempo stesso, legittimava il confronto armato col blocco comunista. Ma sul piano scientifico non aveva alcunché di originale. Rostow si limitò ad estendere su scala mondiale il modello di analisi che l’economista russo Alexander Gerschenkron, nella prima metà del XX secolo, aveva applicato alla storia economica dell’Europa occidentale e del Nord America. La metafora del take-off, fatta propria da Rostow, era stata inventata da Rosenstein-Rodan, lo stesso che aveva ispirato a Truman la divisione del mondo tra Paesi sviluppati e sottosviluppati. Infatti, nel 1957, Paul Rosenstein-Rodan aveva scritto: “Lanciare un Paese nella crescita autosostenuta è come far decollare un aeroplano dal suolo. C’è una velocità critica al suolo che deve essere superata prima che la macchina voli”.
Negli anni dell’ottimismo, cioè nel ventennio immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, la soluzione al problema sottosviluppo appare semplice: investire in infrastrutture, agricoltura di esportazione, industria pesante e leggera. In mancanza di risparmio locale, le risorse finanziarie devono giungere dai Paesi ricchi. Una dose massiccia di investimenti, settorialmente e geograficamente concentrati, serve da leva per consentire il decollo. L’efficacia dell’iniziativa esterna, purché sostenuta da fattori endogeni, appare comprovata dalla rapidità della crescita europea sotto la spinta dal piano Marshall. E’ questa la teoria del big push, elaborata da Paul Rosenstein-Rodan (1944) e successivamente ampliata da Albert Hirschmann (1957). Entrambi docenti universitari, il primo è funzionario della Banca Mondiale, il secondo della Federal Reserve. Come auspicato dal pensiero economico sviluppista, cominciano ad affluire verso i Paesi poveri i crediti bancari per finanziare l’acquisto dai Paesi ricchi di impianti industriali, funzionanti ma obsoleti, che in molti casi richiedono spese di manutenzione fino al 20% del costo iniziale.
Le nazioni industrialmente arretrate, secondo il paradigma della modernizzazione per stadi temporali, possono ormai definirsi Paesi in via di sviluppo (PVS). Nel corso degli anni, per classificare i diversi gradi di sviluppo, sono subentrate altre definizioni. Nel 1952 l’economista e demografo francese Alfred Sauvy, per analogia con la condizione di povertà del Terzo Stato durante l’ancien régime, conia l’espressione Terzo Mondo per identificare Africa, Asia ed America Latina. Scomparso il secondo dei tre mondi, cioè il blocco socialista, sono rimasti il primo ed il terzo, che, a partire dal Rapporto Brandt del 1980, hanno cominciato ed essere denominati rispettivamente Nord e Sud. La ripartizione più articolata è quella adottata dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) che distingue quattro blocchi. Il primo mondo comprende Paesi che, oltre ad avere una grande capacità produttiva e tecnologica, sono ricchi di materie prime (Canada, Usa, Russia, Australia). Il secondo mondo include Paesi industrialmente avanzati ma privi di materie prime (Europa, Giappone, Corea del Sud Taiwan, Hong Kong, Singapore). Il terzo mondo comprende Paesi esportatori di materie prime agricole e minerarie, alcuni anche dotati di una certa forza industriale (es. Brasile, Messico, Venezuela, Iraq, Iran, India, Cina). Il quarto mondo include il resto dei Paesi, soprattutto africani, che non hanno né industrie né materie prime e vengono comunemente definiti meno avanzati.
In base al criterio che identifica il benessere con la produzione, senza tenere alcun conto di come la ricchezza venga distribuita tra la popolazione, la Banca Mondiale classifica gli Stati in quattro fasce secondo il reddito pro-capite. Trattasi di un dato statisticamente inattendibile perché, oltre ad essere una media - e come tale incapace di descrivere la condizione di un Paese nella sua complessità - ignora due realtà molto diffuse nel terzo e quarto mondo: l’economia non monetaria e l’economia sommersa. La prima si riferisce al lavoro dei contadini che producono per l’autoconsumo. La seconda comprende piccole attività artigianali e commerciali che la gente improvvisa per sopravvivere.
Nell’ultima fascia, che coincide con la maggior parte dei Paesi del quarto mondo, si distinguono poi coloro che vivono nella povertà assoluta, il cui reddito pro-capite è circa la metà di quello che identifica la fascia. L’indigenza diffusa nei Paesi avanzati viene invece denominata povertà relativa, perché riferita, non al reddito, ma ad una spesa media inferiore del 50% alla spesa media pro-capite del Paese.
Infine il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) classifica gli Stati non in base al reddito pro-capite, criterio adottato dalla Banca Mondiale, ma secondo un indice definito Indice di Sviluppo Umano (ISU) che contempla la durata media della vita, il livello medio di istruzione, il reddito familiare medio.
Nel corso degli anni l’estensione del sottosviluppo svuota lo sviluppo della sua potenza suggestiva. Dopo un periodo di sviluppo senza attributi, la credenza riceve successive ridefinizioni. Alcune sembrano esprimere contenuti rivoluzionari, ma le prospettive di liberazione sono adombrate, e talvolta soffocate, dal tentativo di ricondurre idee e progetti alla logica perversa dell’economia di mercato.