“Con il Papa e per il Papa”
Vita di Don Davide Albertario, giornalista intransigente.
don Ugolino Giugni
Prima parte: La formazione e le battaglie dell’Osservatore Cattolico
Nel 2002 ricorrevano i cento anni dalla morte di don Davide Albertario, sacerdote lombardo nonché illustre e battagliero giornalista che lavorò sotto i pontificati di Pio IX e Leone XIII. In questo articolo ci proponiamo di portare a conoscenza dei lettori la sua vita e la sua opera. Ai suoi tempi Albertario era un giornalista conosciutissimo e non aveva bisogno d’alcuna presentazione, ma oggi, essendo passato un secolo, il tempo ha fatto un po’ dimenticare la sua persona ed è quindi necessario e doveroso ricordare ciò che ha fatto. Di lui scriveva il suo biografo Giuseppe Pecora “ha insegnato ai cattolici in ore di gravi tentazioni, la coerenza fino al sacrificio, la necessità della difesa a contrattacco, e, sopra ogni altra cosa la fedeltà alla Cattedra di Pietro anche quando condanna e castiga”.
Periodo storico
Don Albertario visse in quel travagliato periodo che fu la seconda metà dell’800 che vide il compiersi della rivoluzione con la realizzazione risorgimentale della “unità d’Italia” ispirata dalla massoneria, nonché gli inizi del Regno d’Italia, il concilio Vaticano I, la presa di Roma (1870) con la perdita del potere temporale dei Papi. Albertario visse sotto i lunghi pontificati di Pio IX e di Leone XIII durante i quali guidò le battaglie dei cattolici intransigenti e animò anche gli inizi del movimento cattolico italiano nella difficile situazione di opposizione tra la Chiesa e lo stato unitario che ne calpestava i diritti.
Origini: i primi anni, la formazione
Davide Albertario nacque il 16 febbraio 1846 a Filighera in provincia di Pavia. Quinto dei quattordici figli di Pietro Paolo Albertario e di Marianna Bianchi; la sua famiglia, di ceppo contadino e di stile patriarcale (sottolineato dai ricorrenti nomi di battesimo biblici usati quali: Mosé, Davide, Aronne, Giuditta, Giuseppe), era radicata da circa dieci generazioni alle “case nuove” di Filighera. Questa terra generosa e pingue che dava loro il sostentamento aveva una profonda influenza sugli Albertario: “da essa traevano la calma, la serenità e la fermezza; essa ispirava la confidenza in Dio creatore e conservatore, la serietà della vita, l’umiltà e la gioia del lavoro, l’amore per gli infelici e i poveri, la rassegnazione al dolore, la certezza dell’immortalità. Nello spettacolo quotidiano dei loro campi trovavano la conferma di quelle verità religiose che apprendevano nella chiesa e nella scuola. Chi si allontana, sedotto dai miraggi della città e non torna più, si condanna alla nostalgia; chi vi ritorna rinnovella le forze e le energie a contatto con la propria terra” ( 1). L’amore per la sua terra sarà sempre fortissimo in don Davide, neanche la passione per il giornalismo riuscirà a spegnerlo, e nei momenti di scoraggiamento e di riposo dalle lotte, ad essa tornerà sempre con piacere.
Davide Albertario “si sentiva, con rude orgoglio, figlio di popolo, rampollo di schiatta non fiaccata dai vizi e portò sempre nella sua opera giornalistica un disprezzo per le caste infrollite, per la nobiltà infiacchita, per i pallidi cittadini che non conoscevano il sole, il vento e le brezze della campagna” (2). A nove anni Davide entrò “rubesto e sdegnoso come un cavallo selvatico” nel collegio pavese e poi in seminario dove imparerà ad obbedire e studiare. In seminario si ricordò le parole della madre, donna di grandi sentimenti, che gli aveva detto: “prima di obbligarti alla vita sacerdotale, pensa a quello che fai; tu sei libero, sarai sempre il mio caro Davide in ogni condizione di vita; consigliati con Dio e con il tuo confessore; quando abbi deciso, quando abbi abbruciato le navi dietro di te, sii fermo nel proposito tuo, fino alla morte; pensa, hai tempo, pensa seriamente”. La buona madre fu sempre l’angelo consolatore nelle lotte del suo don Davide, e sul letto di morte gli raccomandava ancora di non abbandonare mai la bandiera della Chiesa e del Papa con queste parole: “So poche cose, ma qualche cosa conosco; orbene ritieni che è meglio passare come vittima innocente anziché come carnefice fortunato; ritieni che la fede operosa è l’unica gioia e l’unico vantaggio della vita; ritieni che nella famiglia si hanno sempre i migliori amici; ritieni che l’uomo di carattere non perisce morendo; ritieni che è buona la tua posizione, poiché gli avversari se usano contro di te la menzogna hanno necessariamente una pessima causa; difendi la religione di tuo padre e mia, onora ed ama la casa; abbandonati nelle mani di Dio e del Papa” (3).
La conversione dal liberalismo giovanile: Albertario diventa “intransigente”
Nel collegio di Pavia il giovane Albertario subì l’influenza dei sacerdoti liberali, antiromani e giansenisteggianti che quivi insegnavano; e fu per questo motivo che i famigliari preoccupati dai sentimenti liberali che egli già manifestava, decisero di mandarlo fuori diocesi: a Milano. Compiuti quindi gli studi ginnasiali nel 1860 Davide entrava nella prima classe del seminario S. Pietro Martire, per poi passare il secondo e terzo anno nel seminario di Monza.
Sarà proprio nel seminario di Monza che avverrà la sua “conversione” dal liberalismo all’intransigentismo. Fu nel 1864, quando assieme agli altri chierici Davide Albertario assistette alla perquisizione e detenzione, ad opera del governo liberale di Torino, di Mons. Caccia Dominioni, vicario episcopale di Milano, (4) a causa della ferma volontà di quest’ultimo “di obbedire al suo superiore, il Papa” e non cedere alle istanze del Re che contro le regole canoniche voleva imporre la nomina al Capitolo metropolitano di alcuni sacerdoti liberali e quindi graditi al governo.
« Per il Chierico Albertario fu una rivelazione – come ebbe egli stesso a dire ai suoi amici. - Sul suo animo giovane il passo cadenzato dei carabinieri, che montavano di guardia al povero vescovo, reo di non piegare il capo davanti alla violenza e di obbedire romanamente al Papa lo colpì al cuore. Meditò sugli avvenimenti e capì che il liberalismo imperante associava l’unità all’indipendenza della patria, alla distruzione del Pontificato e allo sgretolamento del cattolicesimo. Sentì che la sua vocazione sacerdotale sarebbe rimasta incompleta, se non avesse insieme giurato di combattere per la causa e il trionfo della religione, per il Papa minacciato da ogni parte, se non si fosse schierato tra gli audaci che non si adattavano ai fatti compiuti e che, davanti al triste presente, volevano salvare, anche con il sacrificio estremo, le ragioni dell’avvenire.
Il nemico da combattere era un principio incarnato dagli uomini del suo tempo; un principio rivoluzionario e latitudinario, che ispirava le mene segrete delle sétte, come le cortigianerie dei preti conciliatoristi; che giustificava il segreto delle logge come l’aperta violenza della stampa, che affratellava intorno alle leggi anticlericali corifei della Destra e della Sinistra, estremisti e conservatori, uomini del partito d’azione e monarchici: il liberalismo, ecco il gran nemico della Chiesa e del Papa, il subdolo nemico, che nutritosi col sangue della ghigliottina terroristica della rivoluzione francese, vantavasi fonte di libertà ed era oppressione scandalosa, di eguaglianza ed era vilipendio dell’umana dignità a profitto di pochi, di fratellanza ed era disconoscimento del diritto di professare la verità e la fede ».
Proprio in quel 1864 usciva l’enciclica Quanta Cura con il Sillabo, di Pio IX; l’Albertario farà sua come un comando la proposizione che condannava l’idea che: “il Romano Pontefice possa e debba riconciliarsi e transigere col progresso, col liberalismo e colla moderna società”.
Di colpo diventò “intransigente”, volle esserlo ogni giorno di più e rivolse tutti i suoi sforzi, il suo ingegno, la sua cultura, i suoi studi per l’attuazione della missione a cui si sentiva chiamato. “Fu dunque nei seminari di Milano – scrisse Albertario stesso, anni dopo – che mi liberai dalle affezioni liberalesche contratte a Pavia. E fu nei seminari di Milano che nelle buone idee e nelle buone dottrine venni rassodato da professori egregi” » (5). In seguito Davide Albertario fu mandato, dai suoi superiori, a compiere i suoi studi teologici a Roma presso l’università Gregoriana dove poteva apprendere le “dottrine più sicure” e dove “potrà sentire il cuore del Papa scandire le ore della gioia e del dolore”. Da Roma tornerà confermato nella sua fede e nei suoi propositi, “disposto e armato per la buona battaglia”. Il 7 agosto 1868 aveva conseguito la laurea e il dottorato in teologia. Il 16 febbraio del 1869 don Davide Albertario ricevette l’ordinazione sacerdotale dall’arcivescovo Mons. Nazari di Calabiana (6) nel duomo di Milano.
Don Albertario arriva a L’Osservatore Cattolico – Giornalista per vocazione
Papa Pio IX fu all’origine de l’Osservatore Cattolico quando nell’estate del 1863, vista la difficile situazione della diocesi di Milano, incoraggiò Mons. Caccia Dominioni a procurare la pubblicazione di un giornale cattolico nella metropoli sull’esempio de l’Armonia di don Giacomo Margotti a Torino. Il primo numero del giornale uscì il 2 gennaio del 1864. Primi direttori e fondatori de l’Osservatore Cattolico furono Mons. Giuseppe Marinoni (7) e don Felice Vittadini, tra i collaboratori don Enrico Massara e don Giuseppe Sommaruga. Tra lo stupore degli stessi suoi redattori, di tutti i suoi detrattori e avversari che lo avevano bollato come il “giornale del Papa” e che avevano profetizzato che era “nato morto”, l’Osservatore progredì rapidamente, crebbe il formato, aprì la propria tipografia e allargò la cerchia degli abbonati e degli amici. Sotto il titolo figurava la frase di S. Ambrogio: “Ubi Petrus ibi Ecclesia: ubi Ecclesia, ibi nulla mors sed vita aeterna”; nell’articolo programmatico si diceva che “Cattolici e Italiani veneriamo in Pio IX il Pastore della Chiesa, il Successore di Pietro, il Vicario di Cristo… Anche noi protestiamo con S. Girolamo di non conoscere né Paolino né Melezio, né alcun Dottore universale, ma solo il Romano Pontefice, poiché chi non è con lui, non è colla verità”.
Papa Pio IX fu sempre grande sostenitore del giornale in mezzo alle ripetute tempeste che esso dovrà affrontare. Nel 1867 di fronte ai timori dei redattori per l’opposizione del nuovo arcivescovo Nazari di Calabiana di idee liberali, Pio IX scriveva: “Voi mi rappresentate quel clero fedele che da S. Carlo a noi ha sempre aderito alla Santa Sede; lavorate, proseguite; se altri non vi ama, io vi amo, ed io vi conforterò; voi siete sotto la mia protezione. Chi mai in tanto bisogno di soldati che difendano la Chiesa sacrificherebbe un valoroso come il vostro Osservatore”. Questi sentimenti del Papa vennero periodicamente confermati dai brevi che Pio IX mandò al giornale.
Albertario era giornalista “per vocazione” come altri nascono poeti o pittori, vero “Atleta del giornalismo cattolico, impugnava la penna come una spada, rovesciando sul nitore della carta una valanga di periodi scaturiti dalla mente come lava vulcanica”, come diceva don Giuseppe Pecora, suo nipote e suo biografo. Nel 1870 si aprì il Concilio Vaticano I e incominciarono le polemiche tra infallibilisti e antinfallibilisti; di questi ultimi faceva parte anche l’arcivescovo di Milano Nazari di Calabiana, che non potendo attaccare direttamente le dottrine sostenute dal giornale (perché coincidevano con la posizione di Pio IX) lo accusò di mancanza di carità e violenza e brutalità nei modi. Don Davide arrivò all’Osservatore Cattolico proprio in quegli anni, subito dopo l’ordinazione sacerdotale, in seguito anche al fallimento di un concorso per ottenere la parrocchia di Belgioioso, in diocesi di Pavia. In fin di vita nel 1902 l’Albertario poteva ancora scrivere a don Ernesto Vercesi: “Io amo il giornalismo cattolico; esso è un inno quotidiano di gloria a Dio, di omaggio alla verità, di elevazioni nobilissime. Con il giornalismo cattolico si serve alla religione, alla patria, al Papa, si difendono la giustizia e l’innocenza che spesso non altrimenti possono difendersi, si sventano le malignità dei tristi, si pongono in guardia i buoni, si istruisce, si educa, si illumina, si compie l’apostolato cristiano in una forma geniale ed efficacissima, si esercitano le facoltà letterarie nella maniera più utile”. Le battaglie e le angustie di più di 25 anni di giornalismo non avevano fiaccato l’animo dell’atleta del giornalismo cattolico.
Le battaglie de L’Osservatore Cattolico
• Il liberalismo. Il liberalismo, in quegli anni, andava a braccetto con l’anticlericalismo di stato, che si manifestava con leggi vessatorie e assurde nei confronti della Chiesa e dei cattolici fedeli al Papa. Uno dei punti di scontro fu la questione dell’educazione cattolica dei giovani (da sempre la rivoluzione per far avanzare il suo piano ha mirato ad impadronirsi dell’insegnamento, che le permette di deformare e pervertire i giovani alle sue idee). Albertario fin dal 1875 (Congresso Cattolico di Venezia) aveva proposto la fondazione di una Università Cattolica (8) per spronare i cattolici ad ottenere la libertà del loro insegnamento contro uno stato leviathano centralista e giacobino.
Don Albertario opponeva al liberalismo settario la difesa della libertà della Chiesa affermando che il concetto stesso di libertà porta i cattolici a “domandare che ci si conceda di educare cattolicamente i figlioli. Non è fanatismo il nostro nè è pregiudizio: è puro amore di libertà. Chi non chiede come noi la libertà non è liberale, ma è un tiranno” [Osservatore Cattolico 21/08/1875] (9).
“Sulla sua bocca d’«intransigente» nemico del liberalismo, quel grido alla libertà non poteva essere interpretato (e infatti nessuno l’interpretò) in altro modo che come una liberazione dell’anima italiana dalla schiavitù irreligiosa che i sacerdoti della «religione illiberale» (come dice il Croce) andavano concretando con leggi e istituzioni assurde. Così, quando pochi mesi dopo uscì il Sillabo di Pio IX, l’Albertario non ebbe a soffrire crisi di coscienza, ma si trovò allo stesso posto di prima, in armi e in piena battaglia contro le dottrine condannate dal solenne e vituperato documento pontificio” (10 ).
• La “questione romana” divideva i cattolici in particolare e la società dell’epoca in generale. Si parlava allora di Italia “reale” e di Italia “legale”. I liberali e conciliatoristi credevano preferibile, per la dignità e spiritualità del ministero religioso, l’accettazione dei fatti compiuti (Italia “legale”) e l’abbraccio tra Pio IX e Vittorio Emanuele II al cospetto del mondo. Sull’altro fronte gli intransigenti ritenevano indispensabile, all’esercizio del ministero papale, la sovranità temporale su un territorio che gli assicurasse l’indipendenza da ogni ingerenza esterna (Italia “reale”).
In quegli anni si moltiplicarono, da parte del nuovo governo unitario, leggi anticattoliche, ispirate dalla Massoneria, quali proibizione di pellegrinaggi e processioni, processi contro sacerdoti e vescovi che leggessero in pulpito le encicliche pontificie (tra il ’72 e il ’73 furono ventinove i vescovi processati per questo motivo). Il governo permetteva, e incoraggiava lasciandole impunite, clamorose dimostrazioni e violenze anticlericali, fin sotto il Vaticano (11).
Albertario e i suoi amici inquadravano la questione romana nel quadro storico del momento e cioè nel gigantesco tentativo di apostasia mondiale, nella guerra generale per sostituire alla religione di Cristo la “religione della libertà” liberale. Essi consideravano, a giusto titolo, la legge delle Guarentigie come un piatto di lenticchie offerto al Papa affinché rinunciasse ai suoi sacrosanti diritti. L’Albertario scriveva: “Una nuova frase fu coniata dai liberali e proclamata in parlamento, cioè Religione senza Chiesa (cattolica). Questa frase che ha avuto le sue procreazioni in quelle altre di libera Chiesa in libero Stato, di separazione della Chiesa dallo Stato, di morale senza dogma, di legge senza Dio, di incompatibilità del sacerdozio con la politica, questa frase ha ora il prestigio e la seduzione della giovinezza, ed è quella che sintetizza il concetto rivoluzionario in cui ci troviamo” ( 12).
L’opera dell’Albertario poteva essere riassunta nel celebre motto “Per il Papa e con il Papa”. Questa dirittura di principi e di sentimenti era altamente approvata da Pio IX, che ringraziava l’Osservatore Cattolico per l’Obolo di San Pietro con due Brevi, il primo del 4 Febbraio 1874, il seguente del 11 Ottobre 1875: “Ma il dono di gran lunga più accetto, pel quale continuamente vi meritate la nostra gratitudine, lo riconosciamo nell’impegno, con cui opponete la sana dottrina agli errori del giorno e vi adoperate a difendere la causa della verità e della giustizia, per nulla distolti dalla malvagità degli empii e dalla difficoltà delle circostanze. Per il che ci congratuliamo e ci rallegriamo di quanto ci comunicate intorno al progredire e all’ampliarsi del vostro giornale, e vi auguriamo che Dio anche in avvenire col suo favore accompagni i vostri sforzi e le vostre fatiche. Proseguite pertanto con alacrità nelle opere intraprese, anche se combattendo si opporranno gli odii dei malvagi, o vi mancheranno i soccorsi di coloro che in sì gravissima guerra dimostransi soldati degeneri. Noi intanto nel commendare colla meritata lode il vostro zelo, e nel rendervi i dovuti ringraziamenti per i prestatici officii, a tutti ed a ciascuno di voi amorevolmente impartiamo quale attestato della pontificia dilezione, l’apostolica benedizione” ( 13).
Questo appoggio incondizionato di Papa Pio IX permise a L’Osservatore Cattolico di resistere e di continuare la sua opera malgrado le proteste, gli attacchi, i rimproveri del clero liberale e conciliatorista, tra cui molti vescovi come Bonomelli di Cremona e soprattutto lo stesso arcivescovo di Milano Nazari di Calabiana. “Quando tali brevi giungevano all’Osservatore Cattolico la redazione era in festa. Gli entusiasmi si raddoppiavano, scoppiavano interminabili evviva al Papa. […] L’Albertario […] sentiva nelle parole auguste soprattutto l’incitamento a nuove battaglie, persuaso d’altra parte che «questa unione al Sommo Pontefice, questa pratica esatta della sua dottrina quale egli ce la spiega» fosse «un mezzo per mantenere l’unità coi nostri confratelli di giornalismo e con gli altri cattolici»” ( 14).
Quando il 9 gennaio 1878 morì Vittorio Emanuele II “Padre della Patria”, don Albertario firmò un articolo di fuoco su l’Osservatore nel quale parlando del defunto sovrano scriveva: “proclamò in un pubblico discorso: A Roma siamo, a Roma resteremo! Dio ne confermò la parola e Vittorio Emanuele è là cadavere sotto le volte di una stanza pontificia. Un periodo si chiude della rivoluzione italiana e un periodo nuovo incomincia. È morto e sia. Che ha fatto egli per la gloria di Dio? Dio giudicherà per la vita futura, noi giudichiamo la terrena. (…) Sono domande terribili. Noi le facciamo sulla salma fredda di un Re di Savoia, morto nel palazzo apostolico del Quirinale” (15). L’arcivescovo Nazari di Calabiana, peraltro insignito della dignità di senatore del Regno, se la prese a male e convocò i redattori del giornale Albertario e Massara intimando loro di sciolgierlo e intimando lo sfratto dalla diocesi dell’Albertario. Bisogna notare che l’arcivescovo non aveva battuto ciglio quando il prevosto di S. Maria della Passione aveva elogiato smaccatamente dal pulpito il defunto sovrano lodando in lui ciò che il Papa aveva condannato come danno alla religione. Mons. Nazari aveva inoltre fatto preparare una protesta sottoscritta da 90 sacerdoti, liberali e nemici di don Davide, e pubblicata dallo Spettatore. Tre ore dopo l’incontro con l’arcivescovo di Milano don Albertario prese il treno per Roma dove bussando alle porte giuste ottenne un altro breve di Pio IX datato 17 gennaio (1878) che elogiava il quotidiano milanese. Ancora una volta L’Osservatore era stato salvato dal Papa e il Nazari non potè più insistere per lo scioglimento del giornale.
• I Rosminiani. La questione rosminiana agitava gli animi del clero in quella seconda metà dell’ottocento. A Milano, fin dal 1851, l’arcivescovo Romilli aveva proibito l’insegnamento della filosofia del Rosmini in Seminario, licenziando sedici professori tra i quali il celebre abate Stoppani (che sarà in seguito acerrimo nemico dell’Albertario, denunciandolo presso un tribunale civile). Va detto inoltre che il clero più liberale e conciliatorista propendeva più facilmente per le idee rosminiane in avversione al Tomismo.
Il 3 luglio 1854, sotto Pio IX, la congregazione dell’Indice aveva emanato il decreto Dimittantur col quale si imponeva il silenzio sia ai fautori che agli avversari della filosofia rosminiana. Questo decreto permise una ventina d’anni di relativa calma. La polemica si riaccese nel 1871 in seguito ad un articolo del Margotti su l’Unità Catto¬lica. L’Albertario ricordò dalle colonne de L’Osservatore Cattolico che il decreto Dimittantur non implicava affatto una positiva approvazione del sistema, ma soltanto una non condanna e ricordava che le precedenti condanne di due opere del Rosmini permettevano di dare un giudizio definitivo sul pensiero politico, religioso e civile del roveretano; la campagna anti-rosminiana condotta da L’Osservatore aveva, naturalmente, le simpatie dei tomisti. Le polemiche andarono avanti per diversi anni e portarono infine un duro colpo a L’Osservatore quando, nel 1876, il cardinale De Luca, responsabile della Sacra Congregazione dell’Indice, su ispirazione dei rosminiani, richiamò ad un rigoroso silenzio sulle opere del Rosmini e impose al giornale milanese di riconoscere pubblicamente di aver errato nell’interpretazione del Dimittantur. In realtà, come si scoprì in seguito, la lettera del De Luca non era un decreto ufficiale della Congregazione bensì un documento privato non destinato alla pubblicazione; ma l’arcivescovo di Milano Nazari di Calabiana, ostile all’Albertario, fu ben felice di lasciare il giornale milanese sotto il peso di un’apparente, benché ingiusta, condanna.
I processi contro l’Osservatore e il suo direttore
Numerosi furono gli scontri e le polemiche con avversari ed ecclesiastici che lo portarono a doversi difendere nelle aule di un tribunale. Il più delle volte questi processi erano un pretesto con il quale i suoi nemici cercavano di screditarlo e di fiaccare la sua fibra. Certamente il carattere irruente, battagliero e impetuoso di don Davide era all'origine di molti dei suoi problemi; egli si gettava “brandendo la penna come una spada” nella polemica, laddove ciò gli sembrava necessario per la difesa della verità, l'onore del Papa e della Chiesa, senza andare troppo per il sottile a considerare le insegne e la dignità dei suoi avversari. « “Col Papa e per il Papa” era la formula e il motto di guerra: dunque addosso a tutti quelli che più o meno ambiguamente cercano di minorare o velare lo splendore della massima autorità, contro quelli che la combattono apertamente, come contro gli altri che per interesse, debolezza o vanagloria si acconciano ai fatti compiuti, predicano la rassegnazione passiva, il quietismo politico, la rinuncia a diritti inviolabili. Che importa se sono uomini costituiti in dignità o ecclesiastici di alto bordo? Peggio per loro, che non hanno il senso delle loro responsabilità, che danno scandalo ai pusilli e agli inferiori, che mancano ai doveri del ministero. Del resto: à la guerre comme à la guerre! » (16).
Con un simile programma “integrista in toto” ci si può facilmente immaginare che i nemici erano numerosi ed ogni occasione era buona per procedimenti giudiziari. Molti infatti furono i processi nei quali fu coinvolto il giornale “L'Osservatore Cattolico” che si risolvevano spesso con sequestri o multe da pagare per il giornale. In alcuni casi Albertario fu coinvolto direttamente nella sua persona. Tre furono i processi più importanti che ebbe a subire (se si esclude quello del 1898 che portò alla sua incarcerazione e morte). Nel 1881 don Albertario subisce un processo presso il tribunale ecclesiastico di Pavia per una questione di dignità sacerdotale; nel 1882 viene accusato di non aver osservato il digiuno prima della Messa e subisce un processo presso la curia di Milano; nel 1887 viene citato in tribunale per diffamazione dal rosminiano e conciliatorista Abate Stoppani. Vediamo singolarmente i tre processi.
Il processo del 1881.
Nella canonica di Viadana, una donna, parente del parroco e addetta ai suoi servizi, portava i segni di avanzata maternità; don Albertario che aveva dimorato là per predicare la quaresima venne accusato di quella colpa. In realtà da un’inchiesta fatta dal vescovo di Cremona Bonomelli, risultò che la donna era un'isterica di facili costumi, già madre per tre volte prima di allora e che don Davide era del tutto estraneo ai fatti. Ma la notizia trapelò e gli avversari imbastirono lo scandalo; i giornali come “lo Spettatore” dicevano che Albertario aveva infranto la disciplina del celibato e si era disonorato. Egli venne apostrofato come “lo stupratore di Filighera”. Il clero liberale e rosminiano fece una colletta per istituire un processo civile a Milano; don Davide ottenne da Mons. Bonomelli, che in questa occasione non pospose gli interessi della verità alle questioni di parte politica, che ci fosse un processo ecclesiastico in diocesi di Pavia (la diocesi in cui era incardinato l’accusato). Finalmente dopo otto mesi di dibattito e d’indicibili sofferenze per don Albertario sia il tribunale ecclesiastico che quello civile lo assolvevano rendendogli il suo onore di sacerdote e di galantuomo. Il povero parroco di Viadana, coinvolto nella faccenda, quasi impazzì e purtroppo si tolse la vita. Albertario si consolò scoprendo che la stessa calunnia l’aveva subita anche S. Alfonso dei Liguori e l’avrebbe subita lo stesso Pio IX dal famigerato impostore Leo Taxil.
1882: Il “processo del caffè” e l’esilio
Nell'aprile di quell'anno don Davide fu chiamato in curia da Mons. Maestri, provicario di Mons. Nazari di Calabiana, per discolparsi di un'accusa che aveva dell'incredibile: venne denunciato per aver rotto il digiuno naturale sorbendo un caffè col latte prima di celebrare la messa nella chiesa di S. Maria Segreta nei giorni 12, 13, 18, 20 aprile (17). Albertario si proclamò subito innocente e il parroco di S. Maria si fece suo garante, ma tutto ciò non servì a nulla; “il processo del caffè doveva essere la tomba dell’Albertario” come dicevano i suoi accusatori e persino i giudici. Tanti e tali erano le passioni che si agitavano nei suoi detrattori e l'ambiente della curia milanese gli era profondamente ostile. La calunnia corse rapidamente su tutti i giornali d'Italia, tutti gridavano al sacrilegio e che era ora di finirla con il direttore dell’Osservatore. I primi giornali ad accusarlo furono l’Araldo di Como e Il Corriere della Sera di Milano. La curia intimò ad Albertario di confessarsi reo, altrimenti sarebbe stato istituito il processo canonico; a nulla valsero le sue proteste e il processo si fece: gli stessi accusatori - cosa inaudita - furono assunti quali testimoni ma furono convinti di menzogna e calunnia dal difensore Don Federico Secco-Suardo. Appena terminate le udienze i loro resoconti erano pubblicati sui giornali di tutta la penisola, malgrado il silenzio imposto dai giudici. Don Albertario si vide costretto a fare appello a Roma, rivolgendosi alla S. Congregazione del Concilio, che accolse il suo ricorso il 7 luglio. Il processo canonico si protrasse per lungo tempo e la sentenza definitiva d’assoluzione arrivò soltanto nel 1885.
Inoltre si approfittò del momento difficile de L’Osservatore per disgregarne la redazione: don Barbieri fu sospeso a divinis e costretto a rientrare nella sua diocesi di Cremona, dove mons. Bonomelli gli infliggeva altri guai, don Massara fu denunciato a Roma per aver tenuto un discorso ritenuto offensivo contro l’Arcivescovo, Bonacina fu dimesso senza stipendio, dal ruolo di insegnante di filosofia del seminario di Lodi. Don Davide, dal canto suo, faceva appello con tutte le sue forze alla giustizia del Papa, scrivendo in un memoriale alla Segreteria di Stato: “Io domando giustizia, e la domando al Vicario di Cristo e ai di lui servi fedeli; la domando perché sono vittima dell’arbitrio e devono cessare le provocazioni contro la mia fede; la domando in nome del mio diritto di cristiano, di sacerdote, di scrittore, il quale ha operato sempre secondo le leggi della Chiesa Cattolica e i voleri del Suo Capo Augusto” (18). In questo memoriale, di settanta pagine, don Davide tracciava la storia delle battaglie de L’Osservatore e del suo direttore e, trattandosi di un documento privatissimo, non lesinava giudizi, apprezzamenti e denunce. Delle copie messe sotto chiave da Albertario una gli fu trafugata e data “in pasto” ai suoi detrattori i quali alla fine null’altro volevano se non che egli smettesse di scrivere: “l’Albertario deponga la penna e non sarà più molestato” diceva il prevosto di S. Tommaso a Milano. Effettivamente sul “processo del caffè” che ormai si trascinava da mesi si inserirono tutte le altre polemiche e questioni che fin dall’inizio della sua carriera avevano accompagnato il direttore dell’Osservatore e in particolare i contrasti con il clero liberale e conciliatorista soprattutto con il vescovo di Cremona Bonomelli. Il vescovo di Cremona aveva fatto chiudere il giornale intransigente Corriere della Campagna edito nella sua diocesi, e mirava a fare lo stesso con l’Osservatore Cattolico, facendosi forte di una missiva del 1881 firmata dal card. Jacobini secondo la quale il giornale di Albertario doveva essere messo sotto il suo controllo; Bonomelli manifestò la sua intenzione al patriarca d’Alessandria Ballerini (19) che risiedeva a Seregno, amico e protettore dell’Albertario. Il 15 febbraio dell’anno successivo don Albertario si recò a Roma per presentare un nuovo memoriale al card. Jacobini. Nell’urbe visitò diversi prelati di curia in attesa dell’udienza con il cardinale Jacobini che non lo ricevette ma gli fece giungere un autorevole invito a recarsi a Napoli per un corso di prediche. Don Davide comprese che lo si voleva allontanare per qualche tempo dal suo giornale e dalle polemiche, obbedì e partì per la capitale partenopea. Il suo “esilio”, perché di questo si trattò, durò circa sei mesi, si trattenne presso la chiesa di S. Paolo Maggiore dei Teatini predicando esercizi e quaresimali in molteplici chiese, riscuotendo un notevole successo tra i cattolici napoletani che lo ricevettero con rispetto e onore. A Napoli don Albertario, ricevette la visita di monsignor Pietro Balan (20), famoso storico dei papi e suo ammiratore, il quale era latore di una missiva di Leone XIII che desiderava che il giornalista pavese non tornasse all’Osservatore, fino a quando non fosse composta la vertenza con il vescovo di Cremona.
I due memoriali per il cardinale segretario di stato, stampati in poche copie, per uso privato, erano purtroppo stati trafugati da qualche malevolo e comunicato ai giornali cattolici liberali che lo pubblicarono causando un grosso danno alla causa di don Albertario e del suo giornale. Anche i giornali anticlericali ripresero questi scritti servendosene per la loro propaganda (21). Altri pubblicarono ancora gli atti del “processo del caffé”. Insomma sull’Osservatore ed il suo direttore in esilio si abbatté una vera tempesta che sembrava doverlo schiacciare da un momento all’altro. Il vescovo di Cremona chiedeva formalmente alla Santa Sede che la questione fra lui e Albertario fosse deferita in giudizio a Roma: le cose sembravano proprio mettersi male per il nostro giornalista ed egli paventava la chiusura del suo giornale (come era nelle speranze dei suoi avversari): “agitazione, terribili agonie e noie, esilio” erano le parole che annotava più frequentemente nel suo diario in quei giorni da Napoli dove continuava la sua predicazione del mese mariano per volontà dell’Arcivescovo, che cercava di alleviare il suo esilio trattandolo molto amorevolmente. Il 26 maggio il card. Jacobini scrisse infine a don Albertario comunicandogli le conclusioni della commissione cardinalizia che gli ingiungeva di ritrattare le accuse e di sottomettersi. Albertario « doveva non solo ritrattare, ma anche riprovare; doveva dichiarare ingiuriose le pubblicazioni fatte dall’Osservatore nei confronti del Bonomelli; doveva riconoscersi in colpa che la stampa delle due memorie al cardinale Jacobini “ne abbia facilitato la ristampa e la diffusione”; doveva ammettere che eravi stata una “indebita e sovversiva ingerenza nella amministrazione diocesana” di Piacenza e infine doveva chiedere umilmente perdono ai due vescovi» (22). Tutto ciò doveva, inoltre, essere anche pubblicato sul giornale.
Don Davide Albertario si sottomise e fece quanto gli veniva chiesto “sempre obbediente al Sommo Pontefice nella vita e negli scritti” e le sue dichiarazioni vennero pubblicate sul suo giornale il 25 giugno (1883). « Don Davide aveva compiuto il più grande sacrificio della sua vita. “Pensate un po’ – scriveva il 21 ai suoi cari di Filighera – un uomo ancora giovane, nel momento migliore della vita, dopo tante lotte e vittorie e approvazioni di vescovi e Papi, si vede abbattuto”. La tentazione, nel suo petto di giornalista nato, c’era pure di buttarsi dall’altra parte, con gli Stoppani e gli uomini dello Spettatore, di abbandonare la causa del Papa che lo colpiva così duramente. “Cari miei, se non mi do a farla finita e sto obbediente e ambisco le umiliazioni è solo per la grazia di Dio la quale anche voi dovete invocarmi. Altrimenti chi m’impedirebbe di fare un giornale liberale, di mover guerra ai persecutori e di mettere insieme un po’ di denari? Ma sarò fedele alla mia vocazione, alla Chiesa, a Dio, non temete» (23). Leone XIII, dal canto suo, fu soddisfatto della sottomissione di Albertario e non aveva nulla contro il giornale, anzi disse che doveva continuare a vivere e gli concesse anche un sussidio in denaro.
Il 7 luglio vi fu la prima sentenza della Congregazione del Concilio sul processo del Caffé che accettava il ricorso di Albertario contro la curia Milanese ed esautorava il giudice diocesano Ghislanzoni che era un nemico personale dell’imputato. Si trattava di una vittoria parziale che lasciava bene sperare per il seguito della vicenda. Verso la metà d’agosto don Davide venne chiamato a Roma dal card. Parocchi suo amico e protettore. Quivi giunto ebbe udienze da alcuni cardinali e il 31 agosto fu ricevuto in udienza, con molta cordialità, da Leone XIII che lo assicurò della sua benevolenza verso L’Osservatore Cattolico, ma che preferiva che egli restasse lontano da Milano fino a conclusione del processo. Don Albertario “versò nel cuore del Padre tutta l’amarezza dell’animo contristato da tanti mesi, dichiarò d’accettare l’obbedienza e di confidare pienamente nella giustizia e nella benevolenza della Santa Sede”. Il suo esilio continuò per altri mesi nei pressi della città eterna dapprima ad Aspra e poi ad Albano Laziale. In quel periodo don Albertario conobbe il giovane Mortara, il famoso ebreo convertito e diventato sacerdote. Don Davide non voleva reintegrare Milano senza che un atto del Papa venisse a lavarlo dall’onta dell’esilio che lo faceva apparire colpevole.
Nel frattempo il processo del caffé era ripreso presso la curia milanese e la sentenza arrivò l’antivigilia di Natale (1883); don Albertario veniva riconosciuto colpevole di aver rotto il digiuno prescritto prima della Messa il 20 aprile 1882 e di aver quindi celebrato sacrilegamente. Di conseguenza doveva essergli tolta la facoltà di predicare e insegnare catechismo e doveva pagare le spese del processo. Naturalmente anche questa sentenza venne pubblicata dalla Perseveranza e presentata dalla stampa liberale come una vittoria definitiva del partito clerico-liberale-rosminiano di cui il capo era ormai l’abate Stoppani. L’Albertario sembrava ormai irrimediabilmente perduto e la sua carriera giornalistica finita, lui stesso si diceva schiacciato da forze superiori; in quello stato d’animo chiese che gli fosse mutata la residenza ottenendo di potersi ritirare tra i suoi nella natia Filighera tra gli affetti puri e semplici della famiglia: “come Eva sul lembo del Paradiso perduto, contemplando la felicità fuggita; come Adamo mestissimo sul cadavere della prima vittima della crudeltà umana”. Tornò a casa ai primi del 1884 dove trovò ad accoglierlo la buona madre che lo aveva consolato nell’esilio con la preghiera e la parola; ella se lo strinse al seno come un bambino. Il vescovo di Pavia invece gli concesse di predicare e insegnare e di reggere provvisoriamente la cura di Belgioioso. Ma è proprio quando le cose sembrano umanamente perdute che il Buon Dio interviene per mettere tutto a posto.
L’aria era cambiata, a Roma i due ricorsi presentati da don Davide furono accolti e in Vaticano si guardava alla situazione milanese con un altro occhio, la verità si faceva strada. « I metodi dei clerico-liberali, i quali si sapevano appoggiati dall’arcivescovo, gli scalpori del loro trionfo e l’insolenza usata da essi contro l’Albertario così facilmente accusato di modi aspri e ingiuriosi erano tali da far pensare anche uomini di largo pensiero come il cardinale di stato Jacobini. D’altra parte la condanna dell’Albertario giungeva nel momento in cui (…) rinfocolavano le discussioni sulla questione romana, il guardasigilli Zanardelli boicottava col rifiuto dell’exequatur le nomine dei vescovi, il governo dimostrava sempre maggiori velleità d’imitare il Kulturkampf germanico. Era quella l’ora più opportuna per sfogare ire di parte contro un giornalista, che il papa stesso aveva proclamato “campione della stampa cattolica” e che da un ventennio si batteva come un leone in difesa dei diritti del Pontificato?» (24). L’Osservatore e Il Leonardo non erano morti: dal suo esilio in terra natia don Davide mandava articoli e riprendeva coraggio; “risorgerò” scriveva nel numero pasquale pubblicando un’incisione con il bacio di Giuda… era veramente “duro a morire” conclusero i suoi avversari. Questi mesi lo videro impegnato in battaglie per le elezioni amministrative e per arginare la propaganda massonica che si organizzò a Torino in occasione dell’apertura del tunnel ferroviario del Frejus (25). Poco prima di Natale gli morì la madre consumata dalle fatiche e dal male, ma fiduciosa in Dio (26). Fu quindi un doloroso Natale, tanto più che a giorni si attendeva la sentenza della S. Congregazione del Concilio sul suo processo. La sentenza arrivò, ma era di assoluzione e di revoca di quella emessa dalla curia milanese un anno prima: don Albertario veniva riconosciuto innocente e completamente riabilitato dall’imputazione di sacrilegio. Anche l’ennesimo ricorso presentato dalla curia di Milano fu rigettato nella sentenza definitiva in appello, che arrivò il 18 aprile 1885, dopo tre anni di dolorosa sofferenza per don Albertario; egli dovette ricordarsi di quelle parole - già citate - della sua buona madre morente: “Se gli avversari usano contro di te la menzogna hanno necessariamente una pessima causa; difendi la religione di tuo padre e mia, onora ed ama la casa; abbandonati nelle mani di Dio e del Papa”. Ancora una volta la sua battaglia non era stata vana.
Il processo Stoppani
L'abate Antonio Stoppani, scienziato, geologo famoso, deve la sua fama alla sua opera più divulgativa: "Il bel paese" (1875). Stoppani era di idee completamente opposte a quelle del nostro giornalista: era un "patriota", un liberale favorevole alla conciliazione. Cappellano militare al seguito degli eserciti sardi nella terza guerra d'indipendenza, di idee "transigenti", era inoltre un discepolo della filosofia di Rosmini; era anche direttore del Museo di Storia naturale di Milano. Negli anni in cui il Papa Leone XIII invitava i cattolici con l'enciclica "Æterni Patris" a coltivare la dottrina di San Tommaso, Stoppani fondava un periodico intitolato "Il Rosmini" non curandosi del Dimittantur che imponeva il silenzio sulla filosofia del roveretano; il suo programma era un cartello di sfida ai tomisti, agli anti-rosminiani e al papa stesso (27). Fu dunque lo Stoppani a dare fuoco alle polveri...
La risposta di Don Albertario, come era prevedibile, non si fece attendere: alla rivista del celebre abate egli oppose subito la Rivista Italiana Scientifica Bibliografica, stampata ed edita dall'Osservatore. Già nel primo numero così veniva apostrofato lo Stoppani: "Egli ha un'umile velleità (...) di farsi caposcuola non solo, ma di modificare a suo capriccio la Chiesa cattolica, così che diventi ancella ossequiosa di quel liberalismo, che è la negazione della Chiesa cattolica ... Se però l'oltraggio che lo Stoppani dirige ai cattolici ci conduce ad occuparci di lui, non dobbiamo nascondere il rincrescimento che proviamo nel sentirci sfidati e costretti a respingere la petulanza di un prete" (28). La polemica si fece subito aspra su entrambi i giornali con toni coloriti, che a quei tempi non meravigliavano nessuno, tanto meno i cattolici abituati a quelle schermaglie verbali da anni (29).
Il 27 febbraio 1887 Stoppani presentava presso il tribunale civile e penale di Milano una querela per ingiurie e diffamazione continuate, dal 1884 in poi, nell'Osservatore e nella Rivista Italiana e nomitamente contro i sacerdoti Albertario, Massara, Rossi, Secco Suardo e Bigatti. Citando frasi d'articoli che, isolate, maggiormente lo avevano colpito, si costituiva parte civile presso un tribunale laico chiedendo il risarcimento dei danni e delle spese. La cosa fece scalpore poiché Stoppani aveva ottenuto non senza difficoltà il permesso dal vicario di Milano di adire al foro civile, poiché a quei tempi vi era ancora il foro ecclesiastico ed era giustamente considerato scandaloso che un sacerdote si rivolgesse ad un tribunale civile. Da Roma si fecero pressioni sull'arcivescovo e su Stoppani perché ritirasse la querela (ma pare che altri prelati consigliassero di andare avanti usque ad finem...). Il cardinal Rampolla, segretario di stato, non permise ai vescovi di Cremona e Piacenza, citati come testi dallo Stoppani, di presentarsi al processo. "Abilmente condotto da un presidente ostile, il dibattito - messe da parte le scialbe ed innocenti figure dei gerenti all'oscuro delle questioni e trascurati anche gli scrittori dei fogli incriminati - si concentrò quasi esclusivamente sull'Albertario e sull'Osservatore Cattolico ed assurse ad un impari duello tra liberalismo e intransigenza cattolica, del quale fu posta in luce dal Pubblico ministero tutta la portata politica" (30). Don Albertario fu mirabilmente difeso dall'avv. Paganuzzi che mostrò come trattandosi di una "questione interna" alla Chiesa, del processo si doveva occupare il foro ecclesiastico e l'averlo portato in un foro civile ne aveva fatto una questione di politica, di scontro tra partiti avversi. L'altro avvocato dell'Albertario, Castelli, citò molti brani degli scritti dello Stoppani in cui ricorrevano espressioni non meno gravi di quelle imputate ad Albertario e ai suoi, demolendo così le accuse.
La sentenza, già scritta poiché voluta dalle autorità liberali e massoniche, fu emessa l'11 luglio (1887). Era ovviamente di condanna per don Davide ed i suoi collaboratori de L'Osservatore. Furono condannati a pagare multe per ingiurie i gerenti del giornale (L. 51) e Albertario (L. 200); tutti gli imputati compresi i sacerdoti furono reputati responsabili dei danni morali e condannati a pagare in solido L. 10.000 allo Stoppani, e altre L. 4000 come parte civile per le spese di giudizio, a pagare le spese all'erario e infine a far pubblicare la sentenza su L'Osservatore Cattolico, sul Secolo di Milano e l'Opinione di Roma, entro dieci giorni.
Fu un colpo molto duro per don Albertario e il suo giornale vista la consistenza delle grosse multe inflittegli. Si trattava di salvare ancora una volta il giornale, e per fare ciò annunciò sull'Osservatore una sottoscrizione pubblica che rapidamente gli portò molte offerte e simpatia. La questura fece addirittura sequestrare i manifesti con cui il giornalista chiedeva aiuti, fatti stampare e affiggere da don Davide, e processò, condannandoli, gli affissori.
Il processo d'appello si chiuse con una nuova condanna (23 febbraio 1888) che diminuì di poco l'ammontare delle multe ma le gravò di altre spese processuali a carico degli imputati. Il denaro raccolto dalla sottoscrizione non bastava e don Albertario si risolse a sopprimere La Rivista Italiana, Il Popolo Cattolico, e il Leonardo da Vinci, fece inoltre dei mutui presso privati per assicurare la continuazione del giornale principale (L'Osservatore) e lo salvò.
Oltre al danno la beffa... fu che l'abate Stoppani destinò 2000 lire del denaro delle multe al costruendo monumento del Rosmini a Milano.
Dal processo Stoppani, l'Albertario ed il suo Osservatore uscivano apparentemente sconfitti ma la vittoria morale era per lui. L'aver fatto ricorso ad un tribunale civile si rivelò una mossa falsa per lo Stoppani e ciò non gli portò nessun beneficio: i libri da lui pubblicati in seguito si rivelarono un fallimento e furono snobbati dal pubblico. Inoltre il 7 marzo 1888 uscì il decreto Post obitum che condannava le 40 proposizioni rosminiane; L'Osservatore ne diede per primo la notizia a Milano, e per Albertario fu un vantaggioso compenso delle sofferenze e delle amarezze dell'ultimo biennio. Lo Stoppani che continuava la pubblicazione della sua rivista, malgrado gli amorevoli avvisi di chi lo consigliava di sospenderla, vide "Il Rosmini" messo all'indice nel giugno del 1889 (31).
Dopo l'iniquo processo Stoppani la simpatia per Albertario e le sue idee aumentarono nel popolo cattolico: laici e giovani chierici appena usciti dal seminario erano conquistati dal programma dell'Osservatore Cattolico, mentre le file del "partito" clerico- liberale si assottigliavano sempre più, al punto che dopo pochi anni resteranno come dei dinosauri solo alcuni vecchi capi del partito un tempo così battagliero. La chiarezza e la coerenza del motto "col Papa e per il Papa" aveva travolto gli avversari e la verità e la coerenza avevano trionfato sull'errore e sul compromesso. L'avvocato Giambattista Paganuzzi, che aveva brillantemente difeso Albertario al processo, divenne presidente dell'Opera dei Congressi che era la più importante organizzazione d'azione cattolica in Italia.
Mons. Giuseppe Sarto (il futuro San Pio X) diciassette giorni dopo la sentenza contro l'Osservatore così la commentava scrivendo a un giornalista amico: "nella Marchetta (giornaletto locale) di Sabato, fa di mettere distinta una notarella sulla somma raccolta sinora dal l'Osservatore Cattolico per pagare la multa e le spese del processo. Altro che condanna! Questa è una prova del favore che gode presso tutti gli ottimi; e nessun altro giornale potrebbe aspirare a tanto" (32).