Origine delle razze umane.Speciazione quantica e paleontologia delle sottospecie umane
Di Gianantonio Valli - Numero 16 del 01/11/1993
Premesse metodologiche - Le specie e i gruppi intraspecifici - L'evoluzione per equilibri intermittenti - La speciazione quantica e l'uomo - Le razze fossili dell'uomo.
Premesse metodologiche
Problema tra i più controversi del nostro secolo, la questione dell'esistenza o meno di sottodivisioni sostanziali della specie umana, chiamate spesso impropriamente «razze», costituisce tuttora motivo di scontro ideologico e politico.
Tralasciando una qualsiasi speculazione propriamente storica del divenire umano, ci proponiamo con questa ricerca di porre punti fermi per l'indagine dell'annoso problema da un punto di vista meramente biologico (e più esatta mente delle radici biologiche) sulla base delle conoscenze scientifiche più recenti, e di riconoscere se sia lecita o meno, e che limiti abbia, la fondazione di una teoria e di una prassi politica basata sul dato biologico quanto più possibile esatto e senza interferenze di natura ideologica.
Non vogliamo qui perciò neppure accennare alla questione della «superiorità» o meno di un gruppo o dell'altro, dato che dal punto di vista biologico il criterio di superiorità è costituito dalla pura e semplice sopravvivenza ed espansione, comunque ottenuta, del patrimonio genico del gruppo (1).
Il paradosso che ogni studioso del problema razziale deve in primo luogo affrontare consiste nel fatto che mentre da un lato risulta evidente che le diverse popolazioni umane possono differire nell'aspetto fisico e comportamentale in modo anche radicale, dall'altro la linea di demarcazione fra tipo e tipo è spesso graduale ed indistinta, con la persistenza di un'ampia base genetica comune a tutte le divisioni infraspecifiche dell'uomo.
Inoltre le differenze fra gli individui di uno stesso gruppo sono spesso così rilevanti da rendere difficile una generalizzazione, se non per media statistica, cosa che possiede sempre una validità per il gruppo globalmente inteso e molto meno per l'individuo.
In effetti nessuna altra specie, al di fuori del cane e di altri pochi animali che l'uomo stesso ha addomesticato, presenta variazioni così macroscopiche di conformazione, statura, colore, atteggiamento psichico.
Così ogni persona di senno riconosce oggi che le differenze fisiche immediatamente percepibili nelle varie popolazioni umane possono raggiungere gradi anche estremi, e allo stesso modo ogni studioso è al corrente dell'esistenza di differenze fisiologiche anche notevoli (2). Al contempo viene però dai più negato che possano anche lontanamente esistere differenze di gruppo di origine intellettuale, culturale, morale, di carattere e di inclinazioni, di valori insomma, che siano geneticamente determinate, come geneticamente determinate sono le più immediatamente valutabili differenze di ordine fisico-strutturale. Altri, al contrario, agganciano i differenti comportamenti umani, con le loro motivazioni più o meno complesse, al carro del puro e semplice determinismo biologico, misconoscendo o volutamente sottacendo le influenze ambientali, in ispecie storiche e culturali, che pure sono parte non piccola dell'agire dell'uomo, unico essere vivente che non subisce soltanto, ma trasforma l'ambiente e la propria condizione storica mediante autocoscienza e volontà.
Fra tali concezioni di quello che si può per semplicità e un poco impropriamente chiamare «problema razziale», si dà quasi sempre un contrasto insanabile, con attuale prevalenza dei sostenitori delle influenze ambientalistiche, i quali d'altra parte, in palese contraddizione con la loro ideologia democraticamente «aperta», non esitano ad intralciare con ogni mezzo, dalla cortina di silenzio presto calata intorno alle interpretazioni non conformistiche e dal pratico linciaggio intellettuale fino all'aggressione fisica, la speculazione non diciamo di opposti irriducibili avversari, ma di chi, preso da ragionevoli dubbi sulla bontà delle suddette tesi, si va accorgendo che alla base di determinati comportamenti di gruppo non esiste soltanto e soprattutto il divenire storico e sociale, ma la biologia (3).
Quanto ad identificare con esattezza le dimensioni qualitative dei gruppi umani (sottospecie, razze, etnie, financo impropriamente nazioni storiche e gruppi religiosi) coinvolti nella questione «razziale» o a percentualizzare la misura di quanto sia dovuto all'ambiente e quanto alla costituzione genetica di gruppo, noi riteniamo che questo sia cosa di difficile e per ora non possibile attuazione, anche se un avvio mediante speculazione scientifica sta verificandosi in questi anni con le nuove acquisizioni della sociobiologia.
Noi riteniamo inoltre che tale impresa potrà essere in futuro sempre più difficile, visto l'attuale diffondersi per l'intero globo dell'ideologia occidentale, indifferenziata e livellatrice, dotata di pseudovalori che lentamente e subdolamente vanno sgretolando le specifiche culture dei diversi raggruppamenti umani (4), e che fornisce oltretutto ad entità statali da non molto resesi indipendenti fra infiniti osanna progressisti, micidiali strumenti bellici con cui intraprendere stermini di massa e genocidi (5); e visto pure il progressivo ampliamento del meticciato dei patrimoni genici con l'ipotesi di una graduale, ancorché lontana, sparizione delle peculiari caratteristiche fisiche e mentali delle diverse etnie, razze e perfino sottospecie, con la eccezione di insignificanti gruppi periferici destinati a configurarsi in un patetico folklore da riserva per le masse «moderne» in cerca di giustificativi per le loro coscienze.
In realtà tutti i tentativi, peraltro non numerosi, finora scientificamente compiuti per separare i caratteri genetici dai caratteri non genetici, hanno avuto scarso e controverso successo: non esiste finora una sola caratteristica mentale e psichica per la quale sia stata quantitativamente stabilita con metodi scientifici una significativa differenza «razziale», nonostante sia indubbio che tali differenze esistano (6).
Almeno fino ad oggi risulta infatti difficile e sempre contestabile misurare l'intelligenza innata di un essere umano, senza misurare al contempo in qualche modo le opportunità che ha avuto e lo sfondo culturale che gli è toccato, mentre risulta invece del tutto ovvia l'attribuzione ai diversi tipi umani di un tipo di intelligenza (verbale, matematica, spaziale, ecc.) piuttosto che di un altro (7).
E d'altra parte, ai fini speculativi che ci poniamo, non ci sentiamo certo di privilegiare l'aspetto «intelligenza», in parte numericamente quantificabile, rispetto ad altre caratteristiche più sfuggenti, ma forse più essenziali per la sopravvivenza e l'espansione, fisica e spirituale, dell'animale uomo, quali ad esempio la volontà, il coraggio, l'inventività, l'immaginazione, la coerenza responsabile, il senso morale, la solidarietà di gruppo, aspetti tutti comunque meglio indagabili mediante lo studio della storia, naturale ed umana, piuttosto che con l'applicazione di esatte metodiche scientifiche, sempre settoriali e che mai riusciranno a conferire ad un gruppo la sua fisionomia sostanziale. Per questa nostra posizione ci sentiamo dunque in dovere di rigettare in toto il fanatismo ideologico totalizzante delle posizioni ambientalistiche, che negano pretestuosamente e ferocemente il diritto di speculazione e di parola alle opposte tesi, e che con il continuo celare e minimizzare la base biologica per assolutizzare l'influsso ambientale e culturale sulle azioni umane (come se la cultura non fosse anch'essa soprattutto un portato genetico), hanno da sempre provocato, a causa della menzogna loro intrinseca, danni infinitamente più grandi e duraturi delle opposte tesi genetiche.
I geni, come è stato autorevolmente fatto notare da E.O. Wilson, tengono la cultura al guinzaglio, permettendole sì escursioni in ogni direzione, ma in un àmbito pur sempre limitato. Quando sappiamo che il guinzaglio esiste, è possi bile prendere decisioni più sagge riguardo agli elementi della natura umana degni di essere coltivati, a quelli di cui si può gioire apertamente senza artificiosi sensi di colpa, a quelli da maneggiare con precauzione.
Con similare linguaggio, espresso in altra forma, continua Ardrey: «Se usiamo la nostra intelligenza in tutte le sue migliori possibilità, ci accorgiamo che l'animo non ha alcuna sovranità. Alleato dell'istinto, il giudizio può operare. In conflitto con l'istinto il pensiero umano si degrada a velleità».
Noi diciamo inoltre che è frutto solo di stolida presunzione, quando non di particolare interesse personale o di conformismo intellettuale, il voler relegare in secondo piano l'aspetto genetico, soltanto perché difficilmente quantizzabile con metodo scientifico; e che sarebbe veramente strano che l'animale uomo, pur dotato di autocoscienza e volontà, fosse un qualcosa di unico e svincolato dal mondo organico, nel senso che soltanto le caratteristiche morfologiche sarebbero controllate dai geni, mentre tutti gli altri aspetti della psiche e del carattere sarebbero dovuti al condizionamento ambientale o ad altri fattori non genetici.
Riteniamo infine che l'uomo degli anni Duemila, prima di ogni eventuale discorso ideologico, religioso o sociopolitico, intuitivo o razionale che sia, debba ormai tenere per indispensabile, quale base per un ragionamento fondato e non mitico, l'acquisizione di dati scientifici ragionevolmente sicuri, e ciò tanto più alla luce di conoscenze e riscontri affermatisi negli ultimi anni e provenienti in gran parte dalla documentazione fossile.
Il discorso non dovrà poi vertere tanto sulle evidenti differenze attuali o su indagini e test di laboratorio, quanto considerare piuttosto l'evoluzione storico-biologica dei diversi raggruppamenti umani, avendo sempre presente, e questo non sarà mai sottolineato a sufficienza, che l'evoluzione espressasi sulla Terra fino all'uomo attuale non è cronaca né dato di laboratorio, bensì storia, vale a dire fatto dato per sempre; e che l'intima comprensione della dimensione temporale della questione è cardine fondamentale per l'impostazione dell'intero problema.
Riprendendo l'insegnamento vichiano, ricordiamo brevemente a proposito del primo punto che «sapere è possedere l'origine di una cosa, cioè il modo e la forma con cui è fatta», per cui criterio del vero risulta essere soltanto la sua effettuazione, e la conoscenza vera e profonda della natura e della sua storia è possibile soltanto a chi l'abbia fatta; l'uomo, nella sua esperienza, non può averne che una conoscenza «da imagine in superficie» (8).
Ogni invenzione concretizza sempre infatti un'idea, o progetto, o piano: quello che accade nell'invenzione biologica, l'uomo lo ignora quasi totalmente. La nozione di tale progetto non può essere sottoposta alla esperienza umana.
Sapienza vera risulta perciò alla fine essere per l'uomo non la scienza, ma lo studio della storia, sereno e freddo, e studio, più che della storia naturale (di cui mancheranno in eterno le coordinate precise, e di cui l'uomo non conoscerà mai la genesi profonda), delle «res gestae», compiute da lui stesso, in quanto attività sua propria e dei suoi padri lontani. Ogni discorso biologico, peraltro supporto indispensabile per l'uomo di oggi, risulterà perciò necessariamente per sempre frammentario.
Nonostante tutto questo, e anzi proprio per questa consapevolezza, dobbiamo poi riconoscere l'insufficienza delle nostre categorie mentali, e che la storia umana non è principalmente prodotto di una coscienza svincolata e con chiusa in un pensiero autonomo, ma che sotto di essa, come i nove decimi dell'iceberg, persiste e pulsa la realtà biologica espressa nel DNA e storicamente determinata dalle influenze innumeri del cosmo in esso per sempre fissate.
Occorre in secondo luogo prendere coscienza che, a prescindere dalla carenza e dalla talora voluta omissione di dati biologici e paleobiologici, la scarsa comprensione della vastità del tempo geologico ha finora spesso inficiato la ricerca speculativa, e che spesso per la decifrazione di eventi lontani è stato fatto unico riferimento al tempo attuale, con l'illusione che i diversi fenomeni paleobiologici fossero studiabili e riproducibili «scientificamente» in laboratorio o nel mondo naturale di oggi.
È d'obbligo perciò il riferimento a tempi tanto lunghi da divenire talora incongrui alla mente umana, alle centinaia di migliaia, ai miliardi di anni che hanno dilatato enormemente lo spazio ed il tempo nei quali l'evoluzione ha operato sulla Terra, in maniera discontinua, ma progressiva per quanto concerne la complicazione e l'aumento dello psichismo (e cioè la ricezione e l'elaborazione della informazione ambientale) degli organismi fino a giungere, casualmente, all'uomo attuale (9).
La specie ed i gruppi intraspecifici
Basilare per l'inizio del nostro discorso è la puntualizzazione dei concetti di specie, di speciazione e di razza.
Accanto alla concezione tipologica e statica dei tassonomisti che studiano le specie attualmente viventi, dobbiamo sempre avere presente, per i fini che ci proponiamo, il concetto di specie inteso in senso operativo e dinamico, o crono specie, per cui, soprattutto alla luce di una nuova teoria dell'evoluzione, ci sarà di molto facilitata la comprensione dei mutamenti di tali raggruppamenti, invarianti solo se visti con ottica attualista.
Definiamo come specie non solo raggruppamenti di individui morfologicamente simili, bensì comunità riproduttive i cui membri si riconoscono e si ricercano l'un l'altro come potenziali compagni sessuali, con nascita di prole fertile dalla loro unione (10).
La specie risulta perciò essere un'unità ecologica che interagisce come tale con le altre unità insieme alle quali vive nel medesimo ambiente, ed un'unità genetica consistente in un patrimonio genico intercomunicante, essendo l'individuo soltanto un temporaneo recipiente che trattiene per breve tempo una piccola porzione del portato genico del gruppo (11).
Per giudicare invece se due individui fossili appartengono o no alla stessa specie, è evidentemente impossibile il ricorso al criterio riproduttivo, visto che i reperti fossili non sono più forme dinamiche. Occorre in questo caso valutare attentamente tutte le differenze morfologiche riscontrabili, con successivo studio induttivo, parallelo e prudente, dell'habitat in cui sono stati reperiti i fossili, dalla datazione temporale, dei confronti con organismi similari attualmente viventi. Le forme fossili che differiscono in aspetto circa quanto differiscono le razze di oggi, sono definite razze; quelle che differiscono quanto le specie attuali, sono dette specie.
Gli zoologi ed i paleontologi, oltre a basare i loro giudizi su tutti i caratteri che sono in grado di identificare e misurare (caratteri che considerati nell'insieme conferiscono all'individuo la sua natura quanto più essenziale) devono quindi operare quasi sotto forma di artisti-scienziati, poiché, come afferma Coon, «la determinazione delle specie non può essere fatta mettendo delle schede in una macchina calcolatrice. In un certo senso è un'arte, praticata da uomini esperti che sanno, avanti tutto, come le specie si sono formate».
Divisione tassonomica immediatamente inferiore alla specie è la sottospecie, popolazione regionale di una specie politipica che si distingue dalle popolazioni sorelle per occupare un territorio geografico distinto e pressoché isolato, e che pur essendo legata alle altre dal criterio della riproduttività fertile, è tuttavia dotata di differenze morfologiche e fisiologiche considerevoli.
In persistenza di un isolamento territoriale completo, la sottospecie assume i caratteri di una specie in potenza, può cioè col tempo dare origine a nuove specie, alla fine anche molto diverse da quella originaria. Nell'àmbito di tali popolazioni inoltre, a causa di meccanismi di varia natura, possono instaurarsi singoli complessi di geni per cui determinati sottogruppi vengono a differenziarsi da altri della medesima sottospecie.
A tali gruppi, e solo ad essi, riteniamo corretto attribuire il termine di razza (12), vocabolo che in passato è impropriamente servito, e tuttora impropriamente serve, per designare le sottospecie umane, o addirittura al contrario etnie, popolazioni nazionali e gruppi religiosi. Definizione di tipo esclusivamente empirico, la razza, come la sua sottodivisione etnia, si basa su particolari caratteri morfologici, anatomici, genetici, psicologici, presenti nella massima parte degli individui del gruppo. La mancanza di criteri codificati scientificamente rende quindi ragione delle diversissime classificazioni delle razze umane da sempre operate dai vari studiosi (13).
L'evoluzione per equilibri intermittenti
Non è certo questa la sede per una disamina delle diverse teorie evoluzionistiche (selettive, istruttive, neutraliste, organiciste, vitaliste) (14) e neppure per una discussione sulla validità o meno delle opposte concezioni antievoluzionistiche e fissiste (15).
Ci limitiamo perciò a ricordare soltanto che la teoria formulata per la prima volta nel 1859 da Darwin tiene tuttora il campo, con gli aggiornamenti legati all'acquisizione di nuove conoscenze, fra la maggior parte degli studiosi di cose biologiche e configura, a livello di opinione pubblica e presso i non specialisti di media cultura, la teoria evolutiva tout court.
In realtà la dottrina darwiniana dell'evoluzione corrisponde oggi, come è stato autorevolmente rilevato, a ciò che più si avvicina ad un laico «principio di fede». Mentre infatti l'evoluzione come fatto non è praticamente più in discussione, tutto è ancora aperto per quanto riguarda l'interpretazione del fatto, a dispetto di una certa ortodossia neo-darwiniana che tende a confondere i due ordini di cose (16).
Se cento anni fa era più che comprensibile la formulazione della teoria darwiniana in quei termini ed in quei limiti che appaiono oggi sempre più evidenti, riteniamo che oggi si debba compiere un ulteriore passo avanti, visto che l'azione della massima forza modulatrice - la selezione naturale gradualistica - oltre ad ammettere un numero infinito di casi fortuiti, che non avrebbero mai potuto verificarsi per mancanza di tempo e di un numero di generazioni sufficientemente elevato, è pressoché totalmente negativa e comporta in primo luogo la morte (17).
Pur in carenza di approfondite nozioni genetiche, di una scala temporale sufficientemente lunga, e soprattutto di testimonianze fossili sufficientemente numerose, Darwin mise infatti l'accento, ai fini dell'evoluzione delle specie, soprattutto sulla selezione naturale operante in maniera estremamente graduale sull'intera specie nel corso di lunghissimi periodi di tempo.
Ma mentre il concetto di evoluzione organica veniva rapidamente e largamente accettato dal mondo scientifico dell'epoca, la stessa cosa non poteva dirsi per l'importanza attribuita al meccanismo della selezione naturale, ritenuto dai più insufficiente a produrre mutamenti di tale portata, e in ogni caso da porre in netto subordine al mutamento interno degli organismi viventi.
Inoltre se la selezione fosse stata il primum movens, ciò voleva dire che gli organismi più bassi, da cui si sarebbero originati tutti i successivi, dovevano contenere in sé da sempre tutte le potenzialità evolutive successive (in termini moderni diremmo che il primo essere vivente doveva contenere in sé geni bastanti a generare le flore e le faune passate, presenti e future).
La selezione darwiniana e neo-darwiniana può infatti svolgere soltanto compiti di conservazione, o di estinzione, e non di innovazione.
Ciò si vide a maggior ragione dopo la riscoperta degli studi genetici di Mendel, compiuta separatamente nel 1900 da De Vries, von Tschermak e Correns.
La mutazione, come fu chiamata la causa intrinseca del cambiamento, entrava ora a pieno diritto, come prima forza agente, nella teoria evoluzionistica dominante. La mutazione (i cui meccanismi intimi iniziano ad essere conosciuti solo oggi con i più recenti studi del citoplasma, del corredo cromosomico, dei geni «regolatori» e di altre possibilità della cellula vivente prima neppure sospettate e che fanno vacillare ipotesi, teorie, certezze e dogmi espressi anche solo pochi anni or sono (18), allargava infatti continuamente l'àmbito della variabilità delle popolazioni, molto prima che queste fossero messe alla prova dalla selezione naturale, alla quale veniva negata quella fondamentale importanza plasmatrice riconosciutale da Darwin.
La mutazione, intesa allora come macromutazione o mutazione discontinua di grande effetto, poteva poi anche spiegare in modo più soddisfacente i cambiamenti avvenuti nei viventi nel breve lasso di tempo dell'esistenza della Terra (venti-quaranta milioni di anni al massimo, secondo i calcoli di lord Kelvin e di altri fisici).