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Discussione: Geopolitica

  1. #3551
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    Predefinito Re: Rif: Geopolitica

    Se il popolo permetterà alle banche private di controllare l’emissione della valuta, con l’inflazione, la deflazione e le corporazioni che cresceranno intorno, lo priveranno di ogni proprietà, finché i figli si sveglieranno senza casa.

  2. #3552
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    Predefinito Re: Rif: Geopolitica

    Citazione Originariamente Scritto da ventunsettembre Visualizza Messaggio
    I genocidi degli esportatori di democrazia restano impuniti.

    Mladic è stato condannato per avere fatto ai musulmani ciò che i musulmani avrebbero fatto - come fanno sempre - ai serbi. E non solo ai serbi.
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  3. #3553
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    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  4. #3554
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    Predefinito Re: Rif: Geopolitica

    BLACK FRIDAY, LORO SI PESTANO: LUI DIVENTA L’UOMO DA 100 MILIARDI DI DOLLARI
    Scene di ordinaria follia consumistica ieri, negli Stati Uniti. Un tempo c’erano le chiese, oggi i nuovi luoghi di culto sono i centri commerciali. Siamo nell’era del consumismo esasperato: e più le popolazioni si impoveriscono, più si esaspera.
    Dall’America, centro degradato di questa religione, la nuova ‘moda’ del ‘Black Friday’, una sorta di Natale pagano durante la quale i fedeli sacrificano se stessi alla ricerca degli sconti migliori, è dilagata anche in Europa. Quest’anno anche in Italia.
    E c’è un nuovo dio, nell’olimpo del consumismo. Il fondatore di Amazon, Bezos: in un solo giorno il suo patrimonio è salito di 2,4 miliardi di dollari e ha sfondato quota 100 miliardi. Una cifra che non si vedeva dal 1999, quando a riuscirci fu il fondatore di Microsoft, Bill Gates. Il boom è stato determinato dall’ottimismo dei mercati sull’andamento delle vendite del colosso della distribuzione.
    Una marea di schiavi che lavorano per lui. Una marea di fedeli che comprano nella sua chiesa. La Globalizzazione sta concentrando la ricchezza in modi nemmeno immaginati fino al secolo scorso, quando c’erano le rivoluzioni.
    E nonostante questa concentrazione folle, le rivoluzioni non ci sono più. Perché il consumismo ha consumato anche il desiderio di rivolta. Ormai anche il solo pensare di ribellarsi a questo sistema totalmente iniquo è morto dentro molti di noi. Consumato.
    Ps. Ma non in tutti.
    https://voxnews.info/2017/11/25/blac...di-di-dollari/

    Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Bill Clinton
    Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafić, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Milošević, ucciso in carcere, a Radovan Karadžić e al Generale Ratko Mladić, ancora oggi detenuti all’Aja?
    Lo storico russo Boris Yousef, in un suo saggio del 1994, scrisse una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po’ come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili».
    Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali, da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano.
    La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l’obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie.
    Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Milošević, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia.
    Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all’allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente.
    Come ho scritto poc’anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare ‘naturalmente’ nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente ‘Comunità Internazionale’, delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall’alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell’area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio.
    Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tuđman costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l’ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria.
    Sono stato un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell’occupazione croata delle loro case, avvenuta con l’appoggio dell’esercito americano.
    Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d’acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto – a ragione – alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell’operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e di Langley che impose a tutta l’opinione pubblica la favoletta dei Serbi ‘cattivi’ aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all’inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre.
    La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di ‘false flag’, azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall’intelligence, per scatenare le reazioni dell’avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di ‘false flag’ in numerosi miei articoli, denunciando l’escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra.
    Fino ad oggi la più nota ‘false flag’ della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l’intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbe sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegović a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi.
    E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale ‘false flag’ del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l’esercito serbo-bosniaco comandato dal Generale Ratko Mladić, che da allora venne accusato di ‘crimi di guerra’ e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di ‘false flag’.
    I giornali italiani, che all’epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un ‘macellaio’ il Generale Mladić e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić, anch’egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall’amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci.
    Ibran Mustafić, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una esplicita confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all’occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà».
    Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafić ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e – questo è molto significativo – anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite.
    Mustafić racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell’amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Orić. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Orić e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla (governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafić. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafić descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla.
    «Lì – egli scrive – il mio parente Mirsad Mustafić mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c’erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simić e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ilić, dell’autista di Zvornik Mijo Rakić, dell’infermiera Rada Milanović. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi».
    Mustafić ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Orić, confessione che non mi sento qui di riportare per l’inaudita credezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafić, anch’esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunović ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L’intera pista era inondata di sangue».
    Da quanto ci racconta Mustafić, gli elenchi dei ‘bosniaci non affidabili’ erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegović, e l’esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholjić menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafić, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafić, l’elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I ‘padroni della vita e della morte nella zona’, come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Orić, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica (clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell’umanità».
    Ma l’aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafić è l’ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegović, e in particolare tra Izetbegović e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafić afferma con totale convinzione.
    «Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegović e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafić. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di ‘false flag’), nelle quali i miliziani albanesi dell’UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l’esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia.
    Come sottolinea sempre Mustafić, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all’estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani – sostiene Mustafić – hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l’occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?».
    Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile – sostiene nel suo libro – perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masović, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegović che, a partire dall’estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra».
    Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l’uso di micidiali bombe all’uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell’esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Luka e che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all’accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti.
    Alija Izetbegović, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell’autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihić. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della ‘comunità internazionale’ la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all’epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato.
    Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimento islamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, in una satrapia fondamentalista, con l’appoggio ed i finanziamenti dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l’importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri.
    Slobodan Milošević, accusato di ‘crimini contro l’umanità’ (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all’Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l’11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni.
    Radovan Karadžić, l’ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladić, comandante in capo dell’esercito bosniaco, sono stati anch’essi arrestati e si trovano in cella all’Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di ‘crimini contro l’umanità’, fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica.
    Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Bill Clinton - Russia News / ??????? ??????

    Condannato per genocidio, Mladic giura: "Solo il primo tempo"
    L'ex generale si ritiene da sempre innocente: "L'Aja è solo una corte della Nato"
    Lucio Di Marzo
    Una condanna è arrivata e dice che l'ex generale Ratko Mladic si macchiò di genocidio. A Srebrenica, dove morirono ottomila musulmani e a Sarajevo, dove 11mila civili perirono sotto i bombardamenti e sotto il fuoco dei cecchini.
    La sentenza della Corte dell'Aia lo condanna all'ergastolo. Ma non è bastata a far tacere Mladic, che ancora ieri è stato espulso dall'aula per avere inveito contro i giudici e che oggi, attraverso il figlio Darko, parla alla stampa dalle pagine del quotidano di Belgrado Vecernje Novosti.
    "Questo è stato solo il primo tempo - dice -, lotterò per cancellare queste menzogne e far emergere la verità sulla lotta dei serbi". Sebbene Mladic si aspettava la condanna, a quanto riferisce il figlio, e sostiene anche di essere stato giudicato sulla base di "falsità", e "che il Tpi non è un tribunale ma una commissione della Nato. Tutto viene fatto per criminalizzare il popolo serbo che si difendeva dall'aggressione".
    Una posizione che peraltro non è solo di Mladic. Da Mosca è arrivata in queste ore una condanna a una sentenza che i russi ritengono "dovuta a pregiudizi e politicizzata" e che "mina il processo di rinconciliazione nei Balcani".
    Condannato per genocidio, Mladic giura: "Solo il primo tempo"

    L'ex legale canadese di Milosevic: "Mladic è un capro espiatorio per coprire i crimini della NATO"
    Tutti i mezzi di informazione di massa hanno dato ieri e per l’intera giornata la notizia della condanna da parte del tribunale delle Nazioni Unite del generale Ratko Mladic. I giudici del Tribunale Onu hanno ritenuto colpevole il generale serbo della maggior parte delle accuse risalenti alla guerra del 1992-1995, in particolare il famigerato massacro di Srebrenica. Mladic si era sempre dichiarato non colpevole di tutte le accuse.
    Mladic, che ha ascoltato il verdetto da una stanza limitrofa dopo che ha tentato varie volte di disturbare la lettura, è stato condannato all’ergastolo. Secondo quello che riporta il figlio del generale, Darko, in un’intervista a TASS, suo padre in aula ha detto: "Sono tutto bugie, questo è un tribunale della NATO!"
    Come AntiDiplomatico abbiamo ascoltato per un commento Cristopher Black, canadese, uno dei giuristi penali internazionali più importanti al mondo e colui che per anni è stato il legale che ha difeso l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic dalle accuse mossegli dallo stesso Tribunale ONU. In pochi conoscono la storia del Tribunale per l'ex Jugoslavia come lui.
    Signor Black, il Tribunale criminale internazionale per le Nazioni Uniti ha condannato all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra il generale Ratko Mladic. Quali sono i suoi primi commenti?
    C.B. Si tratta di un’altra umiliazione per la Jugoslavia e la Serbia da parte della Nato. E’ chiaro a tutti che dalla sua creazione, dal finanziamento, dai metodi e dall’arruolamento del personale che questo è un Tribunale della Nato. Quello che dico è confermato da quanto dichiarava ieri poco dopo la lettura del verdetto proprio il Segretario Generale delle Nazioni Unite che ha detto di ‘accogliere positivamente la decisione… i Balcani occidentali sono di importanza strategica per la nostra Alleanza’.
    In altre parole, questa condanna aiuta la Nato a consolidare la sua presa sui Balcani, tenendo i serbi intimiditi e sottomessi. Il Generale Mladic è un capro espiatorio per i crimini di guerra dell’Alleanza Atlantica. Crimini commessi in tutta la Jugoslavia, che il Tribunale ONU ha coperto. L’ICTY ha in questo modo agevolato la Nato a commettere ulteriori crimini di guerra da allora.
    Quale è la sua opinione di Mladic nel lungo studio che ha compiuto sui fatti tragici accorsi in Ex Jugoslavia?
    C.B.: Il Generale Mladic è un soldato falsamente accusato dal Tribunale della Nato. E questo perché ha cercato di difendere il suo popolo da un’aggressione. Lui è, come ho detto in precedenza, il capro espiatorio per coprire i crimini della NATO. E’ un uomo che ha avuto il coraggio di combattere il male, vale a dire l’impero della Nato e i suoi alleati locali. E’ una vittima.
    Come ex legale di Milosevic, come giudica il lavoro del Tribunale ad hoc per i crimini commessi in ex Jugoslavia che, dopo la sentenza Mladic, si scioglierà tra pochi giorni?
    C.B.: L’ICTY si è dimostrato essere esattamente quello che doveva essere, un tribunale fantoccio che ha utilizzato metodi assurdi di giustizia e che si è impegnato nel portare avanti un processo selettivo per attuare l'agenda della NATO di conquista dei Balcani. E questo come preludio all'aggressione contro la Russia che stiamo osservando in questi giorni. Quello che i media non scrivevano ieri nel racconto che hanno dato del verdetto Mladic è che la Nato ha utilizzato il tribunale come un mezzo di propaganda per fabbricare una storia assolutamente falsa sugli eventi, al fine di coprire i suoi crimini, per mantenere le ex repubbliche di Jugoslavia sotto il suo dominio e per giustificare quell'aggressione e l'occupazione. E’ un’onta per tutta la civiltà.
    L'ex legale canadese di Milosevic: "Mladic è un capro espiatorio per coprire i crimini della NATO" - L'intervista - L'Antidiplomatico





    Da “La Stampa” un odore di totalitarismo. Neocon.
    Maurizio Blondet
    Un articolo apparso su La Stampa, giornale diretto da un neocon americo-israeliano, apparso il 19 novembre
    I cavalli di Troia del Cremlino: la rete d?influenza della Russia con i politici europei - La Stampa
    riporta uno studio dell‘Atlantic Council sui “cavalli di Troia del Cremlino” in Europa, ossia dei politici che subiscono, secondo questo pensatoio atlanticista, “l’influenza russa”.
    I servi di Putin in Europa.
    Vale la pena di citare ampiamente l’articoletto del giornale torinese, per “sentire” l’afrore minaccioso di volontà repressiva che emana:
    “….nel grafico delle interferenze russe in Europa illustrato dall’ultimo report dell’Atlantic Council (The Kremlin’s Trojan Horses: Russian Influence in southern Europe), c’è qualcosa di più. C’è soprattutto il concentrico e sistematico attacco al mondo che […] ha portato avanti finora l’eredità dell’illuminismo da parte di forze di matrice diversa – sovranista, populista, nazionalista, anti-globalista, passatista, neo-nazista, e via andare – accomunate dall’avversione ai valori liberali e da un multiforme richiamo all’ordine. C’è insomma la prova di quanto facile sia per chi debba compensare la propria debolezza con le difficoltà altrui (Putin oggi ma domani potenzialmente la Cina, la Turchia o qualsiasi altro attore geopolitico) approfittare della nostra società aperta e dunque permeabile, evoluta e un po’ annoiata, confusa dagli smottamenti del Novecento al limite della cupio dissolvi.
    Quindi il campo di battaglia è chiarito: il mondo dell’Illuminismo, della “società aperta e dunque permeabile”, è sotto attacco concentrico da parte di tutti gli oscurantismi possibili e immaginabili (sovranista, populista, nazionalista, anti-globalista, passatista, neo-nazista), incarnati dall’Oscurantista Primo, il Male Assoluto Putin che “approfitta” delle nostre libertà. La Luce è minacciata dalle Tenebre.
    Prendiamo ad esempio, continua La Stampa, “Il groviglio greco” [delicata allusione alla riduzione alla fame del popolo ellenico da parte del modo Illuminato, ndr.] . Qui, “l’antagonismo è mainstream e mette insieme destra, sinistra, monaci ortodossi, militari, tutti sulle barricate contro l’estremo avamposto dell’occidente trincerato a Bruxelles”.
    Insomma: chi protesta contro il trattamento che la Merkel ha fatto subire alla Grecia, è un Figlio delle Tenebre, se la intende coi “monaci ortodossi” (orrore!), è infettato dalla propaganda russa, di cui sta contagiando le masse come gli untori facevano con la peste manzoniana.
    Passiamo all’Italia: “Il capitolo sull’Italia, curato da Luigi Sergio Germani [Radio Radicale] e Jacopo Iacoboni (che ne scrive da mesi su La Stampa), è esemplare”. Questi due signori “disegnano uno schema della russofilia nazionale che vede giocare in favore di Putin fattori diversi, ideologici nel caso della Lega o del Movimento 5 Stelle, economici nel caso degli imprenditori che, a partire dall’entourage berlusconiano, fanno business a Mosca e mal digeriscono le sanzioni”.
    Siccome siamo “Paese impoverito, arrabbiato (con “la casta”) e confuso”, “i trolls di San Pietroburgo, gli account fantasma, le fake news” hanno trovato un terreno fertilissimo nel nostro paese. “Nell’Italia senza bussola”, che non segue i dettami della Luce Atlantica ed Europeista. La prova che l’Italia è senza bussola viene indicato nei seguenti fatti: in questa arretrato paese, figuratevi, “si grida all’invasione davanti a 180 mila migranti, le donne si dividono come in nessun altro Paese al mondo sul “molestie-gate” e si può commentare la morte di Totò Riina sostenendo che le campagne abortiste della Bonino abbiano ucciso più della Mafia”.
    Dunque siamo avvisati: chi ride di Asia Argento invece di difenderla e compassionarla, è un cavallo di Troia di Putin. Chi protesta contro le ondate di clandestini, lo fa perché è istigato dai noti trolls di San Pietroburgo. Chi non esprime l’alta stima per l’atlantica egeria Emma Bonino e la accusa dei 10 mila aborti che lei stessa vanta, è un agente del Nemico che sta a Mosca.
    L’afrore dittatoriale spira ben chiaro dal testo in inglese dello “studio” dell’Atlantic Council. Lasciamo gli interessati il piacere di ritrovare il proprio nome nella schedatura di quelli che vengnono smascherati come servi di Putin:
    http://www.atlanticcouncil.org/image...2_web_1115.pdf
    Ci bastino due esempi. I due estensori del rapporto riferiscono ai superiori americani che Salvini ha detto in tv, nel “il 18 ottobre 2016, che “la NATO fa’ un giuoco pericolosissimo spostando 4 mila soldati, carri armati ed aerei verso i confini russi”, e che “l’Italia dovrebbe rivedere la sua partecipazione alla NATO”. Il giugno 2016, Manlio Di Stefano (5 Stelle) ha osato chiamare “la rivoluzione ucraina di piazza Maidan un putsch sostenuto dal’Occidente fatto per estendere la NATO ai confini della Russia”:
    Non sono forse queste sacrosante verità? No, sono “narrative anti-occidentali ed anti-americane” dettate dal Cremlino: chi osa esprimerle si rivela un cavallo di troia di Putin, quindi le sue opinioni non devono circolare in pubblico. Non sono più libere opinioni, ma delitti: vanno censurati, in attesa che queste persone vengano fatte tacere negli altri modi ben noti ai neocon. Nemmeno un angolo della scena politica si deve lasciar occupare da chi esprime critiche alla NATO e al regime di Kiev; la democrazia illuminista richiede un Pensiero Unico. Potete formare tutti i partiti che volete, basta che non pensino diversamente da Bonino, Soros, Molinari, o l’Atlantic Council. Gli altri sono nemici del popolo, e ”nessuna libertà per i nemici della libertà”, come disse quello (era Robespierre quando instaurò il Terrore).
    Il guaio è, riconosce lamentoso il giornale degli Elkan, in un finale sull’orlo del delirio, che “il presidente russo pare incontrare i gusti dello zeitgeist prima ancora di quelli di un determinato partito o popolo. Uno zeitgeist anti-illuminista e individualista, con le sinistre tiepide verso le Pussy Riot […] gli omosessuali terrorizzati dall’islam al punto di tollerare la Le Pen, gli ex rifugiati dell’Europa dell’est in trincea contro quelli africani. Putin è la forza antica e moderna, solida, rassicurante”. Si deplora, lacrime agli occhi, che “la meglio gioventù emancipatasi sognando Voltaire abbia dirottato su Putin, il padre forte necessario perché popoli immaturi non scambiano il disordine con la democrazia”.
    Dunque ora lo sappiamo: aderire alla Luce Atlantica richiede la calda, incondizionata approvazione le Pussy Riots, su cui la nostra psicopolizia ha osservato che “le sinistre sono tiepide”. La psico-polizia de La Stampa ha scovato anche chissà dove, “omosessuali” che invece di votare per il collega Macron, per terrore dell’Islam “tollerano la Le Pen”, invece di esercitare su di essa la sacra intolleranza, il santo fanatismo prescritto dalle centrali oligarchiche globali, la riduzione a non-persona, in attesa della ghigliottina che ci libererà dagli avversari politici in onore del Conformismo Unico e Obbligatorio.
    L’articolo del neocon infatti si conclude con un invito all’azione
    “Putin guadagna punti perché fa Putin, l’Europa farebbe bene a rispondere con i valori europei”: censura e galera per Soral (l’intellettuale francese già condannato due volte per il suo sito)! Fame ai greci! Onore alle Pussy Riots e Viva Poroshenko! Bene la NATO! Grazie americani per averci salvato da Gheddafi e formato l’ISIS e per portarci alla guerra contro la Russia!
    Ma che cos’è l’Atlantic Council?
    Ci resta da chiarire che cosa è l’Atlantic Council, il pulpito della Verità e Civiltà di cui la Stampa diffonde le accuse come oro colato.
    Tanto per essere chiari, “L’Atlantic Council è un think tank americano con sede a Washington, il cui scopo è “Promuovere la leadeship americana e il ruolo centrale della comunità atlantica nell’affrontare le sfide del XXI secolo” (Wikipedia). Fra i suoi dirigenti figura – benché ultranovantenne – il generale Brent Scowcroft, un fossile storico che come consigliere della sicurezza nazionale ebbe un’ambigua parte nella partizione della Jugoslavia, ma che soprattutto è stato direttore del President’s Foreign Intelligence Advisory Board per George W. Bush dal 2001 al 2005, ossia un complice diretto del mega-attentato e false flag dell’11 Settembre. Fra le personalità illuminate e illuminanti al vertice dell’Atlantic Council trovo, senza sorpresa, Henry Kissinger, James Schlesinger, e soprattutto il direttore della CIA R. James Woolsey, il rabbino Dov S. Zakheim ed il generale Anthony C. Zinni, l’organizzatore dei bombardamenti contro l’Irak (Operazione Desert Fox), ossia tre protagonisti del delitto di Stato 11 Settembre.
    Vedere: white wolf revolution: Il rabbino Dov Zakheim la parte oscura dell' 11/9
    Rabbi Zakheim era addirittura vice-segretario al Pentagono, insieme a Paul Wolfowitz, in quei giorni; è inoltre inserito nel sistema militare-industriale, essendo padrone della System Planning Corporation, una ditta che produce droni e apparati di teleguida elettronici per aerei, ed indiziata di aver fornito gli aerei che si sono avventati contro le Twin Towers.
    Questo è il modello di oggettività, pluralismo e civiltà da cui il direttore della Stampa prende ispirazione. Si vede bene di quali poteri il giornale torinese è il Cavallo di Troia.
    https://www.maurizioblondet.it/la-st...arismo-neocon/


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    Predefinito Re: Rif: Geopolitica

    Marina russa e giapponese insieme
    Putin e Abe sono sempre più vicini
    LORENZO VITA
    La fase di transizione geopolitica che stiamo vivendo in questi anni porterà sicuramente dei cambiamenti nel breve e nel lungo periodo riguardo blocchi di alleanze e sistemi di potere consolidati dai tempi della Guerra Fredda. E le antiche amicizie, cosi' come le inimicizie, lasciano lentamente il passo a nuove relazioni basate sul cambiamento degli interessi rispetto ai decenni precedenti. In primis nel continente asiatico, dove si assiste all’ascesa della Cina nel mondo e dove sembrano passare tutte le sfide del Terzo Millennio.
    Una prova su tutte è il rapporto, mai troppo cordiale, fra Russia e Giappone. I due Stati sono da molti anni in rapporti non idilliaci. Sull’assenza di buone relazioni pesano in particolare due grandi zavorre: la disputa sulle isole Curili e l’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
    Riguardo alla prima, i colloqui non si sono mai del tutto fermati, ma sono ancora in una fase di studio ben lontana dalla risoluzione. La Russia vorrebbe giungere a un accordo che prevedrebbe la cessione di una parte delle isole al Giappone, mentre per Tokyo non esiste margine di trattativa (almeno per ora). Sotto la presidenza Putin vi sono stati dei timidi passi in avanti, ma i governi del Giappone non considerano allettante l’ipotesi di rinunciare a una pretesa territoriale che loro ritengono assolutamente indiscutibile.
    A fronte di questa disputa, non di poco conto nell’equilibrio fra le due potenze, vi è da dire che negli ultimi mesi qualcosa è cambiato nell’approccio dei rispettivi Paesi sul problema delle relazioni bilaterali. Entrambi gli Stati, nonostante le divergenze su alcune questioni – non ultima la Corea del Nord – sono consapevoli delle enormi opportunità che si aprirebbero in caso di ripristino di relazioni amichevoli fra i due Paesi. E prova ne è che, durante il meeting Apec in Vietnam, è andato in scena anche un vertice bilaterale fra Putin e Abe che mostrato come entrambi i governi siano intenzionati a proseguire nei progetti di partnership economica. E a farla da padrona è stato chiaramente il settore energetico. Abe ha investito molto nella possibilità che le aziende giapponesi entrino nei giacimenti russi della Siberia e del Pacifico, sia come volano per le proprie aziende, sia per ottenere vantaggi economici nella fornitura di gas e petrolio, di cui il Giappone è fra i primi consumatori al mondo. Putin, dal canto suo, è conscio delle possibilità che si aprono in questo settore attraverso la partnership con i giapponesi, soprattutto per l’altissimo livello tecnologico raggiunto da Tokyo. Un esempio su tutti, la tecnologia di perforazione nelle profondità oceaniche, che le aziende giapponesi hanno e che latita in Russia, e che puo' essere decisiva nello sfruttamento dei giacimenti artici e siberiani.
    La partnership fra i due Stati interessa a entrambi i governi anche per motivi strettamente politici. Il governo di Tokyo sa bene che riuscire a entrare in stretto contatto con Mosca, significa anche avere una leva sulla Cina, la quale ha tutto l’interesse a far si' che non vi sia questo riavvicinamento. Riavvicinamento che si tradurrebbe, fra l’altro, anche in un lento e graduale spostamento delle truppe giapponesi dal nord del territorio nipponico a sud, quindi a tutela e ostacolo rispetto alle manovre cinesi.
    Per la Russia, riuscire ad ottenere l’amicizia del Giappone significa, al contrario, non solo sganciarsi dall’eccessivo legame con Pechino – utile e voluto, ma che comincia a essere visto con qualche preoccupazione dal Cremlino – ma provare a scardinare l’asse fra Tokyo e Washington. Putin ha affermato che Mosca deve esaminare “quali impegni ha il Giappone e che cosa puo' fare, e non puo' fare, in modo indipendente. E'del tutto naturale, se ci sono alcuni impegni, che questi debbano essere osservati e che effetto abbiano sui nostri rapporti con il Giappone”. In sostanza, il Cremlino vuole vederci chiaro sui rapporti tra Tokyo e la Casa Bianca, chiedendo che soltanto un riesame di questi rapporti per quanto concerne la Russia puo' essere la base per un’alleanza fra i due Stati.
    Nel frattempo pero' qualcosa si muove fra i due Paesi anche sul piano militare. Come riporta Agenzia Nova, la Flotta russa del Pacifico e le forze marittime giapponesi effettueranno esercitazioni congiunte di ricerca e salvataggio alla fine di novembre. A riferirlo, è stato il portavoce del Distretto militare orientale russo, parlando dello “sviluppo della cooperazione fra le Marine russa e giapponese e di un nuovo impulso a livello di risposta congiunta alle minacce alla sicurezza”. Una notizia che non va sottovalutata. Le esercitazioni militari congiunte sono sempre il simbolo di una convergenza d’interessi molto solida fra Stati.
    Esercitazioni congiunte della marina russa e giapponese

    La Tradizione dei “deplorevoli”: due nuovi libri dello storico Paolo Borgognone
    Giovanni Sessa
    Nel panorama della cultura oppositiva al sistema, troppo spesso arroccata nella riproposizione di modelli politici incapaci di produrre nuove sintesi teoriche, Paolo Borgognone, giovane storico astigiano, rappresenta una novità positiva. Lo confermano i suoi due ultimi libri, i cui contenuti rinviano l’uno all’altro. Ci riferiamo alla terza edizione, ampliata e riveduta, di Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche, ma anche a Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa, nelle librerie per i tipi di Zambon Editore.
    Nel primo testo, l’autore individua le ragioni che fanno della Russia di Putin il nemico principale del capitale speculativo, da eliminare dalla scena politica in quanto pericoloso inciampo lungo la strada della esportazione del “paradiso” liberale e dei suoi valori di riferimento nel mondo. Nella Prefazione si chiarisce come, nonostante l’innegabile inserimento della stessa compagine statuale post-sovietica nelle dinamiche espansive imposte dal capitalismo dei flussi, nella Russia di Putin si siano riaccese “correnti profonde”, incancellabili perché iscritte nell’animus del popolo e capaci di contrastare la colonizzazione dell’immaginario indotta dalla mercificazione universale. Cio' rende il ruolo politico di Putin catecontico, raffrenante rispetto alle accelerazioni della modernità nella sua discesa verso il Regno del nulla. Storicamente, il risveglio di tali anticorpi spirituali si sarebbe manifestato in Crimea, durante il colpo di stato filo-occidentale in Ucraina. Il popolo (russo) di Crimea ebbe contezza dell’irriducibilità della propria visione del mondo a quella mercatista ed utilitarista dell’Occidente.
    Sotto il profilo culturale e spirituale tale netta differenziazione si è mostrata nelle correnti politiche sorte nella Russia post-sovietica, mentre la nuova borghesia di quel paese pensava di aver definitivamente realizzato, con l’appoggio dello sciagurato “Corvo bianco” Elstin, il proprio sogno consumista. Sappia il lettore che il nucleo vitale della proposta di Borgognone in questo libro deve essere individuato nell’analisi, organica e puntuale, della produzione culturale espressa dai gruppi “conservatori-rivoluzionari” e da quelli “etno-nazionalisti” che, per primi, seppero contrastare l’invasività politico-esistenziale delle tesi dei liberali filo-occidentali. Cosi'sfilano, tra le pagine, le personalità di pensatori assai significativi.
    Aleksander Dugin, tra tutti, definito il 18 dicembre 2016 dallo scrittore P. Ratner, legato all’establishment clintoniano, l’intellettuale “più pericoloso al mondo”. Dugin ha individuato quale unica via d’uscita dalla miseria mercatista del presente, la Tradizione. Non casualmente, è stato il primo traduttore di Evola e Guénon in russo e, con Alain de Benoist, ha compreso la necessità di guardare oltre il moderno per riconsegnare la vita degli uomini all’originaria dignità. Vengono, inoltre, analizzate, le tesi espresse dalla “destra classica” russa e dall’“euroasiatismo”, ritenute sintoniche al progetto geopolitico identitario putiniano.
    Borgognone legge il Sessantotto come fenomeno storico che ha messo in atto la definitiva “liberazione” del modo di produrre capitalistico-finanziario dai vincoli etici ancora presenti nella borghesia classica. Altro che rivoluzione contro il capitale! Si tratto', con la contestazione giovanile, di realizzare l’ultima fase della rivoluzione capitalista. In cammino verso il nulla, naturalmente! L’Impero mondialista teorizzato da Negri ed Hardt, l’altermondialismo della “sinistra estrema”, non è che l’eco di quell’evento: l’altra faccia della medaglia del mondialismo liberticida, di cui condivide gli assunti fondamentali.
    Il Nuovo Ordine Mondiale costruito attorno a tali valori, comincia a mostrare le sue crepe. Borgognone ritiene che l’8 novembre 2016, l’imprevista elezione alla Presidenza USA di Trump, abbia fatto entrare il mondo in una nuova fase: la transizione (probabilmente lenta e lunga) dall’Impero della Mercificazione universale verso un Nuovo Inizio.
    Ne parla nel secondo libro: Deplorevoli? Il titolo è suggerito dalla definizione che Hillary Clinton ha utilizzato per qualificare gli elettori del suo avversario “una massa di deplorevoli” (p. 9). Espressione che esemplifica il disprezzo nutrito dai membri della Nuova Classe nei confronti del popolo ancora sano. Il loro esplicito disprezzo esistenzial-spirituale, veste, pero', i panni ben accetti del politicamente corretto. Cosi', mentre le frasi ritenute anti-femministe attribuite al “becero” Trump, subiscono la reprimenda mediatica, la riduzione della donna ad oggetto (leggasi fellatio con l’avvenente Monica) messa in atto dal Presidente “democratico” Bill, è sottaciuta e/o giustificata. Cio' che non rientra nell’orizzonte ideale del Pensiero Unico, non puo' essere giustificato e subisce la reductio ad hitlerum, un processo di vera e propria demonizzazione. Il fenomeno Trump è stato preceduto dalle affermazioni, in diversi paesi europei, di movimenti “populisti, sovranisti ed identitari”. Il più delle volte, animati da una volontà dichiaratamente contraria alle istituzioni europee, sentite come soverchianti le libere scelte dei popoli (caso Brexit).
    Il populismo rappresenta una sorta di risposta spontanea, naturale ed immediata all’innaturalità della situazione che stiamo vivendo su più piani. Da quello propriamente ricordato, politico-istituzionale, a quello esistenziale, personale, per giungere finanche ai comportamenti sessuali. Da questo punto di vista, la teoria del gender funge da grimaldello per ridurre l’uomo alla dimensione del desiderio deprivato di senso. Di fronte a cio' i ceti popolari, gli operai delle periferie urbane come i contadini, abbandonati dalla sinistra dei diritti dell’uomo, chiedono a gran voce identità personale e comunitaria, appartenenza sociale, tutela economica, nella consapevolezza che anche i loro interessi primari divergono radicalmente da quelli della Nuova Classe. Per di più, i processi indotti dalla crisi, in particolare la progressiva proletarizzazione dei ceti borghesi, hanno fatto crescere, in termini numerici, gli appartenenti ai ceti esclusi, parallelamente alla loro rabbia sociale.
    Per questo i libri presentati suggeriscono la necessità di operare per costruire un polo politico alternativo al dominio neo-liberale. Esso potrà essere realizzato, oltre la consueta dicotomia destra-sinistra, voluta dal sistema, guardando alla Tradizione, alla richiesta identitaria e comunitaria dei “deplorevoli”. La Tradizione è meta, indica un futuro possibile.
    La Tradizione dei "deplorevoli": due nuovi libri dello storico Paolo Borgognone ? Giovanni Sessa | EreticaMente



    Netanyahu a Macron: L’esercito israeliano si trova pronto per attaccare obiettivi iraniani in Siria
    Il primo ministro israeliano, Benjamín Netanyahu, ha assicurato che il suo Esercito si trova pronto per puntare ed attaccare gli obiettivi iraniani sul territorio siriano.
    Nel corso di una conversazione mantenuta con il presidente francese, Emmanuel Macron, il premier israeliano ha affermato che le attività dell’Iran in Siria possono trasformarsi in “obiettivo” delle sue forze, come riportato dal “The Times of Israel”.
    Secondo la trascrizione della chiamata che è stata divulgata dal Canale 10 della Tv israeliana, il capo del regime di Israele ha avvisato il mandatario francese che le sue forze armate potrebbero lanciare attacchi contro obiettivi iraniani in Siria.
    “A partire da adesso, Israele vede le attività dell’Iran in Siria come un obiettivo. Non dubiteremo ad operare secondo le nostre necessità di sicurezza”, ha avvisato Netanyahu.
    L’Iran avverte Israele di un possibile conflitto militare
    Un comandante d’alto rango delle Forze Armate Iraniane ha avvisato Israele che l’inizio di una guerra potrebbe far precipitare la fine del regime di occupazione israeliano in Palestina.
    “Per loro (gli israeliani), il minor errore sarà anche l’ultimo: qualsiasi nuova guerra potrebbe finire con la sparizione di questo regime dalla geografia politica mondiale”, ha avvisato il Mercoledì il comandante del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamicas (CGRI) dell’Iran, Mohamad Ali Yafari.
    Il militare persiano ha segnalato che l’emarginazione degli USA dalle equazioni politiche e di sicurezza della regione, le eliminazione dei terroristi islamici e l’impotenza dei regimi come quello di Israele, dimostrano la progressiva disintegrazione della “implacabile” egemonia di Washington.
    Un altro comandante della CGRI, il generale de brigata Husein Salami (vice comandante del corpo), nel commentare le sconfitte subite dai terroristi in Siria, ha assicurato che in Siria ed in Iraq sono stati gli USA ed Israele ad aver creato ed armato la banda terrorista dell’ISIS (Daesh in arabo) per dividere le popolazioni locali e limitare l’influenza dell’Iran nella regione.
    Allo stesso modo il generale Salami ha aggiunto che Teheran è riuscita a trasformare le minacce progettate dagli USA e da Israele in opportunità.
    Il 19 di Novembre l’ultimo bastione del Daesh in territorio siriano, Abu Kamal, è stato espugnato dalle forze siriane in combinazione congiunta con Hezbollah ed Esercito iracheno. I soldati iraniani, secondo le fonti militari, hanno svolto un ruolo chiave nella lotta contro i vari gruppi terroristi in Siria.
    La loro vittoria ha suscitato l’ira dei funzionari israeliani che avevano appoggiato qualsiasi strategia che potesse debilitare le forze che combattono contro i teroristi in Siria, ad esempio con attacchi aerei contro le posizioni dell’esercito siriano e dei suoi alleati.
    Nota: Le dichiarazioni di guerra e di mutua distruzione si susseguono nella regione e questo lascia intravedere sempre più vicina la possibilità di un nuovo conflitto, questa volta allargato fino all’Iran. Qualcuno sembra non volersi rassegnare alla sconfitta dell’ISIS e degli altri gruppi terroristi e questo fa comprendere a chi risultava utile l’attività dei gruppi islamisti wahabiti e salafiti.
    https://www.controinformazione.info/...ani-in-siria/#



    La “filantropia” di Soros?
    Serve a pagare meno tasse
    ROBERTO VIVALDELLI
    L’idolo della sinistra progressista e promotore della “società aperta” ha spostato buona parte del suo patrimonio personale su un ente no-profit per pagare meno tasse. Il finanziare George Soros ha trasferito circa 18 miliardi di dollari della sua fortuna sotto forma di donazione alla Open Society Foundations – rete di fondazioni internazionali fondata dallo stesso magnate e sotto suo il totale controllo. Un’ingente somma di denaro che, come rileva il Wall Street Journal in un editoriale pubblicato nelle scorse ore, non potrà essere tassato dall’Internal Revenue Service, l’agenzia governativa statunitense responsabile della riscossione delle imposte. Una mega donazione, quella di Soros, che aveva già attirato i sospetti di Bloomberg, e su cui ora punta il dito anche l’autorevole quotidiano conservatore di New York.
    Il trucco di Soros per pagare meno tasse
    Secondo il noto economista Stephen Moore, autore dell’analisi pubblicata sul Wsj, si tratterebbe “della più grande elusione fiscale della storia degli Stati Uniti sui cui nessuno, né a destra né a sinistra, sembra aver sollevato un sopracciglio”. La donazione di Soros, infatti, non verrà mai tassata: “Gran parte della ricchezza che il signor Soros ha trasferito nel corso degli anni alla Open Society Foundationsnon sarà mai tassata – osserva Moore -. Una donazione ‘benefica’ di miliardi di dollari sfugge a qualsiasi imposta in conto capitale e all’imposta patrimoniale”.
    E c’è di più. Grazie a questo “escamotage” legale, sottolinea Moore, il finanziare “puo' dedurre fino al 20% le donazioni dal suo reddito imponibile per cinque anni”. I donatori, in generale, “possono anche mantenere il controllo del denaro all’interno della fondazione privata per anni o addirittura decenni prima che venga erogato. Poiché la fondazione puo' impiegare membri della famiglia con stipendi a sei cifre per amministrarla, anche per tutta la vita, il cordone ombelicale tra il donatore e l’ente no-profit non deve mai essere tagliato”. Non è affatto un caso se il figlio di George Soros, Alexander, sia un membro attivo della rete “filantropica” insieme al fratello Jonathan – che ha collaborato con molte realtà finanziate dalla Open Society Foundations come MoveOn.org e la Democracy Alliance.
    Il Congresso, spiega, “dovrebbe smettere di ignorare questo schema di elusione fiscale. I super ricchi hanno già versato centinaia di miliardi di dollari a fondazioni private, ma la cifra potrebbe presto raggiungere i trilioni di dollari”.
    Mark Zuckerberg e Bill Gates sono pronti a emulare Soros: “Zuckerberg ha già annunciato la cessione del 99% delle sue azioni di Facebook, che valgono qualcosa come 70 miliardi di dollari, alla fondazione di famiglia. Bill Gates e Warrenn Buffett hanno trasferito 30 miliardi di dollari ciascuno esentasse alla Fondazione Bill e Melinda Gates. Il Congresso non dovrebbe permettere che persone ricche e politicamente influenti utilizzino fondazioni private per sfuggire alla tassazione”, sottolinea l’economista. La “filantropia”, per Soros e i Paperoni americani politicamente “impegnati”, sembra essere un ottimo affare. Sotto tutti i punti di vista.
    La "filantropia" di Soros? Serve a pagare meno tasse - Gli occhi della guerra


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    Predefinito Re: Geopolitica

    L’Accordo Russia-Egitto cambia la situazione strategica in Medio Oriente

    Da RedazioneDic 02, 2017Nessun commento

    Al Sisi con Putin
    La Russia ha reso pubblico un accordo raggiunto con l’Egitto in base al quale sarà consentito all’aviazione militare russa di utilizzare qualsiasi base aerea all’interno del territorio egiziano e di avere libero accesso nello spazio aereo dell’Egitto.

    Questo accordo si è concretizzato soltanto 24 ore dopo che il ministro della Difesa russo, Serguei Shoigu, aveva fatto una visita ufficiale al Cairo per riunirsi con il presidente egiziano Abdul F. Al-Sisi e con il suo ministro della Difesa.


    Secondo il New York Times, la cooperazione fra Russia ed Egitto che permette ai russi di utilizzare le basi e lo spazio aereo dell’Egitto, presuppone che Mosca disporrà della maggiore presenza miltare in Egitto dal 1973, nell’epoca dei vecchi accordi con l’URSS. Questo significa che la Russia godrà in Egitto degli stessi privilegi di cui gli USA hanno usufruito per diversi anni (decenni).

    Su questo tema il giornale cita l’esperto in questioni egiziane, membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale USA e questi ha avvertito che l’accordo “rappresenta un grave problema per le relazioni di difesa egitto-statunitense”.

    Il giornale cita i media russi che affermano che questo accordo sarà d’aiuto per le forze aeree russe che svolgono la campagna antiterrorista in Siria, un tema su cui esiste una convergenza fra al-Sisi ed il suo omologo russo Vladimir Putin. In questo senso Vladimir Vetin direttore del Centro per il Medio Oriente dell’Istituto di Studi Strategici russi, ha affermato che l’accordo di accesso dell’aviazione russa agli aeroporti egiziani faciliterà la missione dei loro aerei in Siria, come comunicato dall’Agenzia Ria Novosti.

    Anche il “Times” ricorda la forte relazione personale intercorrente fra Putin ed Al Sisi, segnalando che loro hanno sottoscritto un accordo per la fornitura di armi russe all’Egitto per un valore di 3.500 milioni di dollari ed appoggiano il generale Jalifa Haftar in Libia di fronte al governo di Riconciliazione Nazionale appoggiato dagli USA. Il giornale sottolinea che Mosca ha stabilito una presenza limitata nel deserto egiziano per appoggiare Haftar.


    Presidente Al Sisis con ministri russi
    Il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Edgar Vasquez, ha dichiarato che gli USA hanno preso nota di questa situazione e stanno vigilando la situazione.

    Secondo il sito di intelligence nordamericano Stratford, l’accordo dimostra il desiderio di Mosca di incrementare la sua presenza in Medio Oriente per tre ragioni: trattare le sfide economiche globali nei suoi propri termini, contenere i gruppi estremisti per impedire che si espandano verso il suo territorio o zone vicine ed accedere a nuovi mercati per le armi per i prodotti, petrolio e gas.

    Il sito segnala che l’accordo permetterà alla Russia di estendere la sua influenza sulla Libia, sul Mar Rosso e sul Corno d’Africa e sul Mediterraneo e rivela che Mosca si appresta a realizzare una base militare navale nel Sudan.

    https://disq.us/url?url=https%3A%2F%...Ek&cuid=561210
    Se il popolo permetterà alle banche private di controllare l’emissione della valuta, con l’inflazione, la deflazione e le corporazioni che cresceranno intorno, lo priveranno di ogni proprietà, finché i figli si sveglieranno senza casa.

  7. #3557
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    Predefinito Re: Geopolitica

    Russiagate: un 'errore' lo scoop su Flynn, ABC sospende il giornalista
    La catena televisiva Abc ha sospeso il giornalista Brian Ross per aver attribuito "erroneamente" alcune frasi a Michael Flynn, ex capo della Sicurezza del presidente Usa, sul Russiagate.
    Secondo Ross, Flynn avrebbe detto che lo stesso Trump era il responsabile ultimo delle sue riunioni con i rappresentanti del Cremlino e che era stato lo stesso Trump a ordinare quelle riunioni.
    Ross, durante uno speciale, aveva detto che Flynn avrebbe testimoniato che Trump gli aveva ordinato, durante la campagna elettorale, di mettersi in contatto con Mosca. Notizia questa che aveva fatto letteralmente crollare i mercati. L'Abc, successivamente aveva corretto il tiro, affermando che le direttive di Trump sarebbero arrivate non durante la campagna elettorale, ma dopo l'elezione del novembre del 2016.
    Flynn da parte sua si è dichiarato responsabile di aver mentito alle autorità sul Russiagate, ma non ha mai detto di avere ricevuto ordini diretti da Trump. L'errore di Ross ha obbligato la catena a diffondere una nota con cui si sospende il giornalista e si sottolinea che "l'informazione divulgata da Brian Ross non era stata esaminata così come avviene abitualmente". Il giornalista sarà sospeso e senza stipendio per quattro settimane.
    https://www.agi.it/breakingnews/russ...ws/2017-12-03/

    USA: ABC SOSPENDE IL GIORNALISTA AUTORE DEL FALSO SCOOP SU FLYNN
    DI PAOLO PADOIN
    La forsennata campagna iniziata dalla presidenta Boldrini contro le Fake news, pericolo per la democrazia, trova un sostegno da quanto avvenuto negli Usa. Che però, guarda caso, interessa giornali vicini all’opposizione democratica che, come accade in ogni dove il potere della sinistra è scalzato, non accetta il risultato delle elezioni, ma cerca in ogni modo di far cadere il governo o il presidente eletti dal popolo, attraverso manovra della stampa compiacente o della magistratura schierata.
    Così accade che negli Usa la tv ABC corregge il suo scoop su Michael Flynn: «Flynn si prepara a testimoniare che Donald Trump gli ha chiesto di contattare i russi come presidente eletto, e non come candidato» come inizialmente riportato. ABC ha sospeso per quattro settimane il giornalista autore del presunto scoop, Brian Ross in seguito all’errore su Michael Flynn
    Si tratta di una precisazione, spiega la rete televisiva che cerca così di minimizzare quello che molti definiscono un errore epocale. L’invito a contattare i russi sarebbe quindi stato chiesto da Trump a Flynn dopo le elezioni, durante la transizione.
    Si tratta di una chiarificazione importante che sminuisce la portata dello scoop che ha fatto crollare i mercati per qualche ora: la storia originale riportata da ABC poteva implicare azioni illegali da parte di Trump, mentre la chiarificazione descrive mosse scontate da un presidente eletto.
    «Congratulazioni ad ABC per aver sospeso Brian Ross per la sua inaccurata e disonesta informazione sulla caccia alle streghe della Russia. Altre reti televisive e quotidiani dovrebbero fare la stessa cosa con le loro fake news» ha tweettato Donald Trump. Che ha aggiunto una considerazione che riguarda il diverso trattamento nei confronti della sinistra (che in quest’occasione è rimasta muta): «Il generale Flynn ha mentito all’Fbi e la sua vita e’ rovinata. Hillary Clinton ha mentito piu’ volte e nulla le e’ accaduto? Sistema truccato o due standard diversi?. Molte persone si chiedono: cosa fara’ il Dipartimento di Giustizia su Hillary che, dopo aver ricevuto un mandato dal Congresso, ha cancellato e sciolto nell”acido 33.000 email? Nessun giustizia».
    https://www.firenzepost.it/2017/12/0...coop-su-flynn/

    Usa, Trump si sfila dal patto Onu sui migranti
    Gli Stati Uniti si sfilano dall'accordo delle Nazioni Unite per una migrazione sicura, il Global Compact on migration firmato nel settembre 2016. Lo annuncia l'ambasciatrice americana all'Onu, Nikki Haley.
    Gli Stati Uniti si sono sfilati dall'accordo delle Nazioni Unite per una migrazione sicura, il Global Compact on migration firmato nel settembre 2016. Lo ha annunciato l'ambasciatrice americana all'Onu, Nikki Haley, spiegando che la dichiarazione «non è in linea con le politiche per l'immigrazione e i rifugiati americane e con i principi dell'amministrazione Trump». «Le nostre decisioni sull'immigrazione devono essere sempre prese dagli americani e solo dagli americani» ha messo in evidenza Haley.
    «La missione americana all'Onu ha informato il segretario generale che gli Stati Uniti mettono fine alla loro partecipazione al Global Compact sulla migrazione» ha detto Haley. L'intesa, chiamata Dichiarazione di New York, contiene «disposizioni che non sono in linea con le politiche americane. Per questo il presidente Trump ha deciso che gli Stati Uniti metteranno fine alla loro partecipazione al processo».
    «Saremo noi a decidere come meglio controllare i nostri confini e chi sarà autorizzato a entrare nel nostro paese. L'approccio globale della Dichiarazione di New York non è semplicemente compatibile con la sovranità americana».
    Usa, Trump si sfila dal patto Onu sui migranti - Lettera43.it

    L’inganno di Israele contro Assad: soldi e supporto a Isis e al Qaeda
    Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è irritato per la crescente presenza di iraniana in Siria. Perciò si riserva il diritto di “effettuare bombardamenti nel sud della Siria per costringere a osservare gli interessi israeliani”. La richiesta israeliana — comunicata la settimana scorsa dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman — è la creazione di una zona cuscinetto di 50 km di larghezza, dove le truppe iraniane e i loro alleati non possano accedere. Ciò però confligge con l’accordo sottoscritto tra Stati Uniti, Russia e Giordania che prevede una zona cuscinetto di soli 30 km a ridosso dei confini.
    Detto così — come del resto è riportato dalla maggior parte dei media — il dissidio sembrerebbe solo di natura tecnica, quindi superabile, magari dietro reciproche concessioni. Ma così non è. La questione nasconde un comportamento assai ambiguo e contorto: da una parte Israele reclama la propria sicurezza, ma dall’altra mantiene a ridosso del confine del Golan forze irregolari ostili a Damasco. Le varie forze ivi presenti sono quelle appartenenti al Free Syrian Army (Fsa), ma soprattutto al gruppo Hay’at Tahrir al-Sham (Hts, affiliato ad al Qaeda e inserito nelle lista delle formazioni terroristiche) e infine al gruppo “Jaish Khalid Ibn Walid”, affiliato ad Isis.
    Quindi accade che i gruppi terroristi ed Fsa hanno il nulla osta di Israele per permanere in zona mentre, paradossalmente, ciò è precluso agli alleati sciiti di Damasco. Si capisce bene che in queste circostanze anche un puntiglioso rispetto delle condizioni poste da Tel Aviv non basterebbe a risolvere la vicenda. La questione non si esaurisce in una diatriba di confine: in sei anni Tel Aviv ha effettuato più di un centinaio di raid aerei che hanno colpito (anche in profondità) convogli di munizioni, installazioni, depositi militari, fabbriche necessarie allo sforzo bellico, personale militare. In tutti i casi, la giustificazione dello stato ebraico è stata sempre quella della “legittima difesa”, quando in realtà non è stato mai attaccato. Ciononostante anche la settimana scorsa il capo di stato maggiore israeliano Gadi Eizenkot ha ribadito che il problema per Israele resta l’Iran ed i suoi alleati. L’alto ufficiale ha infatti affermato che “il piano dell’Iran è controllare il Medio oriente attraverso l’Iraq, la Siria ed il Libano”. Ha inoltre aggiunto che le affermazioni che Israele supporterebbe il gruppo terroristico Hts e Isis “sono solo chiacchiere”.
    Ma la realtà dei fatti confligge con tale osservazione in più punti. Tanto per iniziare, dopo la Guerra dei sei giorni, Israele si è impadronito delle alture del Golan, ricche di risorse. Questa azione è stata peraltro condannata dall’Onu con la risoluzione 2178 del Consiglio di sicurezza. Ma venendo ai nostri giorni, ciò che è più grave è che quelle che il capo di stato maggiore chiama “chiacchiere” sono invece la pura e sacrosanta verità: Tel Aviv non solo tollera a ridosso dei propri confini le forze terroristiche islamiste, ma le appoggia direttamente. L’esercito israeliano (Idf) non solo ignora i terroristi ma fornisce loro logistica, equipaggiamenti, munizioni, supporto sanitario ed in alcuni casi dispensa il salario (Wall Street Journal).
    Tutto ciò è abbondantemente provato: esiste un dettagliato rapporto stilato nell’arco di 18 mesi dalle forze di mantenimento della pace dell’Onu (Undof) dislocate nelle alture del Golan occupate. Nel report viene descritto chiaramente che l’esercito israeliano ha avuto “contatti regolari con i ribelli siriani, compresi i militanti dello stato islamico”. Queste collaborazioni sono state documentate finché le forze Onu non sono state cacciate nel 2014 perché testimoni scomodi.
    Da quel momento in poi, nella fascia demilitarizzata del Golan, Hts trova un porto sicuro precluso all’esercito siriano. Queste circostanze sono ulteriormente chiarite da testimonianze oculari e inchieste giornalistiche: ad esempio, il Wall Street Journal, nell’articolo “Al Qaeda a Lesser Evil? Syria War Pulls U.S., Israel Apart” riferisce che Israele ha curato combattenti feriti di al-Nusra e poi li ha rimandati nel Golan per combattere Hezbollah e l’esercito siriano. Inoltre, “una certa collaborazione con Isis” è stata testimoniata da Bogie Yaalon che è stato ministro della Difesa israeliano fino al 2016. Anche il Washington Post ha menzionato un accordo tra Israele e Hts e Vice News nel dicembre 2015 ha pubblicato un video dove si vedono miliziani qaedisti feriti che vengono trasportati in un ospedale israeliano da Idf. Ed ancora: l’aiuto ai jihadisti feriti è stato ammesso anche dall’ex capo del Mossad Efraim Halevy nel 2016 in una trasmissione televisiva di al Jazeera.
    Le azioni di guerra di Tel Aviv comprendono una vasta gamma di interventi come gli attacchi aerei contro Hezbollah, compreso l’omicidio mirato di comandanti iraniani e di Hezbollah. In questo senso ci sono molte evidenze come — ad esempio — l’intervista del Wall Street Journal a Moatasem al-Golani, portavoce del gruppo ribelle Fursan al-Joulan o “Cavalieri del Golan” che dice “Non saremmo sopravvissuti senza l’aiuto di Israele”.
    Quindi è evidente che Israele non è preoccupata per la propria sopravvivenza, ma ha messo in atto un piano di destabilizzazione della Siria, alla pari degli altri mandanti delle forze proxy jihadiste.
    Se infatti l’esigenza morale assoluta per Israele fosse quella della propria autodifesa, non precluderebbe a nessun altro stato il diritto di difendere il proprio paese né tanto meno rafforzerebbe i terroristi nel tentativo di sopprimerlo.
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    Israele “accende” Iron Dome
    Le forze armate israeliane hanno annunciato la piena operatività del sistema Iron Dome (Cupola di ferro) anche per quanto riguarda la sua versione navale. L’annuncio è arrivato direttamente dall’account Twitter delle Israel Defence Forces, che hanno indicato in maniera molto puntuale gli obiettivi di questa innovazione: la protezione degli asset strategici in mare e delle forze navali che operano nell’area. Costruito con la cooperazione di marina e aeronautica, il sistema ha compiuto diversi test prima di essere operativo, e opera coordinandosi con i già presenti sistemi di intercettazione di missili in dotazione alle due forze armate.
    La notizia è di particolare interesse per gli sviluppi della difesa israeliana ma anche e soprattutto per quanto riguarda la volontà di Israele di considerare il Mediterraneo orientale d’importanza strategica per i propri interessi. Negli ultimi anni, la scoperta di numerosi giacimenti di gas e la scelta israeliana di dare il via allo sviluppo dei pozzi off-shore nella propria zona economica esclusiva hanno reso questa parte del Mediterraneo una delle principali fonti energetiche di Israele. Da qui partono i gasdotti che in poco tempo dovrebbero collegare il territorio europeo a Israele, rendendolo uno dei maggiori Paesi esportatori di gas nell’Unione europea. Progetti che per ora coinvolgono anche Cipro e Grecia e che, di fatto, servono all’Ue per staccarsi sempre di più dal collegamento energetico con la Russia. In un progetto economico che, inevitabilmente, si traduce in una chiara scelta politica: contenere Mosca.
    https://www.radiospada.org/2017/12/i...nde-iron-dome/

    La Russia è fiera della sua identità e combatte la globalizzazione
    Pubblichiamo l’intervista dell’Economist al filosofo Alexander Dugin.
    The Economist: Qual è il tratto distintivo dell’identità russa e in che modo è differente dall’identità europea?
    Alexander Dugin: Prima di tutto, per capire quale sia la differenza tra l’identità russa e quella europea, dobbiamo comprendere cosa sia l’identità europea, e non è semplice farlo per due ragioni.
    Prima di tutto, ora, l’identità europea, da ciò che riesco a capire, è definitivamente distrutta. Per questo il concetto di identità è giudicato dall’agenda progressista come qualcosa che dovremmo superare. L’identità liberal europea consiste nel negare qualsiasi identità, come se fosse una trasgressione. Essere Europei oggi significa non essere Europei, ma essere dalla parte degli immigrati, dei musulmani e di tutti tranne che degli Europei. Ogni volta che qualcuno si definisce come un cittadino legato alle proprie radici e alla propria cultura, sembra un nazista. Sei irrimediabilmente etichettato come estremista. Oggi l’identità europea è negazione. Ovviamente non è sempre stato così.
    La vera differenza con l’identità russa è che noi neghiamo questa negazione. Non ci vergogniamo di essere Russi. Non abbiamo alcun senso di colpa. Non ci pentiamo di nulla. Questa è la differenza: per essere tedesco oggi devi vergognarti di ciò che ha fatto la Germania. Essere la Gran Bretagna oggi significa avere rimorso per tutto ciò che l’Impero britannico ha fatto in passato. Essere Americani vuol dire vergognarsi della parte meridionale della storia, della tratta degli schiavi. Noi non abbiamo rimorsi, quindi siamo immediatamente marchiati per il fatto che abbiamo una appartenenza, e questo è un crimine per il mondo occidentale moderno. Per noi invece l’identità ha un valore.
    The Economist: Ma qual è la Sua identità e cos’è che La rende orgoglioso? Tutte le cose che ha elencato sono cose negative, ma qual è l’identità positiva?
    Dugin: Qualsiasi identità che non si basa sulla negazione dell’identità stessa è considerata, nel processo del capitalismo, come qualcosa di profondamente sbagliato. La negazione è connaturata al concetto di identità moderna, liberale, globalista. Quindi, prima di tutto, cerchiamo di conservare con orgoglio la nostra identità, non siamo disposti a perderla.
    Siamo orgogliosi di essere cristiani ortodossi e non solo cristiani come, ad esempio, i protestanti. Perché fa parte di noi, il cristianesimo ortodosso ha formato la nostra cultura, la nostra letteratura. Dostoevskij era orgoglioso di essere cristiano ortodosso e noi siamo orgogliosi di appartenere alla nazione di Dostoevskij. E non penseremmo mai di non essere nazionalisti, perché lui lo era. Non siamo disposti a mettere in discussione Dostoevskij perché amava la Russia o, per esempio, per la sua avversità nei confronti dell’Occidente e del liberalismo. Dostoevskij lo odiava, e aveva le sue ragioni, che sono anche le nostre.
    Ho maturato l’identità russa nei miei studi, non limitandola al cristianesimo ortodosso e alle radici etniche slave, ma anche ingrandendola, seguendo la tendenza eurasiatica della filosofia russa. Abbiamo diversi livelli di comprensione della nostra identità. C’è la versione eurasiatica che è inclusiva, e c’è la versione nazionalista che è esclusiva. Entrambi i tipi abbracciano l’identità, ma in modo diverso. L’assetto inclusivo prende atto del fatto che non siamo solo un popolo – culturale e storico – ma anche una civiltà, la civiltà eurasiatica, fondata su un ordine gerarchico, sull’organizzazione verticale, così come sulla sacra monarchia, perché abbiamo considerato lo zar come un soggetto.
    Cos’è un soggetto? Nella logica europea, voi individui siete i soggetti, il singolo è il soggetto. Per noi non lo affatto così. Lo zar è il soggetto, il leader. E noi siamo una parte di questa figura. È una soggettività radicalmente diversa da quella dell’Occidente democratico. In noi c’è il vitalismo e il comunitarismo.
    C’è un’altra differenza. Non si tratta di un autoritarismo imposto dall’alto. È un autoritarismo richiesto dal basso. È una sorta di monarchia prima della monarchia. Non è una dittatura voluta forzatamente dal dittatore, ma è richiesta dalla maggioranza, perché è una richiesta per la presenza di un soggetto. Il nostro soggetto è comunitarista e olistico, non individualistico. Il sociologo francese Louis Dumont ha scritto un eccellente libro sulla gerarchia, “Homo hierarchicus”. Ha diviso tutti i tipi di organizzazioni politiche tra olistiche e individualiste. L’elemento fondamentale è l’identità, individuale o olistica. E noi apparteniamo al tipo di società in cui l’identità è comunitaria. Olistica.
    Io, singolo, non sono l’uomo. Io sono una parte dell’uomo. La mia etnia, il mio paese, il mio stato, il mio zar – o un leader – è l’uomo. Intendiamo in modo del tutto differente ciò che è umano. Per noi, i diritti umani sono i diritti dello zar, i diritti di Putin, non i miei, perché non sono io il soggetto. Io sono una parte: la mia libertà dipende dalla libertà del mio paese e della mia gente. Non potrei mai essere individualmente libero se il mio paese e la mia gente fossero ridotti in schiavitù. È questa l’essenza del nostro appartenere.
    Il contrasto con l’Occidente, quindi, è doppio. Non siamo disposti a perdere la nostra identità, prima di tutto, e siamo pronti a difendere la nostra tradizione. Questo ci rende davvero differenti o, se vogliamo, nemici dell’Occidente, inteso come un progetto liberale e non come una civiltà, perché l’Occidente ha attraversato fasi di affermazione e negazione, problemi interni. Questo durante la Storia. Ma nell’oggi apparteniamo a due campi dell’umanità, separati.
    Una parte dell’umanità sta seguendo questa agenda occidentale, moderna, anglosassone e globalista: è il nuovo mondo che sta affiorando sotto gli occhi di tutti, un mondo globale con concezioni particolari, come il valore assoluto dell’individuo e della ragione, trasfuse nella Costituzione degli Stati Uniti. Da lì, il cerchio è cresciuto sempre più, e oggi la globalizzazione proietta il dogma dell’individualismo egoistico dapertutto. Tutte le istituzioni, le forme di governo dell’Est, come anche in tutto il mondo, devono essere una ripetizione, un rifacimento, un copia e incolla della Gran Bretagna protestante. Max Weber l’ha spiegato molto bene: oggi sono tutti anglosassoni.
    Ecco, noi siamo contro tutto ciò. Siamo contro la comprensione anglosassone di ciò che è buono e ciò che è cattivo e ciò che è razionale e ciò che è irrazionale e così via. Questo è il grande gioco che Mackinder ha spiegato riferendosi a due tipi di civiltà, cioè la potenza del mare e la potenza della terra, come manifestazioni strategiche di due profonde ideologie: l’ideologia del progresso – il mare – privo di frontiere e confini; e l’ideologia dell'identità e della tradizione, del sangue e del suolo, rappresentata dal blocco continentale della Russia e, a suo tempo, della Germania. La Russia oggi è il baluardo che oppone l’identità comunitaria alla globalizzazione, che è un’universalizzazione della missione protestante: è la vecchia sfida tra la potenza del mare e la potenza della terra, in un nuovo scenario.
    The Economist: Queste due visioni, profondamente contrastanti, possono coesistere?
    Dugin: Potremmo coesistere pacificamente, o potremmo coesistere nella lotta. Per coesistere pacificamente dobbiamo obbligare l’altro a riconoscere la dignità dell’altra visione del mondo. Questo non accade sempre, c’è un problema molto sottile. Ad esempio, potremmo comprendere facilmente la verità del mondo anglosassone, della potenza mercantile del mare, e potremmo riconoscerla come una via possibile. Ma la globalizzazione non accetterebbe mai il diritto dell’altro ad esistere. Forse mi sbaglio, ma ho la sensazione che voi cerchiate di annientare, di distruggere quest’altra identità, la nostra, demonizzandola. Siete convinti che ci sia un progresso universale cui tutti dovrebbero obbedire. Di fronte a questa pretesa, siamo pronti a combattere e ad opporci. Se voi, potenza marina, o l’atteggiamento anglosassone o i globalisti fossero in grado di riconoscere il diritto dell’altro, di noi stessi, a conservare la nostra monarchia, le nostre tradizioni, la nostra comprensione dei diritti dei popoli, ecco, questo vorrebbe dire coesistere pacificamente. Vorrebbe dirci lasciarci soli.
    Ma non è così e non lo è mai stato. Avete sempre combattuto per imporvi sugli altri. Per noi, oggi, il confronto con l’Occidente è una sorta di battaglia finale escatologica. Se ci lasciate in pace, vi lasceremo in pace. Ma lotteremo per tenere viva e affermare la nostra identità. Sentiamo che l’Occidente sta cercando di distruggerla, di imporci una regola universale, la sua concezione dei diritti umani e della liberaldemocrazia. Ci sta imponendo di accettare le sue regole e i suoi valori.
    The Economist: la Russia ha accettato la dichiarazione universale dei diritti umani.
    Dugin: E' stato un errore. Siamo stati obbligati, e ora stiamo cercando di riparare questo danno fatto che risale ai tempi dell’Urss e di Eltsin. Stiamo ritornando al senso identitario, dopo essere stati obbligati a difenderlo in modo indiretto.
    The Economist: Per quale ragione la civiltà anglosassone ha economicamente più successo della civiltà eurasiatica?
    Dugin: Proprio perché l’economia è, per l’Occidente odierno, il destino. Per noi, il destino è lo spirito. Se per te non c’è nulla di più elevato del valore materiale, allora è chiaro che in quello sei il migliore.
    The Economist: Posso chiederLe, onestamente, lasciando stare i nemici della Russia in Occidente, cosa succederebbe se andassi a Mosca e in tutta la Russia e facessi un sondaggio, chiedendo a tutti gli under quarantacinque, di sacrificare i loro benefici economici e i loro beni materiali per l’identità comune incarnata nel Presidente Putin, i valori eurasiatici e le tradizioni russe? Come risponderebbero?
    Dugin: Dipende tutto da come si formulano le domande. Ad esempio, se chiedesse: “A chi appartiene la Crimea”? Le risponderebbero che la Crimea è nostra e noi subiamo le sanzioni. E siamo felici di subire le sanzioni per questo? Sì.
    Per noi, lo spirito conta molto più di quanto non conti per voi. Nella nostra identità, il fattore ideale è decisivo. Ma non riesco a credere che tutte le decisioni in Occidente siano solo legate al benessere materiale. Penso che ci sia anche una qualità morale, ma di un tipo diverso – relativista e liberale – che richiede sacrifici alla popolazione occidentale. Quando decidiamo, ad esempio, che l’Ucraina è nostra, allora ne comprendiamo a pieno la responsabilità. Per noi, è questo che realmente conta. È un nostro diritto. Putin non è un essere ‘estraneo’ che serviamo supinamente. Lui è noi stessi. Agisce concretamente per il nostro interesse. Fa esattamente ciò che siamo disposti a fare noi. Per noi non è una entità separata. È questo il concetto profondo del re sacro. Se dici: “Sacrificheresti il ​​tuo benessere per i valori astratti della Chiesa ortodossa?” Nessuno ti direbbe di sì. Ma se chiedi: “A chi appartiene la Crimea?” È la stessa idea, la stessa domanda, messa da una diversa prospettiva. Da sociologo so esattamente come la risposta dipenda dalla formulazione della domanda. Prendendo uno stesso oggetto, ma formulando le domande in modi diversi, riceviamo risposte completamente diverse. Solo i filosofi vedono la dimensione della verità. Si basa tutto sulla retorica, con quella puoi fare miracoli.
    Se chiedi alla nostra gente: “Sei un individuo. Vuoi progressi? Vuoi una società aperta? Vuoi essere ricco come in Occidente?”, tutti diranno di sì, compresi i patrioti russi. È ovvio. Ma quando arriva il momento della decisione, siamo obbligati a sostenere Putin. Putin è obbligato a riprendere la Crimea. Il segreto è questo: il patriottismo e la difesa dell’identità russa non sono imposti artificialmente alla nostra società. È logico che tu non possa capirlo, dal momento che consideri Putin un individuo che vuole usare la propria posizione per avere dei vantaggi, per neutralizzare le opposizioni. Questa è una posizione corretta dal tuo punto di vista. E noi lo capiamo, ha senso. Ma c’è l’altro lato che dovresti capire meglio. C’è una vista dall’alto e una vista dal basso.
    The Economist: Cosa succede quando Putin muore?
    Dugin: Apparirà un altro Re. Il Re è morto. Lunga vita al Re.
    The Economist: Come funziona il meccanismo? Come si evita il ​​Tempo dei guai?
    Dugin: E’ impossibile evitarlo. È una costante della nostra storia e sarà sempre così. È un processo ciclico e non si può semplicemente non incappare negli errori. Si tratta di qualcosa più grande di noi. Putin morirà, ci sarà un periodo di crisi, e poi comparirà, prima o poi, un nuovo Re. Tutto si ripeterà.
    The Economist: Deve essere piuttosto deluso dal signor Putin, perché l’Impero russo non è ancora tornato, tranne pezzi di piccole repubbliche.
    Dugin: Non credo in Putin, ma nello zar eterno che ha molti nomi e molte forme. Potrebbe chiamarsi Presidente, leader, zar, re, imperatore. La verità è che essere zar è una funzione. Putin ha svolto questa funzione molto meglio di Eltsin e Gorbaciov. Ma è in ritardo ancora su molti aspetti.
    The Economist: Quindi Putin non è il vero zar?
    Dugin: Nessuno è il vero zar. Tutti interpretano solo il ruolo dello zar. Il vero zar per noi è il Cristo russo. Tutti gli altri sono dei rappresentanti, diciamo.
    The Economist: come riconosci lo Zar?
    Dugin: Lo zar è intimamente legato allo spazio. Il vero zar è chi riesce a creare unità dalle differenze. Chi raccoglie e non perde. È un processo di integrazione. È una specie di segno dello zar. Lo zar non distrugge, costruisce. Putin ha frenato la spaccatura e la caduta della Federazione Russa. Ha iniziato a ricostruire passo dopo passo. È molto più vicino allo zar di quanto lo fossero Eltsin e Gorbaciov per questa e molte altre ragioni. Ma prima di tutto, questo è il primo segno: vedere che qualcosa inizia a crescere. Allo stesso tempo, lo zar dovrebbe difendere la nostra identità e difendere l’impero, non indebolirlo. Putin ha frenato la caduta, non ci ha ridestati. Questo trascende i suoi limiti. È un leader, blocca la crisi. E lo sta facendo in modo eccellente, ma ha dei limiti. Agisce come se fosse eterno, non crede in qualcosa che esiste dopo la sua fine: non ha una vera chiave per il futuro. Questo è il problema. Stiamo entrando ora nel Tempo dei guai. Abbiamo bisogno di una nuova tappa e Putin non sta funzionando per il futuro, sta pensando solo al presente. È un ottimo rappresentante dello zar in un periodo di transizione, ma non è sufficiente per il futuro. È abbastanza solo per il presente. Il suo sistema è fragile. È basato sulla sua personalità, e questo è quasi un errore contro il regno, perché dovrebbe consolidare la nostra identità, istituzionalizzare il regno.
    The Economist: Sta dicendo che dovrebbe iniziare una monarchia?
    Dugin: non esattamente. Non tanto una monarchia formale. Direi che dovrebbe investire di più sull’ideologia dell’identità, invece di pensare solo al lato pragmatico. Dovrebbe essere più profondo.
    The Economist: come si istituzionalizza il regno?
    Dugin: Prima di tutto, educando. Abbiamo conservato l’educazione comunista e liberale. Abbiamo una formazione metà sovietica e metà liberal. Educare è preparare la mente e lo spirito, e il regno zarista è uno stato interiore. Non è solo una forma sociale di governo.
    The Economist: Per avere il regno zarista, lo zar va incoronato?
    Dugin: Dobbiamo almeno andare in questa direzione. L’apparizione, la manifestazione dello zar è un dono di Dio. È una sua risposta alla volontà del popolo. È un dono. Ma non possiamo nominare lo zar. Potremmo pregare per lui, dovremmo essere tutti concentrati. L’educazione dovrebbe preservare e favorire tutto ciò. Con Putin non è andata sempre così. Non ha fatto nulla nell’educazione, che è rimasta metà sovietica, metà liberale, copiata dall’Occidente. Lo stesso vale per la nostra cultura. La nostra cultura è un’imitazione della cultura occidentale e liberale con un frammento di pura propaganda politica, mal fatta. Così non si ritorna alla nostra identità. Si ragiona troppo pragmaticamente e si pensa troppo poco al sacro. Putin rimane nella sua posizione, non dedica abbastanza attenzione, tempo e forza vitale per questo problema. Si è mosso in questo senso solo nel suo ultimo mandato, ma ha perso diciassette anni per preparare il futuro. E ora ha poco tempo per prepararlo. Ci aspetta un periodo difficile e travagliato.
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    Predefinito Re: Rif: Geopolitica

    L’Iran adesso sfida gli Stati Uniti: navi da guerra nel Golfo del Messico
    Caracas e Teheran, Maduro e Rohani, socialismo e islam sciita, Medio Oriente e America Latina. Pochi decenni fa sarebbe apparso impensabile, quasi assurdo, che la Repubblica islamica dell’Iran e il Venezuela potessero avere interessi convergenti sul fronte politico. Ma le dinamiche della globalizzazione e dalla transizione geopolitica cui assistiamo dimostrano da tempo che le alleanze o le convergenze d’interesse possono unirsi in modi abbastanza inaspettati, soprattutto quando c’è un nemico comune. E soprattutto se questo nemico comune è rappresentato dagli Stati Uniti che tende a contenere (in modo del tutto differente) l’Iran in Medio Oriente e il Venezuela in Sudamerica. Un nemico in comune è sempre il motivo più valido per un’alleanza. E Washington certamente non è un’eccezione. Non deve quindi stupire che questi due Paesi cosi' diversi decidano di intensificare le loro relazioni per lo scopo comune di disturbare la superpotenza Usa, soprattutto in quello che considera il proprio “cortile di casa”, ovvero il continente americano. Già pochi giorni, il ministro degli Esteri venezuelano, Jorge Alberto Arreaza Montserrat, aveva lodato le politiche iraniane in un incontro a Caracas con l’ambasciatore dell’Iran, confermando la volontà del Venezuela di sostenere le scelte di Teheran in Medio Oriente. La mossa, questa volta, arriva direttamente da Teheran e coinvolge il Sudamerica. Questa settimana, il nuovo comandante della Marina iraniana, l’ammiraglio Hossein Khanzadi, ha affermato in conferenza stampa che alcune navi da guerra iraniane salperanno verso l’Atlantico, direzione Golfo del Messico. Una volta arrivati nelle acque caraibiche, la flotta inizierà delle visite ufficiali in Sudamerica, fra cui molto probabilmente non mancherà una sosta nei porti venezuelani, tra l’altro da poco autorizzati ad ospitare anche la flotta della Federazione Russa dopo un accordo siglato fra Mosca e Caracas.
    La notizia dell’arrivo della flotta iraniana nel Golfo del Messico ha chiaramente il sapore di una risposta politica e mediatica alle ultime tensioni che circondano l’Iran, specialmente nel Golfo Persico. Il mare che divide l’Iran dalle monarchie della penisola arabica è una delle acque più calde del mondo e sono frequenti gli incontri ravvicinati fra la Marina statunitense, che ha basi in Bahrein, Oman, Emirati e Kuwait, e quella dell’Iran, che pattuglia le proprie acque territoriali. Il controllo di Hormuz, dei giacimenti di gas e del traffico marittimo verso l’Iraq sono temi molto importanti per gli interessi strategici di Teheran e di Washington ed è inevitabile l’aumento delle tensioni in quelle acque quando aumentano le tensioni politiche fra i due Paesi o fra l’Iran e i Paesi partner degli Usa.
    La mossa della marina iraniana di muovere verso l’Atlantico sembra quindi quasi un diversivo per spostare l’attenzione dai propri confini o una vera e propria sfida agli Stati Uniti. Mostrare di “sfondare” la barriera atlantica e arrivare direttamente nel golfo del Messico significa inviare alla Cassa Bianca un messaggio molto chiaro sulla capacità di spostamento delle navi iraniane ma anche della rete d’interessi politici e strategici di Teheran, che possono arrivare addirittura in America Latina.
    L'Iran adesso sfida gli Stati Uniti: navi da guerra nel Golfo del Messico - Gli occhi della guerra

    Il presidente sudanese visita la Russia: cerca protezione dagli Stati Uniti
    “Sognavamo questa visita da tempo“, affermava il presidente sudanese Umar al-Bashir mentre veniva salutato dal Presidente Vladimir Putin il 23 novembre presso Sochi sul Mar Nero. “Siamo grati alla Russia per la sua posizione nell’arena internazionale, inclusa sulla protezione del Sudan“, aggiungeva, è la prima volta che il capo sudanese visitava la Russia, su cui riponeva grandi speranze.
    L’agenda includeva la cooperazione economica e militare. Il capo sudanese dichiarava di aver discusso la modernizzazione dell’esercito sudanese col Ministro della Difesa russo Sergej Shojgu prima d’incontrare il Presidente Putin. “Abbiamo concordato col Ministro della Difesa che la Russia aiuti in questo“, informava. Le parti concordavano l’aumento del personale addetto alla difesa.
    Umar al-Bashir chiedeva al presidente russo “protezione dagli atti aggressivi degli Stati Uniti“, esprimendo preoccupazione per la situazione nel Mar Rosso, dove vede la presenza militare statunitense come un problema, dicendo, “vorremmo discutere la questione dell’uso delle basi nel Mar Rosso“. Il capo sudanese riteneva che il conflitto in Siria sia risultato dell’interferenza degli Stati Uniti e il Paese sarebbe perduto se la Russia non l’aiutasse. La Siria aumenta la reputazione di Mosca e fa sì che altri Paesi in via di sviluppo ne cerchino amicizia e cooperazione.
    Secondo il presidente al-Bashir, il Sudan potrebbe essere la porta d’ingresso in Africa della Russia. Khartoum non vede l’ora di collaborare con Mosca su esplorazioni petrolifere, trasporti e agricoltura. Nel 2015, la compagnia Siberian for Mining scoprì grandi giacimenti di oro in Sudan con riserve esplorate pari a 46000 tonnellate e firmò il più grande accordo d’investimento nella storia del Paese. Grandi giacimenti d’oro furono scoperti in due province: Mar Rosso e Nilo. Il valore di mercato dell’oro ammonta a 298 miliardi di dollari.
    Il vertice Russia-Sudan è la dimostrazione del crescente impatto di Mosca in Africa. La Russia ha più di 40 rappresentanze diplomatiche nel continente ed ha missioni commerciali speciali per contribuire a facilitare scambi ed investimenti in numerosi Paesi africani. L’Egitto, tradizionale alleato degli Stati Uniti, cambia lato alleandosi con la Russia da quando il Presidente Sisi è al potere. I rapporti della Russia coi Paesi del continente si approfondiscono. Ciò è facilitato dai negoziati ai vertici. Le relazioni si sviluppano con le principali associazioni regionali, come l’Unione africana. Gli ultimi due anni hanno visto l’aumento del commercio tra Russia e Africa, con un fatturato aggregato che ha raggiunto i 14,5 miliardi di dollari nel 2016, con un aumento di 3,4 miliardi rispetto l’anno precedente. La maggior parte (10,1 miliardi) avviene con quattro Paesi, Egitto (4,16 miliardi), Algeria (3,98 miliardi), Marocco (1,29 miliardi) e Sudafrica (718 milioni). 28 nazioni su 55 africane vantano crescenti scambi commerciali con la Russia, come Etiopia, Camerun, Angola, Sudan e Zimbabwe.
    L’Africa è un mercato promettente per il grano e le macchine agricole russi, con esportazioni di grano in Marocco, Sud Africa, Libia, Kenya, Sudan, Nigeria ed Egitto. Sudan, Congo e Senegal hanno recentemente manifestato interesse nei progetti congiunti su petrolio e gas. Le attività russe detengono una posizione di primo piano nell’esplorazione mineraria (bauxite, oro, rame, cobalto, diamanti e molte altre). La società diamantifera russa ALROSA è attiva in Sudafrica, Sierra Leone, Namibia e Angola (dove, a quanto riferito, controlla il 60% di tutti i diamanti estratti). Un accordo coi partner africani sulla cooperazione economica e commerciale per evitare la doppia imposizione e per la protezione della proprietà intellettuale è all’ordine del giorno.
    La Russia è un importante fornitore di armi per l’Africa settentrionale e sub-sahariana. La Russia continua a guadagnare terreno in Nord Africa, aumentando le esportazioni militari verso Algeria ed Egitto, rafforzando i legami economici con Marocco e Tunisia. Le armi russe sono un’alternativa sempre più popolare alle armi statunitensi. Il commercio di armi storicamente forte di Mosca coi Paesi africani è cresciuto negli ultimi anni, nonostante la forte concorrenza. La Russia occupa il primo posto tra le importazioni di armi nell’Africa subsahariana e rappresenta il 30% di tutte le forniture. Missili, artiglieria, armi leggere ed aerei sono i principali elementi dell’esportazione russa in Africa, cogli elicotteri che assumono una quota sempre più importante.
    C’è qualcosa in più a promuovere il riavvicinamento Russia-Africa. Hanno interesse comune nella formazione di un ordine mondiale giusto, basato su un approccio collettivo alla risoluzione dei problemi internazionali e alla superiorità del diritto internazionale. Sia Russia che Africa rifiutano il modello unipolare, i tentativi di un Paese o numero limitato di Paesi d’imporre la propria volontà al resto del mondo. Il Sudan è un buon esempio di Paese che si avvicina alla Russia in risposta alla pressione occidentale. Cerca nuovi partner per contrastare il diktat degli Stati Uniti. Lo sviluppo dei legami con Mosca offre un’opportunità del genere.
    https://aurorasito.wordpress.com/201...i-stati-uniti/

    Siria e Russia chiedono agli USA di andarsene
    Con lo SIIL alle corde, il suo capo Abu Baqr al-Baghdadi probabilmente eliminato da un attacco dell’Aeronautica siriana a giugno ad al-Mayadin, e i piani per frantumare la Siria frantumati, il governo di Damasco e il Cremlino hanno inviato chiaramente detto agli Stati Uniti di andarsene dalla Siria. Ci sono circa 4000 truppe statunitensi in missione di combattimento a sostegno delle milizie curde (con alcuni siriaci/assiri) che dichiarano di combattere lo SIIL. E'il piano statunitense di rimanere in Siria a tempo indeterminato per coordinare la lotta alle guerriglie sostenute dall’Iran in appoggio all’Esercito arabo siriano. Questo per far contenti i sionisti nella Palestina occupata e a New York City/DC. Non c’è altra ragione plausibile per tale violazione della sovranità di un altro Paese.
    Ci si aspetta che gli Stati Uniti sostengano che la loro presenza in Siria sia per autodifesa. Aspettatevi che la bambola dell’anno Nikki “Rhandawa” Haley tiri fuori lo stesso argomento di fronte alla brutale verità della presenza neo-colonialista degli Stati Uniti in Siria. E cosa diranno gli inglesi? Oh, sospetto che si schierino con lo Stato di diritto, visto che tutti gli Stati membri, ad eccezione dell’entità sionista, prenderanno la stessa posizione. Dopo tutto, gli inglesi hanno perso pazienza e foglie di fico nel loro assalto criminale al governo di uno Stato aderente all’ONU.
    Se gli Stati Uniti decidono di rimanere nonostante le richieste siriane, l’unica opzione rimasta a Damasco, dopo che il Dottor al-Jafari avrà indicato Haley, è attaccare le forze statunitensi con le milizie filo-iraniane come Hezbollah. Oltre a scavare un altro pozzo nero per le truppe statunitensi, potrebbe anche comportare l’intervento sionista in aiuto dell’alleato yankee nel momento del bisogno; dopotutto, il primo ministro sionista Mileikowski (detto Netanyahu) ha promesso di continuare ad attaccare la Siria per impedire all’Iran di avere una base presso le alture del Golan. Mileikowski, che affronta diverse indagini per corruzione e concussione, ha bisogno di qualcosa per distogliere l’attenzione; e quale modo migliore che portare l’Apocalisse?
    https://aurorasito.wordpress.com/201...-di-andarsene/

    Open Society: Orban schiera i servizi segreti contro le fondazioni di Soros
    La Open Society di George Soros è di nuovo nel mirino di Viktor Orban. Il primo ministro ungherese ha ordinato alla sua stessa intelligence di tenere sotto controllo l’impero del magnate americano. Il premier magiaro teme che il finanziere (tramite le fondazioni della rete Open Society) voglia influenzare le elezioni ungheresi che si terranno nel 2018. Ad animare il governo di Budapest non ci sono pero' solo beghe elettorali ma la difesa della stessa identità europea. Vediamo perché.
    L’obiettivo politico della Open Society Foundation, è quello di “Far accettare agli europei i migranti e la scomparsa delle frontiere” (cosi' titolava un progetto della sua stessa Fondazione). Per raggiungere questo obiettivo basterebbe negli Stati europei un milione di migranti l’anno. Un disegno politico preciso che unisce la sinistra “no borders” alla finanza apolide e trova anche il supporto neoguelfo del Vaticano.
    Cerchiamo di capire meglio come funziona questa portentosa macchina propagandistica. La Open Society Foundation è il cavallo di Troia che lo speculatore-filantropo mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste. Di recente si è parlato di una donazione di diciotto miliardi di dollari alla fondazione, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati.
    Torniamo pero', a cio' che avviene in riva al Danubio. Come riporta Agenzia Nova, Orban ha affermato nella stessa intervista che i documenti dimostrano come i membri della “rete Soros” siano attivi a Bruxelles e cerchino continuamente di “stigmatizzare il governo ungherese, la cui posizione sul tema dell’immigrazione è opposta a quella del miliardario, costringendo Budapest a cambiare il proprio punto di vista sulle politiche migratorie”. Secondo il premier ungherese l’Unione Europea ed alcuni dei suoi membri chiave sono stati letteralmente “presi in ostaggio” da un “impero finanziario e speculativo che promuove l’invasione orchestrata di nuovi immigrati”.
    Per contrastare questo piano Budapest si muove sia sul fronte interno che su quello internazionale. In Ungheria il governo ha inasprito i controlli su tutte le onlus che ricevono fondi esteri in particolare quelli riconducibili alla rete di Open Society. A luglio un disegno di legge ha limitato l’autonomia della Central European University di Budapest (finanziata dalla fondazione di Soros). Inoltre le città magiare sono state tappezzate da manifesti con il volto sorridente del finanziere. Accanto all’immagine campeggiava una scritta eloquente: “Il 99% degli ungheresi rifiuta l’immigrazione illegale. Non lasciamo a Soros l’ultima risata”.
    Come dicevamo pero' il governo si sta muovendo anche a livello europeo. Ed ecco che qui entra in scena il gruppo dei quattro Paesi del gruppo di Visegrad (V4): Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria che (rappresentando circa sessantacinque milioni di europei) insieme hanno un peso di popolazione pari a quello della Francia all’interno dell’Unione Europea. Quattro nazioni che rifiutano l’idea di un’Europa multietnica e mondialista.
    La resistenza al piano di ricollocazione dei migranti costituisce per i quattro paesi un tema di grande mobilitazione per le opinioni pubbliche nazionali che potrebbe creare un fronte sovranista all’interno della fascia geopolitica che va dal Baltico ai Balcani. Senza cedere alle sirene dell’esterofilia forse possiamo dire che qualcosa sta cambiando. E se il buongiorno si vede dal mattino, pare proprio che il sole sia tornato a sorgere a Est.
    Open Society: Orban schiera i servizi segreti contro le fondazioni di Soros




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    Predefinito Re: Rif: Geopolitica

    La storia di due ordini mondiali
    Ci sono due eventi storici che hanno avuto luogo di recente: i colloqui in Francia e Germania sulla crisi greca e il contemporaneo incontro dei paesi BRICS e SCO (Organizzazione di Shangai per la Cooperazione) a Ufa, Russia. Difficilmente due incontri potrebbero essere più diversi di questi.
    Gli Euroburocrati stanno annaspando per cercare di evitare l’effetto domino che avrebbe l’uscita della Grecia dall’Eurozona, in quanto creerebbe un precedente per altre nazioni mediterranee come Italia, Spagna o anche Francia. Ma qui in gioco c’è qualcosa di più del relativamente piccolo debito greco, dell’insolvenza delle banche europee o anche del futuro dell’Euro. Qui c’è realmente in ballo la credibilità e il futuro dell’intero “Europrogetto”, e con esso il futuro dell’oligarchia che lo ha creato.
    Le elites europee hanno investito una enorme quantità di capitale personale e politico nella creazione di quella che si potrebbe chiamare “l’Europa del Bildelberg”, governata da una classe dirigente che ha come scopo il perseguimento del Nuovo Ordine Mondiale voluto dagli Stati Uniti. Proprio come le elites americane, che hanno messo tutta la loro credibilità a sostegno della versione ufficiale dei fatti dell’11 settembre, contro tutte le evidenze sperimentali, così quelle europee sostengono a spada tratta un progetto di “Grande Europa Unita”, anche se è ormai ovvio che questo non è fattibile. E ora la realtà si vendica. Detto in poche parole, la UE è troppo grande. Non solo l’espansione della UE ad est è stata un grosso errore, ma anche la parte occidentale dell’Unione Europea non è altro che un assemblaggio artificiale di una Europa mediterranea con una nordica.
    Infine, è abbastanza evidente che l’attuale Unione Europea è stata edificata contro la volontà di molti, se non della maggioranza dei popoli d’Europa. Come risultato gli Euroburocrati stanno ora lottando per tenere in vita il loro agonizzante progetto il più a lungo possibile.
    Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni a Ufa, Russia, non potrebbe essere più differente. L’incontro in contemporanea delle nazioni BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Afica) con quelle dello SCO (Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan) comincia a delineare il futuro ordine mondiale, non diretto contro gli USA o l’Occidente, ma semplicemente creato senza di loro, il che è ancora più umiliante. Infatti la “combinazione” BRISC/SCO è un vero incubo per l’Impero Anglo-Sionista.
    É già stato annunciato che l’India e il Pakistan diventeranno membri a pieno diritto della SCO. Così la lista completa dei Paesi costituenti il BRISC/SCO sarà: Brasile, Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Russia, Sud Africa, Tagikistan e Uzbekistan. I BRISC/SCO comprenderanno 2 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, 4 nazioni con armi nucleari (solo 3 nazioni NATO posseggono atomiche!), i suoi partecipanti tutti insieme hanno un buon terzo di tutte le terre emerse del pianeta, un PIL di 13 trilioni di dollari e una popolazione di 3 miliardi di persone, la metà di quella mondiale. La popolazione del gruppo SCO ammonta a 1.6 miliardi, un quarto dell’intera popolazione terrestre, ed ha un PIL di 11,6 trilioni di dollari. In più le nazioni BRISC/SCO stanno già lavorando al progetto di una nuova banca per lo sviluppo che dovrebbe diventare un’alternativa al FMI e alla Banca Mondiale. Ancora più importante è il fatto che la SCO sta crescendo ancora e potrebbe presto dare il benvenuto a Bielorussia e Iran come membri a tutti gli effetti. E la porta rimane spalancata per altri candidati, possibilmente anche per la Grecia (se ci sarà il Grexit).
    Il nucleo di questo Nuovo Ordine Mondiale alternativo sono naturalmente la Russia e la Cina. Senza di loro nè i BRICS nè lo SCO avrebbero molto senso. La cosa più stupefacente di questo nucleo russo-cinese è proprio il modo in cui si è formato. Invece di creare un’alleanza formale, Putin e Xi hanno fatto qualcosa che, per quanto ne so, non era mai stata fatta in passato: hanno trasformato le loro due super-nazioni (o ex-imperi, scegliete voi) in simbionti, due organismi separati che dipendono l’uno dall’altro. La Cina ha accettato di diventare completamente dipendente dalla Russia per energia e alta tecnologia (specialmente difesa e spazio), mentre la Russia ha acconsentito alla dipendenza economica dalla Cina. Ed è proprio perché Cina e Russia sono così differenti l’una dall’altra che esse formano l’accoppiata ideale, come due tessere di un puzzle che si incastrano perfettamente fra loro.
    Per secoli gli anglosassoni hanno paventato l’unificazione dei territori europei risultante da un’alleanza russo-tedesca e sono sempre riusciti ad impedirla. Per secoli le maggiori potenze marittime hanno dominato il mondo. Ma quello che nessun geo-stratega occidentale ha mai neanche immaginato è la possibilità che la Russia si potesse semplicemente volgere ad est e accettare una relazione simbiotica con la Cina. La vastità di quella che io chiamo la Partnership Strategica Russo-Cinese (RCSP), rende praticamente irrilevante non solo la Germania, ma anche tutta l’Europa. Infatti l’Impero Anglo-Sionista non ha semplicemente i mezzi per influenzare in alcun modo significativo questa dinamica degli eventi.
    Se la Russia e la Cina avessero firmato una qual sorta di alleanza formale, ci sarebbe stata sempre la possibilità per una delle due nazioni di cambiare politica, ma, una volta che si è creata una simbiosi, i due simbionti diventano inseparabili, uniti non solo al bacino, ma anche con il cuore e i polmoni (anche se ciascuno mantiene il proprio, separato, cervello,- il governo).
    Quello che è così attraente per il resto del mondo in questa alternativa BRISC/SCO è che, nè la Russia, nè la Cina hanno alcuna ambizione imperiale. Entrambe queste nazioni hanno avuto imperi in passato ed entrambe, per questi imperi, hanno pagato un grosso prezzo. Inoltre esse hanno osservato con attenzione come gli Stati Uniti siano dilagati arrogantemente per tutto il mondo, con il risultato di scatenare una reazione antiamericana planetaria. Mentre la Casa Bianca e i media continuano a spaventare quelli che ancora hanno voglia di ascoltarli con le favole del “risorgimento russo” e delle ”rivendicazioni cinesi”, la realtà è che nessuna di queste due nazioni ha alcun desiderio di rimpiazzare gli USA come egemone del mondo. Non vedrete mai la Cina o la Russia coprire il globo con più di 700 basi militari, fare una nuova guerra all’anno o spendere nella “difesa” (leggi aggressione) più di tutto il resto del mondo messo insieme. Non costruiranno mai una flotta di 600 navi e di 12 portaerei per “proiettare forza” dappertutto. E poi non punteranno mai e poi mai un “cannone spaziale” sull’intero pianeta con progetti megalomani come il Prompt Global Strike.
    Quello che la Russia, la Cina e le altre nazioni BRISC/SCO vogliono è un ordine internazionale in cui la sicurezza sia veramente un affare collettivo, secondo il principio che “se tu ti senti minacciato, allora io non sono al sicuro”. Esse vogliono un ordine di tipo collaborativo, in cui alle varie nazioni sia permesso (e anche incoraggiato) seguire i loro particolari modelli di sviluppo sociale. L’Iran, per esempio, potrà continuare ad essere una Repubblica Islamica anche dopo essere entrato nella SCO. Quello che vogliono è sbarazzarsi delle elites “compradore”, la cui lealtà va agli interessi stranieri. Infine desiderano un ordine internazionale governato dal principio legislativo e non da quello del tipo “il potere fa la forza”. E il punto chiave da tenere a mente è questo: non vogliono tutto questo perché sono nobili e generosi, ma perché capiscono che questo va a loro esclusivo vantaggio pratico.
    Prevedibilmente, le elites occidentali e i loro media sono in modalità “diniego totale”. Non solo commentano poco questa circostanza veramente storica, ma quando lo fanno, evitano accuratamente di discutere le implicazioni che questi eventi avranno per l’intero pianeta. Questa è quasi una scaramanzia: se chiudo gli occhi e li strizzo forte abbastanza a lungo, questo incubo alla fine svanirà.
    Non andrà così.
    Quello che accadrà sarà che il dollaro americano verrà gradatamente spinto fuori dalla zona BRICS/SCO e la potenza militare americana non sarà sfidata, ma sarà resa irrilevante da un ambientazione internazionale completamente mutata, dove anche le 700 e più basi militari sparse per il mondo non faranno nessuna differenza, e quindi non avranno senso.
    La storia di due ordini mondiali | SakerItalia

    Putin avvia mega-piano per incentivare la natalità in Russia. Mentre noi importiamo migranti.
    Il bonus-bebè – quello vero! – non è la squallida elemosina di Renzi e Co. che, in realtà, arriva solo a migranti e pochi altri. In Russia fanno sul serio, e mettono in campo cifre da finanziaria di fine anno per incentivare la natalità. Nei prossimi tre anni il governo russo investirà 500 miliardi di rubli – circa 7,2 miliardi di euro – in misure per incentivare la natalità. Facta non verba.
    Nei prossimi tre anni il governo russo investirà 500 miliardi di rubli – circa 7,2 miliardi di euro – in misure per incentivare la natalità. Lo ha dichiarato la vice premier Olga Golodets.
    Due giorni fa il presidente russo Vladimir Putin ha proposto di sostenere la natalità con un assegno mensile per i genitori meno abbienti che avranno il loro primo bambino. Il sussidio sarà versato fino a quando il bimbo avrà compiuto un anno e mezzo e il costo totale è stimato in poco più di 2 miliardi di euro (144,5 miliardi di rubli) in tre anni.
    Altre misure riguardano il prolungamento fino alla fine del 2021 del versamento di 6.500 euro per le madri che danno alla luce il loro secondo o terzo bambino, e aiuti statali per pagare gli interessi sul mutuo per la casa.
    Putin avvia mega-piano per incentivare la natalità in Russia. Mentre noi importiamo migranti. - Azione TradizionaleAzione Tradizionale

    COME COSTRUIRE I NEMICI DEL POPOLO
    Maurizio Blondet
    Comincio ad aver paura davvero. Non c’è più nulla da ridere quando il quotidiano israeliano La Stampa lancia in prima pagina e in apertura una menzogna oltraggiosa, impudente e senza la minima vergogna. Ricordiamoci che questi sono quelli che Israel Shamir chiama “I Padroni del Discorso”; allora c’è da tremare perché questa sta per essere imposta come la verità ufficiale di un regime totalitario in formazione.
    Biden: “Il Cremlino interferì in Italia sul referendum costituzionale”
    La denuncia dell’ex vice presidente Usa: l’offensiva non è finita. Ora la Russia sta aiutando Lega e Cinque Stelle in vista delle elezioni
    Dunque vediamo. Anzitutto la fonte che La Stampa prende come autorevole: Joe Biden. Da vicepresidente di Obama, è rimasto famoso per aver sparato centinaia di gaffes, preso decine di cantonate verbali, spropositi e strafalcioni sovente offensivi e razzisti, spesso così comici, da essere in Usa l’analogo di certe barzellette italiane che cominciano: “Ci sono due carabinieri…”. Se non ci credete, cercate su Google “Biden ridiculous quotes” [frasi ridicole di Biden] e vedrete l’intera galleria. Non mi dilungo perché qui non c’è niente da ridere. Non più.
    “Dico, qui abbiamo il primo afro-americano che è articolato, brillante, pulito…” (di Barak Obama). Ultimo: “Una parola di tre lettere: J-O-B-S!” (sono 4 lettere).
    Dunque La Stampa spara in prima Biden con la sua tremenda accusa: “Così il Cremlino interferì nel referendum italiano”.
    “Così” come?, magari vorreste chiedere. Ovviamente non è spiegato alcun “come” Putin ha interferito nel referendum di Renzi Matteo per farlo perdere. Il giornale israeliano di Torino vuole che lo crediamo sulla parola: qui già potete intravvedere come La Stampa stia diventando, per sinistra metamorfosi, la Pravda (Verità) del nostro domani.
    Allora, sunteggiamo quel che ci vien comandato di credere: che 19 milioni e mezzo di italiani (precisamente 19 419 507) hanno detto No a referendum perché suggestionati dal Cremlino. La potenza della propaganda di Mosca è veramente schiacciante. C’è da essere sgomenti da quanto si faccia suggestionare – dagli hackers? Da dalla frequentazione quotidiana di Russia Today che tanto avvelena menti? – l’infantile popolo italiota.
    Ancora più impressionante è la diffusione geografica dei risultati del referendum. Tutta Italia ha obbedito a Putin, tranne le regioni rosse, che hanno votato come voleva Renzi.
    Qui si vede che gli spiriti forti, quelli che hanno resistito agli adescamenti di Mosca ed hanno dato il loro SI’ a Renzi, sono concentrati nelle Regioni Rosse. Proprio quelle che per cinquant’anni hanno votato “obbedienza pronta cieca assoluta” al Cremlino, quello sovietico. Una bella evoluzione democratica, da Stalin a Biden.
    Confesso che la mia volontà di votare NO in obbedienza ai comandi di Vladimir Vladimirovic, aveva vacillato più volte quando per il NO si erano dichiarati via via anche le seguenti entità: Massimo D‘Alema & Bersani, Il Manifesto, la CGIL, Niki Vendola, SEL Sinistra Ecologia e Libertà, persino i Cobas, l’ANPI e l’ARCI. Uno con la mia storia, a trovarsi sulla stessa trincea di ARCI e SEL, per forza si domanda: dove ho sbagliato?
    Anche loro influenzati da Putin.
    La seconda domanda che mi sono posto è, ovviamente: anche D’Alema è pagato da Putin? I COBAS sono uno strumento della propaganda russa? E il Manifesto? Il potere di suggestione esercitato dagli hackers russi e da Sputnik News ha l’aria di un invasamento e di una possessione – è davvero temibile. Senza dimenticare Magistratura Democratica e il procuratore di Torino Armando Spataro (ex Mani Pulite, premio Capalbio 2010) che si schierò contro Renzi “per dovere civico”. Ammetto che il numero enorme di agenti di Putin nella sinistra, di cui non si sospettava neppure l’esistenza, mi ha lasciato basito.
    Io mi ricordo che s’era ingerito Obama...
    Da Wikipedia: “18 ottobre 2016: Barack Obama, in occasione di una “cena di stato” che ha visto tra gli altri la presenza del Presidente del Consiglio italiano, dichiara di tifare per il sì al referendum e di augurarsi che Renzi resti in politica”.
    Chiude IntelligoNews, medium scomodo per il PD
    Qui, se avete riso, per favore smettete. Un giornale come La Stampa non lancia così spudorate fake news senza la minima vergogna, se non nel quadro di un vasto progetto politico e repressivo. L’artificiosa creazione dell’ “allarme-fascismo” di questi giorni, con irruzioni della Digos e sequestri nelle case della quindicina di skinheads di Como, l’immane clamore dei politici per i quattro mascherati di Forza Nuova sotto Repubblica – protestavano contro le sue falsità – con la visita del ministro dell’interno nella redazione “minacciata e ferita”, la proposta di un altro ministro di reprimere e sospendere questi subito definiti “gruppi nazi”, sono non solo l’inizio di una campagna che durerà almeno fino alle prossime elezioni, ma preludono ad un giro di vite su tutti i media critici: quelli che protestano o contestano ler falsità di Repubblica o di La Stampa sono già bollati come “gruppi nazi”, e viene tolta loro la parola, e presto la libertà.
    Lo dice il fatto che proprio in questi giorni è stata chiusa la bocca a IntelligoNews – un “giornale digitale” vivace e fuori dal coro con 570 mila accessi al mese e introiti pubblicitari. Il suo editore è Gianfranco Librandi, un imprenditore di tv digitali, deputato, passato da Forza Italia a Scelta Civica ed ora approdato al Partito Democratico. Ai primi di novembre Librandi ha inviato una lettera con posta certificata al direttore Fabio Torriero dove si annuncia la chiusura del giornale online IntelligoNews. Ciò, poco prima che si apra l’ultima “Leopolda” di Matteo Renzi. Negli ultimi tempi, Librandi aveva fatto pressioni perché non fossero intervistati (in ordine alfabetico) Adinolfi, Blondet, Giulietto Chiesa, Diego Fusaro.
    A me sembra abbastanza chiaro che questa insofferenza per certi nomi coincida con l’avvicinamento di Librandi a Renzi e la speranza di essere da lui candidato alle elezioni.
    Non possiamo provare che Librandi abbia obbedito a un ordine dalla Leopolda. Del resto non occorre, capisce anche da solo che certe voci sono sgradite; il totalitarismo di oggi, meno d’acciaio di quello staliniano, anzi flaccido e buonista, non ha bisogno di direttive se non implicite: intere classi abituate alla passività di fronte alle oligarchie, lo preparano spontaneamente, perché già sono assuefatte a “vivere nella menzogna” televisiva, burocratica, politicamente corretta.
    Il politicamente corretto è già la definizione di “crimini di pensiero” o psico-reati che in epoca sovietica erano puniti col GuLag. Il titolone de La Stampa segnala già la nuova fase del sovietismo flaccido: quelli che si sono opposti al referendum di Renzi, non hanno esercitato il pluralismo di idee ed opinioni ed usato il diritto democratico alla critica; sono stati influenzati “dal Cremlino” e “ne hanno fatto il gioco”. Sono quindi “nemici interni”, e “oggettivamente” servi del nemico esterno. Nel momento in cui “si riaffaccia il mostro fascista”, questa loro libertà non va tollerata, perché “sono in pericolo le conquiste e i valori della democrazia”.
    Non so se riconoscete il linguaggio. Io sì, me lo ricordo, e ancora mi dà un brivido alla schiena: “Soltanto 34 giorni dopo aver preso il potere, i bolscevichi emisero un decreto che proclamava i Costituzionali Democratici (Cadet) nemici del popolo e li metteva fuorilegge. Fu Lenin a stilare il decreto, e ad ordinare la detenzione preventiva dei membri del partito cadetto perché fossero consegnati ai “tribunali rivoluzionari”. Il motivo: una serie di manifestazioni che i Cadetti organizzarono quel giorno a Petrograd e la loro intenzione di aprire arbitrariamente la prima sessione de4ll’Assemblea Costituente, che era stata eletta nella prima elezione libera in Russia, cui i bolscevichi avevano partecipato con gli altri partiti”. Subito dopo Lenin dichiarò nemici del popolo menscevichi e social-rivoluzionari, perché “potete anche aver ragione dal punto di vista dell’Assemblea costituente, ma nella nostra lotta non ci siete di aiuto – sicché o andate da Kolchak, o altrimenti andate in prigione. E questo è ciò che faremo di voi”.
    L’ammiraglio Kolchak (1873-1920) era il capo dell’armata anticomunista in Siberia. I partiti che a Lenin non piacevano erano “oggettivamente”, ossia anche senza saperlo, “strumenti di Kolchak”- così egli eradicò l’opposizione, anche dei partiti “rossi”.
    Vengono in mente le parole di Rosa Luxemburg nel 1918, quando una sua giunta bolscevica prese il potere per breve tempo a Monaco in Baviera: “In nome degli scopi supremi dell’umanità, il nostro motto contro i nostri nemici deve essere: il dito in pieno occhio, il ginocchio sul petto”. E nella narrativa dei Padroni del Discorso, la Luxemburg passa per la comunista moderata e umanitaria.
    https://www.maurizioblondet.it/costr...ci-del-popolo/

    Siria, arriva l’annuncio di Putin:
    “L’Isis è definitivamente sconfitto”
    LORENZO VITA
    Era l’annuncio che tutti aspettavano da anni e che negli ultimi tempi sembrava essere imminente: l’Isis è sconfitto. A dirlo apertamente è stato il presidente russo Vladimir Putin, così come riportano le agenzie di stampa, Tass e Interfax, con le stesse parole del leader del Cremlino. “Il ministro della Difesa Sergei Shoigu ha riferito che le operazioni sulla riva orientale e sulla riva occidentale dell’Eufrate si sono concluse con la completa sconfitta dei terroristi”, queste le parole di Putin ai giornalisti. “Ci può ancora essere qualche sacca di resistenza, ma, in generale le operazioni di combattimento in questa fase e su questo territorio sono finite”. Parole di fondamentale importanza dal momento che, per la prima volta, Mosca dichiara senza possibilità di interpretazione, che il Califfato inteso come entità territoriale è stato sconfitto e che dunque le operazioni di guerra possono considerarsi concluse.
    Putin non si è fermato a questo annuncio. Secondo il presidente russo, adesso è necessario passare alla prossima fase, certamente molto complessa, che deve prevedere l’accordo di tutte le parti, del governo di Damasco, dei Paesi della regione mediorientale e delle Nazioni Unite per arrivare ad una soluzione politica. Putin, sempre ai giornalisti, ha parlato dell’importanza dell’avvio “di un processo politico, degli sforzi per creare un Congresso del popolo siriano, come è stato concordato durante l’incontro trilaterale a Sochi tra russi, iraniani e turchi”. A dimostrazione dell’importanza di quel vertice per il futuro della Siria e, in generale, per tutto lo scacchiere mediorientale. “Mentre questo processo si sviluppa, è necessario andare a elezioni parlamentari e presidenziali: è un lavoro grosso e a lungo termine, per cominciare il quale è necessario fare almeno i primi passi, in particolare, consolidare la situazione che esiste adesso, rafforzare le zone di de-escalation, assicurarsi che lo spargimento di sangue sul territorio siriano finisca una volta per tutte e tutto vada verso una soluzione politica, pacifica”.
    L’annuncio del presidente russo arriva in un momento molto importante. Nello stesso giorno in cui ha annunciato la vittoria sullo Stato islamico, in cui il contributo delle forze armate russe è stato sicuramente non solo necessario ma decisivo, è arrivata infatti anche la notizia della sua candidatura ufficiale alle presidenziali del 2018. L’annuncio della sua candidatura per un nuovo mandato, è stata dallo stesso presidente in un incontro con i lavoratori di uno stabilimento di Niznij Novgorod. Idea che molti ritenevano scontata ma che, fino ad ora, non era mai stata formalizzata. In Siria, Vladimir Putin si è giocato molto. La guerra contro lo Stato islamico non è stata solo una guerra contro il terrorismo, ma una scelta strategica con cui la Russia si è garantita credibilità internazionale, nuovi partner nella regione mediorientale, ha mantenuto le sue postazioni militari siriane ed ha ampliato la sua capacità militare mostrando a tutti di essere ancora una potenza mondiale in grado di cambiare gli equilibri dei conflitti.
    Siria, arriva l'annuncio di Putin: "L'Isis è definitivamente sconfitto" - Gli occhi della guerra


  10. #3560
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    Se il popolo permetterà alle banche private di controllare l’emissione della valuta, con l’inflazione, la deflazione e le corporazioni che cresceranno intorno, lo priveranno di ogni proprietà, finché i figli si sveglieranno senza casa.

 

 
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