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    Predefinito Ricordando Peppino Impastato!

    Parte oggi alle 16.30 dalla sede di Radio Aut a Terrasini per arrivare a Casa Memoria a Cinisi, il corteo organizzato per ricordare l'omicidio di Peppino Impastato. Casa Memoria è l'abitazione della famiglia Impastato, diventato un luogo simbolo della memoria per volontà della madre, Felicia e del fratello Giovanni. Il corteo e il concerto in piazza a Cinisi concludono le manifestazioni organizzate sia da Casa Memoria insieme con il Centro di documentazione Peppino Impastato, guidato da Umberto Santino che dal Forum sociale antimafia del quale è animatore Salvo Vitale, storico compagno di militanza di Impastato.

    Quest'anno il nome di Impastato, insieme a quello di altri 3 giornalisti vittime di mafia, Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato e Mauro Rostagno sono stati aggiunti al "Journalist Memorial" del Newseum di Washington che, inaugurato nel 2008, contiene adesso 2.084 nomi. Tra una settimana la lista aggiornata sarà presentata a Washington. Sul fronte delle inchieste giudiziarie, familiari e amici di Peppino Impastato e le associazioni che hanno sostenuto per oltre due decenni la ricerca della verità, dopo la condanna dei responsabili, premono adesso perché si apra il capitolo dei depistaggi. Questa sera, in piazza a Cinisi, omaggio a Fabrizio De André con la musica degli Ottocento e la consegna del premio "Musica e Cultura in memoria di Peppino Impastato" a Pippo Pollina e Roy Paci.

    http://palermo.repubblica.it/cronaca...aggi-15998064/
    Ultima modifica di Italianista; 09-05-11 alle 18:00
    La Vita è troppo breve per non essere Italiani!

  2. #2
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    Predefinito Rif: Ricordando Peppino Impastato!

    Era un destino segnato quello di Peppino Impastato. Era nato a Cinisi in una famiglia di mafia. Il marito di sua zia, Cesare Manzella, era un boss di prima grandezza nel firmamento delle coppole. Suo padre, Luigi, aveva un amico che era il numero uno di Cosa nostra, Tano Badalamenti.

    E invece Peppino il ribelle, militante di una sinistra che si componeva e si divideva, alimentando una galassia di sigle, partiti e movimenti, cambiò la sua sorte. E Tano Badalamenti diventò il mandante del suo assassinio.

    La fine di Peppino, morto a 30 anni, il 9 maggio del 1978, 5 giorni prima della sua elezione a consigliere comunale di Cinisi nelle liste di Democrazia proletaria, impresse una decisa sterzata al corso della vita di chi gli sopravvisse. Di sua madre, Felicia Bartolotta e di suo fratello Giovanni, come di sua cognata Felicetta. Diventarono i custodi della sua memoria e insieme con Salvo Vitale e Umberto Santino, il fondatore del centro di documentazione antimafia, gli implacabili cacciatori di una verità evidente che in pochi intendevano riconoscere. Gli accusatori dei "Notissimi ignoti". Badalamenti, in primo luogo, il cui nome era stato indicato già dal palco nel primo comizio, tenuto due giorni dopo la scoperta del cadavere.

    Ci sono voluti 23 anni perché Peppino Impastato diventasse con bollo di giustizia un morto di mafia. E quell'omicidio un delitto contro la parola. L'assassinio di un giornalista postumo. Perché Peppino fu iscritto all'albo professionale, quando finalmente Badalamenti, nel 1997, fu incriminato.

    Parlava Peppino. Parlava tanto in una Cinisi muta, sorda e cieca.

    Parlava dai palchi improvvisati sui quali rappresentava il suo impegno. Si faceva ascoltare dai microfoni di Radio Aut. Mostrava cosa stavano facendo del suo paese, con l'aeroporto in ampliamento, l'America dei cugini d'oltreoceano sempre più vicina, la droga a fiumi e la speculazione dei signori del cemento alle porte. Faceva nomi e cognomi. Di mafiosi e di politici. Che andavano a braccetto e si facevano fotografare insieme. Fece anche quello di Pino Lipari, il geometra dell'Anas che solo molti anni dopo sarebbe finito in carcere come ministro delle finanze della holding del padrino corleonese Bernardo Provenzano che a Cinisi era andato a fidanzarsi con Saveria Benedetta Palazzolo.

    Tano Badalamenti, l'11 aprile 2002, fu condannato all'ergastolo per quel delitto ma il 30 aprile 2004, a 80 anni, morì nel centro medico penitenziario Devens Fmc, ad Ayer (Massachusetts). Vi era stato trasferito dal carcere di Fairton nel New Jersey dove scontava 45 anni per un colossale traffico di droga sulla rotta aerea Usa-Sicilia.

    Il 5 marzo 2001, Vito Palazzolo, braccio destro di Badalamenti, anche lui amico degli Impastato, aveva rimediato trent'anni, incassando lo sconto previsto per chi va incontro a un giudizio abbreviato. Aveva 83 anni ed era detenuto ai domiciliari.

    Felicia Bartolotta lo incrociò nel primo giorno del primo processo intentato per la morte del figlio. Lo guardò dritto negli occhi e lo costrinse ad abbassare lo sguardo. Gli sibilò con rabbia: "Vergognati". Palazzolo non resse il furore di quella donna minuta e sempre a lutto. Andò incontro ai giudici, si affidò alle cure dell'avvocato Paolo Gullo, lo stesso di Badalamenti. Il legale giocò la carta del suicidio o dell'incidente di lavoro di un terrorista sprovveduto per demolire dal basso una verità che ora contava anche sulle rivelazioni di un pentito, Salvatore Palazzolo. Il 18 novembre del 1994 il collaboratore di giustizia aveva messo a verbale: "Il vicerappresentante della nostra famiglia, Vito Palazzolo, mi ha raccontato del fatto pochi anni fa e solo allora ho saputo che il padre del ragazzo era un uomo d'onore appartenente alla famiglia di Tano Badalamenti. La cosa mi ha sorpreso anche perché mi rendevo conto che lo stesso padre era in certo modo responsabile della morte di quel ragazzino e proprio ciò mi ha fatto apparire l'episodio riprovevole. Secondo quanto ho appreso dal Palazzolo, l'omicidio è stato voluto da Gaetano Badalamenti ed eseguito da Francesco Di Trapani e Nino Badalamenti (entrambi morti, ndr)". Salvatore Palazzolo precisò che al momento dell'omicidio si trovava detenuto all'Ucciardone, nel reparto infermeria. Ma sbagliò la data, indicando il 1976. Nel febbraio dell'anno successivo, sentito nuovamente, indicò la data esatta del delitto e spiegò di avere appreso le notizie dopo il 1984, data dell'arresto in Spagna di Badalamenti.

    Dopo due archiviazioni (nel 1984 e nel 1992), nell'aprile del 1995, l'indagine era stata riaperta. La famiglia, parte civile con l'avvocato Vincenzo Gervasi.

    Sul movente, il racconto di Salvatore Palazzolo aveva incrociato le dichiarazioni di altri collaboratori da Francesco Di Carlo ad Antonino Calderone: "Vito Palazolo mi riferì che Impastato da tempo dava fastidio a Badalamenti con le trasmissioni radiofoniche e con le manifestazioni pubbliche che organizzava a Cinisi, accusando Badalamenti di traffici di stupefacenti e di vari irregolarità nel campo degli appalti pubblici e nella gestione dell'aeroporto. Aggiunse il Palazzolo che avevano tentato di fare diminuire l'intensità di tali attacchi ma l'Impastato era andato avanti per la sua strada al punto che in un'apposita riunione degli esponenti di spicco della famiglia di Cinisi era stata deliberata l'uccisione".

    "Se oggi siamo arrivati a questo - disse il pm Franca Imbergamo - è perché abbiamo sviluppato il lavoro iniziato dal giudice Rocco Chinnici (ucciso dalla mafia nel 1983), aggiungendovi l'anello mancante: i collaboratori di giustizia".

    Palazzolo fu il primo a essere condannato. Felicia Bartolotta aveva 85 anni.

    "Ora - disse - tutti sanno qual è la verità. Ora aspetto la condanna di Badalamenti e poi posso anche morire". Morì il 10 dicembre 2004 a 88 anni, pochi mesi dopo l'ergastolo a don Tano.

    Ripeteva: "Anche gli insetti se lo sono mangiati mio figlio. Che ci vado a fare al cimitero? Lì non c'è. Un sacchetto, solo un sacchetto, questo mi hanno lasciato. No, non c'è perdono per quello che hanno fatto". Qualche anno prima l'avevano ricoverata in coma. Scoprirono che aveva due ematomi alla testa. Spiegò: "Mi mettevo davanti alla foto di Peppino e mi davo pugni in testa fino a stonarmi. Ecco cosa era successo".

    Peppino lo fecero a pezzi sui binari della ferrovia di Cinisi nella notte tra l'8 e il 9 maggio del 1978. Lo misero sulle rotaie quando era già stordito, adagiarono il corpo su una carica di tritolo e fecero brillare l'esplosivo. Poi lo uccisero per 23 anni ancora. Provando a seppellirne il ricordo sotto una montagna di falsi e calunnie. Felicia, Giovanni e Felicetta e gli amici di Peppino, si trovarono a lottare per smontare pezzo per pezzo una ricostruzione di comodo che voleva Peppino alternativamente suicida o vittima di un incidente da dinamitardo inesperto: saltato per aria maneggiando l'esplosivo. Trenta chili di resti su un raggio di 300 metri.

    "Hanno ammazzato Peppino", disse Felicetta alla suocera. "Cacciai un urlo e poi non dissi più nulla", raccontò Felicia.

    La notizia della sua morte giunse nel giorno in cui in via Caetani a Roma gli aguzzini delle Br facevano trovare nel cofano di una R4 rossa il cadavere di Aldo Moro. Nel cono d'ombra di una tragedia nazionale la fine di Peppino era una nota a margine in un'Italia squassata dal terrorismo. Non per chi quel ragazzo esile ma dotato di un'energia contagiosa aveva conosciuto. Non per quel che restava della sua famiglia. Non per i "compagni" che lo avevano incontrato e per quelli che gli erano stati al fianco in radio come nei cortei e nelle manifestazioni.

    Erano stati lì gli amici di Peppino. Erano alla ferrovia a tentare di avvicinarsi alla scena del delitto. I carabinieri, coordinava il maggiore, futuro generale Antonio Subranni, tenevano a distanza solo loro. Poi andarono a perquisirgli le case. Nell'appartamento della zia, Fara Bartolotta dove Peppino viveva, trovarono anche un frammento di diario. Era del novembre del 1977. Era lo sfogo di un militante deluso, c'era l'amarezza di un attivista che non conosceva il limite tra privato e politico. Bastò quella lettera per la tesi del suicidio.

    "Purtroppo debbo riconoscere - è scritto in quel foglio trovato nella casa di Cinisi e recuperato dalla commissione Antimafia che nel 2000 licenziò una relazione durissima sui depistaggi del caso Impastato - d'aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restavano in corpo di riprendere quota, incoraggiato anche dalla fiducia e dall'affetto di alcuni compagni (vecchi e nuovi): non ce l'ho fatta, bisogna prenderne atto. Il mio sistema nervoso è prossimo al collasso e, sinceramente, non vorrei finire i miei giorni in qualche casa di cura. Ho bisogno, tanto bisogno di starmene un po' solo, riposarmi, curarmi. Spero di riuscirci. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è ormai presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzionario. Addio, Giuseppe".

    "Era tutto pianificato", raccontò all'Antimafia l'allora commissario della Digos, Alfonso Vella, arrivato a Cinisi quando i carabinieri stavano già smobilitando.

    C'era da stabilire l'ora in cui Impastato era ancora vivo su quei binari. Sarebbe stato interessante sentire la casellante di turno fino alle 22 dell'8 maggio del 1978. Si chiamava Provvidenza Vitale. Nessuno la cercò e si seppe che era partita per gli Stati Uniti. L'aspettavano per il gennaio dell'anno successivo. Il comandante della stazione di Cinisi rassicurò che al rientro dagli Usa l'avrebbe interrogata. Ma di Provvidenza Vitale non se ne seppe più nulla. E c'era la "lettera d'addio" trovata da Carmelo Canale, aggregato a Cinisi in quei giorni in una stazione che aveva una unità in sovrannumero. Allora era un brigadiere. Poi divenuto maresciallo e tenente avrebbe lavorato col giudice Paolo Borsellino per finire sotto processo e assolto per mafia.

    Il necroforo comunale però si ricordava di un brigadiere che gli disse di cercare una chiave tra i cespugli. Liborio, così veniva chiamato, di chiavi ne trovò tre ma non andavano bene. Il brigadiere gli disse di cercare ancora, poi quella chiave la trovò lui. Era lucida e apriva Radio Aut. Era proprio quella che Impastato teneva sempre nella tasca dei pantaloni. Non era né annerita, né piegata dall'esplosione, o, peggio, ridotta in polvere. Era lì. Lucida. E rimase agli atti. Non così le tre chiavi trovate da Liborio. A parlarne fu solo il necroforo. Stranezze. Scherzi di un ordigno che risparmia gli occhiali della vittima e dilania il cranio.

    L'esplosivo era esplosivo da cava. Non fu esaminato. E non furono rilevate impronte sulla macchina di Impastato che pure era stata sequestrata e lasciata alla mercé dei curiosi nel piazzale davanti alla caserma.

    Contro ogni evidenza era suicidio o attentato. Tutto, fuorché mafia. Tutto contro gli indizi che invece gli amici di Peppino, con gli avvocati Turi Lombardo e Michelangelo Di Napoli, avevano raccolto implorando i carabinieri di prenderli in considerazione. Trovarono, ad esempio, una pietra rossa insanguinata nel casotto di fianco ai binari della ferrovia. Fu lì che gli assassini colpirono Peppino, fu con quella pietra che lo tramortirono per poi orchestrare la messinscena.

    "Era sangue mestruale", tagliarono corto i carabinieri. Era sangue zero negativo, gruppo raro, lo stesso di quello di Peppino, accertò un perito indipendente, il luminare della medicina legale Ideale Del Carpio. E sangue dello stesso gruppo trovarono i periti Caruso e Procaccianti su una pietra di quel rudere. Ma la casa non c'è neppure nello scarno fascicolo fotografico rimasto agli atti. Tra i reperti resterà dimenticato "un pezzo di stoffa colore nocciola sporco che presenta attaccature di materiale solido colore piombo". Cos'era quella sostanza? Non fu esaminata. Così come "la materia argentata solidificata" di cui era imbevuto un sacco di tela.

    Il compendio di quel che accadde sta in un libro di Umberto Santino che non a caso si intitola "L'assassinio e il depistaggio". Perché questo accadde. Dopo l'omicidio fu dispiegato un potenziale di falsi, sottovalutazioni, investigazioni a senso unico per allontanare la verità. Erano altri tempi e Badalamenti era ancora l'interlocutore privilegiato di pezzi dello Stato che teorizzavano e praticavano la coesistenza pacifica con Cosa nostra. Tanto più che l'era dei Corleonesi era agli albori e la supremazia di Badalamenti a rischio. Quel giovane che additava il padrino di Cinisi come un pericolo pubblico, che non risparmiava l'arma tagliente dell'ironia e dello sberleffo, era una macchia. Badalamenti decise il delitto, onorando a suo modo un patto con Luigi Impastato, il padre di Peppino. Ordinò di liquidare il ragazzo solo quando Luigi, di ritorno da un viaggio in Usa, morì in un misterioso incidente stradale, sul quale, manco a dirlo, non si indagò.

    Luigi Impastato era andato negli Usa nell'aprile del 1977 a perorare l'intercessione di qualche mammasantissima per avere salva la vita del figlio. Quello che provarono a raccontare come un viaggio di piacere fu invece la disperata missione di un padre che sapeva di non poter far nulla da solo per fermare una sentenza già scritta e andò a chiedere aiuto. Era partito dopo una visita a casa di Vito Palazzolo: "Gli era venuto a dire che Tano Badalamenti gli voleva parlare", raccontò la vedova.

    Felicia Impastato, una cugina americana che lo ospitò, lo vide teso e preoccupato. Parlarono di Peppino e di come fosse diventato un bersaglio. A mezze frasi, come usa tra siciliani. Ma Luigi disse: "Prima di uccidere Peppino devono uccidere me". E infatti fu solo dopo la morte di Luigi che suonò l'ultima ora per Peppino.

    Felicia Bartolotta raccontò la sua storia in un libro di Umberto Santino e Anna Puglisi, dal titolo "La mafia in casa mia". Raccontò del veto imposto al marito di ricevere in casa "gli amici suoi", "i mafiosi". C'era l'intera parabola esemplare e unica della vita di Peppino, potenziale mafioso tra mafiosi e invece ribelle e per questo vittima.

    La casa di Felicia Bartolotta diventò una sorta di museo. Un giardino nel quale si coltivata l'attesa di giustizia, nutrendo la memoria e sradicando la menzogna. È una piccola stanza bianca dietro a una persiana smaltata color legno che ha di fianco una lapide. Dentro casa, foto e poster alle pareti. Un ritratto in bianco e nero, la tessera da giornalista ad honorem, la laurea honoris causa.

    Arrivavano le scolaresche a sentire le parole della madre di Peppino. E quando con il film "I Cento passi" di Marco Tullio Giordana la storia di Peppino diventò conosciuta al grande pubblico, le visite si moltiplicarono. "State attenti, occhi aperti, il futuro siete voi", ripeteva a tutti Felicia.

    Tratto dal volume all'Unione Nazionale Cronisti Italiani in occasione della prima Giornata della Memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo che si è svolta il 3 maggio 2008 in Campidoglio.

    Storia di Peppino il ribelle Vittima di mafia dopo 23 anni - Palermo - Repubblica.it
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  3. #3
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