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    Predefinito Rif: Brigate rosse atlantiste

    Citazione Originariamente Scritto da ULTIMA LEGIONE Visualizza Messaggio
    Ovvio, se saltasse fuori in modo palese che le BR erano manovrate, come infatti erano manovrate, i compagni potrebbero cominciare a farsi domande un po' troppo scomode sul loro passato e su come vengono utilizzati dal sistema.
    Ci sono dei buoni articoli del PMLI sulle brigate atlantiste,loro le chiamano seguendo la squallida
    retorica antifa "brigate nere" o "fasciste".
    Ma il nocciolo della questione lo centrano..sicuramente
    non erano rosse.

  2. #12
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    Predefinito Rif: Brigate rosse atlantiste

    giovedì 17 febbraio 2011
    Come le Br diventarono atlantiche I

    Questo post[1] nasce come seguito del post Il sequestro Sossi: quando le Br non erano ancora atlantiche[2]. Stante l’indubbia importanza dell’argomento – e in considerazione di quanto sia misconosciuta la vera storia delle Br – penso di pubblicare a puntate (un paragrafo alla volta) l’intero capitolo 7 – IL SEQUESTRO SOSSI – del libro di Antonio Cipriani e Gianni Cipriani SOVRANITÀ LIMITATA – Storia dell’eversione atlantica in Italia[3]. Cominciamo con il paragrafo

    1. Il Field manual 30-31[4] (pp. 202-206):

    Due numeretti per racchiudere il senso di quasi cinquanta anni di storia della Repubblica italiana: 30 e 31. 30, secondo i codici usati dall’intelligence americana vuol dire che l’area d’interesse sono i servizi segreti militari. 31 il tipo di lavoro previsto: le operazioni speciali. Così il Field manual 30-31, compilato l’8 novembre del 1970 e titolato Operazioni di stabilizzazione dei servizi segreti, rappresenta la «summa» teorica della guerra non ortodossa per gli anni Settanta. Spiega ai servizi segreti militari statunitensi che cosa fare in caso di minaccia d’un capovolgimento politico in uno dei paesi d’influenza americana e spiega anche cosa fare in Italia, visto che la minaccia del Pci era, in quel periodo fortissima.

    Un documento scottante, come dimostra la sua storia, ricostruita da Giuseppe De Lutiis: «Predisposto nel 1970 dallo Stato maggiore statunitense (capo di Stato maggiore era all’epoca il generale Westmoreland), pervenne qualche anno dopo al giornale turco Baris che ne annunciò la pubblicazione, mai più avvenuta perché il giornalista che era in possesso del documento scomparve con tutte le sue carte senza che di lui si sia mai più avuta notizia. Qualche anno dopo, per altra via, il documento pervenne al giornale spagnolo Triunfo, che lo pubblicò. In Italia fu pubblicato il 27 ottobre 1978 dal settimanale L’Europeo nonostante vi fossero pressioni affinché il documento non venisse pubblicato. Successivamente lo stesso documento fu ripubblicato dal periodico Controinformazione, vicino alle Brigate rosse. Quel numero, solo quel numero, fu sequestrato per apologia di reato, in quanto conteneva anche la trascrizione di alcuni volantini delle Br[5]».

    Perché negli anni Settanta il manuale Westmoreland faceva paura? Perché si parlava dettagliatamente delle infiltrazioni nei gruppi dell’estrema sinistra allo scopo di creare caos e disordini attraverso la sovversione, ma anche azioni più violente. In pratica si gettavano le basi teoriche su come calamitare in orbita atlantica quel fenomeno originariamente spontaneo e poi abilmente guidato, diventato in Italia tristemente noto con il nome di Brigate rosse. Sostengono gli americani nel Field manual: «Può succedere che i governi del paese amico mostrino passività o indecisione di fronte alla sovversione comunista o ispirata dai comunisti e che reagiscano con inadeguato vigore ai calcoli dei servizi segreti trasmessi per mezzo delle organizzazioni Usa». Che era quanto, secondo i teorici della guerra non ortodossa, stava accadendo in Italia. Come rispondere? «In questi casi i servizi dell’esercito nordamericano devono poter disporre di mezzi per lanciare operazioni speciali capaci di convincere il governo e l’opinione pubblica del paese amico della realtà del pericolo e della necessità di portare a termine azioni di risposta»[6]. Come dire: se i governi non si muovono con decisione per frenare l’avanzata comunista, nonostante i «buoni consigli» statunitensi, ci penseranno gli uomini delle operazioni speciali e faranno in modo di convincere governo e opinione pubblica. Una sinistra previsione di ciò che accadrà ogni volta che il «livello dello scontro» tenderà a diminuire, che il Pci crescerà elettoralmente o che qualche statista dell’area di governo penserà di affrancare l’Italia dal dominio pieno e incondizionato degli Usa.

    Naturalmente il pericolo che in quegli anni doveva saltare fuori agli occhi dei politici e dell’opinione pubblica, era quello «rosso». Bastava solo rendere più accesi i toni della contrapposizione e un po’ più violente le azioni dei gruppi per far scattare le azioni di risposta ottenendo il benestare da parte della popolazione. Il Field manual 30-31 prevede: «I servizi segreti dell’esercito nordamericano dovrebbero cercare di infiltrarsi nel seno dell’insurrezione mediante agenti in missione speciale, col compito di costituire gruppi di azione speciale tra gli elementi più radicali degli insorti. Quando si produce una situazione come quella che abbiamo appena descritto, quei gruppi, agendo sotto il controllo dei servizi segreti dell’esercito Usa, dovrebbero lanciare azioni violente o non violente a seconda dei casi. Nei casi in cui l’infiltrazione di tali agenti tra i dirigenti dell’insurrezione non si è pienamente realizzata, l’utilizzazione di organizzazioni di estrema sinistra può contribuire a conseguire i fini citati[7]». Uno scenario che si verificherà puntualmente, grazie all’opera degli agenti speciali «travestiti» da brigatisti. Il manuale statunitense approfondisce dettagliatamente questo aspetto e parla del ruolo fondamentale degli agenti segreti utilizzati nelle operazioni di «controsovversione» per «infiltrarsi nelle strutture rivoluzionarie e mantenere reti di informatori»[8]. Un concetto ripetuto più volte: «L’infiltrazione nelle attività [dei rivoluzionari, nda] da parte degli agenti del governo non solo è auspicabile, ma può dare un significativo contributo alla battaglia[9]». E ancora: «È importante che i servizi segreti del paese alleato si infiltrino con i loro uomini nei movimenti sovversivi, con l’obbiettivo di realizzare contro-azioni di successo[10]». Viste queste premesse teoriche, è chiaro che quando i movimenti eversivi di sinistra cominceranno ad affacciarsi sulla scena italiana, gli agenti della guerra non ortodossa saranno già pronti per inserirsi nei gruppi, facilitare le loro attività, trovare finanziamenti e spingerli il più possibile su posizioni violente e radicali.

    Nel 1970 la strategia della tensione era cominctata da poco ma nel Field manual la descrizione che viene data del terrorismo praticato dai movimenti estremisti sembra una previsione esatta di quanto sarebbe accaduto in Italia negli anni Settanta. Solamente che, quando il testo era stato scritto, quasi nulla era ancora accaduto e le stesse Br cominciavano a muovere i primi passi. Scriveranno gli esperti dell’esercito americano: «Se i metodi non violenti non raggiungono gli obbiettivi desiderati, i rivoluzionari forse possono utilizzare misure più dure per ottenere i loro obiettivi. Le attività terroristiche sono particolarmente utili per ottenere il controllo della popolazione. Il terrore può essere utilizzato selettivamente o indiscriminatamente[11]». Una situazione di pericolo rappresenta poi il miglior pretesto per organizzare un efficace piano di difesa interna nell’ambito del quale poter coordinare il lavoro delle diverse organizzazioni che operano per mantenere la «stabilità». «Questa integrazione di forze raggiunta con l’uso abile di tecniche aggressive applicate con immaginazione, crea una situazione nella quale l’efficienza delle attività rivoluzionarie viene seriamente danneggiata[12]».

    Le teorie del Field manual sono espresse in termini molto brutali, ma la loro applicazione riuscirà ugualmente a contribuire a disorientare l’opinione pubblica italiana e degli altri paesi alleati, che per anni leggerà il fenomeno terroristico come un semplice altalenarsi di azioni violente «fasciste» o «comuniste» che rispondevano a strategie velleitarie, irrimediabilmente destinate alla sconfitta, senza accorgersi che i termini dello scontro erano assai diversi. Del resto gli atlantici per portare avanti il loro programma erano disposti a violare le leggi, a «ingannare» alleati, promuovere colpi di stato, uccidere gli avversari politici e, naturalmente, a favorire l’espansione del fenomeno terroristico. L’operazione Moro rappresenterà un momento strategico di questo programma. Scrivevano i militari dell’US Army: «Nella fase uno le personalità sono elementi molto importanti. Durante questa fase, quando la rivoluzione comincia a marciare e aumenta la sua influenza, la perdita di un numero relativamente piccolo di uomini può distruggerla o almeno frenarla. La cattura, l’esposizione ai ricatti dei capi rivoluzionari può distruggere completamente la rivoluzione[13]». Nella «fase uno» è anche necessario svolgere una accurata attività di controinformazione per diffondere notizie false e depistanti.

    La guerra non ortodossa, dunque, non si ferma davanti a nulla e gli stessi trattati ufficiali che regolano le attività atlantiche, devono necessariamente essere considerati un semplice strumento di copertura da tenere concretamente in poco conto. Limiti non se ne possono accettare, ma proprio in virtù delle esigenze della controinformazione depistante si deve negare con decisione che i limiti siano stati superati. Nel Field manual questo concetto è espresso con estrema chiarezza: «Le operazioni in questo settore specifico devono essere strettamente clandestine, perché il fatto che l’Esercito statunitense è coinvolto negli affari del paese alleato deve essere conosciuto solo da una ristretta cerchia di persone che collaborano nella lotta contro i movimenti rivoluzionari. Il fatto che il coinvolgimento dell’Esercito americano è molto più profondo, non può essere ammesso in nessuna circostanza[14]». Un altro passaggio del manuale è ancora più chiaro: «Benché secondo la politica nazionale esistente, operazioni combinate di intelligence dell’US Army appartengano normalmente ad un lavoro coordinato con i servizi segreti del paese ospite, l’intelligence statunitense deve essere preparata a dare assistenza al di fuori di quello che è definito dalla politica[15]». I teorici della guerra non ortodossa avevano evidentemente deciso che per realizzare il loro progetto stabilizzatore non potevano fermarsi davanti a nulla.

    Anche il colpo di stato rientrava nei progetti atlantici. Un golpe fascista, come quelli promossi in Grecia e in Cile, oppure un golpe «bianco» di tipo autoritario presidenzialista, come quelli preparati (e sempre rientrati) dai circoli anticomunisti e filoamericani italiani. Per i teorici atlantici l’importante era solamente poter controllare strettamente le attività del paese alleato. Tanto meglio se, agli occhi dell’opinione pubblica, l’aiuto era dato ad un paese che presentasse una facciata democratica. Anche in questo caso il Field manual era molto esplicito: «La nostra preoccupazione dell’opinione pubblica può essere eliminata se i regimi che hanno il nostro appoggio osservano il processo democratico, o almeno la facciata democratica. Quindi un governo democratico è sempre il benvenuto purchè risponda ai principi dell’anticomunismo. Se non ha questi requisiti si deve prendere in seria considerazione una possibile modificazione del governo[16]». In definitiva, in nome della guerra non ortodossa, poteva accadere che un gruppo di infiltrati in un movimento rivoluzionario finissero con l’assumerne la leadership e ne orientassero le scelte, mentre altri agenti segreti, dall’esterno, controllavano le mosse dei terroristi decidendo, di volta in volta, quali azioni far portare a termine, chi arrestare, chi lasciare in libertà e chi far evadere. Tutto funzionale ad una spregiudicata politica di terrore «stabilizzante». Questi meccanismi hanno regolato fin dal nascere le attività delle Brigate rosse; una storia segreta che in tutti i modi si è cercato di nascondere.

    Il manuale della Nato per i guerriglieri
    Ciclostilato, illustrato da dodici disegni, lungo trentatré pagine, le Brigate rosse avevano preparato un manuale sull’uso degli esplosivi e delle armi, diffuso agli inizi del 1972 ai responsabili militari delle colonne e agli incaricati dell’addestramento dei nuovi militanti. Era diviso in tre parti: la prima riguardava «miscele incendiarie e ordigni incendiari improvvisati»; la seconda l’uso di «tritolo nitroglicerina, T4 (esplosivo in dotazione alle basi Nato), dinamite[17]»; la terza una lezione teorico-pratica sull’uso delle pistole Beretta calibro 9 modello 34.

    Il manuale inizia con una premessa: «Le miscele incendiarie sono strumenti di massa per il fatto che non richiedono specialisti; sono di semplice esecuzione e il materiale occorrente è rintracciabile con estrema facilità e con poca spesa». Segue un avvertimento: «Sono molto più pericolose da maneggiare che non gli esplosivi tradizionali»[18]. Le miscele consigliate sono: clorato e zucchero, segatura e paraffina, napalm «improvvisato» con benzina e scaglie sottili di sapone. E una scheda indica anche dove e come reperire i materiali. Un’analisi dettagliata, da specialisti, difficilmente spiegabile con le conoscenze maturate nel corso della guerra partigiana, tanto più che nella seconda parte del manuale vengono illustrati i metodi per fabbricare gli «ordigni esplosivi di emergenza», come bombe a mano improvvisate, fatte con polvere nera, miccia e biglie di ferro. Cinque pagine e otto disegni sono poi dedicati agli esplosivi pesanti come il tritolo, la nitroglicerina e il T4. Ancora più dettagliate sono le dodici pagine riservate alla pistola Beretta della quale il brigatista deve imparare ogni segreto: montarla, smontarla, ripararla, inserire nuovi meccanismi e conoscere impieghi e difetti. La Beretta calibro 9 è considerata nel manuale in uso presso le Br come una sorta di pistola d’ordinanza dei terroristi perché «questa è la pistola che hanno in dotazione le cosiddette forze dell’ordine (poliziotti, carabinieri, guardie notturne, guardiani di fabbrica) quindi tutti i compagni che desiderano vederla più da vicino, e non solo in fotografia, non hanno che da andare a prendersela»[19].

    I clandestini delle Brigate rosse, dunque, avevano preparato un testo militare nel quale venivano spiegate alcune tecniche, come quella della costruzione di bombe artigianali, che erano identiche a quelle che venivano insegnate nel Centro guastatori di Capo Marrargiu. E qualche anno dopo sarà anche avanzato il sospetto che alcuni brigatisti «atlantici» fossero stati addestrati nella base segreta di Gladio. Un sospetto che si rivelerà fondato anche perché il manuale al quale si erano ispirati i brigatisti era di scuola atlantica e in dotazione alle forze armate. Nell’organizzazione era stato introdotto circa un anno prima della sua diffusione dal «superclandestino» Corrado Simioni, che aveva sostenuto di esserne riuscito a venire in possesso tramite il suo giro di amicizie. Una circostanza abbastanza singolare che, quanto meno, indica come la crescita delle Br fosse favorita e predisposta. Del materiale fornito da Simioni i brigatisti si limitarono a fare un riassunto[20]. Così i segreti della Nato divennero la base del loro manuale.

    Di cose singolari durante la sua permanenza nelle Br, Corrado Simioni ne fece parecchie. Oltre al progetto di attentato a Junio Valerio Borghese e all’introduzione del manuale militare della Nato, il «superclandestino» aveva anche preparato uno studio dettagliato, con tanto di grafici elaborati, per sostenere che il 1974 avrebbe rappresentato un anno cruciale per i destini della lotta armata in Italia e in Europa. Mai profezia si sarebbe rivelata più indovinata. Il 1974 sarà l’anno della strage di Brescia, dell’Italicus, dei tentativi di golpe presidenzialisti, della guerra tra servizi segreti che aveva portato alla «scoperta» del golpe Borghese e all’uccisione di Giancarlo Esposti, del sequestro Sossi e della decapitazione del vertice Br.
    --------------------------------------------------------------------------------
    [1] Avvertenza: i grassetti nel testo sono miei. A partire dalla nota 5, le note sono quelle originali del libro.
    [2] Andrea Carancini: Il sequestro Sossi: quando le Br non erano ancora atlantiche
    [3] Edizioni Associate, Roma 1991.
    [4] Il supplemento B di tale documento è riprodotto qui, compresa una discussione sulla tesi – espressa a suo tempo dall’esercito americano – della falsità del documento: FM 30-31B, Stability Operations, Intelligence - Special Fields
    [5] Giuseppe De Lutiis, Le direttive dagli Usa nelle carte “Top secret”, inserto dell’Unità sull’operazione Gladio, 14 novembre 1990.
    [6] Commissione P2, allegati.
    [7] Ibid.
    [8] Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, allegati alla relazione, volume VII, p. 339.
    [9] Ibid., p. 353.
    [10] Ibid., p. 296.
    [11] Ibid., p. 319.
    [12] Ibid., p. 330.
    [13] Ibid., p. 353.
    [14] Ibid., p. 288.
    [15] Ibid., p. 329.
    [16] Ibid., p. 291.
    [17] Documento Br citato da Remigio Cavedon in Le sinistre e il terrorismo, Edizioni Cinque Lune, Roma, 1982, p. 197.
    [18] Ibid.
    [19] Tullio Barbato, Il terrorismo in Italia, cit., 1980, p. 225.
    [20] Fonte personale degli autori.
    Andrea Carancini: Come le Br diventarono atlantiche I
    Ultima modifica di Johann von Leers; 19-02-11 alle 18:15
    Chiunque stia dalla parte di una giusta causa non può essere definito un terrorista.
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  3. #13
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    Predefinito Rif: Brigate rosse atlantiste

    venerdì 18 febbraio 2011
    Come le Br diventarono atlantiche II

    2. L’informatore Pisetta[1]

    L’attentato alla pista di prova della Pirelli di Lainate aveva rappresentato il vero battesimo di fuoco delle Brigate Rosse, in quel periodo già abbondantemente infiltrate dai servizi di sicurezza. Un’azione alla quale ne seguirono altre, che suscitarono ancora maggiore clamore, come il sequestro di poche ore del direttore dello stabilimento Sit-Siemens, Idalgo Macchiarini, rapito il 3 marzo 1972, trasportato in una prigione del popolo ricavata nel retro di un furgone, legato, minacciato con una pistola e fotografato con appeso al collo un cartello con scritto: «Brigate rosse. Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato»[2]. Era il primo di una serie di minisequestri che sarebbero culminati, due anni dopo, nell’operazione Sossi. Di Macchiarini prigioniero, le Br inviarono all’Ansa una foto tagliata perché i volti dei terroristi non comparissero e affidarono a Mario Moretti i negativi da custodire nella base di via Delfico. Ma il leader del dopo Curcio si dimostrerà quantomeno incauto, tanto da lasciare in un luogo facilmente accessibile un negativo in cui era chiaramente visibile il volto di Giacomo Cattaneo, il «lupo» che aveva partecipato all’azione. Così, quando la polizia arriverà su indicazione di Marco Pisetta nel covo, il «lupo» sarà immediatamente identificato.

    Buon conoscente di Renato Curcio fin dai tempi di Trento, Marco Pisetta era entrato nell’organizzazione tramite Italo Saugo «garantito» dallo stesso Curcio. Quando entrò nell’organizzazione terrorista, Pisetta era già in contatto da un paio d’anni con il Sid, che probabilmente si era dato da fare perché fosse scarcerato il 30 maggio 1970, dopo pochi mesi di prigione per alcuni attentati commessi l’anno precedente contro il palazzo della Regione e la sede dell’Inps a Trento. La stessa cosa avvenne il 2 maggio 1972, quando l’ex componente dello strano Gap di Trento verrà catturato davanti al covo di via Boiardo; in tre giorni sarà «ufficialmente» rilasciato dopo aver offerto tutta la collaborazione. Secondo i brigatisti, al momento della sua cattura, Pisetta aveva già aiutato gli inquirenti, indicando quali fossero le basi dell’organizzazione. Si sarebbe trattato dunque di un arresto «di facciata». Racconterà due anni dopo l’uomo del Sid: «Quando la notte del 7 maggio mi lasciarono uscire dal carcere di San Vittore, mi dissero di andare all’estero e di non mettere più piede in Italia[3]». Il confidente del Sid infatti se ne andò ad Innsbruck, dove venne nuovamente cercato dai carabinieri del tenente colonnello Santoro e convinto a «collaborare» ancora. Le sue poco spontanee dichiarazioni non convinceranno il giudice istruttore milanese Ciro De Vincenzo, convocato a Trento per ascoltarlo. Saranno ritenute sufficienti, invece, dal sostituto procuratore di Genova, Mario Sossi, per firmare quattro ordini di cattura contro Vittorio Togliatti, nipote del segretario del Pci, Aristo Ciruzzi, Marisa Calimodio e Giovanni Battista Lazagna. Una pista che si rivelerà fasulla.

    Quanto sia stato necessario convincere Pisetta a collaborare non è chiaro, visto che il gappista era da tempo un uomo del colonnello Santoro, a sua volta conoscente di Italo Saugo e indicato come uno dei protettori del Mar di Fumagalli. Racconterà il capo di Stato maggiore della divisione dei carabinieri Pastrengo, Gastone Cetola: «All’epoca [Santoro, nda] stava lavorando sulle Br ancora in embrione e aveva un confidente che successivamente ho saputo essere Marco Pisetta»[4]. E il confidente verrà nuovamente utilizzato dal Sid alcuni mesi più tardi, dopo essere stato costretto a trasferirsi a Pochi di Salorno, in provincia di Bolzano, in una villa affittata dal fratello di un carabiniere. Lì scrisse sotto dettatura un lungo memoriale con notizie parzialmente vere unite ad altre totalmente false, secondo il miglior stile dei depistaggi. Il documento, autenticato da un notaio di Monaco di Baviera, venne inviato al sostituto procuratore milanese Guido Viola. Scriverà il giudice istruttore Antonio Amati: «Fu subito chiaro che il Pisetta era stato strumentalizzato per coinvolgere in una dura caccia alle streghe alcuni esponenti della sinistra extraparlamentare più in vista. Pisetta un bel giorno sconfessò pubblicamente il suo memoriale affermando che l’aveva scritto sotto la direzione e la costrizione di uomini del Sid. Non abbiamo motivo di dubitare che quanto detto dal Pisetta possa rispondere a verità. Si tratta di un episodio di inaudita gravità[5]». Una volta autenticata la firma, il 29 settembre 1972, il Sid lascerà libero il suo collaboratore che si trasferirà in Germania, a Friburgo.

    Una fuga di notizie farà poi in modo che, nel gennaio 1973, Il Borghese di Mario Tedeschi, il Giornale d’Italia, il Secolo d’Italia, l’Adige diretto da Flaminio Piccoli e lo Specchio pubblicheranno il contenuto del memoriale. Un’operazione propagandistica e depistante. Il racconto di Pisetta, infatti, verrà usato strumentalmente dai referenti atlantici per indicare con forza il pericolo rosso, mentre la sostanziale inattendibilità delle confessioni finirà con il mascherare anche i pochi elementi di verità contenuti nel racconto, con il risultato di coprire alcune piste che, probabilmente, si sarebbero dimostrate assai utili per comprendere la vera entità del fenomeno brigatista. Una di queste portava ai terroristi di Superclan che in seguito avrebbero fatto riferimento alla scuola di lingue Hyperion [foto] di Parigi.

    A differenza di quanto era accaduto per «Raffaele», le Br quando scoprirono il doppio gioco di Pisetta decisero di ucciderlo. La spia era stata localizzata a Friburgo. Per poter entrare in azione i brigatisti avevano anche chiesto all’Autonomia operaia di mettere a loro disposizione punti di appoggio in Svizzera, soprattutto vicino al confine con la Germania. Carlo Fioroni raccontò di un incontro a Basilea tra lui, lo svizzero Gerard de la Loy, Alberto Franceschini e Roberto Ognibene[6]. L’inchiesta per scoprire la spia era stata affidata dalle Br ad Aldo Bonomi, un altro degli inquilini della «casa comune» dell’eversione. Anche i servizi segreti israeliani si daranno da fare per fornire interessate informazioni ai terroristi. Marco Pisetta però non sarà ucciso, ma solo perché le Br fallirono l’operazione a Friburgo. Dopo molti anni di latitanza il «pentito» si costituirà nell’ottobre 1982 ai carabinieri di Domodossola. Ma anche questa volta in cella non rimarrà a lungo. Dopo essere stato trasferito nel carcere bresciano di Canton Mombello e aver ottenuto il permesso per lavorare all’esterno, nel 1986 sarà graziato da Francesco Cossiga. Una delle prime domande di grazia accolte dal presidente della Repubblica.

    Il processo Amerio
    Le Brigate rosse torneranno in azione solo nel febbraio 1973, dopo un lungo periodo di silenzio, sequestrando a Torino il sindacalista della Cisnal Bruno Labate. L’uomo verrà picchiato, incappucciato e «processato» per cinque ore. Dopo l’interrogatorio Labate sarà raso a zero, come si usava nell’immediato dopoguerra con i collaborazionisti, e verrà fotografato. I terroristi lo incateneranno poi senza pantaloni al cancello numero uno della Fiat Mirafiori con appeso al collo un cartello: «Questo è Bruno Labate, segretario provinciale della Cisnal, pseudosindacalista fascista che i padroni mantengono nelle fabbriche per dividere la classe operaia, per organizzare il crumiraggio, per mettere a segno aggressioni e provocazioni, per infiltrare ogni genere di spie nei reparti[7]». Tre giorni dopo la polizia scoprirà attraverso un’impronta digitale rilevata sull’automobile del rapimento che del commando aveva fatto parte Paolo Maurizio Ferrari, modenese, ex operaio alla Pirelli-Bicocca.

    Dopo un’irruzione nella sede dell’Unione cristiana imprenditori di Milano (Ucid), la strategia dei minisequestri continuerà con il rapimento di Michele Mincuzzi, dirigente dell’Alfa Romeo di Arese, specialista in organizzazione del lavoro, catturato il 28 giugno 1973 mentre rientra in casa. Anche in questo caso il sequestrato verrà sottoposto a processo e rilasciato la notte stessa dopo essere stato incatenato vicino alla fabbrica con un cartello appeso al collo. Ma è con il cavaliere Ettore Amerio, capo del personale della Fiat settore auto, che le Br danno il via alle operazioni di lunga durata. Amerio era stato rapito il 10 dicembre 1973 e portato in una prigione del popolo per essere sottoposto a processo. Per il suo rilascio le Br porranno il giorno stesso tre condizioni: il ritiro della minaccia di cassa integrazione avanzata dalla Fiat durante le trattative per il rinnovo dei contratti; la disponibilità del prigioniero a collaborare e che la vicenda fosse seguita con obbiettività dai giornali italiani, soprattutto dalla Stampa degli Agnelli.

    L’operazione Amerio durerà otto giorni e il 13 dicembre i terroristi manderanno una foto del dirigente Fiat appoggiato allo stendardo brigatista insieme con i comunicati per rendere note le varie fasi del processo. «Negli otto giorni di detenzione Amerio è stato sottoposto a precisi interrogatori sulle questioni dello spionaggio Fiat, dei licenziamenti, del controllo delle assunzioni, delle assunzioni selezionate di fascisti[8]». Poi Amerio verrà rilasciato all’alba del 18 dicembre davanti all’ospedale delle Molinette e mostrerà di non nutrire rancore verso i suoi rapitori: «Anche questa è stata un’esperienza di vita, che serve a far maturare e ri[f]lettere profondamente[9]». Il capo del personale della Fiat, poi, non sembrerà nemmeno troppo convinto di dover aiutare gli inquirenti tanto da essere messo sotto accusa e finire in un elenco di presunti brigatisti stilato dal Sid. Un altro depistaggio del servizio segreto, che in quel periodo era in grado di controllare dall’interno le Br. Amerio, poi, al processo deciderà di non costituirsi parte civile, né accetterà di voler riconoscere i suoi rapitori.

    Era giunto il tempo della prima grande operazione in grado di portare l’attacco al «cuore dello stato». Per i teorici della guerra non ortodossa era ormai necessario un cambiamento di rotta: i brigatisti si erano già rifiutati in passato di uccidere Junio Valerio Borghese, la loro azione di «propaganda armata» ricalcavano troppo lo schema del guerrigliero benvoluto dal popolo sul modello sudamericano. Occorreva qualcosa di diverso: d’altra parte la strategia atlantica in tutti i manuali dottrinali prevedeva un terrorismo selettivo che uccidesse e seminasse terrore. Il sequestro del giudice Mario Sossi, prescelto come vittima sacrificale della normalità atlantica, avrebbe potuto costituire il primo vero cambiamento di strategia. Ma per tutti coloro che avevano previsto una sua cruenta conclusione l’operazione si dimostrarà un fallimento.
    --------------------------------------------------------------------------------
    [1] Antonio Cipriani, Gianni Cipriani, SOVRANITÀ LIMITATA – Storia dell’eversione atlantica in Italia, capitolo 7, pp. 208-212. A partire dalla nota 2, le note sono quelle originali del libro. I grassetti sono miei.
    [2] Tullio Barbato, Il terrorismo in Italia, cit., p. 58.
    [3] L’Espresso, 10 gennaio 1974.
    [4] La strategia delle stragi, cit., p. 49.
    [5] Atti inchiesta giudice istruttore di Milano Antonio Amati.
    [6] L’Unità, 18 febbraio 1980.
    [7] Tullio Barbato, Il terrorismo in Italia, cit., p. 66.
    [8] Romano Cantore, Carlo Rossella, Chiara Valentini, Dall’interno della guerriglia, Mondadori, Milano, 1978, p. 73.
    [9] Ibid.
    Andrea Carancini: Come le Br diventarono atlantiche II
    Ultima modifica di Johann von Leers; 19-02-11 alle 18:15
    Chiunque stia dalla parte di una giusta causa non può essere definito un terrorista.
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    Predefinito Rif: Brigate rosse atlantiste

    venerdì 25 febbraio 2011
    Come le Br diventarono atlantiche III

    3. Un parà tra i rapitori del giudice[1][2]

    I sospetti vennero sollevati per la prima volta nel giugno del 1976, quando il settimanale Tempo pubblicò un servizio sui retroscena del sequestro del giudice genovese Mario Sossi, rapito il 18 aprile del 1974, durante l’accesa campagna referendaria sul divorzio. Secondo il settimanale, nel corso del rapimento del magistrato, il capo del Sid Vito Miceli aveva organizzato una riunione con i suoi più stretti collaboratori per spiegare il piano che aveva ideato per liberare l’ostaggio: gli agenti segreti avrebbero dovuto a loro volta rapire Giovan Battista Lazagna, il partigiano che era stato coinvolto nelle indagini sui Gap di Feltrinelli, portarlo in una località isolata e costringerlo con ogni mezzo a confessare dove le Br tenevano prigioniero Sossi. L’elemento strano di tutta la vicenda era però rappresentato dal fatto che Lazagna era del tutto all’oscuro della vicenda del sequestro e, naturalmente, non poteva essere a conoscenza di nulla. Una circostanza che venne riferita al settimanale da un ufficiale del Sid che era stato presente alla riunione. «Lazagna, che non lo conosceva, non ci avrebbe mai potuto indicare il nascondiglio in cui era tenuto Sossi. Questo nascondiglio sarebbe stato invece “scoperto” da qualcuno che già lo conosceva. Una volta individuato, il covo sarebbe stato accerchiato e si sarebbe sparato. E dentro avrebbero trovato i cadaveri dei brigatisti, il cadavere di Sossi e il cadavere di Lazagna»[3].

    Alle accuse gravissime contenute nel servizio faceva seguito un’intervista al generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’ufficio D del Sid, che parlò del vero volto delle Brigate rosse. «Nell’estate del 1975…avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio…sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili, anche per censo e cultura, e con programmi più cruenti…Questa nuova organizzazione partiva con il proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere…Arruolavano terroristi da tutte le parti, e i mandanti restavano nell’ombra, ma non direi che si potessero definire di “sinistra”»[4]. Le parole del generale sembravano proprio riferirsi a qualcosa che somiglia come una goccia d’acqua al misterioso e discusso Superclan, la strana struttura che aveva come punto di riferimento nella [sic] scuola di lingua Hyperion di Parigi. Alcuni giorni dopo l’intervista, il giornalista di Tempo Lino Jannuzzi convocò una conferenza stampa per sostenere che i brigatisti erano stati addestrati nella base di Capo Marrargiu, in particolare nella tecnica dell’attentato alle gambe[5].
    Come tanti altri messaggi cifrati, anche quelle rivelazioni si sono dimostrate sostanzialmente veritiere e, dopo quasi quindici anni, sono emerse le prove della presenza degli agenti segreti nell’organizzazione terrorista. Persone la cui identità non era mai stata svelata e che, all’interno delle Br, hanno svolto ruoli ben più importanti di quelli affidati ai due infiltrati ufficiali, Silvano Girotto e Marco Pisetta, agenti provocatori che svolsero tutto sommato compiti marginali, nonostante a Girotto sia stato attribuito il totale merito dell’arresto di Curcio e Franceschini.

    Una prima ammissione sulle massicce infiltrazioni verrà fatta dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell’ufficio D del Sid, che il 22 novembre 1990 deponendo in seduta segreta davanti alla commissione Stragi, parlerà degli uomini del suo reparto «inseriti all’interno delle Br». «L’onorevole Staiti di Cuddia delle Chiuse mi ha chiesto che cosa abbiamo fatto in materia di antiterrorismo come reparto D. Abbiamo seguito l’intera problematica del terrorismo in modo molto attento, ottenendo risultati o insuccessi come hanno fatto tutte le altre forze di polizia. Posso soltanto dire – ed è per questo che ho chiesto la seduta segreta perché vi sono uomini che potrebbero ancora pagare caro – che quando furono arrestati per la prima volta Franceschini e Curcio l’operazione era del servizio. Dopo la fuga dal carcere di Casal Monferrato di Curcio, protetto dalla moglie, egli fu arrestato una seconda volta a Milano insieme a Nadia Mantovani in via Maderno e tutta l’operazione di preparazione, ad eccezione della parte finale compiuta dai carabinieri, è stata condotta nel corso di svariati mesi dal reparto D il quale ha rischiato uomini e ha operato in maniera veramente eccellente. Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto; ed è per questo che è pervenuto a quei risultati. Se questa informazione verrà fuori molti uomini potranno correre pericoli»[6]. Gli uomini ai quali si riferiva il generale, ovviamente, non potevano essere né Girotto né tantomeno Pisetta. L’ex capo dell’ufficio D aveva fornito la prova di un’attività molto più profonda dei servizi dentro le Br che, come vedremo, era già stata rivelata, seppur di sfuggita, in un libro di memorie scritto nel 1988 dal generale dei carabinieri Vincenzo Morelli, esperto di terrorismo e, per un periodo, collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

    Anche durante l’operazione Sossi, dunque, i servizi segreti controllavano le mosse dei brigatisti, tanto da poter conoscere con esattezza il luogo dove il magistrato era tenuto prigioniero. Ma oltre a controllare, gli infiltrati cercavano anche di influenzare la strategia dei terroristi e di renderla il più possibile «omogenea» con altri interessi politici. E quando il meccanismo non procederà secondo i piani previsti, gli stessi servizi segreti non esiteranno ad arrestare i due capi storici delle Br, diventati un ostacolo per lo sviluppo cruento del terrorismo selettivo. Una decapitazione che coinciderà stranamente non con una crisi, ma con un rilancio delle Brigate rosse, che assumeranno sempre di più quella fisionomia disegnata dai teorici del Field manual.

    Le indagini sul sequestro del giudice Sossi, nonostante le rivelazioni del 1976, non furono mai approfondite. Altrimenti i giudici avrebbero scoperto che nel gruppo brigatista che portò a compimento l’operazione, c’era anche una persona, il cui nome non è mai comparso nel corso delle inchieste sul terrorismo rosso, che sembra corrispondere a tutte le caratteristiche del «brigatista atlantico» descritte dal settimanale Tempo su suggerimento del generale Maletti. Il nome di battaglia di questo personaggio è «Rocco»[7], ex paracadutista, grande esperto di armi ed esplosivi, perfetto conoscitore della tecnica della gambizzazione[8].

    Iscritto al Pci, proprietario di un negozio nell’hinterland milanese, «Rocco» era entrato in contatto con le Br nel 1971, poco tempo dopo l’operazione Pirelli-Lainate. E proprio durante la fase di approccio con i terroristi rossi, un puntuale attentato aveva distrutto la sua auto. Un curioso parallelismo con l’attestazione di «rivoluzionario» che ebbe Silvano Girotto, ripetutamente indicato in maniera strumentale come un pericolo pubblico dalle colonne del Candido diretto da Giorgio Pisanò perché fosse accreditato nell’ambiente dei terroristi.

    Nelle Br «Rocco» non ha svolto un ruolo secondario, tanto da partecipare in maniera operativa a quella che venne considerata all’epoca la più grossa e clamorosa azione dei brigatisti. L’ex parà si era conquistata stima e considerazione per la sua ottima preparazione militare e per le capacità organizzative espresse. La sua iscrizione al Pci rappresentava poi una sorta di immunità dai sospetti che poteva suscitare un rivoluzionario con un passato da parà e buone conoscenze tra fascisti e funzionari di polizia. Del resto «Rocco» non aveva mai nascosto di essere stato un paracadutista, di essere stato addestrato in Toscana e in Sardegna e di essere introdotto, proprio per il suo passato militare, nei circoli della destra. Si offrì anche di andare per conto dell’organizzazione in un locale di Milano poco distante da piazza Piola, frequentato dai fascisti, a raccogliere informazioni. Esperto nell’uso del pugnale, assai abile nel maneggiare le pistole e nella tecnica del ferimento alle gambe, la sua specialità era quella di fabbricare le bombe avendo a disposizione poco esplosivo e utilizzando qualsiasi materiale. Proprio come sapeva fare benissimo il templare Pierlugi Ravasio, un altro ex paracadutista, addestrato a Capo Marrargiu, la cui figura comparirà nel corso dell’ultima inchiesta sul sequestro Moro. All’interno dell’organizzazione «Rocco» si era anche dimostrato particolarmente efficace nel saper trovare armi e munizioni. Alfredo Buonavita, quando si pentirà in carcere e comincerà a raccontare tutto quello che sapeva sulle Br, arrivato al sequestro Sossi «dimenticò» stranamente di fare il nome di «Rocco» e, per far corrispondere il numero dei brigatisti coinvolti con quanto accertato dalla magistratura, chiamò in causa anche Mario Moretti che, al contrario, era del tutto estraneo alla gestione materiale del sequestro, ma si era limitato a prendere parte alle riunioni dell’esecutivo che si svolgevano alla cascina Spiotta per discutere l’andamento politico e organizzativo dell’operazione.

    Brigatisti strettamente sorvegliati
    Il sostituto procuratore di Genova Mario Sossi, grande accusatore nel processo a carico dei componenti del gruppo XXIII ottobre, viene rapito alle 20.50 del 18 aprile 1974 davanti alla sua abitazione di via Forte dei Giuliani, mentre torna dall’ufficio. Un gruppo di sei brigatisti, tra cui «Rocco», lo aggredisce e lo carica a forza su un furgone, mentre due passanti che hanno assistito alla scena cercano di intervenire ma vengono allontanati sotto la minaccia delle pistole. I terroristi fuggono con l’ostaggio sul furgone e su una 127, senza sparare un solo colpo.

    Chiamato «dottor manette», iscritto durante l’università al Fuan, l’organizzazione missina, i brigatisti erano convinti di aver catturato un simbolo di quel potere che loro volevano combattere. Racconterà Alberto Franceschini, uno degli ideatori dell’operazione: «Sossi era stato il pubblico ministero contro Mario Rossi e la banda XXII Ottobre, aveva chiesto e ottenuto l’ergastolo. Aveva diretto processi contro compagni, ordinato perquisizioni, era il giudice della ‘controrivoluzione’, del progetto delle destre di arrivare al golpe bianco. Avevamo individuato anche i protagonisti principali di questo grande progetto: i leader democristiani di allora, Fanfani, Andreotti, Taviani, ministro dell’Interno, genovese. Così Sossi andava bene anche per questo: lo vedevamo…come l’uomo di Taviani, l’uomo del grande progetto nella magistratura»[9]. Non c’è dubbio che l’«obbiettivo» Sossi fosse stato individuato autonomamente. Ma sia le fasi della preparazione che dell’esecuzione e infine della gestione del rapimento saranno strettamente sorvegliate da alcuni settori dei servizi segreti che lasceranno fare e, in qualche caso, si adopereranno perché il progetto brigatista non fosse troppo ostacolato. Lo stesso Mario Sossi, una volta liberato, diede l’impressione di essersi accorto dell’esistenza di questo meccanismo perverso.
    Un episodio strano si veirificherà proprio la sera stessa di [sic] sequestro. La A 112 sulla quale Alberto Franceschini e Pietro Bertolazzi trasportavano l’ostaggio rinchiuso in un sacco alla «prigione del popolo» che si trovava a Tortona, era stata intercettata ad un posto di blocco dei carabinieri. Il percorso da Genova a Tortona era di circa 70 chilometri. I brigatisti avevano previsto che la sera del sequestro tutte le strade si sarebbero riempite di polizia e carabinieri e avevano deciso quindi di far precedere la A 112 con a bordo Mario Sossi da una 128 guidata da Margherita Cagol. «Mara» avrebbe dovuto segnalare con una ricetrasmittente legata allo specchietto retrovisore l’eventuale presenza di pattuglie. A metà percorso la moglie di Renato Curcio era stata fermata ad un posto di blocco e non aveva fatto in tempo ad avvertire i suoi compagni. Franceschini e Bertolazzi quindi si trovarono davanti ad un carabiniere che con la paletta aveva fatto loro cenno di accostarsi. Racconterà Franceschini: «Io rallento come per obbedire e poi accelero di colpo. Il carabiniere si butta di lato e dallo specchietto vedo la macchina di Mara[10] ferma: le stanno controllando i documenti…Mara l’hanno sicuramente arrestata: è difficile per lei spiegare il possesso di una ricetrasmittente»[11]. Margherita Cagol invece era stata incredibilmente lasciata andare.

    Inquietante è anche un episodio che si era verificato il giorno precedente il sequestro. L’operazione doveva scattare esattamente 24 ore prima, ma nel giorno previsto Sossi, che era sempre stato puntuale all’uscita dal palazzo di giustizia e al ritorno a casa, per chissà quali motivi non era rientrato. Fu per questo che i brigatisti decisero di rimandare il sequestro e per non viaggiare con la A 112 imbottita di armi fino a Tortona, decisero di parcheggiare la macchina in un paesino poco distante dalla città, a Torriglia. Arrivarono nella piazza principale, scesero dalla A 112, lasciando le armi nel portabagagli, ripartendo sulla 128. Tornarono a prendere l’auto il giorno dopo. Ma nella notte, quella macchina parcheggiata lì da alcuni sconosciuti aveva suscitato la curiosità di qualche avventore dell’unico bar della piazzetta. Erano stati chiamati i carabinieri che dopo aver controllato l’auto non fecero nulla. Così la A 112 che sfondò il posto di blocco in cui era stata bloccata la Cagol, era quella già identificata dalle forze di polizia qualche ora prima.

    Il rapimento del magistrato provocherà un’ondata di reazioni sdegnate, compresa quella dei lavoratori genovesi che sciopereranno in segno di protesta. Il Corriere della Sera parlò di «atto deliberato di provocazione»[12]; anche la sinistra sostenne la tesi dell’azione provocatoria per condizionare gli esiti del referendum sul divorzio. Titolerà il Manifesto: «I provocatori fascisti che hanno rapito Sossi minacciano di ucciderlo fingendo un ricatto politico. E’ la stessa mano della strage di stato che ora sfrutta la tensione del referendum»[13]. Il commento dell’Unità non sarà molto diverso, anche se conteneva alcuni elementi di analisi che in seguito risulteranno fondati. «Si vuole seminare il terrore per cercare di far passare come necessaria una soluzione tirannica. A ciò serve anche, non dimentichiamoci mai, la utilizzazione di sigle e di camuffamenti diversi: dalle Sam alle sedicenti Brigate rosse…Che le centrali provocatorie siano in azione è cosa nota. Che le sedicenti Brigate rosse saltino fuori nei momenti più delicati per favorire la reazione, è altrettanto evidente. Ciò che appare incredibile è che tutte le polizie italiane non riescano a fermare questi professionisti della provocazione. O vi è una macroscopica inefficienza oppure vi sono omertà e compiacenze ben gravi. Nessuno può credere sul serio alla “imprendibilità” delle sedicenti Brigate rosse»[14]. In effetti le Br erano tutt’altro che inafferrabili. Il Pci, però, allora non sembrava rendersi conto che il fenomeno brigatista era nato in maniera spontanea, anche se discretamente protetto e orientato da alcuni settori dello stato. La tecnica della provocazione era molto più sottile e conteneva anche margini di rischio. Tant’è che la liberazione di Sossi e le successive dure prese di posizione del giudice trasformarono l’operazione in una sconfitta, seppur momentanea, del potere atlantico. Una lezione che non verrà dimenticata quattro anni dopo, quando si farà in modo di non far tornare vivo Moro dalla prigione del popolo.

    L’elemento anomalo del sequestro Sossi era stato proprio il giudice. Dopo essere rimasto praticamente muto per tre giorni, soprattutto per il grande spavento, il magistrato cominciò a parlare – raccontano i brigatisti – a manifestare un profondo rancore verso il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani e i dirigenti della polizia genovese oltre a un certo disamore anche verso i carabinieri, ai quali era legato soprattutto tramite l’amicizia con il capitano Luciano Seno, con il quale si esercitava nel tiro con la pistola. Nella prigione brigatista Sossi si sentiva abbandonato tanto da dire: «So che la mia vita, per lo Stato, non vale nulla. Però nella mia attività di magistrato mi sono capitate tra le mani inchieste particolarmente delicate che ho insabbiato per ordini superiori e di cui conosco bene gli estremi. Se ve le racconto e voi le rendete pubbliche forse riusciamo a salvarci tutti»[15]. Si parlò, tra carcerieri e giudice, di un traffico di armi e diamanti con una nazione africana che avveniva con la complicità del dirigente dell’ufficio politico della questura di Genova, Umberto Catalano e dei titolari dell’armeria Diana, Renzo Traverso e Giuseppe Lantieri[16]. Un traffico al quale non sarebbe stato estraneo lo stesso ministro Taviani. Quelle rivelazioni furono quasi subito rese pubbliche dalle Br. Avrebbero rappresentato il primo degli imprevisti dell’operazione. Subito dopo il rilascio e anche successivamente, Sossi smentirà con decisione di aver mai dato informazioni. Sosterrà, al contrario, che i brigatisti erano già a conoscenza di molte cose.

    «L’ostaggio deve essere ucciso»
    Secondo i brigatisti, nella prigione del popolo il giudice non si era limitato a raccontare di quel traffico, ma aveva anche parlato di due militanti di Lotta Continua che lavoravano per conto dell’ufficio politico della questura di Genova e non aveva risparmiato critiche feroci nei confronti dello stesso ministro dell’Interno, di Catalano e del procuratore Francesco Coco. Questa circostanza indusse i terroristi a cambiare in parte il programma. Racconterà sempre Franceschini: «Prima del sequestro avevamo discusso, con i compagni delle ‘forze regolari’, un porgramma di massima che prevedeva la richiesta di scambio tra Sossi e i compagni della XXII Ottobre e la eliminazione fisica del prigioniero se l’obbiettivo non fosse stato raggiunto. Il presupposto du questa nostra linea era la certezza che uno come Sossi, che avevamo visto spietato nelle sue vesti di pubblico ministero, non avrebbe mai collaborato»[17]. Il magistrato, invece, aveva anche insistito per scrivere un biglietto e chiedere al sostituto procuratore di turno di sospendere le ricerche: «Pregoti in assoluta autonomia, ordinare immediata sospensione ricerche, inutili et dannose. Stop»[18]. Quel messaggio, una volta recapitato, suscitò una polemica tra la polizia che avrebbe voluto proseguire le indagini e la magistratura che le bloccò. Il 30 aprile, dopo la ripresa delle ricerche della polizia, il magistrato fece arrivare alla famiglia un altro biglietto dai contenuti analoghi: «Non sono soltanto io responsabile dei miei errori. Ogni indagine e ricerca è dannosa»[19]. Sossi, intanto, continuava a rispondere alle domande dei suoi carcerieri.
    «Brigatista – Dicci quello che vogliamo e poi…
    Sossi – Ma io forse non mi sono spiegato. Voi pensate che io vi consideri degli aguzzini; vedo bene che mi trattate con cura, la sofferenza è più psicologica.
    Brigatista – Pensa un po’ se tu fossi condannato all’ergastolo! Secondo te dovevano dare l’ergastolo a tutti e quattro i compagni della XXII Ottobre. Perché non hai dichiarato che l’ergastolo a Mario Rossi è ingiusto? Non lo hai mai detto. E’ giusto secondo te?
    Sossi – Dovevo passare di qui per capire quanto sia afflittiva la detenzione»[20].
    Mentre era in corso il sequestro, il 2 maggio le Br uscirono nuovamente allo scoperto. La mattina fecero un’irruzione nella sede torinese del Centro studi sturziani rubando registri ed elenchi; la stessa operazione venne ripetuta in serata a Milano, nella sede del Comitato di resistenza democratica, dove il segretario, Vincenzo Pagnozzi, fu costretto a consegnare i documenti. Fu quella un’azione molto più importante di quanto i brigatisti ritenessero. Durante la «perquisizione proletaria» i brigatisti si impossessarono dell’elenco degli amici di Edgardo Sogno, che proprio in quel periodo era in piena attività per preparare il golpe bianco della svolta presidenzialista. Una copia degli elenchi in seguito fu nascosta nel covo di Robbiano di Mediglia e venne ritrovata quando la base venne scoperta dai carabinieri; l’altra sarà ritrovata nella borsa di Alberto Franceschini il giorno del suo arresto. Poi i documenti rapinati al Crd di Milano – protestarono i brigatisti al processo – spariranno misteriosamente. Ma non sarà questo l’unico episodio strano di quelle perquisizioni: tra il materiale sottratto dalle Br a Torino c’era anche una lettera scritta il 30 dicembre 1973 dall’avvocato Giuseppe Calderon e indirizzata al presidente dei centri sturziani, Giuseppe Costamagna. Quella lettera verrà poi ritrovata nell’abitazione dello stretto collaboratore di Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, come se l’anticomunista fondatore di Pace e libertà avesse un canale privilegiato per intrattenere rapporti con le Br o con parte di loro[21].

    Il giorno successivo alle due perquisizioni brigatiste, la Cassazione stabilì che le indagini sul sequestro del magistrato fossero affidate al tribunale di Torino e la questura di Genova offrì una taglia di 20 milioni per avere informazione [sic] sui rapitori di Sossi. Un’offerta generosa, dal momento che in alcuni settori dell’apparato di sicurezza si conosceva benissimo il luogo dove Sossi era tenuto sequestrato. Poi, alla mezzanotte del 4 maggio, il nuovo comunicato delle Br con la richiesta di scambiare il giudice con Mario Rossi, condannato all’ergastolo, e altri sette componenti della XXII Ottobre: Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Rinaldo Fiorani, Silvio Malagoli, Gino Piccardo, Cesare Maino e Aldo De Scisciolo[22]. Le Br avevano espresso un giudizio sul processo che si era concluso con una serie di condanne durissime per i componenti della banda: «Macchinazioni…progettate e messe in atto dalla polizia (Catalano-Nicoliello), dal nucleo investigativo dei carabinieri (Pensa), dai responsabili del Sid (Dall’Aglio-Saracino[23]) e coperte da una parte della magistratura (Coco-Castellano)»[24]. I prigionieri, era scritto nel comunicato, avrebbero dovuto essere trasferiti o in Corea del Nord o a Cuba o in Algeria. In realtà i brigatisti avevano già preso accordi con l’ambasciata cubana presso la Santa Sede che si era dichiarata disponibile a ricevere i detenuti liberati. La manovra fu poi bloccata in extremis dal Pci che convinse Fidel Castro a recedere dai suoi propositi permettendo anche un contratto per una fornitura di trattori[25].

    La richiesta di scambiare gli ostaggi avrebbe provocato un terremoto e il paese e la classe politica si sarebbero divisi sull’opportunità di cedere o meno al ricatto. Il capo dell’ufficio politico della questura, Umberto Catalano, avrebbe atteso le 19 di domenica 5 maggio per rendere noto il testo del comunicato Br e la mattina successiva il ministro Taviani avrebbe dichiarato: «E’ assurda l’ipotesi di trattativa o patteggiamento con i criminali»[26]. Le polemiche erano già cominciate. Anche il procuratore generale Francesco Coco era del parere che la richiesta delle Br fosse inaccettabile. «Non presenterò mai un’istanza di libertà provvisoria per i detenuti della XXII Ottobre»[27]. Furono ore convulse: la moglie del magistrato, Grazia Sossi, invierà messaggi al papa e al presidente della Repubblica Giovanni Leone, mentre dal carcere brigatista continueranno ad arrivare i biglietti scritti dal magistrato: «Lo Stato che mi ha lasciato privo di tutela esponendomi a gravi rischi personali, ha ora il dovere di tutelarmi»[28]. Mario Sossi scriverà altri messaggi, finché il 17 maggio le Br lanceranno il loro ultimatum, minacciando di uccidere l’ostaggio se entro 48 ore i prigionieri della XXII Ottobre non fossero stati liberati: «Ci assumiamo tutte le responsabilità di fronte al movimento rivoluzionario affermando che, se entro 48 ore – a partire dalle ore 24 di sabato 18 maggio – non saranno liberati gli otto compagni della XXII Ottobre secondo le modalità del nostro comunicato numero 4, Mario Sossi verrà giustiziato»[29].

    Proprio in quelle stesse ore il capo del Sid Vito Miceli aveva convocato la riunione per decidere l’azione di forza che, secondo quanto fu rivelato due anni dopo, sarebbe servita ad eliminare Sossi e i suoi carcerieri. Alcuni giorni prima il tenente colonnello Sandro Romagnoli aveva addirittura convocato nella sede del Sid i collaboratori fascisti Maurizio Degli Innocenti e Torquato Nicoli e aveva chiesto a quest’ultimo di attivare «Saetta» e dargli qualche notizia su Sossi. La situazione diventava di ora in ora più pesante; dalla prigione del popolo il magistrato aveva cominciato a comportarsi in maniera incontrollabile e l’operazione rischiava di trasformarsi in un’arma puntata contro la normalità atlantica.

    Il «partito della morte» era entrato parallelamente in azione anche all’interno delle Br. I terroristi in quei giorni avevano cominciato a discutere animatamente tra di loro sul che fare. Dal loro punto di vista il sequestro si era dimostrato un successo politico e la liberazione di Sossi avrebbe comunque costituito una maniera per alimentare quelle che i brigatisti definivano contraddizioni del sistema. Due terroristi, invece, si battevano animatamente perché il giudice fosse giustiziato. Erano Mario Moretti e «Rocco». A loro giudizio le Br avrebbero semplicemente dovuto attuare quanto avevano proclamato nei loro comunicati. Una linea che sarebbe stata riproposta da Moretti durante il sequestro Moro. Racconterà Valerio Morucci nel suo memoriale consegnato a suor Teresilla Barillà: «Ciò che si era stabilito fin dal settembre-ottobre era che questa volta, se lo stato non avesse accondisceso alla richieste [sic] delle Brigate rosse, non si sarebbe ripetuto un caso Sossi e che quindi l’ostaggio sarebbe stato ucciso»[30].

    Allo scadere dell’ultimatum le richieste dei brigatisti sembrarono essere accolte: la Corte d’assise d’Appello presieduta da Beniamino Vita aveva deciso di concedere la libertà provvisoria ai detenuti indicati e il nulla osta per il passaporto in cambio del rilascio di Sossi. Ma interverrà Coco che impugnerà la sentenza e presenterà ricorso in Cassazione mentre il presidente del Consiglio, Mariano Rumor, affermerà in parlamento che il governo non era disposto a rilasciare i passaporti per l’espatrio. Per ultime, il 23 maggio, le autorità cubane dichiareranno di non voler accogliere i detenuti della XXII Ottobre e negheranno anche ospitalità nell’ambasciata presso la Santa Sede. I brigatisti si consultarono ancora: la proposta di Mario Moretti e di «Rocco» di assassinare il sostituto procuratore venne respinta anche perché in base ad alcuni segnali raccolti all’esterno, i terroristi temevano che in quei giorni si potesse verificare un golpe fascista o bianco. Il giudice venne rilasciato a Milano dopo poche ore. Pieno di rancori, diffidente, sembrava un’altra persona. Dopo la sua liberazione scoppierà un secondo caso Sossi, alimentato anche dalle prese di posizione del giudice.

    Il magistrato impazzito
    Una volta libero, il magistrato comincerà a comportarsi in una maniera del tutto inusuale, come se temesse di poter essere ucciso, ma questa volta non per mano delle Br. Atteggiamenti che lasceranno pensare, e Sossi lo scriverà successivamente nel suo libro sul sequestro in una forma più esplicita, che egli avesse avuto la netta sensazione che il sequestro potesse rientrare in un disegno più vasto, di cui i terroristi erano una componente in parte inconsapevole. Una sensazione non del tutto errata.

    Quando il magistrato fu lasciato in un giardino pubblico di Milano, invece di rivolgersi immediatamente a polizia e carabinieri, decise di mantenere l’anonimato e di raggiungere in treno Genova. Anzi, già prima della liberazione aveva chiesto ai suoi rapitori di truccarlo per essere meno riconoscibile. Una volta a Genova, poi, Sossi non telefonerà a casa, sapendo di avere la linea sotto controllo, ma si rivolgerà ad un amico per essere accompagnato nella sua abitazione. Lì chiederà la protezione della Guardia di finanza. Dirà il magistrato nella sua prima intervista: «Un’indagine di quel tipo io l’avrei affidata alla Guardia di Finanza. Soprattutto perché questo corpo ha dimostrato, di recente, una efficienza e una delicatezza nell’inchiesta che altri non hanno avuto. Possedendo una preparazione che ritengo eccezionale, la Finanza avrebbe potuto portare avanti l’inchiesta in maniera diversa. Senza pericoli per nessuno, insomma, mentre di recente ci sono stati, al contrario, episodi molto discutibili, a questo proposito. Quello che è mancato è stato essenzialmente un lavoro di spionaggio, o se vogliamo di controspionaggio, che certo avrebbe portato a risultati utili senza mettere a repentaglio l’incolumità delle persone»[31]. Un palese atto di sfiducia verso le tradizionali forze dell’ordine, alimentato anche dalle dichiarazioni polemiche che il magistrato rilascerà nei giorni successivi e che provocheranno una irritata reazione dell’apparato istituzionale che lo accuserà di essere impazzito. La stessa cosa che sarebbe accaduta ad Aldo Moro. E di analogie tra i sequestro Sossi e il rapimento del presidente della Dc ve ne saranno molte, a partire dalla polemica sulla disponibilità dello stato a trattare per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Spiegherà il magistrato: «Di fronte al rifiuto per la mia vita ho avuto uno sconforto grandissimo ed un’immensa amarezza: io ho servito lo Stato per sedici anni giorno e notte, trascurando la famiglia, e pensavo di avere diritto a qualcosa di più. D’altra parte c’era già stato il precedente dei fedayn sorpresi a Fiumicino[32] con il razzo e rimessi in libertà senza tante storie per paura della rappresaglia dei loro compagni»[33]. La stessa vicenda che sarà ricordata da Moro durante la sua prigionia: «Anche in Italia la libertà è stata concessa con procedure appropriate a Palestinesi per parare gravi minacce di rappresaglia capace di rilevanti danni alla comunità…allora il principio era stato accettato»[34].

    Dopo il suo rilascio Sossi aveva paura, ma «non certo delle Brigate rosse»[35]. Rileggendo la storia del suo sequestro si può immaginare a chi si riferisse. Più difficile capire l’origine di un inquietante riferimento, che si dimostrerà profetico, fatto dal giudice in un’intervista al Corriere della sera: «Hanno detto che Taviani mi voleva morto…Non posso né confermare né escludere. Certo è che non desideravo morire, e tanto meno per un governo di centrosinistra avviato al compromesso storico…mi sono convinto che se si fosse trattato di Moro avrebbero ugualmente detto: “ma sì! L’onorevole Moro è un soldato, si deve sacrificare”»[36]. Il «soldato» sarà puntualmente sacrificato nel giro di quattro anni, e solo tredici anni dopo la sua morte nelle inchieste giudiziarie si affacceranno i sospetti di una regia «parallela» durante i 55 giorni; quella stessa regia parallela che era in azione nel corso dell’operazione Sossi. Il giudice ripeterà i suoi dubbi un anno dopo l’assassinio di Aldo Moro. «Poiché sono assolutamente convinto del carattere artificioso della guerriglia rivoluzionaria nostrana, non ho il minimo dubbio nell’individuare gli strateghi di queste operazioni in agenti segreti di potenze straniere»[37].

    Di messaggi e di accuse, dunque, il giudice Mario Sossi ne aveva lanciate molte. Contro il dirigente dell’ufficio politico della questura Catalano: «Avrebbe potuto comportarsi diversamente, ma questo discorso mi porterebbe su argomenti scottanti dei quali non posso parlare»[38]; contro il procuratore generale Coco che si era opposto alla scarcerazione dei detenuti della XXII Ottobre: «Avrei fatto l’impossibile per salvargli la vita, mobilitando tutte le forze per questo»[39]; parlando di alcuni documenti contenuti nella borsa che aveva con sé la sera del sequestro e che erano finiti nelle mani dei brigatisti: «Temo, soprattutto, quello che le Brigate rosse sanno. Intendiamoci, non per quello che ho detto io. Ci sono persone che hanno ragione di temere, in questo momento, e lo sanno benissimo, anche perché io glilo ho fatto sapere per mezzo di portavoce autorevoli. A questo proposito, però, non chiedetemi di più, perché non potrei rispondervi. Così come non vi posso dire molto della valigetta che avevo con me quando sono stato rapito e che non mi è stata restituita…dentro c’erano documenti…carte importanti, anche e specialmente dopo il furto avvenuto alla procura della Repubblica, relative a fatti già emersi o che potevano emergere»[40].

    Il giudice Sossi sembrava essersi perfettamente reso conto di quanto era accaduto, forse perché, come sostenne il funzionario di Ps Umberto Catalano, intratteneva rapporti con il Sid: «Devono avere combinato delle cose assieme»[41]. Sossi aveva intuito che la sua vita era stata messa in pericolo, assai prima che la notizia del blitz organizzato dal Sid fosse nota. Dopo la liberazione aveva dimostrato di aver paura di polizia e carabinieri e si era detto sicuro dell’esistenza di «provocatori»: «Mi sono reso conto che certi atti che arrivano a noi magistrati sono diversi da come dovrebbero essere e noi non possiamo saperlo. Mi sono reso conto che ci sono contatti di vertice, che ci sono provocatori, che ci sono infiltrati di cui non sapremo mani niente»[42]. le indagini su quell’episodio saranno concluse senza che la vera storia del sequestro Sossi saltasse fuori.
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    [1] Antonio Cipriani, Gianni Cipriani, SOVRANITÀ LIMITATA – Storia dell’eversione atlantica in Italia, Edizioni Associate, Roma, 1991, pp. 212-225.
    [2] I grassetti nel testo sono miei. A partire dalla nota 3, tranne la nota 7, le note sono quelle originali del libro.
    [3] Tempo del 20 giugno 1976.
    [4] Ibid.
    [5] Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, cit., p. 248.
    [6] Audizione del generale Giovanni Romeo, in Atti commissione Stragi.
    [7] Nota di Andrea Carancini: negli anni successivi alla pubblicazione del libro da cui è tratto questo capitolo, il nome di “Rocco” è venuto fuori: si tratta di Francesco Marra (francesco marra brigate - Cerca con Google ).
    [8] Sulla correttezza del neologismo gambizzare e i suoi derivati ci sono diverseopinioni. Adriano Sofri nel libro L’ombra di Moro (p. 180) ricorda che durante i lavori della commissione d’inchiesta, Raniero La Valle chiese di correggere il termine gambizzare con colpire alle gambe. Aggiunge Sofri: «Si dovrebbe andare in esilio da un paese in cui si dice (e si fa) gambizzare». In realtà, al di là delle condivisibili obiezioni di gusto, non si tratta di un barbarismo ma di un termine ormai comunemente accettato dalla lingua italiana. Cfr. Zanichelli, Dizionario etimologico della lingua italiana: «Gambizzare: ferire alle gambe con un’arma da fuoco il presunto avversario in un’azione terroristica».
    [9] Alberto Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 86.
    [10] Mara era il nome di battaglia di Margherita Cagol.
    [11] Franceschini, Mara, Renato e io, cit., pp. 90-91.
    [12] Corriere della Sera, 21 aprile 1974.
    [13] Citato in Remigio Cavedon, Le sinistre e il terrorismo, cit., p. 135.
    [14] L’Unità, 22 aprile 1974.
    [15] Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 99.
    [16] Il traffico di armi era diretto in Congo e faceva capo a un genovese, ex confidente dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Di tutto questo, però, non c’era traccia nel procedimento istruito da Sossi a carico di Renzo Traverso, Giuseppe Lantieri, Walter Bonafini, Carlo Piccardo e Ferdinando Alessi, imputati di «traffico clandestino di armi». Uno degli imputati aveva ricevuto 3 mitra Mab, ufficialmente inservibili, dal capo dell’ufficio politico della questura, Umberto Catalano, per «incastrare» alcuni componenti della banda XXII Ottobre. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dopo la sua liberazione Sossi parlò sibillinamente di quell’indagine: «Ho solo tentato di condurla».
    [17] Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 95.
    [18] Settegiorni, 5 maggio 1974.
    [19] Epoca, 1 giugno 1974.
    [20] Citato da Cantore, Rossella, Valentini, Dall’interno della guerriglia, cit., p. 83.
    [21] Cfr. Gianni Flamini, Il partito del golpe, cit., vol. III, tomo II, p. 537.
    [22] Al processo nel quale Sossi aveva sostenuto la pubblica accusa Mario Rossi fu condannato all’ergastolo; Giuseppe Battaglia a 32 anni e 2 mesi; Augusto Viel a 24 anni e 4 mesi; Rinaldo Fiorani a 25 anni e 4 mesi; Silvio Malagoli a 16 anni; Gino Piccardo a 17 anni e 2 mesi; Cesare Maino a 15 anni e 8 mesi e Aldo De Scisciolo a 10 anni e 4 mesi.
    [23] Il colonnello dei carabinieri Tito Dallaglio comandava il controspionaggio della Liguria; il capitano Saraceno era il suo vice.
    [24] Gente, 6 giugno 1974.
    [25] Cfr. Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 99.
    [26] Settegiorni, 12 maggio 1974.
    [27] Panorama, 16 maggio 1974.
    [28] Epoca, 1 giugno 1974.
    [29] Comunicato numero 6 delle Br pubblicato su Paese Sera del 19 maggio 1974.
    [30] Memoriale di Valerio Morucci, allegato agli atti del processo Moro quater.
    [31] Sandro Ottolenghi, Sossi confessa, in L’Europeo, 6 giugno 1974.
    [32] Il 5 settembre 1973, su segnalazione dei servizi segreti israeliani, erano stati catturati ad Ostia cinque terroristi arabi che avevano progettato di abbattere con un razzo un aereo della EL AL in partenza da Fiumicino. Il 17 novembre i cinque erano stati condannati a cinque anni di carcere e subito rilasciati su cauzione. Due di loro vennero poi riportati in Libia, via Malta, a bordo dell’aereo Argo 16. l’operazione era stata affidata al capitano del Sid Antonio Labruna.
    [33] La Stampa del 29 maggio 1974.
    [34] Relazione sulla documentazione rinvenuta in via Monte Nevoso, in Commissione Stragi, p. 106.
    [35] Sandro Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
    [36] Corriere della sera, 28 maggio 1974.
    [37] Mario Sossi, Nella prigione del popolo, Milano, Editoriale Nuova, p. 59.
    [38] Corriere della sera, 28 maggio 1974.
    [39] La Stampa, 29 maggio 1974.
    [40] S. Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
    [41] L’Espresso, 19 maggio 1974.
    [42] S. Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
    Andrea Carancini: Come le Br diventarono atlantiche III
    Chiunque stia dalla parte di una giusta causa non può essere definito un terrorista.
    Yasser Arafat

    Una religione senza guerra è zoppa.
    Ruhollāh Mosavi Khomeyni

  5. #15
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    Predefinito Rif: Brigate rosse atlantiste

    Fondamentalmente d'accordo con questa ricostruzione. L'affare Pisetta, prezzolato elemento di disturbo al soldo del sistema, mi sembra di ricordare sia emerso anche in merito all'inchiesta sulla strage di Peteano così come espone Vinciguerra in uno dei suoi libri.
    Per il neofascismo ci furono aiuti e coperture atlantisti proprio come per l'estremismo di sinistra e le sue decine di sigle: se con le BR si chiuse un occhio non fu così per esempio con i NAP ...anche su questo diverso trattamento da parte degli organi di repressione dello Stato occorrerebbe investigare e discutere.
    “Non vi è socialismo senza nazionalizzazione e socializzazione delle industrie” STANIS RUINAS

  6. #16
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    Predefinito Rif: Brigate rosse atlantiste

    Citazione Originariamente Scritto da stanis ruinas Visualizza Messaggio
    Fondamentalmente d'accordo con questa ricostruzione. L'affare Pisetta, prezzolato elemento di disturbo al soldo del sistema, mi sembra di ricordare sia emerso anche in merito all'inchiesta sulla strage di Peteano così come espone Vinciguerra in uno dei suoi libri.
    Per il neofascismo ci furono aiuti e coperture atlantisti proprio come per l'estremismo di sinistra e le sue decine di sigle: se con le BR si chiuse un occhio non fu così per esempio con i NAP ...anche su questo diverso trattamento da parte degli organi di repressione dello Stato occorrerebbe investigare e discutere.
    Fermo restando che tutto il terrorismo fu sistemico e atlantista(si dice..abbiamo lavorato per il Re di Prussia)
    concordo.

  7. #17
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    Predefinito Rif: Brigate rosse atlantiste

    GLI ANGOLI BUI DI GIOVANNI SENZANI



    Sull’esistenza e sull’identità di un grande vecchio all’interno delle brigate rosse sono state scritte
    molte cose. Ultimamente la Commissione stragi ed in particolare il Sen. Pellegrino, hanno
    analizzato con attenzione alcune circostanze in parte già emerse in sede processuale, in parte frutto
    di dichiarazioni raccolte negli ultimi tempi dalla Commissione stragi che identificherebbero nel
    prof. Giovanni Senzani, criminologo e per lungo periodo consulente del Ministero della Giustizia, il
    personaggio che insieme a Mario Moretti ha diretto l’operazione del sequestro e uccisione di Aldo
    Moro da una base di Firenze.
    La presenza di un personaggio che agiva nell’ombra (forse addirittura temporaneamente esterno alle
    BR) è molto discussa e tutt’altro che accertata processualmente. Secondo alcuni esperti il ruolo che
    questo personaggio avrebbe ricoperto andrebbe dalla formulazione delle domande da porre a Moro
    ad una posizione di primo piano nella scelta delle strategie delle BR in quei drammatici giorni e
    negli anni successivi.
    Personalmente, ritengo che attualmente non vi siano elementi di prova certi, concreti e
    processualmente validi per attribuire a Senzani tale ruolo. Ciò non vuol dire che non possano
    sopraggiungere nuovi elementi o nuove testimonianze circostanziate dirette a fornire particolari in
    passato trascurati o dolosamente “dimenticati”.
    L’approfondimento di alcune circostanze non può essere più trascurato. Non vi è dubbio che i primi
    contatti di Senzani con le BR avvennero in concomitanza con l’entrata nell’organizzazione di suo
    cognato Enrico Fenzi. Vi è una dichiarazione di Antonio Savasta, primo “pentito” delle BR, che
    riferisce che “dopo la vicenda Moro” egli partecipò insieme a Gallinari ad una serie di riunioni
    volte ad curare il passaggio da irregolare a regolare delle BR di Senzani ed in quella circostanza
    venne a conoscenza del ruolo precedentemente svolto quale esperto del settore carcerario.
    E’ accertato che Senzani venne fermato dalla polizia nel 1976, ed anche nel 1978 e nel 1979 (v.
    deposizione Chelazzi del 7 giugno 2000 sui legami di Senzani con Salvatore Bombaci componente
    del “Comitato rivoluzionario toscano”) ma riesce sempre a cavarsela, nessuno degli investigatori
    riesce ad individuarlo come uno dei possibili capi delle BR e viene rimesso in libertà dopo una
    imputazione per falsa testimonianza, dopo un paio di mesi si dà alla latitanza.
    Il Dott. Chelazzi alla Commissione stragi : “… A gennaio – febbraio (del 1979 NDR) , non dopo,
    emerge la circostanza che Bombaci ha abitato fino alla fine del 1977 in via Borgo Ognissanti n.
    104, nello stesso stabile in cui abitava Senzani. Lo stabile era composto – mi pare – di tre unità
    immobiliari. Come emerge la coabitazione di Senzani e Bombaci sotto lo stesso condominio? Il
    signor Negri………si presentò alla polizia per dire che quel signore, la cui faccia vedeva tutti i
    giorni sui quotidiani fiorentini, era stato nell’appartamento che gli era stato riconsegnato alla fine
    dell’anno precedente, quindi del 1977…..Da questo punto, la DIGOS, non il magistrato – per il
    quale Senzani era un illustre sconosciuto – accosta la figura di Bombaci a quella di Senzani, nel
    senso che lo segnala al pubblico ministero, soprattutto alla luce di un dato: il signor Negri, che ho
    personalmente interrogato, disse di aver notato questo giovanotto che continuava a frequentare lo
    stabile per andare a trovare nessun altro che Senzani – almeno secondo il signor Negri. All’ultimo
    piano, infatti, viveva una signora; l’appartamento in cui aveva abitato Bombaci era in disarmo da
    tempo: non rimaneva altri che Senzani. Sulla base di questo e forse – ma non lo so – di altre
    indicazioni in possesso della DIGOS, la DIGOS sottopone al pubblico ministero quindi al dottor
    Vigna e a me…… dopo due mesi dall’arresto si dà il via ad un’attività investigativa anche sul conto
    di Senzani, in ragione dei rapporti con Bombaci, rapporti che si intravedono. L’epoca è stata
    ricostruita: in particolare la hanno determinata i giudici della Corte d’assise di Firenze quando
    hanno condannato Senzani per partecipazione alle Brigate rosse, anche della struttura definita
    Comitato rivoluzionario toscano, e lo hanno condannato anche per gli attentati compiuti alla fine
    del 1977.
    PRESIDENTE. Quando emerge il ruolo di Senzani nelle BR, secondo gli accertamenti giudiziari?
    CHELAZZI. Secondo chi sostenne l’accusa, prima della seconda metà del 1977. Secondo la Corte
    d’assise che lo ha condannato con sentenza irrevocabile, almeno dall’autunno del 1977.
    PRESIDENTE. Quindi era già nell’organizzazione durante il sequestro Moro.
    CHELAZZI. Alla luce delle mie conoscenze, delle mie convinzioni e delle sentenze irrevocabili, lo
    si può affermare con certezza.
    PRESIDENTE. Però non è mai stato incriminato per il sequestro Moro.
    CHELAZZI. Non lo so. Non so se qualcuno abbia mai scritto il nome di Senzani nel registro degli
    indagati. Sicuramente non è mai stato condannato.
    MANCA. Quindi, quelle che sembravano deduzioni campate in aria trovano conferma, cioè che
    Senzani frequentava quell’ambiente molto prima del sequestro Moro e quindi, data anche la
    personalità dello stesso, non è escluso che chi frequentava Moretti in quel di Firenze potesse essere
    proprio Senzani. Che ne dice?
    CHELAZZI. Non vorrei citare a sproposito una pagina dell’istruttoria, ma mi pare che ci sia
    un’affermazione positiva in questo senso.
    MANCA. Questo è un risultato notevole. La persona che frequentava Moretti durante il sequestro
    Moro e che aveva un certo livello…
    CHELAZZI. Ho detto una cosa diversa. Ho parlato di un rapporto positivamente accertato tra
    Moretti e Senzani, non negli anni ’80.
    MANCA. Durante il sequestro Moro.
    CHELAZZI. Mi spiego: Bombaci nelle sue dichiarazioni iniziali, in cui fece alcune ammissioni,
    andò affermando e ripetendo che nelle Brigate rosse era stato in qualche modo inserito e reclutato
    da parte di una persona di cui non volle mai fare il nome, ma che ci fece capire doveva gravitare
    prevalentemente su Firenze (può anche averci preso in giro, però questo è il senso della sua
    affermazione), mentre – ripeto – gli altri erano tutti pisani: gli architetti, i ferrovieri e altri ancora.
    Quando la Digos propone un’attività investigativa sul conto di Senzani a fine febbraio 1979
    quest’attività sfocia in una perquisizione, che mi viene richiesta il 19 marzo 1979 e che dispongo io
    personalmente. La stessa sera del 19 Senzani viene perquisito con l’intervento personale dei
    magistrati; nell’occasione, oltre alla Digos, c’era il dottor Vigna e c’ero io. La perquisizione porta
    ad acquisire una certa documentazione, in particolare un’agenda che Senzani – ricordo benissimo
    – aveva nella giacca sull’appendiabiti nell’ingresso di casa. Se non ricordo male, fu il dottor Vigna
    che infilò la mano nelle tasche per controllare quello che c’era nei vari vestiti (Senzani aveva
    famiglia, una moglie e delle figlie; le perquisizioni o si fanno così o non si fanno) e nella giacca da
    uomo – l’unico in famiglia era Senzani – trovò questa agenda. Il professore fu citato – cosa che era
    ampiamente consentita e lo sarebbe ancora – verbalmente e direttamente dal pubblico ministero a
    formalizzare in questura le attività compiute. Sul conto di questa agenda Senzani rese delle
    affermazioni che non ci sembrarono per niente plausibili e intorno a mezzanotte o all’una Senzani
    fu raggiunto da un provvedimento cautelare, cioè andò per alcuni giorni al carcere delle Murate
    con la contestazione che ci stava prendendo in giro, che stava raccontando il falso, perché voleva a
    tutti i costi far passare un certo numero come una partita IVA o una matricola INPS di qualche
    studente: insomma, discorsi che non erano coerenti.
    E’ anche vero che a mente fredda, dopo due o tre giorni, si considerò che se questa persona stava
    dicendo il falso per non ammettere proprie responsabilità meritava la comunicazione giudiziaria
    ma anche, nello stesso tempo, di non stare in galera come falso testimone: per forza di cose. Così fu
    e, dopo pochissimo tempo dall’ottenimento della libertà, Senzani si rese irreperibile. Egli rimase
    reperibile a Firenze ancora ad aprile e maggio, ma a giugno non lo era più.
    Dico questo sulla base di un ricordo dell’attività della polizia giudiziaria: la DIGOS continuò in
    qualche modo a lavorare su Senzani; non furono compiute attività di intercettazione, che
    ricorderei, ma dopo qualche tempo la Digos stessa avvisò che Senzani probabilmente non era più
    in circolazione. Questo non lo dice soltanto la DIGOS ma anche i collaboratori del 1982, in
    particolare Ciucci che, essendo stato tagliato fuori da tutta la vicenda del comitato con gli arresti
    del 19 dicembre (perché i suoi referenti erano Cianci, suo collega di lavoro, Baschieri, perché
    sapeva dove trovarlo, ma non sapeva se Bombaci stava a Mercatale piuttosto che al Galluzzo
    piuttosto che altrove), casualmente riallaccia i contatti con l’organizzazione perché, facendo il
    ferroviere, incontra casualmente Moretti sul treno. Ciucci faceva il conduttore talvolta anche sulla
    linea Firenze-Roma, Moretti qualche volta prendeva il treno per andare da Roma a Milano o
    chissà dove: in questo modo Moretti e Ciucci si incontrano e si riconoscono perché si sono visti
    l’anno prima, probabilmente un paio di volte, in viale Unione Sovietica: non sono due estranei. Mi
    pare che a questo punto sia Moretti che dà a Ciucci le coordinate per un incontro, che poi avverrà
    (siamo nella primavera del 1979 o forse poco più in là) durante il quale si materializza Senzani.
    Ciucci non conosceva Senzani prima dell’estate.
    MANCA. Non si è parlato della sensazione che i due si conoscessero da prima?
    CHELAZZI. Mi pare di sì e mi pare che qualcosa di ancora più impegnativo l’abbia detto Savasta.
    Se ricordo bene, Savasta conosceva meglio di Ciucci la vicenda brigatista, per ovvie ragioni, tanto
    che ottenne da Senzani la confidenza che gli ci era voluto un po’ di tempo per entrare in
    clandestinità, perché aveva problemi con la famiglia. Addirittura (particolare che credo molti
    poliziotti e pubblici ministeri ignorassero all’epoca) Savasta raccolse da Senzani anche la
    “confessione” che gli era toccato fare qualche giorno di galera con una imputazione un po’
    burrascosa del pubblico ministero di Firenze. Era vero, ma non era un episodio che aveva riempito
    le pagine dei giornali; la notizia di un professore di università che va in galera tre giorni per falsa
    testimonianza non interessa certo mezza Italia.
    Savasta centra la figura di Senzani in maniera più adeguata rispetto a tutta l’esperienza del
    comitato. Lo stesso fece Fenzi, il cognato brigatista collaboratore, il quale disse che per quanto ne
    sapeva i contatti fra Senzani e il comitato erano stabili e in questi, ovviamente, Senzani faceva
    valere un certo rango culturale e quindi anche un certo ascendente.
    MANCA. Era laureato in criminologia?
    CHELAZZI. Conosceva molte vicende, anche di criminologia. Aveva compiuto molti studi sul
    Welfare State, era uno studioso ante litteram delle problematiche dello Stato sociale; lo ricordo per
    la perquisizione fatta il 19 marzo 1979.
    Fenzi colloca la figura di Senzani (certo non la può deprimere come figura, perché non è
    deprimibile) con largo anticipo; e l’altro collaboratore del Partito guerriglia, Buzzatti Roberto, che
    aveva partecipato tra l’altro alla soppressione di Roberto Peci, dice che Senzani era stato il leader,
    il capo, il vertice del comitato rivoluzionario toscano. Ed è sulla base di questo che poi la Corte
    d’assise di Firenze ha condannato Senzani; ha avuto difficoltà nello stabilire a partire da quando
    gli andava riconosciuta la qualità di leader del comitato, di vertice, di organizzatore e di
    quant’altro si voglia, ma glielo ha riconosciuto e lo ha condannato anche per fatti per i quali non
    c’era la dimostrazione di una sua partecipazione di ordine materiale. Gli attentati di novembre –
    non è una sottolineatura che io ho fatto casualmente –riguardano due professionisti impegnati nel
    settore carcerario. Ebbene, un mese prima e poi ancora otto mesi prima a Roma era no stati uccisi
    dalle Brigate rosse due magistrati impegnati sul fonte carcerario. Non so se è mai stata fatta una
    lettura di questo tipo.
    MANCA. Quindi si potrebbe dire che durante il sequestro Moro il grande irregolare delle Brigate
    rosse poteva essere il Senzani.
    CHELAZZI. Credo che, al pari degli altri, Senzani fosse sicuramente un irregolare, anche
    all’epoca del sequestro Moro, se la datazione della sua appartenenza alle Brigate rosse fatta dalle
    sentenze è giuridicamente e storicamente praticabile, nel qual caso è sicuramente uno – tra gli altri
    irregolari – compatibile”.
    Un’altra clamorosa circostanza la rivela nel 1989 davanti alla Commissione stragi, il generale
    Pasquale Notarnicola, capo del controspionaggio:
    “Vi ricordate Giovani Senzani, uno dei capi delle brigate rosse ? Senzani era stato fermato a
    Genova nel 1978 poco dopo il sequestro di Moro. A Genova avevano chiesto un’informativa al
    controspionaggio di Firenze, città nella quale abitava Senzani prima di darsi alla latitanza. Il
    controspionaggio lesinò le informazioni” (Panorama del 26 gennaio 1981).
    C’è da augurarsi che in seguito a queste dichiarazioni siano state fatte le opportune indagini e siano
    stati cercati i dovuti riscontri, sempre ammesso che 11 anni dopo si riesca a trovare qualcosa.
    L’incredibile “vicinanza” di Senzani ai servizi continua grazie ad altre dichiarazioni di un certo
    Michele Galati al Pm Franco Ionta il 23 novembre 1990:
    “Ho conosciuto Senzani a Venezia tramite Mario Moretti e Vincenzo Guagliardo. L’ho incontrato
    un paio di volte. L’impressione … è che il Senzani non avrebbe escluso alcun tipo di rapporto,
    anche con esponenti di servizi di sicurezza italiani e stranieri. Ritengo che tali rapporti li abbia
    effettivamente intrattenuti. …. Nel carcere di Paliano ho conosciuto Buzzati Roberto; questi mi
    confidò … che Senzani aveva avuto, mentre era nelle BR, rapporti con il Sismi”.
    A tali dichiarazioni saranno seguiti sicuramente gli opportuni riscontri. Sarebbe interessante sapere
    la conclusione alla quale è pervenuta la A.G. anche perché Senzani sembra essere “assillato” dai
    Servizi visto che dal 1968 al 1972 aveva vissuto a Roma in via della Vite con Luciano Bellucci con
    il quale aveva svolto il servizio militare e nel 1983, lo stesso Bellucci durante un interrogatorio
    avanti al giudice istruttore Imposimato, ammise di essere un collaboratore del Sismi (S.Falmigni -
    La tela del ragno – pag. 204). Tali circostanze sono state contestate a Senzani? Quali sono state le
    risposte?
    Alla contestazione di tali fatti e coincidenze quali giustificazioni sono state fornite da Giovanni
    Senzani? Si è indagato in quella direzione?
    Sono stati approfonditi i motivi per i quali il Senzani, nel periodo seguente al delitto Moro, ritorna
    negli Stati Uniti per alcuni mesi? (Era stato nel 1972 per circa un anno presso l’Università di
    Berkeley (USA) per ricerche sulla devianza minorile).
    Forse a tutte queste domande è stato già risposto e non sono emersi elementi significativi di
    indagine. Ma una cosa è certa. Senzani e Moretti sono stati e sono molto bravi nel “nascondersi”,
    nello sminuire o accrescere la loro personalità, il loro carattere e le proprie capacità a seconda dei
    momenti e delle circostanze.
    C’è una circostanza che fa pensare che Giovanni Senzani fosse comunque molto più importante di
    quello che Moretti e gli altri vorrebbero lasciar intendere; certamente deve aver ricoperto anche
    durante il sequestro Moro un ruolo di leader pari a quello di Moretti. Se così non fosse appare
    quanto mai strano che dopo l’arresto di Mario Moretti, avvenuto nel maggio 1981, i contatti con la
    famigerata Hyperion (particolarmente riservati e delicati) passano proprio a Giovanni Senzani il
    quale provvede a mantenere i contatti attraverso l’utenza telefonica di un certo Louis, identificato
    per Jean Louis Baudet, esperto di missili e attivo nel Crise (Centro di ricerche e investigazioni
    socio- economiche di Parigi). La circostanza è deducibile dal fatto che Baudet viene arrestato dalla
    polizia francese insieme alla sua convivente Legagneur ed il nome di quest’ultima appare proprio in
    un biglietto criptato trovato a Senzani.
    Perché Senzani conosce il nome di questa persona? Perché prende il posto di Moretti nella gestione
    di una cosa così delicata se si vuole far credere che nemmeno tre anni prima non era neanche nelle
    BR?
    Visto che quasi tutti gli altri brigatisti erano estranei ai contatti con l’Hyperion, si può ipotizzare che
    Senzani conoscesse da sempre l’esistenza del rapporto con i personaggi Francesi della scuola
    dell’Hyperion?
    Se ciò è vero non si può attribuire al criminologo – ideologo delle BR un ruolo secondario ed
    addirittura inesistente durante il sequestro Moro.
    Stefano Aterno è un giovane avvocato penalista che svolge la sua attività a Roma.
    Per circa tre anni ha svolto le funzioni di vice procuratore onorario presso la
    procura di Roma, rappresentando la pubblica accusa in circa 300 udienze per più di
    6000 procedimenti. Da molti anni cerca di capire cosa vi sia dietro i tanti misteri del
    nostro paese.







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