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    Post Origine delle razze umane. Speciazione quantica e paleontologia delle sottospecie uma

    Origine delle razze umane.Speciazione quantica e paleontologia delle sottospecie umane

    Di Gianantonio Valli - Numero 16 del 01/11/1993

    Premesse metodologiche - Le specie e i gruppi intraspecifici - L'evoluzione per equilibri intermittenti - La speciazione quantica e l'uomo - Le razze fossili dell'uomo.

    Premesse metodologiche

    Problema tra i più controversi del nostro secolo, la questione dell'esistenza o meno di sottodivisioni sostanziali della specie umana, chiamate spesso impropriamente «razze», costituisce tuttora motivo di scontro ideologico e politico.

    Tralasciando una qualsiasi speculazione propriamente storica del divenire umano, ci proponiamo con questa ricerca di porre punti fermi per l'indagine dell'annoso problema da un punto di vista meramente biologico (e più esatta mente delle radici biologiche) sulla base delle conoscenze scientifiche più recenti, e di riconoscere se sia lecita o meno, e che limiti abbia, la fondazione di una teoria e di una prassi politica basata sul dato biologico quanto più possibile esatto e senza interferenze di natura ideologica.

    Non vogliamo qui perciò neppure accennare alla questione della «superiorità» o meno di un gruppo o dell'altro, dato che dal punto di vista biologico il criterio di superiorità è costituito dalla pura e semplice sopravvivenza ed espansione, comunque ottenuta, del patrimonio genico del gruppo (1).

    Il paradosso che ogni studioso del problema razziale deve in primo luogo affrontare consiste nel fatto che mentre da un lato risulta evidente che le diverse popolazioni umane possono differire nell'aspetto fisico e comportamentale in modo anche radicale, dall'altro la linea di demarcazione fra tipo e tipo è spesso graduale ed indistinta, con la persistenza di un'ampia base genetica comune a tutte le divisioni infraspecifiche dell'uomo.

    Inoltre le differenze fra gli individui di uno stesso gruppo sono spesso così rilevanti da rendere difficile una generalizzazione, se non per media statistica, cosa che possiede sempre una validità per il gruppo globalmente inteso e molto meno per l'individuo.

    In effetti nessuna altra specie, al di fuori del cane e di altri pochi animali che l'uomo stesso ha addomesticato, presenta variazioni così macroscopiche di conformazione, statura, colore, atteggiamento psichico.

    Così ogni persona di senno riconosce oggi che le differenze fisiche immediatamente percepibili nelle varie popolazioni umane possono raggiungere gradi anche estremi, e allo stesso modo ogni studioso è al corrente dell'esistenza di differenze fisiologiche anche notevoli (2). Al contempo viene però dai più negato che possano anche lontanamente esistere differenze di gruppo di origine intellettuale, culturale, morale, di carattere e di inclinazioni, di valori insomma, che siano geneticamente determinate, come geneticamente determinate sono le più immediatamente valutabili differenze di ordine fisico-strutturale. Altri, al contrario, agganciano i differenti comportamenti umani, con le loro motivazioni più o meno complesse, al carro del puro e semplice determinismo biologico, misconoscendo o volutamente sottacendo le influenze ambientali, in ispecie storiche e culturali, che pure sono parte non piccola dell'agire dell'uomo, unico essere vivente che non subisce soltanto, ma trasforma l'ambiente e la propria condizione storica mediante autocoscienza e volontà.

    Fra tali concezioni di quello che si può per semplicità e un poco impropriamente chiamare «problema razziale», si dà quasi sempre un contrasto insanabile, con attuale prevalenza dei sostenitori delle influenze ambientalistiche, i quali d'altra parte, in palese contraddizione con la loro ideologia democraticamente «aperta», non esitano ad intralciare con ogni mezzo, dalla cortina di silenzio presto calata intorno alle interpretazioni non conformistiche e dal pratico linciaggio intellettuale fino all'aggressione fisica, la speculazione non diciamo di opposti irriducibili avversari, ma di chi, preso da ragionevoli dubbi sulla bontà delle suddette tesi, si va accorgendo che alla base di determinati comportamenti di gruppo non esiste soltanto e soprattutto il divenire storico e sociale, ma la biologia (3).

    Quanto ad identificare con esattezza le dimensioni qualitative dei gruppi umani (sottospecie, razze, etnie, financo impropriamente nazioni storiche e gruppi religiosi) coinvolti nella questione «razziale» o a percentualizzare la misura di quanto sia dovuto all'ambiente e quanto alla costituzione genetica di gruppo, noi riteniamo che questo sia cosa di difficile e per ora non possibile attuazione, anche se un avvio mediante speculazione scientifica sta verificandosi in questi anni con le nuove acquisizioni della sociobiologia.

    Noi riteniamo inoltre che tale impresa potrà essere in futuro sempre più difficile, visto l'attuale diffondersi per l'intero globo dell'ideologia occidentale, indifferenziata e livellatrice, dotata di pseudovalori che lentamente e subdolamente vanno sgretolando le specifiche culture dei diversi raggruppamenti umani (4), e che fornisce oltretutto ad entità statali da non molto resesi indipendenti fra infiniti osanna progressisti, micidiali strumenti bellici con cui intraprendere stermini di massa e genocidi (5); e visto pure il progressivo ampliamento del meticciato dei patrimoni genici con l'ipotesi di una graduale, ancorché lontana, sparizione delle peculiari caratteristiche fisiche e mentali delle diverse etnie, razze e perfino sottospecie, con la eccezione di insignificanti gruppi periferici destinati a configurarsi in un patetico folklore da riserva per le masse «moderne» in cerca di giustificativi per le loro coscienze.

    In realtà tutti i tentativi, peraltro non numerosi, finora scientificamente compiuti per separare i caratteri genetici dai caratteri non genetici, hanno avuto scarso e controverso successo: non esiste finora una sola caratteristica mentale e psichica per la quale sia stata quantitativamente stabilita con metodi scientifici una significativa differenza «razziale», nonostante sia indubbio che tali differenze esistano (6).

    Almeno fino ad oggi risulta infatti difficile e sempre contestabile misurare l'intelligenza innata di un essere umano, senza misurare al contempo in qualche modo le opportunità che ha avuto e lo sfondo culturale che gli è toccato, mentre risulta invece del tutto ovvia l'attribuzione ai diversi tipi umani di un tipo di intelligenza (verbale, matematica, spaziale, ecc.) piuttosto che di un altro (7).

    E d'altra parte, ai fini speculativi che ci poniamo, non ci sentiamo certo di privilegiare l'aspetto «intelligenza», in parte numericamente quantificabile, rispetto ad altre caratteristiche più sfuggenti, ma forse più essenziali per la sopravvivenza e l'espansione, fisica e spirituale, dell'animale uomo, quali ad esempio la volontà, il coraggio, l'inventività, l'immaginazione, la coerenza responsabile, il senso morale, la solidarietà di gruppo, aspetti tutti comunque meglio indagabili mediante lo studio della storia, naturale ed umana, piuttosto che con l'applicazione di esatte metodiche scientifiche, sempre settoriali e che mai riusciranno a conferire ad un gruppo la sua fisionomia sostanziale. Per questa nostra posizione ci sentiamo dunque in dovere di rigettare in toto il fanatismo ideologico totalizzante delle posizioni ambientalistiche, che negano pretestuosamente e ferocemente il diritto di speculazione e di parola alle opposte tesi, e che con il continuo celare e minimizzare la base biologica per assolutizzare l'influsso ambientale e culturale sulle azioni umane (come se la cultura non fosse anch'essa soprattutto un portato genetico), hanno da sempre provocato, a causa della menzogna loro intrinseca, danni infinitamente più grandi e duraturi delle opposte tesi genetiche.

    I geni, come è stato autorevolmente fatto notare da E.O. Wilson, tengono la cultura al guinzaglio, permettendole sì escursioni in ogni direzione, ma in un àmbito pur sempre limitato. Quando sappiamo che il guinzaglio esiste, è possi bile prendere decisioni più sagge riguardo agli elementi della natura umana degni di essere coltivati, a quelli di cui si può gioire apertamente senza artificiosi sensi di colpa, a quelli da maneggiare con precauzione.

    Con similare linguaggio, espresso in altra forma, continua Ardrey: «Se usiamo la nostra intelligenza in tutte le sue migliori possibilità, ci accorgiamo che l'animo non ha alcuna sovranità. Alleato dell'istinto, il giudizio può operare. In conflitto con l'istinto il pensiero umano si degrada a velleità».

    Noi diciamo inoltre che è frutto solo di stolida presunzione, quando non di particolare interesse personale o di conformismo intellettuale, il voler relegare in secondo piano l'aspetto genetico, soltanto perché difficilmente quantizzabile con metodo scientifico; e che sarebbe veramente strano che l'animale uomo, pur dotato di autocoscienza e volontà, fosse un qualcosa di unico e svincolato dal mondo organico, nel senso che soltanto le caratteristiche morfologiche sarebbero controllate dai geni, mentre tutti gli altri aspetti della psiche e del carattere sarebbero dovuti al condizionamento ambientale o ad altri fattori non genetici.

    Riteniamo infine che l'uomo degli anni Duemila, prima di ogni eventuale discorso ideologico, religioso o sociopolitico, intuitivo o razionale che sia, debba ormai tenere per indispensabile, quale base per un ragionamento fondato e non mitico, l'acquisizione di dati scientifici ragionevolmente sicuri, e ciò tanto più alla luce di conoscenze e riscontri affermatisi negli ultimi anni e provenienti in gran parte dalla documentazione fossile.

    Il discorso non dovrà poi vertere tanto sulle evidenti differenze attuali o su indagini e test di laboratorio, quanto considerare piuttosto l'evoluzione storico-biologica dei diversi raggruppamenti umani, avendo sempre presente, e questo non sarà mai sottolineato a sufficienza, che l'evoluzione espressasi sulla Terra fino all'uomo attuale non è cronaca né dato di laboratorio, bensì storia, vale a dire fatto dato per sempre; e che l'intima comprensione della dimensione temporale della questione è cardine fondamentale per l'impostazione dell'intero problema.

    Riprendendo l'insegnamento vichiano, ricordiamo brevemente a proposito del primo punto che «sapere è possedere l'origine di una cosa, cioè il modo e la forma con cui è fatta», per cui criterio del vero risulta essere soltanto la sua effettuazione, e la conoscenza vera e profonda della natura e della sua storia è possibile soltanto a chi l'abbia fatta; l'uomo, nella sua esperienza, non può averne che una conoscenza «da imagine in superficie» (8).

    Ogni invenzione concretizza sempre infatti un'idea, o progetto, o piano: quello che accade nell'invenzione biologica, l'uomo lo ignora quasi totalmente. La nozione di tale progetto non può essere sottoposta alla esperienza umana.

    Sapienza vera risulta perciò alla fine essere per l'uomo non la scienza, ma lo studio della storia, sereno e freddo, e studio, più che della storia naturale (di cui mancheranno in eterno le coordinate precise, e di cui l'uomo non conoscerà mai la genesi profonda), delle «res gestae», compiute da lui stesso, in quanto attività sua propria e dei suoi padri lontani. Ogni discorso biologico, peraltro supporto indispensabile per l'uomo di oggi, risulterà perciò necessariamente per sempre frammentario.

    Nonostante tutto questo, e anzi proprio per questa consapevolezza, dobbiamo poi riconoscere l'insufficienza delle nostre categorie mentali, e che la storia umana non è principalmente prodotto di una coscienza svincolata e con chiusa in un pensiero autonomo, ma che sotto di essa, come i nove decimi dell'iceberg, persiste e pulsa la realtà biologica espressa nel DNA e storicamente determinata dalle influenze innumeri del cosmo in esso per sempre fissate.

    Occorre in secondo luogo prendere coscienza che, a prescindere dalla carenza e dalla talora voluta omissione di dati biologici e paleobiologici, la scarsa comprensione della vastità del tempo geologico ha finora spesso inficiato la ricerca speculativa, e che spesso per la decifrazione di eventi lontani è stato fatto unico riferimento al tempo attuale, con l'illusione che i diversi fenomeni paleobiologici fossero studiabili e riproducibili «scientificamente» in laboratorio o nel mondo naturale di oggi.

    È d'obbligo perciò il riferimento a tempi tanto lunghi da divenire talora incongrui alla mente umana, alle centinaia di migliaia, ai miliardi di anni che hanno dilatato enormemente lo spazio ed il tempo nei quali l'evoluzione ha operato sulla Terra, in maniera discontinua, ma progressiva per quanto concerne la complicazione e l'aumento dello psichismo (e cioè la ricezione e l'elaborazione della informazione ambientale) degli organismi fino a giungere, casualmente, all'uomo attuale (9).

    La specie ed i gruppi intraspecifici

    Basilare per l'inizio del nostro discorso è la puntualizzazione dei concetti di specie, di speciazione e di razza.

    Accanto alla concezione tipologica e statica dei tassonomisti che studiano le specie attualmente viventi, dobbiamo sempre avere presente, per i fini che ci proponiamo, il concetto di specie inteso in senso operativo e dinamico, o crono specie, per cui, soprattutto alla luce di una nuova teoria dell'evoluzione, ci sarà di molto facilitata la comprensione dei mutamenti di tali raggruppamenti, invarianti solo se visti con ottica attualista.

    Definiamo come specie non solo raggruppamenti di individui morfologicamente simili, bensì comunità riproduttive i cui membri si riconoscono e si ricercano l'un l'altro come potenziali compagni sessuali, con nascita di prole fertile dalla loro unione (10).

    La specie risulta perciò essere un'unità ecologica che interagisce come tale con le altre unità insieme alle quali vive nel medesimo ambiente, ed un'unità genetica consistente in un patrimonio genico intercomunicante, essendo l'individuo soltanto un temporaneo recipiente che trattiene per breve tempo una piccola porzione del portato genico del gruppo (11).

    Per giudicare invece se due individui fossili appartengono o no alla stessa specie, è evidentemente impossibile il ricorso al criterio riproduttivo, visto che i reperti fossili non sono più forme dinamiche. Occorre in questo caso valutare attentamente tutte le differenze morfologiche riscontrabili, con successivo studio induttivo, parallelo e prudente, dell'habitat in cui sono stati reperiti i fossili, dalla datazione temporale, dei confronti con organismi similari attualmente viventi. Le forme fossili che differiscono in aspetto circa quanto differiscono le razze di oggi, sono definite razze; quelle che differiscono quanto le specie attuali, sono dette specie.

    Gli zoologi ed i paleontologi, oltre a basare i loro giudizi su tutti i caratteri che sono in grado di identificare e misurare (caratteri che considerati nell'insieme conferiscono all'individuo la sua natura quanto più essenziale) devono quindi operare quasi sotto forma di artisti-scienziati, poiché, come afferma Coon, «la determinazione delle specie non può essere fatta mettendo delle schede in una macchina calcolatrice. In un certo senso è un'arte, praticata da uomini esperti che sanno, avanti tutto, come le specie si sono formate».

    Divisione tassonomica immediatamente inferiore alla specie è la sottospecie, popolazione regionale di una specie politipica che si distingue dalle popolazioni sorelle per occupare un territorio geografico distinto e pressoché isolato, e che pur essendo legata alle altre dal criterio della riproduttività fertile, è tuttavia dotata di differenze morfologiche e fisiologiche considerevoli.

    In persistenza di un isolamento territoriale completo, la sottospecie assume i caratteri di una specie in potenza, può cioè col tempo dare origine a nuove specie, alla fine anche molto diverse da quella originaria. Nell'àmbito di tali popolazioni inoltre, a causa di meccanismi di varia natura, possono instaurarsi singoli complessi di geni per cui determinati sottogruppi vengono a differenziarsi da altri della medesima sottospecie.

    A tali gruppi, e solo ad essi, riteniamo corretto attribuire il termine di razza (12), vocabolo che in passato è impropriamente servito, e tuttora impropriamente serve, per designare le sottospecie umane, o addirittura al contrario etnie, popolazioni nazionali e gruppi religiosi. Definizione di tipo esclusivamente empirico, la razza, come la sua sottodivisione etnia, si basa su particolari caratteri morfologici, anatomici, genetici, psicologici, presenti nella massima parte degli individui del gruppo. La mancanza di criteri codificati scientificamente rende quindi ragione delle diversissime classificazioni delle razze umane da sempre operate dai vari studiosi (13).

    L'evoluzione per equilibri intermittenti

    Non è certo questa la sede per una disamina delle diverse teorie evoluzionistiche (selettive, istruttive, neutraliste, organiciste, vitaliste) (14) e neppure per una discussione sulla validità o meno delle opposte concezioni antievoluzionistiche e fissiste (15).

    Ci limitiamo perciò a ricordare soltanto che la teoria formulata per la prima volta nel 1859 da Darwin tiene tuttora il campo, con gli aggiornamenti legati all'acquisizione di nuove conoscenze, fra la maggior parte degli studiosi di cose biologiche e configura, a livello di opinione pubblica e presso i non specialisti di media cultura, la teoria evolutiva tout court.

    In realtà la dottrina darwiniana dell'evoluzione corrisponde oggi, come è stato autorevolmente rilevato, a ciò che più si avvicina ad un laico «principio di fede». Mentre infatti l'evoluzione come fatto non è praticamente più in discussione, tutto è ancora aperto per quanto riguarda l'interpretazione del fatto, a dispetto di una certa ortodossia neo-darwiniana che tende a confondere i due ordini di cose (16).

    Se cento anni fa era più che comprensibile la formulazione della teoria darwiniana in quei termini ed in quei limiti che appaiono oggi sempre più evidenti, riteniamo che oggi si debba compiere un ulteriore passo avanti, visto che l'azione della massima forza modulatrice - la selezione naturale gradualistica - oltre ad ammettere un numero infinito di casi fortuiti, che non avrebbero mai potuto verificarsi per mancanza di tempo e di un numero di generazioni sufficientemente elevato, è pressoché totalmente negativa e comporta in primo luogo la morte (17).

    Pur in carenza di approfondite nozioni genetiche, di una scala temporale sufficientemente lunga, e soprattutto di testimonianze fossili sufficientemente numerose, Darwin mise infatti l'accento, ai fini dell'evoluzione delle specie, soprattutto sulla selezione naturale operante in maniera estremamente graduale sull'intera specie nel corso di lunghissimi periodi di tempo.

    Ma mentre il concetto di evoluzione organica veniva rapidamente e largamente accettato dal mondo scientifico dell'epoca, la stessa cosa non poteva dirsi per l'importanza attribuita al meccanismo della selezione naturale, ritenuto dai più insufficiente a produrre mutamenti di tale portata, e in ogni caso da porre in netto subordine al mutamento interno degli organismi viventi.

    Inoltre se la selezione fosse stata il primum movens, ciò voleva dire che gli organismi più bassi, da cui si sarebbero originati tutti i successivi, dovevano contenere in sé da sempre tutte le potenzialità evolutive successive (in termini moderni diremmo che il primo essere vivente doveva contenere in sé geni bastanti a generare le flore e le faune passate, presenti e future).

    La selezione darwiniana e neo-darwiniana può infatti svolgere soltanto compiti di conservazione, o di estinzione, e non di innovazione.

    Ciò si vide a maggior ragione dopo la riscoperta degli studi genetici di Mendel, compiuta separatamente nel 1900 da De Vries, von Tschermak e Correns.

    La mutazione, come fu chiamata la causa intrinseca del cambiamento, entrava ora a pieno diritto, come prima forza agente, nella teoria evoluzionistica dominante. La mutazione (i cui meccanismi intimi iniziano ad essere conosciuti solo oggi con i più recenti studi del citoplasma, del corredo cromosomico, dei geni «regolatori» e di altre possibilità della cellula vivente prima neppure sospettate e che fanno vacillare ipotesi, teorie, certezze e dogmi espressi anche solo pochi anni or sono (18), allargava infatti continuamente l'àmbito della variabilità delle popolazioni, molto prima che queste fossero messe alla prova dalla selezione naturale, alla quale veniva negata quella fondamentale importanza plasmatrice riconosciutale da Darwin.

    La mutazione, intesa allora come macromutazione o mutazione discontinua di grande effetto, poteva poi anche spiegare in modo più soddisfacente i cambiamenti avvenuti nei viventi nel breve lasso di tempo dell'esistenza della Terra (venti-quaranta milioni di anni al massimo, secondo i calcoli di lord Kelvin e di altri fisici).
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Predefinito Riferimento: Origine delle razze umane. Speciazione quantica e paleontologia delle so

    Nel decennio 1930-40, con nuove più ampie conoscenze di genetica molecolare e di popolazione, e con l'estensione della scala cronologica a quasi cinque miliardi di anni, ritornava però in auge l'idea darwiniana secondo cui l'evoluzione procede lentamente con accumulo di micromutazioni e che la selezione a cui vengono sottoposti i risultati delle mutazioni è un processo opportunistico costituito da tante tappe infinitesimali, con graduale trasformazione di specie già ben consolidate, nell'arco di miriadi di generazioni o, il che è lo stesso, di decine e centinaia di milioni di anni, a velocità costante e pressoché in tutti i gruppi di viventi.

    La selezione naturale, che riprendeva il ruolo decisivo conferitole da Darwin, veniva suggestivamente rappresentata come una macchina immensa che, pur lentissima, possedeva un'enorme potenza, tale da alterare drasticamente tutte le stirpi che sopravvivevano per lunghi periodi di tempo.

    Tale teoria, definita Sintesi Moderna da Julian Huxley e Theodosius Dobzhansky, era dovuta in realtà ad una netta vittoria della genetica gradualistica nei confronti di altre discipline, e trovò quindi presto i suoi oppositori.

    Tali furono il fitogeografo J.C. Willis e il genetista «eretico» Richard Goldschmidt, che sostenevano l'improvvisa comparsa delle specie in seguito a macromutazione radicale.

    Su posizioni di parziale contestazione, anche se all'interno della medesima visione selettiva dell'evoluzione, si situava anche un piccolo gruppo di biologi che, pur legati alla Sintesi Moderna, stavano rivisitando con attenzione la tesi non gradualistica secondo cui la maggior parte delle più importanti trasformazioni evolutive si doveva verificare in piccole popolazioni isolate e non nell'intera specie (E. Mayr, Verne Grant, G.G. Simpson).

    A sostegno di tali sparute resistenze (e tali le chiamiamo considerato il pratico terrorismo culturale operato dagli illuminati sostenitori della Sintesi Moderna ai danni delle opposte teorie e basato sulle consuete accuse di oscurantismo filosofico-religioso e di ingenuità scientifica, e ci riferiamo qui in primo luogo ai francesi Jacob e Monod) giunse negli ultimi decenni una documentazione fossile sempre più vasta, della cui enorme consistenza la maggior parte dei non addetti ai lavori ha ancor oggi solo una pallida idea.

    Tra le discipline scientifiche soltanto la paleontologia fornisce in realtà le prove dirette, con vari gradi di compiutezza, dei più importanti mutamenti sequenziali avvenuti nella flora e nella fauna terrestri: il fatto evolutivo si manifesta al naturalista unicamente mediante la concretezza delle forme fossili.

    Come dice Eiseley: «Se non fosse mai esistita la testimonianza delle rocce, se le pietre fossero rimaste mute e le ossa morte non avessero mai parlato, l'uomo sarebbe ancora nel dubbio».

    E inoltre altro e peculiare vantaggio offertoci dai fossili, è la cronologia dell'evoluzione, la possibilità cioè di datare con precisione, attraverso di essa, il tempo geologico (19).

    Agli inizi degli anni Settanta vediamo così affermarsi, nettamente, di contro al gradualismo darwiniano e proprio ad opera di due paleontologi, Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, una nuova teoria evoluzionistica, quella dell'evoluzione per equilibri intermittenti, o puntuati, secondo cui la maggior parte dei cambiamenti è dovuta ad una speciazione «rapida» che interessa piccole popolazioni (speciazione quantica) isolate dall'ambiente specifico e dotate di patrimoni genici conchiusi in sé stessi, mentre le specie da cui tali popolazioni sono state isolate possono continuare nei loro ecosistemi la loro vita per decine o centinaia di milioni di anni (20).

    A questo punto veniamo ad accorgerci che il vecchio assioma «natura non facit saltus» deve essere completamente ribaltato: la speciazione, cioè l'acquisizione radicale di nuovi caratteri integrati, non è più un fenomeno gradualistico che abbisogna di decine di milioni di anni per piccoli balzi, bensì nuove specie (ovviamente ognuna con una sua propria potenzialità temporale) possono formarsi anche nell'arco di migliaia di anni, un'inezia rispetto al tempo geologico ed al tempo cosmico, cioè persino di poche centinaia di generazioni, con enormi balzi evolutivi e notevoli discontinuità biologiche.

    Diviene ora facile riconoscere come la ricerca dei famosi «anelli mancanti», o stati intermedi tra diversi gruppi di organismi, sia risultata e debba in futuro risultare sempre vana, e non per l'inabilità o la sfortuna dei ricercatori, ma perché essi, puro prodotto della mente umana, non sono mai esistiti né possono esistere nella forma con cui sono stati concepiti dalla teoria gradualistica.

    Ed inoltre il tempo geologico non fluisce per le specie con la medesima velocità e con lo stesso ritmo, bensì, per cause che forse resteranno ignote per sempre, vede concentrate in «brevi» spazi temporali esplosioni di vita imponenti, diversificazioni di molte nuove forme da antenati comuni («radiazioni adattative»), rispetto ad altri momenti di relativa calma, quando non di stasi e di estinzione (21).

    Basti pensare alla Classe dei Mammiferi, i cui lontani progenitori comparvero, originati da un gruppo particolare di «rettili», circa duecento milioni di anni or sono, con piccoli animali morfologicamente simili ai toporagni insettivori attuali, e che rimasero pressoché stazionari per oltre 135 milioni di anni, fino a quando si estinsero le fortune dei dinosauri. Quali che fossero le cause di tale estinzione, vediamo che solo in quel periodo i piccoli mammiferi si accinsero a raccoglierne l'eredità con una spettacolare diffusione su tutto il globo. La documentazione fossile indica inoltre che le balene, con la loro mole, struttura, modi di vita, habitat acquatico, ed i pipistrelli, con le loro ali ed il loro specifico ed anzi unico adattamento al volo, si sono allora evoluti, in un arco di tempo massimo di dodici milioni di anni, da piccoli mammiferi simili a gatti; e questo insieme a migliaia di altre specie e alla maggior parte degli Ordini di Mammiferi tuttora viventi.

    Un'altrettanto rapida «radiazione», e senza dubbio più spettacolare per il numero e la qualità tassonomica dei gruppi coinvolti, è quella che ha riguardato gli organismi pluricellulari primitivi, tutti viventi su fondali marini, che si è verificata all'inizio del Cambriano, circa settecento milioni di anni fa, in un arco di tempo di poco meno di duecento milioni di anni (ma quasi totalmente da 570 a 520 milioni di anni fa) con l'origine di pressoché tutti i piani strutturali fondamentali degli esseri animali, e cioè di pressoché tutti i trentacinque Phyla, o Tipi, evolutivi, di cui ventisei sono tuttora viventi (22).

    Allo stesso ed opposto modo, un momento di cruciale rottura per estinzione può essere identificato 225 milioni di anni fa, alla fine del Permiano, estinzione della cui ampiezza può rendere testimonianza la scomparsa del quaranta per cento delle famiglie di invertebrati dotate di scheletro e viventi sulle piattaforme continentali. Fino a non molti anni fa, specie formatesi di recente erano quasi sconosciute, ma ultimamente ne sono state identificate diverse.

    Valga l'esempio delle falene hawaiane del genere Hedylepta, diversificatesi solo un migliaio di anni fa dopo l'introduzione in quelle isole degli alberi di banano da parte dei polinesiani. Tale genere di falene è andato incontro ad una speciazione multipla durante questo breve periodo, sviluppando specie che si nutrono solo su banani e confinate in una o due isole soltanto.

    Dell'iniziale formazione di nuovi generi di viventi testimoniano invece i pesci ciprinodonti della Valle della Morte californiana, o i pesci ciclidi del lago vulcanico Barombi Bo del Camerun e del lago Nabugabu, formatosi per distacco dal lago Vittoria, esseri tutti confinati in un complesso di ambienti acquatici particolari costituitisi non più di qualche centinaio di migliaia, o addirittura di qualche migliaio di anni fa.

    A questo punto sono chiare le conclusioni di quanto finora esposto: nuove specie si possono formare solo da piccoli gruppi isolati dalla popolazione principale, che evolve verso il suo destino, sia esso l'estinzione sia esso l'arrivo fino ai tempi attuali, con minimi cambiamenti o sempre uguale a sé stessa; è di fondamentale importanza l'assenza di esoincrocio e la costanza di inincrocio del gruppo, cioè l'accoppiamento esclusivo all'interno della popolazione, senza apporto di patrimonio genico esterno, col risultato del graduale rafforzamento del nuovo carattere, dovuto alla diffusione tra i consanguinei; tali speciazioni, ognuna con una differente e sua propria velocità temporale, possono avvenire anche nell'arco di qualche centinaio di generazioni, cioè soltanto di migliaia o decine di migliaia di anni.

    La speciazione quantica e l'uomo

    In nessun settore della biologia, della zoologia e della palentologia la concezione gradualistica è difesa con maggior tenacia che nello studio dell'uomo.

    Le origini di tale concezione, che vede un progresso monofiletico inarrestabile dagli esseri prescimmieschi alla spiritualità dell'uomo attuale, può essere fatta risalire agli anni del primo darwinismo. La forte convinzione gradualistica che si sviluppò allora, permise infatti all'uomo di riconciliarsi in qualche modo con la scomoda idea di avere antenati animaleschi; era un modo per salvare la dignità umana: anche se l'uomo non era più alla sommità di una Scala Naturae immutabile di origine divina, rappresentava pur sempre il culmine del processo di selezione naturale.

    Sostituita in tal modo la presenza attiva e rassicurante della divinità, il gradualismo ricreò, per un intero secolo, una seconda gratificante illusione per l'essere umano, sbalzato di colpo dal trono di una creazione immutabile all'acci dentalità di esistenza in una natura estranea e cangiante e in un cosmo lontanissimo ed indifferente, quando non ostile (23).

    Pur comprendendo appieno le ragioni di tale comportamento e riconoscendo che non poteva forse allora avvenire diversamente, riteniamo tuttavia che l'uomo di oggi, inchiodato e quasi condannato alle estreme conseguenze della sua razionalità, non possa più nascondere dietro paraventi ideologici, filosofici o religiosi che siano, i risultati sempre più esatti e numerosi freddamente offertigli dalle diverse discipline scientifiche (pur sospendendo necessariamente il giudizio nei confronti di quella Realtà Ultima che sta alle spalle dei legami fosforici e delle basi puriniche e pirimidiniche del DNA).

    Si può quindi capire perché, a differenza del gradualismo altrove applicato e che soltanto ora si comincia a riconoscere non fondato, in campo umano tale deplorevole errore continui a persistere, difeso accanitamente dalla maggior parte degli studiosi, con uno stupefacente salto di logica e sacrificando la razionalità al sentimento.

    Al contrario la teoria dell'evoluzione per equilibri intermittenti non solo fa piazza pulita di quello che tutto sommato è il «finalismo spurio» darwiniano, secondo cui la selezione naturale con il paziente lavorio dei millenni ha necessariamente condotto all'uomo attuale quale essere il più adatto (con l'imposizione alla natura di una tautologica ferrea legge del massimo profitto) (24), ma costituisce una formidabile base di comprensione teorica per il principale studio sulle razze umane fossili, quello portato a compimento da Carleton Coon nei primi anni Sessanta.

    Per restare al primo punto del nostro discorso, vediamo che il gradualismo darwiniano applicato all'evoluzione umana consiste essenzialmente nel credere che ogni popolazione situata lungo quella linea di continuità che porta dagli antropomorfi all'uomo, debba avere avuto un carattere intermedio fra la popolazione precedente e quella seguente. Lo schema dell'evoluzione per equilibri intermittenti complica invece le cose in quanto ammette deviazioni «illogiche» e sostanziali, dalle quali, sempre parlando di Homo, avrebbero potuto avere origine esseri umani dotati di caratteristiche fisiche e mentali del tutto diverse da quelle dell'uomo attuale. I mutamenti associati alla speciazione riflettono sì le condizioni particolari di quella data situazione storica e geografica, ma riflettono soprattutto l'accidentalità dei cambiamenti genici.

    Per soddisfare quale necessità, ad esempio, gli uomini hanno acquistato gli uni capelli lisci, gli altri capelli crespi, altri ancora capelli lanosi, nasi aquilini, camusi o schiacciati? È forse necessaria per la longevità dell'individuo, per la sua adattabilità alle circostanze ambientali, per la sopravvivenza del gruppo, e infine per il perpetuarsi del genere umano, il fatto che gli uomini abbiano o no gli occhi a mandorla o la plica mongolica, le labbra tumide o il toro sopraorbitale?

    A quale valore adattativo risponde la temperatura variabile dei bradipi in un ambiente in cui la massima parte degli altri animali presenta costanza di temperatura corporea, o l'articolazione semplice, e non doppia come quella dei rettili, della mandibola dei mammiferi con il cranio? O il polmone destro di certe specie di rettili, allungato fino a raggiungere la cloaca, il quale possiede una struttura alveolare respiratoria soltanto nel terzo anteriore, mentre per il resto è null'altro che un sacco aereo senza funzione apparente?

    Rimandando per un'ulteriore esemplificazione ad alcuni dei testi più recenti (25) riportiamo a questo punto un pensiero di Adolf Portmann: «La forma funzionale pura e semplice, che taluni tengono in grandissima considerazione come la più conforme alla natura, è un caso raro e del tutto particolare (...) Guardando l'involucro degli animali per lo più abbiamo l'impressione di trovarci di fronte al prodotto di una fantasia senza scopo e, più che ad una necessità di ordine funzionale, ci vien fatto di pensare all'opera festosa di un capriccioso, libero gioco delle forze creatrici».

    Un capriccioso gratuito gioco dell'evoluzione (faremmo qualche riserva sull'uso dell'aggettivo festoso) possiamo inoltre vedere nello studio della transizione ad Homo degli ominidi più recenti, con la formazione di due linee evolutive, all'incirca tre milioni di anni fa, a partire da Australopithecus afarensis, presente in un area dell'Africa orientale che va dal lago Vittoria al Mar Rosso (26). Le più recenti conclusioni spostano infatti Australopithecus africanus (il primo australopitecino scoperto) dalla linea che porta ad Homo, per porlo all'iinizio di una linea collaterale che si interrompe 1,5 milioni di anni fa con il più specializzato Australopithecus robustus. L'emergere della seconda linea si verifica prima dell'estinzione di Australopithecus robustus, i cui ultimi esemplari vedono alla fine come loro contemporanei i primi Homo erectus, e vede come punto di partenza i reperti fossili di tre località dell'Africa orientale, i primi ai quali, sulla base dei riscontri morfologici e di una primitiva industria litica, possa essere assegnata la qualifica di Homo (Homo abilis).

    L'impressione è che tutto il movimento «ascendente» verso Homo sapiens sapiens, noi stessi, sia avvenuto soltanto per tentativi ed errori; vi è sempre maggiore certezza che in qualche remoto periodo abbiano camminato nella savana africana due o più specie umanoidi, entrambe ai loro tempi progenitrici potenziali dell'uomo attuale e di ogni altro Homo sapiens mai nato.

    Con lo stesso procedere «gratuito» il mento a punta dell'Homo sapiens, le arcate sopraccigliari sottili, la fronte alta e bombata, compaiono dal nulla nella documentazione fossile: tali caratteri sono del tutto sconosciuti ed imprevedibili rispetto a ciò che li ha preceduti.

    E inoltre c'è un esempio particolarmente chiaro di incoerenza nella direzione dell'evoluzione umana: le arcate sopraccigliari di Homo sapiens sono meno robuste di quelle di Homo erectus, eppure quest'ultimo le aveva più robuste di quelle del suo predecessore abilis, e del suo remoto antenato Australopithecus africanus.

    Similare, e forse più significativo per la vastità dei reperti fossili, mutamento casuale di popolazione si può riscontrare nella comparsa e nell'estinzione delle stirpi neanderthaliane (specie a sé stante, o più giustamente particolare gruppo razziale caucasoide?).

    Tale vasto raggruppamento può infatti essere visto come uno dei vicoli «ciechi» dell'evoluzione, estintosi forse a causa di competizione col più evoluto cugino sapiens, dopo avere ceduto parte del suo patrimonio genico ai nostri diretti progenitori caucasoidi.

    Riconsiderando dunque tutti i dati fin qui esposti, sentiamo che è tempo di puntualizzare una prima conclusione: l'apparizione dell'uomo, quale attualmente è, costituisce il risultato accidentale di un processo storico complicato ed enormemente lungo, in cui il puro caso ha giocato un ruolo fondamentale nello stabilire le caratteristiche umane attuali.

    E ciò vediamo con ancora maggiore profondità se risaliamo ancora più all'indietro nel tempo, più in là dei più lontani antenati antropomorfi, fino alle origini di altre Classi e di altri Tipi di viventi, fino agli immani sconvolgimenti geologici (mutamento del chimismo delle acque e dello stato dell'atmosfera; radioattività endogena; deriva dei continenti con terremoti, vulcanismo e formazione di nuove catene montuose e di mari; glaciazioni) ed astronomici (esplosione di supernovae; radiazioni cosmiche; attività solare, precipitazione di asteroidi e meteore, il mutare posizione delle galassie nelle loro rivoluzioni) con la formazione di eventi storici e genetici del tutto imprevedibili a priori (27).

    I nostri denti ad esempio, iniziarono la loro storia come rivestimento squamoso del corpo di qualche oscura creatura pisciforme nei mari di più di quattrocento milioni di anni fa. Se tali esseri non avessero posseduto quelle particolari scaglie, certamente la storia intera dei Mammiferi sarebbe stata diversa, poiché in questa storia i denti hanno avuto una importanza primaria.

    Inoltre le nostre braccia e gambe sono derivate dalle pinne pettorali e pelviche dei Ripidisti, sottogruppo estinto dei Crossopterigi, progenitori di tutti i vertebrati terrestri (incidentalmente, l'altro sottogruppo è tuttora vivente con minime differenze morfologiche rispetto ai lontanissimi antenati).

    Se tali pesci avessero avuto un terzo paio di pinne, i vertebrati terrestri, uomo quindi compreso, avrebbero potuto essere dotati di sei arti come gli insetti.

    Se nelle pinne anteriori degli stessi pesci non si fossero trovate due ossa, ma solo una, l'evoluzione umana non avrebbe potuto usufruire dei complessi movimenti di manipolazione permessi agli arti superiori dal radio e dall'ulna. E tuttavia per quel particolare pesce le due ossa non rappresentavano alcunché di fondamentale, essendo semplicemente parte di una pinna flessibile che poteva essere utilizzata anche per i movimenti sulla terraferma.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Predefinito Riferimento: Origine delle razze umane. Speciazione quantica e paleontologia delle so

    Le razze fossili dell'uomo

    Se, come abbiamo detto, vi sono contrasti nell'attribuzione di determinate caratteristiche fisiche e psichiche alle «razze» umane attuali, non esiste peraltro a tutt'oggi neppure accordo sul numero e l'entità delle divisioni sottospecifiche e delle razze.

    La maggior parte degli studiosi riconosce comunque attualmente poco più di una trentina di razze viventi raggruppate in cinque sottospecie: caucasoide, mongoloide, australoide, capoide, congoide, con sparsi, poco numerosi gruppi razziali minori di incerta classificazione (28).

    Il problema di quando tali sottospecie si siano differenziate costituisce il problema razziale paleobiologico, affrontato da Coon nella sua poderosa opera sull'origine delle razze umane (29). Ma cosa viene a dirci lo studioso americano? Semplicemente, e in maniera rivoluzionaria e provocatoria per le teorie correnti, espone la tesi che le poche decine di migliaia di anni trascorsi dalla comparsa dell'Homo sapiens moderno non sono periodo sufficiente per la comparsa e la stabilizzazione delle sottospecie umane attuali, e che il momento di tale differenziazione deve essere posto molto più indietro, ad un'età financo di mezzo milione di anni (e oltre, diciamo noi sulla base delle scoperte di questi ultimi vent'anni), ed all'interno di una specie umana non sapiens, l'Homo erectus.

    Simile era stata negli anni Trenta l'intuizione di Franz Weidenreich, studioso dei resti fossili del Sinanthropus pekinensis, intuizione frettolosamente liquidata, in parte anche per le sue potenziali implicazioni razziste, dalla maggior parte del mondo accademico dell'epoca. Era infatti opinione corrente che le sottospecie umane viventi si fossero differenziate da un antenato comune solo dopo avere raggiunto lo stadio di sapiens (il che conferiva loro un'identica antirazzistica dignità formale), i cui primi resti fossili erano valutati essere quelli degli uomini del Paleolitico superiore europeo, o uomini di Crô-Magnon, apparsi circa quarantamila anni fa ed autori, tra l'altro, delle pitture di Lascaux e Altamira.

    Secondo tale concezione, il Sinanthropus, non essendo dunque partecipe delle caratteristiche di sapiens, non poteva appartenere alla linea filetica di una sottospecie moderna, la mongoloide nel suo caso, bensì alla linea filetica del genere umano, in qualità di specie pre-sapiens non ancora differenziata.

    In realtà uno degli errori capitali di tale interpretazione consisteva, come rilevò Coon, nel fatto che non si era tenuto nel minimo conto, nella messa a punto dello studio degli uomini fossili, che oltre alla dimensione temporale c'era anche, altrettanto importante, quella spaziale; quasi tutti gli autori si erano preoccupati unicamente della sistemazione cronologica dei reperti, ignorando pressoché completamente la collocazione geografica delle stazioni fossili.

    Dal lungo, minuzioso studio ventennale di tali reperti inseriti in una corretta dimensione spaziale, lo studioso americano giunge quindi ad evidenziare che la sottospeciazione umana deve essere situata molto a ritroso nel tempo, quando tipi oggi estinti di un'altra specie umana, l'Homo erectus, dotata di proprie caratteristiche fisiche, culturali, e spirituali, erano ancora vivi e non erano apparsi i successivi sapiens.

    La transizione a sapiens risulterebbe inoltre essersi attuata, per le diverse sottospecie, in gran parte indipendentemente, in zone territoriali separate e nel corso di centinaia di migliaia di anni, con un minimo flusso intraspecifico di geni, tale comunque da permettere, anche con l'ausilio della relativa brevità del tempo trascorso, l'unità della specie, ma non da eliminare le sottospecie (30). Ricordiamo a questo punto l'interessante ipotesi di Darlington, secondo la quale il colore originario dei primi erectus non ancora migrati dalla loro culla est-africana e risalenti almeno ad un milione e mezzo di anni fa, avrebbe dovuto essere bruno chiaro giallastro e che mutazioni sarebbero avvenute indipendentemente verso il bianco nelle terre circum-mediterranee e vicino-orientali per dare i caucasoidi, verso il bruno scuro/nero nell'Asia sudorientale per dare gli australoidi, verso il nero in Africa per dare i congoidi, mentre le rimanenti due sottospecie avrebbero mantenuto con minime variazioni il colore originario. Anche le evidenze offerte dalla etnologia comparata, dalla genetica dei gruppi, dalla linguistica e dall'archeologia preistorica, parlano a favore di una separazione molto antica delle sottospecie umane. Inoltre il presunto Homo sapiens preistorico, fonte secondo la teoria corrente di tutte le razze attuali, risulta morfologicamente simile all'europeo vivente (certo con le minori caratterizzazioni razziali e sottospecifiche dovute all'antichità dei reperti) e sicuramente nessuno è in grado di sostenere fondatamente la possibilità di far discendere, nell'arco di poche centinaia di generazioni, un aborigeno australiano od un pigmeo del Congo da antenati europei di tipo moderno.

    Bernard Rensch afferma poi, a ulteriore convalida, che il particolare adattamento razziale dell'uomo a differenti habitat, adattamento che riguarda un certo numero di geni, richiede necessariamente decine di migliaia di generazio ni, cioè diverse centinaia di migliaia di anni, per instaurarsi completamente. Egli porta inoltre diagrammi statistici a sostegno della tesi per cui la mutazione di un gene interessante l'ipofisi potrebbe aver dato l'avvio alla transizione da erectus a sapiens, pur non riuscendo ad impedire la fertilità tra i possessori di questo carattere e coloro che ne erano privi. Dato infine che simile mutazione si verificherebbe una volta su centomila persone nel corso di una generazione, il calcolo delle probabilità non escluderebbe la possibilità che più di una sottospecie abbia varcato indipendentemente la soglia fra erectus e sapiens, e questo anche senza considerare l'«aiuto» genico offerto alle sottospecie più tardive dalle prime che compirono la transizione. Ma a prescindere da tali speculazioni genetiche, restano inconfutabili le misurazioni ed i dati paleontologici a convalidare la tesi di Coon, in precedenza avanzata a livello speculativo anche da altri studiosi, quali Frank Livingstone e Loring Brace.

    In realtà, ripetiamo, lo studio attento di Coon, preciso fino alla pedanteria, con la considerazione di ogni dettaglio e con la misurazione minuziosa di ogni possibile dato offerto dai fossili umani provenienti da quasi trecentocinquanta località del Vecchio Mondo, rende sempre più salda, fino quasi alla certezza, la tesi che gli uomini differivano fra loro per peculiari caratteristiche «razziali» (o meglio sottospecifiche) già allo stadio di erectus.

    Gli alberi genealogici che vanno attualmente per la maggiore continuano al contrario pervicacemente ad illustrare una linea filetica unica, che dall'australopitecino vivente nel solo continente africano, sale all'Homo erectus vivente in ogni parte del Vecchio Mondo e in ogni parte del Vecchio Mondo affermato con sue specifiche industrie litiche, e quindi all'Homo sapiens presente inizialmente nelle sole terre circum-mediterranee, che inizia solo a questo punto, a suddividersi in gruppi razziali che si sposteranno a grande velocità (sono abituati a muoversi in fretta, visto che sono cacciatori ed hanno i garretti ben solidi!) per occupare i siti lasciati opportunamente liberi dagli erectus svaniti ovunque nel nulla dopo un milione di anni in cui non hanno minimamente pensato a generare gruppi sottospecifici.

    Dobbiamo invece riconoscere che risulta molto più convincente sul piano della teoria e della logica (31) e molto meglio documentata, l'opposta concezione di Coon; in ogni caso le linee sottospecifiche risultano tracciate in modo così compiuto da escludere che ulteriori ritrovamenti possano, almeno per le sottospecie eurasiatiche, determinare sostanziali modifiche.

    Il materiale africano (linee capoide e congoide) è invece meno ampiamente documentato, ed è possibile che nuovi reperti possano indurre a conclusioni leggermente diverse, soprattutto riguardo alla propagazione spaziale delle due sottospecie.

    In ogni caso non è per puro accidente che il complesso territoriale Asia occidentale-Europa-Nordafrica ha costituito la zona più densa di gruppi razziali più diversificati, e quella che prima fra tutte, circa 250.000 anni fa, ha visto la transizione dell'Homo erectus ad Homo sapiens arcaico.

    L'alternarsi di climi freddi ed umidi durante le ripetute avanzate dei ghiacci, e di climi caldi ed aridi durante i periodi interglaciali, determinarono in tale àmbito territoriale, già di per sé frammentato da catene montuose e da distese marine continuamente mutanti, l'avvicendarsi di numerosissime specie animali. Le oscillazioni climatiche con la formazione di molteplici differenti habitat geografici furono abbastanza grandi da stimolare fatti evolutivi diversi e numerosi.

    Tale àmbito territoriale rappresentò per oltre mezzo milione di anni, la sede potenzialmente, e di fatto, più adatta per l'evoluzione dell'uomo. In tale sede e per tale periodo, anche se in tempi diversi, la sottospecie caucasoide venne a contatto con almeno tre altre sottospecie (australoide, capoide, congoide) considerato che l'Asia centrale rappresentò per lunghissimo tempo una barriera glaciale, paludosa e desertica pressoché insormontabile per quei primi gruppi umani.

    I mongoloidi furono al contrario in grado di scambiare i propri geni soltanto con un'altra sottospecie, l'australoide, che dalle originarie zone indo-indocino-malesi sotto la pressione della sottospecie più evoluta si ritirò lentamente nella zona papuo-australo-oceanica, lasciandosi dietro razze relitto quali i Vedda dell'India e i Negriti delle Andamane, della Malesia e delle Filippine.

    I congoidi furono sicuramente in contatto con l'altra sottospecie africana, e forse videro pure una limitata periferica acquisizione, e cessione, di geni caucasoidi. Transitati a sapiens qualche decina di migliaia di anni fa, la loro espansio ne settentrionale trovò il suo limite nella zona tropicale occupata da gruppi razziali caucasoidi e successivamente nell'ormai inaridita regione sahariana. In tempi ormai storici giunsero poi all'Oceano Indiano e, mentre i primi europei (portoghesi ed olandesi) si addentravano nell'Africa australe, iniziarono la loro discesa verso i territori che stavano spopolandosi dei gruppi capoidi, fino a scontrarsi nuovamente con gruppi caucasoidi (32). I capoidi, originatisi sull'intera fascia nordafricana e successivamente migrati nell'Africa australe scavalcando la primitiva zona di diffusione congoide, furono sicuramente in contatto con le sottospecie caucasoide e congoide.

    La situazione geografica fornì dunque ai mongoloidi l'isolamento indispensabile per la conservazione delle loro peculiarità razziali più tipiche, ed essi sono infatti a tutt'oggi considerati la sottospecie più omogenea (nei suoi grandi gruppi asiatico ed amerindo) e più lontana dalle altre.

    Allo stesso tempo la geografia permise ai caucasoidi di trovarsi in un'area zoologica centrale (e, come abbiamo visto, più favorevole delle altre alla differenziazione, a causa dei più numerosi gradienti climatici ed ambientali) nella quale oltre a ricevere da almeno altre tre sottospecie un limitato apporto genico, poi sottoposto alla dura selezione dei climi e delle culture, furono in grado di cedere agli altri gruppi parte, sempre minima, del loro patrimonio genico.

    Al centro delle masse continentali del Vecchio Mondo, essi furono la meno uniforme tra tutte le sottospecie umane, e la testimonianza di ciò si trova nei diversissimi reperti fossili di quest'area, dalle svariate stirpi neanderthaliane, occidentali, centroeuropee, orientali e del Vicino Oriente; agli Homo sapiens arcaici che li precedettero nell'Ultimo Interglaciale, come la differenziata popolazione di Krapina in Croazia; ai successivi popoli del Paleolitico Superiore cui è stato dato nome di Crô-Magnon (33).

    Verso la fine del Paleolitico, dopo che tutte le cinque sottospecie erano divenute sapiens, e prima che le due più settentrionali avessero portato a termine la loro espansione verso sud e verso est, per mare e per terra, tutte comprendevano presumibilmente lo stesso numero di individui (si valuta il loro ammontare complessivo ad una decina di milioni di unità).

    L'uso del termine espansione si rivela in realtà più esatto di migrazione; gli spostamenti più importanti ebbero luogo in tempi lunghissimi, con inizio forse centomila anni fa: non si trattò di improvvisi e volontari trapianti di intere popolazioni, ma piuttosto di una costante deriva di piccoli gruppi di cacciatori che potevano contare anche poche decine di individui, al seguito degli spostamenti della selvaggina o perché sospinti da altri gruppi umani e dai mutamenti climatici.

    Questo lungo periodo di movimento fu senza dubbio un periodo di grande ibridazione fra i gruppi; ibridazione possibile certo a diversi livelli, ma che avvenne soprattutto fra gruppi tribali affini delle diverse razze e sottospecie. Che le commistioni fra le principali suddivisioni dell'umanità siano state del tutto sporadiche e senza esito rilevante di meticciato, lo possono testimoniare quei piccoli gruppi di uomini isolati in popolazioni del tutto differenti che mediante un istintivo ostacolo all'esogamia mantengono a tutt'oggi, anche dopo decine di migliaia di anni, la loro integrità sottospecifica e razziale, quali i caucasoidi Ainu del Giappone, i superstiti avanzi mongoloidi del Deccan, del Transvaal e della Tanzania, i gruppi negriti di ascendenza australoide sparsi dall'India alle Filippine.

    In seguito all'introduzione, a partire dal Vicino e Medio Oriente, dell'agricoltura e dell'allevamento (oltre che sulla base di quei fattori morali di cui parla Gozzoli (34), scientificamente imponderabili eppure ben identificabili nel divenire storico dell'uomo), circa diecimila anni fa le sottospecie caucasoide e mongoloide, delle quali come già accennato si può seguire a ritroso il cammino verso le origini di sapiens per un tempo molto più remoto che per le altre, cominciarono a superare numericamente in modo netto gli altri gruppi sottospecifici.

    Duemila anni or sono il numero complessivo di individui umani era salito a trecento milioni; supera oggi i quattro miliardi (per oltre il novanta per cento appartenenti ai gruppi caucasoidi e mongoloidi), mentre i gruppi viventi di pura caccia al modo dei nostri lontani antenati prima della rivoluzione neolitica ed agricola contano complessivamente circa 300.000 persone.

    Gli australoidi sono oggi in declino ovunque, tranne che presso le tribù aborigene dell'India, isole in un mare umano caucasoide; i capoidi con le loro popolazioni boscimane ed ottentotte, contano solo poche decine di migliaia di individui; i congoidi hanno invece dimostrato una straordinaria vitalità e versatilità nell'assimilare le nuove culture, sia nei loro territori di origine, sia in tutti quei luoghi ove, nell'ultimo millennio, sono stati sottomessi da caucasoidi e mongoloidi come uomini di fatica.

    In ogni caso il flusso dei geni attraverso le zone di contatto tra le varie sottospecie e razze, nel corso dell'ultimo mezzo milione di anni (periodo corrispondente a ventimila generazioni) sarebbe stato sufficiente a rendere omogenea l'intera umanità, col risultato immediato di una uniforme colorazione cutanea color cachi chiaro e con lo sviluppo di similari strutture mentali e comportamentali, se tale fosse stato lo schema evolutivo delle cose, e se non fosse stato vantaggioso per ognuna delle singole sottospecie, oltre certo che facilitato dalle barriere geografiche, mantenere per la massima parte intatti gli elementi adattativi del proprio status quo genetico.

    Come le altre specie di esseri viventi, gli esseri umani sono infatti indirettamente e al profondo guidati dai loro geni, e la propagazione di questi geni è stata da sempre la funzione ultima del comportamento umano.

    Ad una visione disincantata, i diversi valori e le diverse culture risultano quindi essere solo strumenti (ma strumenti capaci di riempire di significato un'esistenza) per raggiungere questo obbiettivo. La maggior parte dei mutamenti che possono verificarsi in una cultura già consolidata, come in campo biologico la maggior parte delle mutazioni genetiche, deve essere dunque considerata deleteria, quando non indifferente o superflua. Così ci assicurano tanto i nostri sentimenti che la nostra ragione.

    I sistemi culturali che hanno dato prova di saper funzionare, e che trovano in sé stessi ampie e sufficienti motivazioni di svolgimento biologico e storico, possono essere alterati dall'esterno solo correndo rischi talora mortali.

    Come ci si può allora sorprendere se i nostri antenati, meno innovatori di noi, furono caratterizzati, per un'epoca che copre oltre il 99 per cento del divenire umano, da un sano conservatorismo culturale e biologico; conservatorismo che solo noi, presuntuosi uomini del Duemila, ci permettiamo di definire sterile quando non immorale?

    Ed è questa una seconda conclusione che possiamo trarre dallo studio integrato dell'evoluzione delle specie e dell'uomo fossile: che cioè, ci piaccia o non ci piaccia, il meticciato intraspecifico ed interrazziale è stato sempre respinto a livello di gruppo (35) quando gli ambienti umani possedevano caratteristiche peculiari e naturali; che il fatto di essere perfettamente adattata al proprio ambiente, senza possibilità di valido ricambio alternativo, finisce per significare alla lunga la rovina sicura della specie; che la massima variabilità all'interno di una specie non può quindi essere che un bene da tutelare con estrema attenzione e con estrema prudenza, considerato che la variabilità ha sempre garantito le specie viventi dai mutamenti accidentali degli ecosistemi e che per quanto ci concerne l'umanità è senza dubbio ancora in evoluzione, anche se non sappiamo verso cosa essa è diretta (36).

    Una terza conclusione, ma a questo punto il discorso può essere meglio ampliato con l'ausilio delle discipline etologiche e sociobiologiche (e con una sana visione della storia che distrugga la morfologia universalista ed il teleologismo informe delle speculazioni illuministe e marxiste) (37), può essere vista nel riconoscimento che le ideologie che vanno troppo contro le strutture profonde e complesse della natura umana sono alla lunga destinate al fallimento, anche se purtroppo solo dopo avere provocato danni talora irreparabili per il gruppo e sempre in ogni caso per l'individuo; e che l'evoluzione culturale dell'uomo può progredire con successo e dignità solo se si trova in sintonia con i suoi bisogni più reali fondati sull'infrastruttura biologica e temperati da un'autocoscienza spoglia di veli ideologici e da una volontà conscia dei suoi limiti operativi.

    È ben vero che l'uomo è l'unico animale che in grado sempre maggiore sta forgiando con le sue mani il suo destino; ma è altrettanto vero che solo un'ignorante presunzione da padrone dell'universo mondo può fargli supporre di essersi svincolato dalle norme più elementari che hanno regolato per miliardi di anni la crescita e l'affermarsi della vita sulla Terra e di cui lo sviluppo storico delle diverse società umane ci offre infiniti riscontri applicati.

    Gianantonio Valli
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Predefinito Riferimento: Origine delle razze umane. Speciazione quantica e paleontologia delle so

    1 La questione dei valori incarnati dai diversi raggruppamenti umani aveva ricevuto un'iniziale, suggestiva trattazione in GOZZOLI S., Le radici e il seme, Edizioni dell'Uomo libero, 1981, pp. 179-198. La più estesa trattazione relativa ai meccanismi ed all'evoluzione delle razze umane successiva alla pubblicazione del presente articolo è invece contenuta in VAJ S., Biopolitica. Il nuovo paradigma, 2005, e più particolarmente nel capitolo "Specie e razze" e successivi.

    2 Ci si riferisce per il primo aspetto a colore della pelle, prognatismo ed altri indici cranici, forma del mento e di altre particolarità della mandibola, forma e struttura dei capelli e dei denti, pelosità corporea, colore degli occhi, forma del naso, ecc.; e per il secondo a gruppi sanguigni, metabolismo corporeo, preadattamento al freddo e al caldo, olfatto e rappresentazione dei colori, dimensioni e peso degli organi interni, incidenza delle diverse malattie infettive, neoplastiche ed ereditarie, ecc.

    3 Per Coon vedi nota 29. Come per la sua opera principale, COON C.S., L'origine delle razze, Bompiani, 1970, anche per ARDREY R., L'istinto di uccidere, Feltrinelli, 1968, fondamentale e suggestivo sguardo d'insieme sull'eredità animale del comportamento umano (e indagine molto più profonda di quanto il rozzo titolo ad effetto dell'edizione italiana possa far supporre), c'è stata la pratica messa al bando dalla comunità scientifica internazionale. In Italia le due opere citate risultano introvabili fin da una decina di anni e non sono state più ristampate. Distrazione, insensibilità ai profitti editoriali, o non piuttosto epurazione di fatto perché in troppi delle culture egemoni non vogliono neppure confrontarsi con tesi che risultano eversive per le concezioni scientifiche e sociopolitiche dominanti?

    Simile atteggiamento non è stato possibile adottare nei confronti di autori come K. LORENZ e E.O. WILSON, in quanto appoggiati da numerosi discepoli e dalle due robuste scuole di etologia e sociobiologia, per cui non potendo sommergere nell'oblio i numerosissimi testi a favore si preferisce ancor oggi o intimidire e demonizzare gli studiosi con accuse «infamanti» che esulano dal campo scientifico, o minimizzare con sufficienza le loro teorie ed i notevoli risultati ottenuti. Per una panoramica sulle due discipline cfr. EIBL-EIBESFELDT I., I fondamenti dell'etologia, Adelphi, 1976, e RUSE M., Sociobiologia, Il Mulino, 1981.

    Quanto al terzo punto, rimandando alla copiosa bibliografia riportata in MINCHELLA M., La demagogia contro la scienza", l'Uomo libero, n. 8, 1981, accenniamo appena all'ostracismo e alla contestazione attiva di cui è stato per anni oggetto il professor H.J. Eysenck da parte dei docenti e degli studenti «democratici» britannici, ostilità culminata nel 1973 nella selvaggia aggressione all'interno della London School of Economics, con successivo ricovero ospedaliero dello studioso per le lesioni subite.

    4 Con il portato di un irreversibile disfacimento culturale e fisico, come ad esempio per gli Eschimesi, gli Ik dell'Uganda, gli aborigeni australiani doverosamente recuperati alla civilizzazione ed al progresso, oltre che al whisky, al «comfort» ed al tedio occidentali. Per gli Ik cfr., GOZZOLI S., op. cit., pp. 222 e segg.

    5 Come è avvenuto ad esempio per i Misquitos del Nicaragua, i Meo del Vietnam e gli Khmer della Cambogia, gli Ibo della Nigeria ex-Biafra, i Watussi del Burundi, gli Eritrei dell'Etiopia.

    6 Per una valutazione della relatività «razziale» delle categorie biologiche e culturali cfr. ad esempio VON BERTALANFFY L., Teoria generale dei sistemi, Mondadori, 1983, pp. 337-359 e DOBZHANSKY Th., L'evoluzione della specie umana, Einaudi, 1979, pp. 72-76 e nota a p. 255.

    7 Per una disamina della complessa questione un primo immediato approccio si può trovare in EYSENCK H.J., KAMIN L., Intelligenti si nasce o si diventa?, Laterza, 1981, e soprattutto il LARMAT J., La genetica dell'intelligenza, Armando, 1976.

    8 Cfr. VICO G., De antiquissima italorum sapientia, I°, 1, opera in cui il filosofo italiano, presentando le proprie tesi come restauratrici di verità possedute dagli antichi italici, rivendica i limiti intrinseci della conoscenza umana, di contro alla pretesa razionalistica di una matematica e di una fisica a priori, e in polemica con l'atomismo riduzionistico e con il tema d'avvio della metafisica cartesiana, il famoso «cogito ergo sum».

    9 Senza intraprendere qui una disquisizione filosofica del concetto di caso, e senza accordarci con l'interpretazione che vede di esso un puro e semplice, totale ed onnipervadente gioco di dadi, e neppure il portato della nostra insufficienza a ricostruire le diverse relazioni storico-ambientali per la definizione di un evento, vogliamo solo dire che le variazioni sul progetto di massima fissato nel DNA per tutti gli esseri viventi, hanno visto sulla Terra infinite variazioni storiche, in dipendenza degli eventi propri di ogni segmento di tempo e di ogni determinato strutturarsi del nostro pianeta e della sua posizione nel sistema solare e nell'universo. Definire la storicità dell'evoluzione organica significa quindi definirne l'irriversibilità e l'irripetibilità: se per assurdo la vita potesse ricominciare su una identica Terra primeva, né l'uomo né gli altri viventi evolverebbero di nuovo nelle forme attuali, poiché da troppi eventi fortuiti è dipeso l'avvento delle attuali forme di vita sulla Terra. Così siamo d'accordo con Ardrey che «l'uomo non è unico, né centrale, né necessariamente destinato ad essere, ma è il prodotto di circostanze particolari fino all'incredibile». In caso contrario è d'obbligo concludere che tutto ciò che è razionale è reale, e viceversa, e che quello da noi conosciuto è il migliore, ed anzi l'unico, dei mondi possibili.

    10 Una delle più esaurienti impostazioni della questione si può trovare in MAYR E., L'evoluzione delle specie animali, Einaudi, 1970, massiccia opera di alto livello specialistico che riporta numerosissimi dati biologici. A titolo puramente suggestivo notiamo che sono a tutt'oggi conosciute circa 1.700.000 specie viventi, animali e vegetali, delle quali quasi un milione appartengono alla classe degli insetti. Si ritiene che il numero totale di specie attualmente viventi possa assommare a quattro milioni. Per quanto concerne le varietà estinte, sono state catalogate e depositate nei musei di tutto il mondo circa 250.000 specie fossili, animali e vegetali. Si calcola che tale numero rappresenti solo una piccola frazione di quella che è stata nel passato la varietà della vita: sulla base dei tassi di variazione evolutiva è stata avanzata l'ipotesi che il numero totale delle specie estinte sia addiruttura cento volte più grande, cioè 25 milioni di specie estinte in oltre tre miliardi di anni.

    11 Questo tipo di prospettiva, del tutto inusuale e sconvolgente per le correnti concezioni dell'individuo umano quale essere autonomo e responsabile, è sviluppato in modo radicale in DAWKINS R., Il gene egoista, Zanichelli, 1979: «I geni sciamano in enormi colonie, al sicuro all'interno di giganteschi robot, completamente isolati dal mondo esterno che manipolano a distanza. Essi sono in voi e in me; essi hanno creato il nostro corpo e la nostra mente e la loro conservazione è la ragione fondamentale della nostra esistenza (...) noi siamo i meccanismi per la loro sopravvivenza». (Il che è anche espresso, con linguaggio più corrente, dall'aforisma: la gallina è il mezzo, per un uovo, di ottenere un altro uovo). Invitiamo comunque a considerare il suddetto testo null'altro che un richiamo ad una più retta valutazione dell'aspetto geneticamente determinato del comportamento umano.

    12 Cfr. CHIARELLI B., L'origine dell'uomo, Laterza, 1981, pp. 49 sgg. Testo eminentemente didattico e riassuntivo, può essere utile soprattutto per l'ampia trattazione dell'evoluzione dei Primati e delle differenze cromosomiche tra gli attuali componenti di questo Ordine.

    13 Come si può intuire da quanto abbiamo finora esposto, riteniamo del tutto ovvio, logico, scientifico e morale, applicare anche alla specie umana la nozione di razza, concetto che molti studiosi moderni, e primo fra tutti l'antropologo Ashley Montagu, non ritengono scientificamente fondato, bensì conformante soltanto uno spregevole mito storico e puro strumento di azione politica. Senza approfondire qui tale tematica, che richiederebbe adeguata trattazione in un nuovo saggio, ci limitiamo a citare il raro equilibrio intellettuale di DOBZHANSKY, op. cit., pp. 236 e 258-292: «Le razze e le classi non sono né dal punto di vista biologico né da quello sociologico unità distinte o chiaramente definite: questo può essere fastidioso per il ricercatore che preferirebbe poter ordinare in ben precisi reparti del suo casellario, ma non le rende dei fenomeni biologici meno veri e reali».

    14 Per l'esposizione storica del fatto e del concetto di evoluzione, e del loro impatto sul pensiero occidentale, cfr. EISELEY L., Il secolo di Darwin, Feltrinelli, 1975 e GREENE J.C., La morte di Adamo, Feltrinelli, 1971.

    15 Riassunte modernamente in SERMONTI G., FONDI R., Dopo Darwin, critica all'evoluzionismo, Rusconi, 1980, e in SERMONTI G., Le forme della vita, Armando, 1981.

    16 Cfr. la polemica antidarwiniana, vivace e da condividere quasi totalmente, svolta in GRASSÈ P.P., L'evoluzione del vivente, Adelphi, 1979. Occorre inoltre tenere presenti le sottolineature di von BERTALANFFY, op. cit., pp. 357 e segg.: «Il moderno evoluzionista, guidato dalla teoria della mutazione casuale e dalla selezione, non riesce a vedere che un organismo è, ovviamente, qualcosa in più di un ammasso di caratteristiche ereditarie, o geni, messe insieme per accidente», con il rigetto di ogni ipotesi riduzionista.

    17 O una semiletalità ed una subvitalità che potrebbero togliere «ogni significato a tutta la teoria biologica dell'evoluzione» (interpretata coi canoni dei neo-darwinismo, aggiungiamo noi), come è costretto ad ammettere DOBZHANSKY, op. cit., pp. 140-142.

    18 Oltre che ai più recenti testi di biologia e citologia di livello universitario, rimandiamo a GRASSE’, op. cit., pp. 267-273, 300-307 e 316-331.

    19 La trattazione più recente della questione paleontologica si trova in PAUL C., Storia naturale dei fossili, Etas libri, 1982. Con particolare riferimento ai mutamenti dell'ambiente terrestre, cfr. l'opera più scorrevole di COLBERT E.H., Animali e continenti alla deriva, Mondadori, 1978.

    20 L'esposizione più completa della teoria dell'evoluzione per equilibri intermittenti si ha in STANLEY S.M., L'evoluzione dell'evoluzione, Mondadori, 1982. Nata negli ambienti neo-darwiniani più avveduti (abbiamo già citato quali precursori Mayr e Simpson, che cercarono di sganciare l'essenza del darwinismo, cioè la selezione naturale, da un insostenibile gradualismo) tale aspetto della meccanica evolutiva è suscettibile di profondi sviluppi se inserito in più compiute teorie evoluzionistiche, ad esempio quelle organiciste, che prospettano per il fatto evolutivo una differente, più articolata dinamica.

    21 Rileviamo da ARDREY, op. cit., pp. 244-246, di che genere potrebbero essere state alcune delle influenze cosmiche sull'evoluzione del vivente. Per i critici eventi che posero fine al Cretacico, cfr. DESMOND A., L'enigma dei dinosauri, Newton Compton, 1979, pp. 252-271 e ASIMOV I., Esplorando la terra e il cosmo, Mondadori, 1983, pp. 271-272.

    22 Cfr. GRASSÈ, op. cit., pp. 54-60 e Storia naturale ed evoluzione, editore Le Scienze s.p.a., 1979, pp. 113-125.

    23 Vivida esposizione critica dell'Illusione della Posizione Centrale dell'uomo tacitamente accettata da Darwin (come pure dell'Illusione della Bontà Originaria di stampo rousseauiano e marxista) leggiamo in ARDREY, op. cit., pp. 160-181. Una piana ed esauriente sintesi delle conoscenze più attuali sulla nascita e l'evoluzione dell'universo si può invece trovare, oltre che brevemente in ASIMTOV, op. cit., pp. 264-284, in REEVES H., L'evoluzione cosmica, Feltrinelli, 1982.

    24 Sostiene il darwinismo in tutte le sue formulazioni che risultato ultimo dell'evoluzione mediante selezione naturale è la sopravvivenza del più adatto. Ma alla domanda: chi è il più adatto?, abbiamo come risposta il ripiegarsi del ragionamento su sé stesso: il più adatto è chi è sopravvissuto.

    25 Facciamo riferimento al testo di un neo-darwinista: ATTENBOROUGH D., La vita sulla Terra, Rizzoli, 1979, non perché crediamo nella validità della spiegazione neo-darwiniana dell'evoluzione organica, ma perché riteniamo di scorgere, negli innumeri esempi in esso riportati con l'ausilio di un'affascinante documentazione iconografica, sostegno alle tesi espresse da GRASSE’, op. cit., pp. 203 e segg.

    26 Quella che è stata definita «la scoperta del nostro più lontano antenato», e i problemi da essa posti alla ricostruzione dell'albero genealogico del genere Homo, sono trattati in JOHANSON D.C., EDEY M.A., Lucy, le origini dell'umanità, Mondadori, 1981, specie alle pp. 271-285. Per quanto concerne la possibile meccanica cromosomica dell'ominazione, oltre che a CHIARELLI, op. cit., rimandiamo.a RUFFIE’ J., Dalla biologia alla cultura, Armando, 1978, pp. 214-220.

    27 A meno di non ammettere che tutto fosse già minuziosamente scritto fin dall'inizio del Tempo, quindici miliardi di anni fa, il che ovviamente ci consegnerebbe legati mani e piedi, per il bene e per il male, a un Destino sovrano, e renderebbe vana qualsiasi speculazione nostra e di ogni altro essere autocosciente mai esistito nell'universo.

    28 Sguardo d'insieme a questo proposito può offrire, pp. 118-167, KROEBER A.L., Antropologia, Feltrinelli, 1983, testo che risulta tuttavia datato, visto che l'edizione originale risale al 1948 (ma ampliata e riveduta da una precedente del 1923).

    29 Dopo la pubblicazione negli Stati Uniti, nel 1962, della sua opera principale, l'intera questione delle somiglianze e differenze razziali è stata abbandonata, e la ricerca accademica è pressoché cessata. Quello «razziale» risulta ancora oggi un argomento così delicato che il voler investigare questioni del genere risulta offensivo per la maggior parte della «pubblica opinione» e degli studiosi, anche se tali problemi sono parte sostanziale del mistero fondamentale che è alla base della comparsa dell'uomo. Lo stesso Coon, colpito dalle polemiche violentemente scoppiate intorno alle sue tesi, e dopo avere rischiato di essere messo al bando morale dalla comunità «scientifica» internazionale, si piegò ad una tacita abiura di quanto sostenuto fino ad allora e, con un'ulteriore forma di raffinata captatio benevolentiae, si presentò, due anni dopo, quale firmatario di una dichiarazione dell'Unesco sulla questione della razza, che sminuiva di molto le conclusioni rivoluzionarie (e destabilizzanti per il conformismo intellettuale imperante) della sua ricerca.

    30 Per il problema dell'emergenza dei gruppi sottospecifici e del successivo passaggio a nuova specie col meccanismo dell'evoluzione parallela, rimandiamo, oltre ai migliori testi universitari di genetica e di biologia, a MAYR, op. cit., e a DARLINGTON C.D., L'evoluzione dell'uomo e della società, Longanesi, 1973, pp. 21-24.

    31 Sottolineiamo ancora la capitale contraddizione, anche puramente logica, di una teoria che afferma che, mentre la specie erectus sarebbe sopravvissuta senza sottospeciazione per oltre un milione di anni in ambienti quanto mai variati, la selezione naturale sarebbe piombata invece ineso rabilmente sui sapiens, e in poche migliaia di anni avrebbe condotto a gruppi umani diversissimi, presentanti differenziazioni anche estreme di ordine fisico, fisiologico e psichico. Altro notevole esempio di superficialità e di inconsistenza logica e scientifica è la concezione di RUFFIE’ J., op. cit., pp. 199 e 368, che identifica l'estremo Oriente o il sud-est asiatico quale luogo di provenienza dei sapiens crô-magnon. Inoltre lo stesso autore, mentre da una parte ammette, seguendo Coon, un'origine plurifocale di sapiens da erectus, dall'altra nega invece pervicacemente l'esistenza attuale di gruppi umani provvisti di una propria individualità biologica, considerando il concetto di «razza» unicamente quale mito storico-politico prodotto dai diversi contesti socio-culturali, in ispecie dei contesti socio-culturali europeo ed occidentale dei secoli XIX e XX. Rilevando come in tal modo l'autore perda di vista la prospettiva biologica del fenomeno «cultura», il curatore dell'edizione italiana nota invece criticamente: «La concezione puramente biologica dell'uomo si va riaffermando oggi come l'unico punto di vista valido perché tutti i dati raccolti dalle varie discipline possano essere coordinati ed interpretati all'interno di una teoria che ne garantisca la scientificità».

    32 Il popolamento dell'Africa del Sud vide una precedenza di gruppi bianchi rispetto ai gruppi bantù che costituiscono oggi la maggioranza delle popolazioni di quelle regioni, per cui è giocoforza riconoscere agli Afrikaaner attuali una più «legittima» aborigenicità, rispetto ai discendenti dei congoidi (la qual cosa, in sé, non prova ovviamente nulla).

    33 Certo tale maggiore variabilità delle popolazioni europee arcaiche potrebbe essere in parte addebitabile alla documentazione fossile riscontrata in Europa più numerosa che in altri continenti.

    34 Cfr. GOZZOLI S., Le radici e il seme, op. cit.

    35 O cancellato dalle varie sottospecie con l'assorbimento dei caratteri in quel momento più deboli e con la disgregazione dei sistemi di geni propri dei gruppi soccombenti. Per il concetto di sistema di geni cfr. von BERTALANFFY, op. cit., pp. 122. Ulteriore sottolineatura della complessa fragilità e dell'importanza della preservazione delle caratteristiche di un patrimonio genico comune ad un «gruppo» (aperto a tutti i suoi membri, non cioè chiuso e frazionato in caste, ma chiuso verso l'esterno), si ha in DOBZHANSKY, op. cit., pp. 250-251.

    36 Profonde suggestioni nietzscheane ci fanno balenare alla mente (impropriamente per un saggio a sfondo biologico?) la predicazione folgorante di Zarathustra: «L'uomo è un cavo teso tra l'animale e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto». NIETZSCHE F., Così parlò Zarathustra, Adelphi, 1973, (2° ed.), p. 8 [Versione Web].

    37 Cfr. von BERTALANFFY, op. cit., pp. 305 e segg.: «La storia non è un processo che si sviluppa entro un'umanità amorfa, nell'àmbito di un Homo sapiens inteso come specie zoologica». Con espressioni più radicali, ribadisce Darlington (in DOBZHANSKY, op. cit., p. 55): «I caratteri innati ci fanno vivere in mondi diversi, anche se siamo fianco a fianco; vediamo il mondo con occhi diversi, anche la parte che ne guardiamo insieme... I materiali ereditari dei cromosomi costituiscono la sostanza solida che, in ultima analisi, determina il corso della storia».
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 

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