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    Signore di Trieste
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    Predefinito L’indipendentismo triestino tra il 1945 e il 1954

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    Trieste tra il maggio 1945 e l’ottobre 1954

    Il 2 maggio 1945 le truppe tedesche stanziate a Trieste si arresero alle forze neozelandesi. Ma a occupare la città, essendovi giunto prima, fu il IX Corpus dell’Esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito. A questo reparto erano aggregati anche gruppi di partigiani italiani, ovviamente comunisti, a cui, però, non fu permesso di entrare nella città giuliana. Nei giorni successivi sui muri delle strade i triestini poterono leggere manifesti dal tono “conciliante” ma rigoroso: «Svoje ne damo, tuje neßemo / l’altrui non vogliamo, il nostro non diamo». Il problema era che Tito voleva Trieste, mentre la maggioranza dei triestini non voleva né il comunismo né, soprattutto, la Jugoslavia. I 40 giorni di occupazione slavo-comunista videro moltissimi italiani di Trieste, ma non solo, perseguitati, deportati e uccisi, sia dalla polizia durante le manifestazioni sia, soprattutto, durante rastrellamenti e veri e propri rapimenti notturni.
    Il 9 giugno fu siglato un accordo tra il generale americano Morgan e un riluttante Tito: i territori a occidente della linea Trieste-Caporetto-Tarvisio – da allora chiamata linea Morgan – e gli ancoraggi di Pola e della costa occidentale dell’Istria sarebbero stati posti sotto il controllo diretto degli Alleati. Così Trieste passò sotto il controllo politico, economico e militare del Governo militare alleato (gma).
    La città giuliana divenne da allora oggetto di dibattiti e scontri internazionali: da una parte l’Unione Sovietica appoggiava le rivendicazioni jugoslave, sostenute in Italia dal Partito comunista; dall’altra gli Alleati, pur riconoscendo la preminenza etnica italiana, non sapevano come convincere Tito e Stalin a rinunciare a Trieste. Inoltre ritenevano che il controllo del territorio conteso sarebbe stato, nelle loro mani, uno strumento in più per condizionare i due Stati vicini. L’Italia, nella sua maggioranza, era, ovviamente, per la riunificazione con Trieste, così come la componente italiana non comunista della città giuliana. E i vari governi italiani non potevano permettersi di cederla senza lottare visto che Trieste «è, per gli italiani, più che una città ed un porto: essa è un sentimento nazionale»1.
    Il 10 febbraio 1947 fu firmato, a Parigi, il trattato di pace in cui veniva stabilito di creare il Territorio Libero di Trieste (tlt), provvisoriamente diviso in due zone: una controllata dagli Alleati, a occidente della linea Morgan, comprendente il territorio costiero da Trieste a Duino; l’altra dalla Jugoslavia, che si estendeva verso sud fino a Cittanova/Novigrad. Era una soluzione provvisoria in quanto, una volta scelto dall’onu un governatore per il tlt, le due zone si sarebbero dovute unire.
    Il 15 settembre le clausole del trattato ebbero attuazione: i territori istriani passarono ufficialmente sotto controllo jugoslavo e la città di Pola, originariamente assegnata al controllo alleato, dopo l’esodo pressoché completo della popolazione italiana, passò anch’essa a far parte della Repubblica jugoslava. A Trieste ci furono numerose manifestazioni da parte dei gruppi nazionalisti che causarono cinque morti. Ormai si stava entrando in piena guerra fredda e, quindi, la scelta di un governatore e l’attuazione di uno statuto definitivo si fecero impossibili, anche se furono molti i nomi proposti e molte le iniziative e le richieste per creare definitivamente il tlt.
    Il 18 aprile 1948 avrebbero avuto luogo le elezioni in Italia. Gli Alleati, temendo una possibile vittoria comunista, il 20 marzo emanarono la cosiddetta Dichiarazione tripartita: l’Italia avrebbe dovuto riprendere possesso di tutto il Territorio Libero di Trieste.
    Ma, il 28 giugno 1948, il Cominform scomunicò il Partito comunista jugoslavo e fu la rottura tra Tito e Stalin. A questo punto l’Italia non ebbe più, nonostante i tentativi, la possibilità di riottenere i territori facenti parte della zona B in quanto uno Stato socialista in opposizione a Mosca serviva agli Alleati, che quindi aiutarono, soprattutto economicamente, il regime di Belgrado e non poterono più schierarsi completamente dalla parte italiana.
    L’anno seguente si tennero le prime elezioni amministrative nella zona A. Il 12 giugno a Trieste e il 19 nei restanti comuni. Secondo il trattato di pace avrebbero potuto votare esclusivamente i residenti alla data del 10 giugno 1940 ma, per favorire i partiti filoitaliani, fu stabilito che gli aventi diritto sarebbero stati gli abitanti della zona residenti dal 1947. Così avrebbero potuto votare gli esuli fiumano-istriano-dalmati sicuramente favorevoli all’Italia.
    Considerando che i voti filojugoslavi sarebbero stati in numero esiguo, lo scontro sarebbe stato tra i partiti filoitaliani (la dc con gli altri partiti di centro e il msi e il Partito monarchico) e i partiti favorevoli al Territorio Libero: il Partito comunista del Territorio Libero di Trieste (pctlt) e i movimenti indipendentisti.
    Inizialmente i partiti filoitaliani avrebbero dovuto presentarsi in una lista unica comprendente anche l’msi e il pnm. Poi Gianni Bartoli, segretario provinciale della dc e futuro sindaco, convinse i partiti italiani a presentarsi singolarmente. Stessa cosa fecero i partiti indipendentisti e i partiti slavi.
    I risultati delle amministrative mostrarono che:
    – con il 5,08% dei voti non si poteva parlare di un movimento filojugoslavo nella zona A;
    – i partiti filoitaliani, con in testa la Democrazia cristiana, raccoglievano circa il 60% dei voti; molto meno di quell’85% che l’Ufficio Zone di confine (era un ufficio italiano che si occupava di tutte quelle aree, appunto, di confine dove potevano esserci questioni territoriali da risolvere) riteneva fosse la soglia per considerare le elezioni un successo;
    – i partiti favorevoli al Territorio Libero erano una consistente minoranza: circa il 33%. Fra questi la maggioranza aveva votato per il Partito comunista (pctlt), ma una buona percentuale aveva votato il Fronte dell’Indipendenza (fdi), che risultò il terzo partito della zona con il 6,83%.

    Per i partiti indipendentisti fu un ottimo risultato anche se il pctlt e gli altri partiti favorevoli al tlt non potranno, o vorranno, mai affrontare una battaglia politica congiunta. Evidentemente la propaganda e la nascita di un giornale come “Il Corriere di Trieste”, di cui si parlerà fra poco, avevano portato i loro frutti. Intanto le iniziative diplomatiche continuavano. Pochi giorni dopo il voto, l’Italia, forte dei risultati elettorali, richiese l’attuazione della dichiarazione tripartita ma Dean Acheson, segretario di Stato statunitense, affermò che per gli Usa il ritorno del Territorio Libero all’Italia sarebbe avvenuto soltanto se non avesse fatto perdere la faccia a Tito: in pratica, mai.
    Il 2 luglio, la Jugoslavia introdusse, unilateralmente, il dinaro nella zona B e abolì i dazi doganali tra la zona e la Repubblica federale. Nel marzo 1951 il generale Terence Airey, americano, fu sostituito dal generale John Winterton, inglese, a capo del Governo militare alleato. Non solo era finito il mandato, ma Airey era anche considerato troppo favorevole agli interessi italiani. Nel novembre del 1951 Tito propose il “condominio”, ossia l’amministrazione alternata fra l’Italia e la Jugoslavia dell’intero tlt. Ovviamente ricevette un netto rifiuto.
    L’11 marzo del 1952 l’Italia propose il plebiscito, ma la Jugoslavia rispose negativamente affermando che avrebbe dovuto avere la possibilità di riparare ai torti subiti sotto il fascismo controllando, prima del plebiscito, la regione per quindici anni. Il 20 dello stesso mese, ci furono gravissimi scontri tra i manifestanti, scesi in piazza per richiedere l’attuazione della dichiarazione tripartita, e la polizia.
    Gli Alleati, spaventati da possibili derive nazionaliste in Italia e incalzati dal governo di Roma, cercarono di raggiungere un compromesso. Il 9 maggio, durante la conferenza di Londra, convocata appositamente, gli Alleati concessero all’Italia un consigliere politico da affiancare a Winterton2, la possibilità di proporre un amministratore civile per la zona e l’aumento del numero dei propri funzionari da cinque a ventuno.
    L’Italia aveva premuto fortemente per ottenere qualche concessione in modo da poter aiutare i partiti filoitaliani che avrebbero, il 25 maggio, affrontato le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali nella zona A. La vittoria della vecchia maggioranza (dc e partiti alleati) era praticamente scontata, ma i partiti di centro temevano un’avanzata consistente dell’estrema destra, dei partiti indipendentisti soprattutto, e, in maniera molto minore, dei titini. Infatti, già il 6 ottobre 1950 (le elezioni si sarebbero dovute svolgere, infatti, nell’estate del 1951), il conte Renzo di Carrobio, capo della missione italiana a Trieste, osservava che il gma incoraggiava gli indipendentisti con favori economici e affidando loro incarichi di prestigio3.
    La campagna elettorale si svolse in un clima di grande tensione: le accuse e gli insulti erano quotidiani e sempre più infamanti; i partiti pro-Italia accusavano tutti gli altri di voler donare Trieste alla Jugoslavia e farle rivivere l’esperienza, terribile, dei «40 giorni»; gli indipendentisti e i comunisti ribattevano tacciando gli avversari di fascismo e di velleità belliciste; fra indipendentisti e comunisti le accuse erano di servilismo rispettivamente verso Tito, i primi, e verso Stalin, i secondi.

    La tensione sfociava in contestazioni accese e, in alcuni casi, violente. Solitamente si disturbavano i comizi delle parti avverse con fischietti e schiamazzi ma, a volte, anche con pietre e, addirittura, con coltelli. Fortunatamente non ci fu nessuna vittima.
    Su 193.6264 voti validi, i partiti che ponevano come primo punto del proprio programma il ritorno di Trieste all’Italia ricevettero il 59,95%. Il 32,35% si espresse a favore di quei partiti che volevano il Territorio Libero; mentre solamente il 4,73% si espresse a favore di partiti filotitini.
    Rispetto alle elezioni del ’49 tre furono i dati interessanti: la sostanziale tenuta dei partiti favorevoli al ritorno all’Italia (percentualmente persero solo lo 0,70%); l’aumento estremamente consistente dei voti del msi (che passò dai 10.222 voti del ’49 ai 20.570 del ’52); il raddoppio dei voti del Fronte dell’Indipendenza.

    Grazie alla legge sull’apparentamento, dc, pri, pli e il Partito socialista Venezia Giulia, collegato al psdi di Saragat, ottennero la maggioranza assoluta al consiglio comunale senza bisogno di legarsi al msi o al Partito nazionale monarchico. Il Fronte dell’Indipendenza mantenne il terzo posto raddoppiando, però, il numero di preferenze dalle 11.514 del giugno 1949 alle 22.415 di queste ultime elezioni, ottenendo il 12,52% dei voti.
    A Trieste la tensione era sempre più palpabile: pur con la maggioranza assoluta, i partiti irredentisti si rendevano conto che il movimento indipendentista diventava ogni giorno più forte e che il ritorno di Trieste all’Italia sembrava sempre più lontano. La tensione era presente anche in Italia dove, fra una crisi di governo e l’altra, soltanto con i voti dei monarchici e l’astensione del Movimento sociale, Giuseppe Pella poté diventare presidente del Consiglio. L’appoggio della destra rese la politica per Trieste ancora più decisa. Si arrivò, addirittura, a minacciare gli Alleati di uscire dal Patto atlantico.
    Il 28 agosto 1953, dopo una nota jugoslava male interpretata dalla United Press (nella nota il governo jugoslavo affermava che, viste le mire espansionistiche dell’Italia, avrebbe rivisto la sua politica riguardo la zona B; l’agenzia di stampa statunitense aggiunse «eventualmente annettendo la Zona B»)5, Pella fece spostare alcune truppe al confine con la Jugoslavia. Il governo di Belgrado protestò energicamente contro quella che riteneva una provocazione.
    L’8 ottobre, con la Dichiarazione bipartita, Stati Uniti e Gran Bretagna stabilirono che la zona A sarebbe passata sotto l’amministrazione italiana. Pella affermò che l’accettazione della Dichiarazione non avrebbe influito sulle rivendicazioni verso la zona B.
    La ferma protesta jugoslava – l’11 ottobre Tito aveva dichiarato: «nel momento in cui il primo soldato italiano entrerà nella Zona A, anche noi vi entreremo»6 – fece sì che il Governo militare alleato rimanesse a Trieste. Nella città giuliana si viveva nel terrore che gli Alleati abbandonassero tutta la zona nelle mani jugoslave. Il 5-6 novembre ci furono scontri in piazza tra i manifestanti che chiedevano il ricongiungimento di Trieste con la “madrepatria” e le forze di polizia. Gli scontri portarono alla morte di sei manifestanti, che sarebbero stati insigniti della medaglia d’oro dal presidente Ciampi nell’ottobre del 2004. Durante le manifestazioni venne distrutta la sede del Fronte dell’Indipendenza perché moltissimi triestini ritenevano tutti gli indipendentisti agenti al soldo di Belgrado.
    A dicembre Italia e Jugoslavia ritirarono le proprie truppe dai rispettivi confini e da quel momento in poi le trattative s’intensificarono: infatti, un anno dopo – il 5 ottobre 1954 – fu siglato a Londra il Memorandum d’Intesa con il quale venne sancito il ritorno definitivo dell’amministrazione della zona A all’Italia e quello provvisorio della zona B alla Jugoslavia. In realtà, questo valeva esclusivamente dal punto di vista italiano. Infatti, pur se una soluzione definitiva venne firmata solo vent’anni dopo con il trattato di Osimo del 10 novembre 1975, già allora tutti sapevano che la Jugoslavia mai se ne sarebbe andata dalla zona B.
    Il 26 ottobre, l’Italia, sbarcando con i bersaglieri, riassunse il controllo della zona A e di Trieste.

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    L’indipendentismo

    Trieste è una città italiana per lingua e cultura. Nessun dubbio. Eppure Trieste non è una città come le altre. È una città con «un’identità di frontiera», per citare il titolo di un significativo libro di due triestini come Angelo Ara e Claudio Magris7. Ciò significa che la vita, le abitudini, il carattere dei triestini sono stati influenzati dai rapporti con le altre culture confinanti e, molto spesso, presenti nel tessuto sociale della città. I rapporti strettissimi con l’Impero asburgico, la presenza, spesso conflittuale, di numerosissimi slavi e minoranze greche ed ebraiche hanno fatto sì che la città fosse un punto d’attrazione e d’incontro per una serie di culture accomunate dall’uso della lingua italiana. E l’élite culturale ha sempre cercato di valorizzare questo ruolo di centro aggregante. Il cosiddetto particolarismo triestino, così ben descritto da Angelo Vivante8, antecedente la prima guerra mondiale, spesso si sposava con il desiderio di unirsi all’Italia.
    Tuttavia, nel secondo dopoguerra, le cose cambiarono: a Trieste si venne a creare un forte movimento favorevole al Territorio Libero e contrario al ritorno del governo di Roma. Nacquero, così, due partiti di lingua italiana (ne esisteva uno di lingua slava: la Lista nazionale slovena di Giuseppe Agnelletto), chiaramente indipendentisti: il Fronte dell’Indipendenza e il Blocco triestino (bt). Fra i due partiti vi erano alcune differenze: il fdi si rivolgeva a tutti i ceti sociali, e infatti raccoglieva voti in tutti i quartieri cittadini, il bt era composto per lo più da piccoli imprenditori e industriali che rimpiangevano il periodo asburgico. I due partiti trovavano origine nel movimento autonomista triestino che aveva già caratterizzato gli ultimi anni di dominazione asburgica della città. I leaders erano rispettivamente Teodoro Sporer, capo carismatico dell’indipendentismo cittadino, e l’avvocato Mario Stocca. Interessante notare come la data di nascita dei due partiti risulti avvolta nell’oscurità e che non esistano documenti in tal senso presso l’Archivio di Stato di Trieste: probabilmente, la fondazione ufficiale può essere fatta risalire alle elezioni del 1949.
    Il fdi organizzava colonie estive e giri turistici per i figli dei propri simpatizzanti e aveva affiliate, proprio per questo, delle associazioni per i giovani e per gli anziani. Il fdi aveva anche un proprio organo di partito: “Trieste-Sera” diretto da Mario Giampiccoli, futuro capo del partito, e Bruno Cerne, economista e futuro socio del “Corriere di Trieste”, come collaboratore.
    Gli indipendentisti ritenevano che solo la creazione di una nuova entità avrebbe permesso di mantenere unite l’Istria e Trieste. E che solo così il porto giuliano sarebbe rimasto il punto d’incontro tra la Mitteleuropa, i Balcani e l’Italia. Non pensavano di potersi fidare dell’Italia. Pur se democratica, la nuova Repubblica manteneva, così ritenevano, molti aspetti negativi propri del fascismo anche per quanto riguardava il problema della convivenza con gli slavi. Gli irredentisti «erano contrari all’applicazione di qualsiasi disposizione degli statuti provvisoria o permanente, perché ciò avrebbe trasformato il tlt in uno stato indipendente, nel quale gli sloveni avrebbero avuto gli stessi diritti degli italiani»9. Questo giudizio, di uno storico sloveno, era condiviso dagli indipendentisti.
    Il desiderio d’indipendenza non era solo di natura morale. Infatti Trieste, quando era stata portofranco dell’Austria, era una città ricca. In seguito, con l’Italia, era arrivato il tracollo economico. Questo perché Mussolini non poteva garantire a Trieste di essere lo sbocco privilegiato, e unico, del traffico marittimo da e per l’Italia. E, ovviamente, una città che per due secoli era stata l’unico porto di un intero impero non poteva che risentire di questa nuova condizione. Gli indipendentisti ritenevano che il tlt avrebbe ristabilito il ruolo geopolitico ed economico della città.
    Eppure, a Trieste, il Fronte dell’Indipendenza e il Blocco triestino erano, e sono tuttora, considerati da molti come burattini manovrati da Tito. L’indipendentismo «è una pagina poco studiata della storia di Trieste, perché sia la pubblicistica nazionale che quella marxista sono state concordi nel proposito di cancellarlo dalla memoria storica»10. Perché questo ostracismo? Si potrebbe pensare, e forse è una possibile seppur parziale risposta, che l’indipendentismo sia stato cancellato perché considerato un fenomeno non onesto e indotto dai finanziamenti e dagli interessi jugoslavi. Può bastare? Direi di no. Innanzitutto bisogna dire che la storiografia non si è mai limitata a trattare personaggi o movimenti “positivi”. Oltretutto ritenere tutti gli indipendentisti, o almeno i dirigenti e gli esponenti più in vista, filojugoslavi mascherati è assolutamente errato. Sembra effettivamente assodato che “Il Corriere di Trieste” e, forse, alcuni esponenti indipendentisti, ricevessero finanziamenti da Lubiana11 ma, d’altra parte, non sappiamo chi ricevette effettivamente quel denaro né l’utilizzo che ne venne fatto, a parte il finanziamento del giornale. Donald C. Dunham12 affermava, a tale proposito, che “Il Corriere” era «un giornale locale indipendentista con inclinazioni filo jugoslave»13. Mentre Stelio Spadaro riteneva che il quotidiano indipendentista ricevesse finanziamenti da Lubiana ricavati dall’esportazione del legname14.
    È interessante analizzare un dato riguardo le elezioni del 1952: il più votato fra gli eletti del fdi, Carlo Tolloy15, era classificato come candidato indipendente e, certamente, non era, o non sembrava, al soldo di Tito. Così come Fabio Cusin, eletto come rappresentante del Blocco triestino. È la dimostrazione che il sentimento indipendentista, come abbiamo scritto, era genuino, almeno in alcuni settori della popolazione. Va anche detto, però, che il Territorio Libero, tra un’Italia e una Jugoslavia sicuramente scontente, difficilmente sarebbe sopravvissuto. Certamente, i due Stati non avrebbero accettato di rinunciare a Trieste e, senza l’appoggio politico e militare alleato, la città sarebbe stata teatro di scontri e di conflitti d’influenza fra i due vicini e Trieste, sicuramente, non avrebbe recuperato quella ricchezza che soltanto la volontà imperiale le aveva dato. Infatti, per quale motivo l’Italia, da Venezia, e la Jugoslavia, da Fiume, avrebbero dovuto dirottare i propri traffici verso una Trieste indipendente?
    Come spesso accade, con il senno di poi, possiamo ritenere l’idea indipendentista inattuabile. Ma dobbiamo chiederci perché un numero così alto di triestini diede il proprio appoggio all’idea del tlt. Sicuramente, oltre agli interessi economici, e all’identità culturale, la propaganda effettuata da “Il Corriere di Trieste” ebbe un ruolo fondamentale. Quella propaganda che andava a richiamare una serie di temi molto sentiti dalla città giuliana.

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    “Il Corriere di Trieste”,
    il quotidiano degli indipendentisti


    L’11 giugno 1945 veniva dato alle stampe il primo numero de “Il Corriere di Trieste, giornale democratico indipendente”16. Il quotidiano di piazza Goldoni 1 seguirà criticamente gli avvenimenti triestini fino al 15 novembre 1959 quando smetterà, dopo una lenta agonia, di essere stampato.
    Seguire, almeno a grandi linee, le vicende proprietarie e i mutamenti della compagine redazionale è molto interessante e forse utile per capire l’impostazione politica del giornale, il tipo di lettori a cui si riferiva e, soprattutto, se fosse realmente un quotidiano indipendente o, come veniva insinuato, esclusivamente il “cavallo di Troia” di Tito.
    I soci fondatori della srl “Casa Editrice del Corriere di Trieste” furono: Carlo Luigi Cergoli, il professore Stanislao Rubini e Alberto Paulin, il primo direttore. Paulin era l’unico conosciuto per le sue idee politiche: genericamente favorevole all’indipendenza pur senza specificarne le forme istituzionali e i confini territoriali17. Inoltre si sapeva che era stato partigiano con alcuni redattori del “Nuovo Avvenire”18. Rubini proveniva dal suddetto giornale, mentre Cergoli era conosciuto come autore di versi dialettali. Ques’ultimo, dopo due mesi e mezzo di pubblicazioni, assumeva “provvisoriamente” la direzione e, a metà con Rubini, rilevava le quote del dimissionario Alberto Paulin. Poco dopo, la responsabilità redazionale passava a Carlo Belihar, mentre Carlo Luigi Cergoli diveniva direttore non responsabile.
    Il 6 febbraio 1946 Fabio Cusin, noto e polemico storico triestino, cominciò a collaborare con il quotidiano indipendentista firmandosi, in questo primo periodo, con il proprio nome. Il 6 novembre dell’anno dopo entrò in maniera stabile nella redazione inaugurando una rubrica settimanale intitolata Sette giorni nel mondo (dal marzo 1953 cambierà nome in La settimana) che continuerà fino alla morte, avvenuta nel maggio del 1955, firmandosi Ellepi (Libero pensatore). L’entrata nella redazione di Fabio Cusin, personaggio di una certa notorietà e polemista vivace, segnò l’inizio di un salto qualitativo per “Il Corriere”.
    Fino al 1948, data della rottura fra Tito e Stalin, “Il Corriere” si mantenne sempre su posizioni politiche caute che mostravano, tuttavia, una certa simpatia per la Jugoslavia, oltre a promuovere l’idea dell’attuazione effettiva del Territorio Libero.
    Nel 1948, in concomitanza con la denuncia sovietica del “deviazionismo” jugoslavo, Bruno Cerne, uno dei principali esponenti del Fronte dell’Indipendenza, acquistava numerose azioni del giornale. Poco dopo Cergoli vendette le sue, soprattutto a Carlo Belihar, mantenendo, però, la direzione.
    In realtà la composizione della casa editrice ebbe mutamenti costanti che aiutano a comprendere una cosa: con 250 mila lire di capitale sociale non sarebbe stato possibile mantenere i costi di gestione. Qualcun altro, evidentemente, finanziava “Il Corriere”.
    Nel 1949 le elezioni amministrative diedero una duplice indicazione, oltre la maggioranza per i partiti irredentisti: la pochezza del partito comunista filotitino e la forza, crescente, dell’indipendentismo. Fu agli elettori indipendentisti che, con ancor più forza, “Il Corriere” si rivolse.
    Apparvero scritti di Nino Valeri, Carlo Tolloy e Dario De Tuoni (oltre a quelli di Cusin) che diedero lustro al giornale, essendo il primo uno storico notissimo e molto apprezzato, gli altri due esponenti di spicco dell’indipendentismo cittadino. Scomparve praticamente ogni commento critico alla politica jugoslava mentre divennero sempre più frequenti i richiami alla triestinità e alla storia cittadina. Il sigillo trecentesco del libero Comune triestino venne sovrapposto al sottotitolo «quotidiano del t.l.t.». E Cergoli cominciò a farsi chiamare conte e a firmarsi con lo pseudonimo “asburgico” di Carolus L. Cergoly.
    Fu tra il 1950 e il ’54 che “Il Corriere” raggiunse la massima diffusione: circa 25 mila copie. In questo contesto si inserirono le elezioni del 25 maggio 1952 e il successo del Fronte dell’Indipendenza. “Il Corriere” si trovò in prima fila nel portare avanti la campagna elettorale dei candidati indipendentisti. Anche perché, fra i candidati, vi erano molti collaboratori del giornale: Carlo Tolloy, indipendente, e Carlo Belihar per il Fronte dell’Indipendenza, Fabio Cusin e Mario Dezmann per il Blocco triestino.
    Alle elezioni, come detto, gli indipendentisti, e il Fronte dell’Indipendenza per primo, ottennero un ottimo risultato. Per il Fronte dell’Indipendenza vennero eletti, tra gli altri, Carlo Belihar e Carlo Tolloy, vicedirettore e collaboratore de “Il Corriere di Trieste” e Mario Giampiccoli, direttore di “Trieste-Sera”, quotidiano ufficiale del fdi. Per il Blocco triestino venne eletto Fabio Cusin, storico e opinionista de “Il Corriere”. Per il quotidiano fu un ottimo risultato e, quindi, la propaganda politica e la pubblicità alle iniziative dei consiglieri divennero sempre più costanti.
    Nel marzo del 1953 Cergoli veniva estromesso dalla direzione che, per due anni, rimase vacante, con Belihar – vicedirettore – come responsabile.
    Il 5 ottobre 1954 la prima pagina veniva dedicata al Memorandum di Londra e così, ovviamente, nei giorni seguenti. “Il Corriere di Trieste” ormai aveva perso la sua funzione, Trieste era tornata all’Italia. Così all’inizio del 1955 entrò in redazione Eugenio Laurenti jr. che, poco dopo, ne divenne il direttore. Eugenio Laurenti jr. era il fiduciario di Tito19 a Trieste.
    Cosa significa? Probabilmente “Il Corriere di Trieste” era stato aiutato a nascere dagli jugoslavi per contrastare l’irredentismo, proponendo la creazione di uno stato libero, in cui poi possibilmente infiltrarsi, visto che, a Trieste, proporre l’unione alla Repubblica federale sarebbe stato, dati anche i risultati elettorali, inaccettabile. E, per dare credibilità e forza al progetto vi erano stati aggregati, come non è possibile stabilirlo, anche indipendentisti convinti e conosciuti, lasciando loro la possibilità di esprimersi quasi liberamente. Così “Il Corriere” fu un giornale realmente indipendentista in gran parte delle sue componenti ma, probabilmente, non in tutte. In tal modo, proprio mentre il suo più conosciuto collaboratore – Fabio Cusin – si ammalava gravemente, il “Corriere di Trieste” cominciava a perdere progressivamente lettori fino alla chiusura causata dalle scarsissime vendite e dalla sua inutilità politica.

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    “Trieste-Sera”

    Oltre a “Il Corriere di Trieste” c’era un altro giornale indipendentista: “Trieste-Sera”. Questo, però, era, come abbiamo visto, portavoce esclusivo del Fronte dell’Indipendenza di cui era l’organo ufficiale. In teoria doveva essere un quotidiano ma, per mancanza di fondi, usciva prevalentemente il mercoledì e il sabato. In seguito, intorno alla prima metà del 1953, i problemi economici si aggravarono e, per lunghi mesi, non poté più uscire con continuità.
    Il direttore era Mario Giampiccoli. Editoriali e articoli di fondo erano scritti, prevalentemente, da Teodoro Sporer – segretario del partito, fino alla morte avvenuta nell’agosto del 1953 – e capo carismatico dell’indipendentismo a Trieste anche se sia nel 1949, per problemi procedurali, sia nel 1952, per l’aggravarsi della malattia che poi l’avrebbe ucciso, non poté candidarsi alle elezioni. Altre firme del giornale furono quelle di Carlo Tolloy e del direttore, Mario Giampiccoli. Comunque la maggior parte degli articoli non era firmata.
    La linea editoriale prevedeva un articolo di fondo, un paio di articoli firmati e, soprattutto, proclami ai lettori. Va notato come, quasi in ogni articolo, vi fossero refusi, errori di stampa e, qualche volta, addirittura errori ortografici.
    I politici italiani, De Gasperi in testa, erano definiti «la camorra» e venivano proposti assiomi come «indipendentismo = libertà; Italia = morte di Trieste». L’Italia veniva presentata come uno Stato invadente e prepotente, uno Stato sfruttato dai suoi governanti e oppresso da un violento apparato poliziesco. Per dare un’idea dei metodi di “Trieste-Sera” basta leggere come fu travisata un’affermazione di De Gasperi: l’esponente dc aveva detto che qualunque soluzione non rispondente alla volontà della maggioranza e frutto di un compromesso iniquo era da definirsi «bastarda». Teodoro Sporer scriveva, invece, che De Gasperi aveva definito i triestini «bastardi»20.
    Dall’inizio del 1953, “Trieste-Sera”, ormai in piena emergenza economica, non uscì più con regolarità. Non venne stampato neanche per commemorare la morte di Teodoro Sporer, nell’agosto 1953. Saltuariamente venne pubblicato qualche numero ma, nonostante gli appelli ai lettori, non si riuscì a trovare i fondi per garantire una periodicità. Addirittura, nel 1954, non ci fu alcun numero di commento al ritorno di Trieste all’Italia.
    Come “Il Corriere di Trieste”, anche “Trieste-Sera” venne accusato di essere al soldo di Tito, ma i problemi economici di cui sempre soffrì sembrano smentire questa ipotesi. Anche se le critiche, così feroci verso l’Italia e gli Alleati, risparmiarono sempre la Jugoslavia.
    Mettere sullo stesso piano i due giornali indipendentisti sarebbe comunque sbagliato. “Il Corriere di Trieste” era un vero giornale, scritto bene, impaginato senza errori, dalla cadenza quotidiana; “Trieste-Sera” dava più l’idea di essere un foglio improvvisato, pieno di errori e per nulla costante nelle uscite. Ma, oltre alle differenze formali, erano i contenuti a fare la differenza. Il giornale di Mario Giampiccoli, così pieno di appelli e insulti, sembrava più che altro un foglio di propaganda mentre “Il Corriere”, pur avendo una chiara impostazione e una polemicità ben leggibile aveva le caratteristiche formali di un quotidiano indipendente.
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    Propaganda e temi ricorrenti dell’indipendentismo

    In un articolo apparso nell’imminenza delle elezioni del maggio 1952, così “Il Corriere di Trieste” definiva i temi centrali dell’indipendentismo:

    Che cos’è l’indipendentismo?
    L’indipendentismo non è solamente il portavoce di un diffuso stato d’animo triestino o di una corrente ideologica, ma intende operare e lottare su quel terreno che è lo sfondo sul quale si muovono gli eventi e la storia della nostra città.
    L’indipendentismo è in sostanza un movimento sociale inteso a restituire a Trieste la sua naturale funzione economica, indicando le vie per sottrarre il potenziale produttivo triestino dalle mani del vecchio monopolio, a indicare la possibilità di una vita economica triestina indipendente (anche perciò si chiama indipendentismo), a porre infine le autorità che detengono il mandato di governo a Trieste, di fronte alla responsabilità che si assumono proteggendo, più o meno apertamente, l’irredentismo industriale, e favorendo in tale modo la polarizzazione delle forze politiche locali verso gli estremismi di destra e di sinistra.
    L’indipendentismo vuol essere una corrente politica di centro, priva di fanatismi, equilibrata, senza essere pregiudicalmente anti-qualcuno: non anti-italiana, non anti-slava, ma infine e soprattutto non anti-triestina21.

    Quello che si può notare è che non veniva presentata alcuna proposta politica concreta ma solo una serie di vaghi richiami alla pace e, soprattutto, a una nuova ripresa economica.
    Propria de “Il Corriere” era l’identificazione dell’indipendentismo con l’italianità di Trieste e dell’Istria. Ovviamente ciò può risultare strano ma la spiegazione data era semplice: Trieste era stata, per tanti anni, uno dei centri mitteleuropei più floridi e importanti mantenendo, pur nell’incrocio di culture, sempre la cultura italiana e la lingua italiana come lingua franca utilizzata da tutte le etnie della città. I vent’anni di fascismo avevano degradato la città economicamente e culturalmente; quindi, per far tornare la città giuliana all’antico splendore, bisognava lasciarla libera dall’oppressione del governo italiano, qualunque fosse. Soltanto dopo aver recuperato l’antico splendore Trieste avrebbe ripreso la funzione di promotrice della lingua e della cultura italiana. Riguardo all’Istria, gli indipendentisti ritenevano che solo con il Territorio Libero sarebbe potuta rimanere unita a Trieste22.
    Oltretutto, fra i vantaggi concessi ai triestini dal Trattato di Pace vi era l’assenza dell’obbligo di leva. Era un tema che, soprattutto sulle madri, aveva una forte presa. Trieste aveva sofferto terribilmente la guerra e, in clima di guerra fredda, la paura di un terzo conflitto mondiale era molto forte.
    Ricorda che il Trattato di Pace con l’Italia fa di Trieste una zona neutrale e smilitarizzata. Se voti per una lista irredentista italiana segni per i tuoi figli l’obbligo al servizio militare, segni per i tuoi figli la necessità di vestire una divisa, e con essa il dovere di combattere qualsiasi guerra cui piacerà partecipare alla cricca di Roma23.


    Gli indipendentisti affermavano che, qualora l’Italia fosse tornata a Trieste, per prima cosa, avrebbe affidato importanti incarichi amministrativi a non triestini. Già con i rappresentanti al gma la Repubblica Italiana aveva mostrato questa intenzione:

    Il Governo di Roma ha voluto che a Trieste venissero ventuno dei suoi funzionari. Sono altri ventuno stipendi cautissimi che dovranno saltare fuori riducendo la paga del tuo uomo. Se voti per una lista italiana altri funzionari del Governo di Roma saranno chiamati, altri stipendi graveranno sulla misera paga dell’operaio e dell’impiegato triestino24.

    Il Fronte dell’Indipendenza prometteva di rappresentare il futuro per la città giuliana.

    Ricorda. Votando «Trieste ai Triestini» dici no alle tasse, alla polizia, al servizio militare, alla camorra, alla disoccupazione, all’immigrazione, al furto delle nostre navi, ed a tutti i regali di questo genere che Roma vuol contrabbandare a Trieste assieme alla bandiera italiana. Vota quindi «Trieste ai Triestini», unica lista che non fa promesse, ma garantisce che il governo di Trieste sarà affidato a mani triestine. Vota «Trieste ai Triestini» ed avrai la coscienza tranquilla di chi ha fatto il suo dovere in difesa dell’avvenire della propria terra25.

    Come si legge, si poneva molto l’accento sul problema economico. “Il Corriere” era accusato, come tutti gli indipendentisti, di essere anti-religioso visto che criticava, spesso e ferocemente, il clero – in primis mons. Antonio Santin, vescovo di Trieste – e il Vaticano, colpevoli di condizionare in senso irredentista la vita politica e la società italiana e triestina. Per questo, poco prima delle elezioni, il 22 maggio 1952, si formò il “gruppo cattolico indipendentista” capeggiato da Antonio Viburno ed Eugenio Laurenti sr. Questo gruppo, poi denominatosi “Cattolici triestini”, riteneva che il periodo in cui Trieste era stata «soggetta alla dominazione dello stato italiano» (1918-43) fosse stato un momento nefasto. Inizialmente i governi liberali avevano aizzato il nazionalismo italiano per creare tensione con la minoranza slovena ed evitare che si formassero masse popolari compatte nel chiedere miglioramenti sociali ed economici; successivamente si erano avuti, da parte delle autorità nazionali e locali e dei singoli cittadini, comportamenti vessatori nei confronti della minoranza slava. Questi comportamenti avevano spinto gli sloveni tra le braccia del comunismo.
    Per reazione gran parte della popolazione italiana era divenuta facile preda dell’estremismo fascista. Ma non solo la popolazione: anche il clero, e mons. Santin in particolare, era divenuto portavoce del partito e dei suoi valori e, dopo la guerra, la situazione non era cambiata.
    I “Cattolici triestini” denunciavano come l’attuale politica nazionalista fosse, oltretutto, favorita, agevolata e, soprattutto, premiata con l’assunzione nell’amministrazione pubblica di immigrati dalle regioni meridionali d’Italia e di “presunti” esuli, spesso compromessi con il Fascismo26. Questi “cattolici” scrivevano anche su “Trieste-Sera”, ma con toni ancora più duri.
    Titoli come Democrazia Cristiana ed azione cattolica unico pentolone di brodaglia fascista27 la dicono lunga sulla vena polemica ai limiti dell’odio verso gli avversari degli indipendentisti:


    sono proprio i preti dell’Azione Cattolica e gli insegnanti democristiani nelle scuole i maggiori e più efficaci propagandisti del Neofascismo che, qui da noi, si identifica con l’irredentismo […]. Soltanto fingono di opporsi al neofascismo ma, in realtà, lo appoggiano, lo alimentano perché così conviene ai loro disegni irredentisti, perché così sperano di potere un giorno cingere di un’aureola di gloria patria il loro Alcide de Gasperi, che all’Italia dovrebbe restituire Trieste28.

    I movimenti indipendentisti erano, naturalmente, durissimi verso il governo italiano. Roberto Chiusi, l’inviato da Roma del “Corriere”, commentava in maniera molto critica i problemi e le questioni della politica italiana. Ad esempio il 29 maggio 1952, scrivendo di una manifestazione per il ritorno di Trieste all’Italia, organizzata dalla dc, affermava:

    Si era portati (vedendola) a pensare che l’Italia della Resistenza sia stata effettivamente posta, imbavagliata e legata ai piedi di De Gasperi, per essere sacrificata all’involuzione reazionaria che avanza a grandi passi29.

    Commentando la stessa manifestazione riferendosi agli attacchi democristiani al fascismo risorgente: «La serpe si è rivoltata contro chi l’ha riscaldata in seno e le sue tardive lacrime non convincono alcuno: è ormai troppo tardi»30. Infatti, le elezioni amministrative italiane avevano visto il consistente aumento del msi:

    Ma forse siamo noi soltanto degli ingenui che ci sforziamo ancora a credere che la Democrazia Cristiana e l’msi siano due cose distinte e non piuttosto due facce di un solo cadavere: quello di Mussolini31.

    Chiusi, così come tutta la redazione, avvalorava l’ipotesi che fosse stata la dc a permettere il ritorno, con l’msi, del fascismo e che, alla fine, fosse la stessa Democrazia Cristiana il vero neofascismo. Lo stesso pctlt veniva accusato di non comprendere il pericolo neofascista.
    Fra il “Corriere” e il partito di Vittorio Vidali, leader dei comunisti triestini, le accuse erano quotidiane: parlando dei voti ricevuti dai partiti nei vari rioni, “Il Corriere” rilevava come l’indipendentismo fosse presente in maniera omogenea sia nei quartieri ricchi che in quelli proletari, a differenza del pctlt presente solo in questi ultimi. E affermava che il partito di Vidali chiedeva il tlt in maniera esclusivamente strumentale. Tanto è vero che, un anno dopo, i due partiti indipendentisti avevano proposto al pctlt di mandare un memorandum congiunto all’onu per richiedere l’attuazione del tlt, ottenendo un secco rifiuto. L’indipendentismo era, constatavano i giornalisti de “Il Corriere di Trieste”, l’unico movimento veramente vicino al popolo, di qualsiasi classe sociale, e rispettoso della volontà dei propri elettori32. Infatti, più di una volta, gli indipendentisti avevano scritto che quasi tutti gli elettori che avevano votato per il pctlt l’avevano fatto per la volontà d’avere il tlt.
    Fra la primavera e l’estate 1953, Tito ripropose il “condominio”, ma gli indipendentisti lo rifiutarono sostenendo che Trieste e il tlt non erano di competenza italiana o jugoslava ma degli Alleati e, soprattutto, dei triestini33. Sempre a proposito del “condominio”, l’avvocato Mario Stocca, collaboratore del quotidiano e presidente del Blocco triestino, trattando delle varie vicissitudini di Trieste e del territorio limitrofo e delle proposte di risoluzione (attuazione del tlt; cessione all’Italia o alla Jugoslavia), si soffermava, appunto, sull’ultima proposta di Tito.

    La soluzione mediante il condominio, per quanto si mantenga nell’ambito del Trattato accettando la costituzione del tlt, rappresenta tuttavia una violazione dello stesso ed è sconsigliabile perché il nostro Territorio creato come ponte e terreno di pacifica convivenza fra le due nazionalità qui residenti, minaccerebbe di trasformarsi in una palestra di lotte politico-nazionali a tutto scapito della funzione del nostro emporio. Ma comprendiamo ed apprezziamo le ragioni che ispirarono tale proposta. I pericoli segnalati minacciano in prima linea ed in maggior grado noi stessi34.

    Il tono è molto conciliante. Sicuramente la stessa proposta proveniente dall’Italia avrebbe avuto ben altra risposta. Interessante notare come lo stesso Vidali affermasse: «gli indipendentisti hanno salutato con gioia la proposta del condominio fatta dal maresciallo Tito»35. In realtà, per gli indipendentisti il vero problema era la crisi economica.

    Pur confinando dal 1918 al 1941 con una Jugoslavia abulica, pur essendosi addentrata l’Italia in territorio sloveno e croato includendo nei suoi confini oltre mezzo milione di abitanti non italiani, l’Italia non è riuscita a ricondurre il porto di Trieste alla sua potenza di un tempo e ciò dopo ben venticinque anni d’esperimenti. Figuriamoci cosa potrebbe fare oggi senza il concorso di mezzo milione di slavi e con di fronte uno Stato non rassegnato a subire, ma deciso ad agire: in pochi anni Fiume soppianterebbe in pieno Trieste36.

    Il tema delle navi era ricorrente. In un volantino pubblicitario del Lloyd Triestino venivano indicate le tratte percorse dalle navi della compagnia: i porti di partenza erano Venezia e Genova, non Trieste. Questa era, almeno per “Il Corriere”, la prova di come la città giuliana venisse privata anche delle sue storiche società.
    «Non possiamo porgere la mano a nessuno fino a che si muore di fame in casa nostra»37. Questo, anche, perché spesso gli immigrati, sia esuli che italiani, venivano favoriti rispetto ai triestini per questioni elettorali. Infatti, era ovvio che dare lavoro a persone provenienti da fuori Trieste significava ottenerne l’appoggio politico. Il problema, per gli indipendentisti, era l’Italia: «Abbiamo voluto, analizzando le origini delle nostre difficoltà, anteporre la prima e la più grave: cioè la volontà precisa e fredda di impedire che Trieste riallacci i suoi traffici con l’entroterra»38.
    Oltre ai problemi economici c’era una fortissima carenza di alloggi dovuta alla guerra, alla presenza del contingente alleato e all’afflusso massiccio di esuli e immigrati. Carlo Tolloy era divenuto consigliere comunale proprio per occuparsi del problema degli alloggi (essendo il presidente dell’Associazione dei senzatetto triestini) e, spesso, presentò mozioni in tal senso: «far rispettare le disposizioni esistenti e quante altre occorrenti per assicurare la sistemazione dei senza-tetto di guerra di questo Comune con priorità su ogni altro richiedente»39. Il problema era che i fondi venivano assegnati da uno Stato, l’Italia, che aveva ancor più problemi da questo punto di vista. E, a molti triestini, sembrava che gli esuli e gli immigrati fossero avvantaggiati nell’assegnazione di un alloggio. Ancora adesso molti si lamentano di come, all’epoca, loro, cittadini “originari”, siano stati posti in secondo piano per motivi politici rispetto agli esuli e agli immigrati provenienti dall’Italia.
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    Predefinito Rif: L’indipendentismo triestino tra il 1945 e il 1954

    All’inizio di novembre 1953 si temevano scontri a Trieste in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della vittoria nella prima guerra mondiale; “Il Corriere di Trieste” titolava: In questi giorni a Trieste non accadrà nulla40. Invece il 5 novembre gli scontri vi furono e provocarono due vittime: un dodicenne e un vecchietto che passava per caso. “Il Corriere” non incolpava i poliziotti, che avevano sparato ad altezza d’uomo, ma chi, scientemente, aveva cercato, e ottenuto, il martire:

    i colpevoli sono coloro che con una tecnica antica quanto il mondo cercavano il morto e l’hanno ottenuto per incominciare a costruire sulle misere spoglie d’un adolescente ignaro e d’un vecchio pacifico le trame dei loro odiosi commerci, commerci che mirano a distruggere la nostra città, la nostra libertà, la nostra dignità umana41.
    Il giorno seguente, dopo che in piazza vi erano state altre quattro vittime, titolò: La scandalosa manovra a Trieste provoca la morte di altre quattro persone42, confermando come ritenesse che si fosse trattata di un’abile strategia per gettare dei morti sul tavolo delle trattative. Durante le manifestazioni, gli irredentisti avevano assaltato e distrutto la sede del Fronte dell’Indipendenza. Il generale John Winterton, comandante in capo del gma, aveva stimato in ventimila le duemila persone che, secondo il “Corriere” avevano partecipato alla distruzione: «forse con quella cifra il generale Wintertorn intende dimostrare che l’opposizione all’indipendentismo si è rafforzata in questi trenta giorni che vanno dall’8 ottobre a oggi? Se è così s’inganna […] l’indipendentismo è amore per la libertà: di conseguenza non ha bisogno di sedi o di associazioni»43.
    Anche Vidali veniva criticato perché, con le sue dichiarazioni anti-titine, avallava le attività irredentiste.
    Gli Alleati erano colpevoli perché, dalla Dichiarazione tripartita alla conferenza di Londra, avevano dato l’illusione di avallare le mire italiane non facendo poi nulla e, soprattutto, perché non avevano evitato sabotaggi e provocazioni da parte delle forze neofasciste e non avevano consentito a Trieste di affrancarsi economicamente dall’Italia44. Invece, al Consiglio comunale, gli indipendentisti non intervennero, anzi si unirono al cordoglio comune e, incredibilmente, non protestarono per la distruzione della sede del proprio partito.
    Ritenere che alle manifestazioni partecipasse solo una minoranza dei triestini e che gli scontri fossero dovuti esclusivamente a macchinazioni era, evidentemente, una visione parziale della situazione. Le manifestazioni, e le foto sono a dimostrarlo, erano assolutamente partecipate e anche ammettendo l’esistenza di piani destabilizzanti, di cui comunque non ci sono prove, certamente trovavano terreno fertilissimo nella popolazione triestina stanca dopo anni di occupazione alleata.
    Nell’estate del 1954 le trattative sembravano procedere speditamente verso la spartizione e a Trieste tutti, perfino i giornali irredentisti, erano spaventati. Così il “Giornale di Trieste”, portavoce degli irredentisti:

    I dirigenti triestini hanno anche richiamato l’attenzione degli organi centrali dei loro partiti sulla grave situazione economica di Trieste e sui riflessi che si determinerebbero a seguito dell’afflusso di nuovi profughi. A Trieste infatti i disoccupati sono attualmente 20 mila: ad essi si aggiungerebbero numerosi dipendenti del gma e i quindicimila nuovi profughi. Si raggiungerebbe così la cifra di quasi 40 mila unità prive di lavoro alle quali ci sarebbero da aggiungere i dipendenti della polizia45.

    L’articolo del “Giornale”, citato dal “Corriere”, rappresentava una vittoria morale per gli indipendentisti. Da anni ripetevano che Trieste non avrebbe potuto sopportare nuovi profughi e che quelli presenti già erano troppi.
    Dal 15 luglio partì una serie di articoli intitolati La storia di nove anni ha dato ragione all’indipendentismo, per dimostrare come le idee del giornale, e dei partiti indipendentisti, si fossero dimostrate giuste. Al “Corriere” ormai sapevano che Trieste sarebbe, presto, tornata all’Italia. Ritenevano che i responsabili maggiori fossero

    i cosiddetti “Grandi”, e particolarmente Stati Uniti e Gran Bretagna che si sono assunti l’obbligo di amministrare e tutelare gli interessi e la libertà degli abitanti della Zona A del tlt per conto delle Nazioni Unite, le quali a loro volta sono ancor più responsabili, in quanto non hanno avuto l’energia di stroncare fin dall’inizio, l’azione disfattista di coloro che, ancora prima della stipulazione del Trattato di Pace con l’Italia, operavano nel senso di farlo fallire46.

    Considerazioni che denunciavano una mancanza, probabilmente voluta, di senso della realtà: le Nazioni Unite non avrebbero mai potuto attuare i deliberati del trattato di pace se due paesi così importanti si fossero opposti. Anche perché Stati Uniti e Gran Bretagna erano quelli preposti ad attuarli.
    Gli indipendentisti, addirittura, accusavano Stati Uniti e Gran Bretagna di antidemocraticità, di uso strumentale dei trattati e di tradimento nei confronti delle Nazioni Unite che, per statuto, avrebbero dovuto difendere le nazioni più piccole di fronte ai soprusi.

    Il Fronte dell’Indipendenza, dinanzi all’azione senza scrupoli dei governi di Gran Bretagna e degli Stati Uniti d’America ed alla passività del Consiglio di sicurezza dell’onu trae l’impressione che stia prevalendo la tesi della forza cara al nazismo ed al fascismo di Hitler e Mussolini, tesi che stracciava a comodo i trattati e le convenzioni internazionali47.

    Il gma veniva accusato perché aveva fatto poco per fermare il nuovo fascismo. «Sotto questo compiacente governo del gma la malapianta fascista è stata non solo lasciata, ma aiutata a crescere e svilupparsi»48.
    Va detto, comunque, che “Trieste-Sera” era, e l’abbiamo letto, molto più critico e aggressivo verso il gma e gli Alleati di quanto lo fosse “Il Corriere” che, spesso, era accusato addirittura di esserne il portavoce. Ovviamente non solo gli Alleati erano colpevoli verso gli abitanti del tlt:


    sono pure responsabili gli esponenti di quei Partiti politici locali ed i Governi che li sostenevano per mantenere questa Regione […]. Certamente su tutte queste persone grava un’immensa responsabilità, poiché non è facilmente perdonabile che dei capi, chiamati a dirigere partiti politici o associazioni economiche, sbaglino così grossolanamente, non qualche volta – come può accadere a chiunque – ma per parecchi anni consecutivi, e ciò malgrado altre voci si fossero levate in tempo per denunciare il pericolo49.
    «Sicché – concludeva un altro articolo – il primo risultato della lotta condotta contro l’indipendentismo s’è risolto con la perdita definitiva di quasi tutta l’Istria»50. Economia, tradizioni, pace, antifascismo e, soprattutto, antirredentismo. Le tematiche dell’indipendentismo sono tutte qui. Temi rilevanti che, però, non consentirono di opporsi al ritorno di Trieste all’Italia né di mantenere un ruolo attivo dopo il 26 ottobre 1954.
    Il Consiglio comunale si riunì solo il 26 novembre e, quindi, nessun consigliere indipendentista poté esprimersi contro la riunificazione. Solo Giampiccoli dichiarò che, pur nelle nuove condizioni politiche, per gli alloggi e il lavoro bisognava privilegiare sempre i triestini. Fu la fine. Alle elezioni seguenti nessuna lista indipendentista per errori procedurali, forse non casuali, poté candidarsi.
    L’esperienza indipendentista e autonomista non finì, però, con il 1954. Negli anni successivi, liste cittadine riuscirono addirittura a ottenere la maggioranza dei voti ma, ormai, erano altri tempi e i “nuovi” indipendentisti erano spostati su posizioni più di destra. L’indipendentismo romantico e disperato, anche se foraggiato probabilmente da Tito, finiva così come spariva, il 27 maggio 1955, il più noto, oggi, e originale indipendentista triestino: Fabio Cusin.

    Fabio Cusin: tra indipendentismo e anti-Italia

    Gli indipendentisti sono, come abbiamo visto, nomi dimenticati dalla storiografia e, ovviamente, dal grande pubblico. Soltanto uno di loro è, in ambito accademico, conosciuto: Fabio Cusin. Non per l’attività politica o per quella giornalistica51 ma per le sue attività di storico e di polemista.
    Nato nel 1904, nel 1930 aveva pubblicato un volume intitolato Appunti alla storia di Trieste52. Opera dal contenuto, e dal titolo, significativi per capire il Cusin polemista e indipendentista del dopoguerra. In effetti, il titolo era già particolare: «quasi che ci fosse stato qualcosa da rimproverare alla storia della città»53. Si trattava di un approccio diverso rispetto alla storiografia imperante. Cusin riteneva che parlare di una Trieste autonoma fosse «un concetto del tutto campato in aria»54. Infatti Trieste non avrebbe potuto vivere senza rapporti culturali ed economici con i paesi e le culture limitrofi. Considerando che quindici anni dopo Cusin sarà lo storico dell’indipendentismo, queste affermazioni potrebbero risultare sorprendenti, ma anche durante la militanza nel Blocco triestino dirà in sostanza la stessa cosa. Il problema era per lui l’incapacità della borghesia cittadina di unire il suo radicato particolarismo a un sentimento nazionale maturo. Se poi il “sentimento nazionale” si sposava con il fascismo è evidente come Fabio Cusin potesse guardare all’irredentismo dei primi anni del dopoguerra come a un erede dell’ideologia mussoliniana. Comunque gli anni Trenta saranno fecondi di opere, elogi e opportunità per il giovane storico triestino. Negli studi di quegli anni si possono trovare tematiche che torneranno nella sua esperienza politica. Parlando della Trieste settecentesca, scrisse che era il luogo «nel quale tuttavia i mercanti di diverse provenienze finivano per unificarsi nel denominatore comune di una cultura e di un costume tipicamente italiani»55.
    Nel 1937 pubblicò, dopo una serie di opere su vari argomenti, Il confine orientale d’Italia nella politica europea del XIV e XV secolo56, l’opera considerata il suo capolavoro. Nel frattempo aveva cominciato a insegnare in vari atenei italiani. In un concorso per l’assegnazione di una cattedra a Trieste nel 1940 l’intervento del segretario federale del pnf fece sì che Cusin non ottenesse quel posto per il quale la commissione esaminatrice lo aveva giudicato idoneo. Da quel momento, evidentemente, qualcosa si ruppe: all’avversione per il fascismo, presente ma non espressa, si aggiunse l’intolleranza verso il mondo accademico italiano.
    Nel 1943 Cusin scrive l’Introduzione allo studio della storia57. Già nella premessa afferma di aspettarsi critiche negative – e ne avrà in effetti da Chabod – perché la «cultura [è] tradizionalmente conformista ed accademica, abituata a discutere su luoghi comuni fondati su taluni spunti critici più in voga nell’ambiente nazionale e [...], per pigrizia incurabile, non ama sentire voci discordanti»58. Il libro non poteva essere compreso da chi «ama di più il proprio stesso spirito»59 rispetto alla verità storica.
    Tra il settembre 1943 e il dicembre ’44 Cusin scrisse la sua opera più famosa: l’Antistoria d’Italia60, pubblicata soltanto nel ’48 per l’ostruzionismo di Federico Chabod, a cui la giurerà. Infatti in una lettera a Giulio Einaudi, lo storico valdostano scrisse:

    anche per il Cusin, più ci penso e più mi si affacciano dei dubbi: bisognerebbe proprio che rivedesse alcune parti e, soprattutto, che attenuasse certo furor polemico di carattere puramente personale61.

    L’Antistoria sarà poi pubblicata nel 1948 grazie all’intervento di Carlo Muscetta. Quella di Cusin era un’opera completamente estranea al contesto storiografico del periodo. Polemica e aspramente critica della moralità italiana e della cultura accademica. La storiografia italiana veniva definita incapace, perché vile, di scrivere onestamente la storia del proprio tempo: «la storia la saprà scrivere solo quando i potenti di domani gli avranno indicato le rime obbligate da seguire»62. Cusin analizzava la cultura e la morale degli italiani e della loro storia. La sua analisi aveva una serie d’implicazioni a livello cittadino e personale. Si trattava, cioè, di scoprire «il significato ultimo dei termini Trieste ed Italia nonché del loro rapporto reciproco, sotto la specie non già tanto di problema politico, quanto di problema esistenziale di vita o di morte»63. E, aggiungerei, di scoprire il proprio ruolo nella città e nel paese: ruolo che riteneva essere quello di una Cassandra moderna. Con una differenza: lui non era creduto volutamente.
    L’Antistoria d’Italia analizzava la storia italiana arrivando a una conclusione: il fascismo non era stato un fenomeno estemporaneo o imposto, il fascismo era il prodotto del carattere nazionale italiano, oltre che di una mancata rivoluzione democratica. In questa considerazione Cusin si discostava da un filone di storici, Croce in primo luogo, che affermavano esattamente il contrario. Mentre si riallacciava in parte a Piero Gobetti e al filone di coloro che Renzo de Felice ha definito gli eterodossi (Carlo Rosselli, Giuseppe Donati, Mario Bergamo tra gli altri)64, coloro che, durante il ventennio, dall’esilio giudicavano il regime come una malattia propriamente italiana. Carlo Rosselli, il più importante di essi, infatti scriveva:

    Non bisogna credere che Mussolini abbia trionfato soltanto con la forza bruta. Se ha vinto, è anche perché egli ha saputo abilmente toccare certi tasti a cui la psicologia media degli italiani era straordinariamente sensibile. Il fascismo è stato, in certa misura, l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell’unanimità, che rifugge all’eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia e dell’entusiasmo65.

    Fabio Cusin fu, probabilmente, l’unico storico a dare un giudizio fortemente positivo dell’esperienza dell’Aventino. Questo perché lo storico giuliano già riteneva che soltanto l’estraniarsi da una realtà desolante fosse degno di uno spirito libero.
    Per lui era il carattere degli italiani la causa di tanti lutti. Un popolo vile e imbroglione non poteva, né avrebbe potuto, certo, formare uno Stato civile. Infatti, riferendosi a Mussolini, Cusin scriveva: «né si accorgerà di sommergere la presunta élite entro la stessa massa accidiosa disonesta che investe da ogni parte, sormonta e sommerge ogni possibilità costruttiva»66.
    Arduino Agnelli, autore dell’introduzione all’Antistoria edita da Mondadori67, affermava che la storiografia seguente a quella dei primi anni del dopoguerra doveva moltissimo a Cusin che, pure, non veniva mai citato. Ma aggiungeva che la teoria dello storico triestino, che vedeva nell’imbastardimento, durante l’impero romano, dell’originaria popolazione italica ad opera di popolazioni vili la causa dello scadimento morale degli italiani non era, in realtà, molto lontana dal razzismo.
    Sia con l’Antistoria che con L’Italiano. Realtà e illusioni68, che del primo è un po’ la conclusione, pur essendo stato pubblicato prima, Cusin abbandonò il ruolo di storico “puro” per trasformarsi in critico: critico della storia, critico della morale, critico del carattere e della storiografia. Paolo Alatri ne descriveva bene il lavoro: era da apprezzarne la capacità di guardare in faccia i problemi italiani e di svelare le mistificazioni di parte della storiografia nazionale ma, altresì, da criticarne l’eccessiva passionalità che lo portava a perdere il senso della misura69. Considerazione condivisa anche da Giovanni Spadolini70.
    Ne L’Italiano, Cusin identificava il fascismo come l’esito naturale delle vicende pre e postunitarie. Una rivoluzione dei costumi e della morale riteneva fosse ancora, nonostante il pessimismo, possibile a patto di rompere con la classe politica incapace e criminale che, però, Cusin riteneva essere lo specchio fedele della popolazione.
    Gli italiani, ignorando (volutamente) il loro ruolo sociale, erano, e sarebbero stati, facilmente vittime di pregiudizi e di imposizioni mentali. Le più gravi, naturalmente: credere nel proprio valore e nella propria virtù, negando quella degli altri, nonché nella funzione morale della Chiesa. A farne le spese erano tutti quelli che, come Cusin, osavano concepire un’idea nuova: chi si fosse arrischiato a farlo – scriveva – «sarà prima di tutto incompreso perché non ascoltato, poi frainteso e giustamente sospettato essendo venuto meno alle regole del gioco»71.
    Nel 1946 Cusin pubblicò La liberazione di Trieste. Contributo alla storiografia non nazionalista di Trieste72, un’antistoria della propria città e dei propri concittadini. Esistevano, per Cusin, due tipologie di triestini: il borghese italiano, irredentista e para-fascista, e il proletario slavo comunista e filotitino. Ne conseguiva che «tutta la parte sanamente italiana è prigioniera dei fascisti borghesi e la parte sanamente comunista è prigioniera dei nazionalisti slavi»73. I letterati italiani, in maniera diversa, avevano spinto le coscienze dei triestini prima verso l’irredentismo e poi verso il nazifascismo, sua naturale derivazione. Fare affermazioni del genere significava, ovviamente, isolarsi ed essere avversati.
    Sia L’Italiano che La liberazione vennero pubblicati, in parte, su “Il Corriere di Trieste” di cui Cusin era diventato collaboratore. Ormai l’opera storica era diventata tutt’una con quella politica che ormai si identificava con l’indipendentismo.
    Il 1952 fu un anno importantissimo per lo storico triestino, che dal 1950 era professore straordinario a Urbino74. Pubblicò L’Italia unita75 e venne eletto nel Consiglio comunale di Trieste.
    L’introduzione de L’Italia unita era un attacco frontale, e definitivo, alla storiografia “ufficiale” e a Chabod, in particolare.

    pochi mesi fa ne abbiamo avuto una meravigliosa prova nel volume di Federico Chabod che certo farà testo per molti anni in un’Italia vuoi gesuitica, vuoi parademocratica, vuoi comunista, dato che l’autore, giustamente preoccupato di mettere al riparo la propria persona e la propria sacrosanta carriera, si è incidentalmente dimenticato della sostanza del giudizio storico!76
    Attacco durissimo e disperato a una storiografia che vedeva come nemica e a una realtà accademica che gli appariva emblematica dei mali italiani.
    Da questo sentimento nacque anche la decisione di candidarsi nelle fila del Blocco triestino mentre proseguiva costante la collaborazione con “Il Corriere di Trieste”.
    Alle elezioni amministrative del 25 maggio 1952, il Blocco triestino ottenne il 2,51% dei voti e un solo consigliere: Fabio Cusin.
    Durante la campagna elettorale Cusin espresse quelle idee che portava avanti sia negli articoli sul “Corriere” che nelle opere storiche: Trieste sarebbe dovuta rimanere indipendente per mantenere il suo ruolo d’attrazione e di mediazione tra la cultura italiana, quella balcanica e quella tedesca. Riteneva che la città avrebbe perso, se nuovamente oppressa dalle imposizioni romane e del Vaticano, il suo ruolo di mediatrice, il suo carattere localista, il suo essere porto della Mitteleuropa, la sua vocazione di centro culturale. Soprattutto: «l’indipendentismo è proprio di chi vuole la libertà»77.
    Trieste poteva essere una città italiana solo se non oppressa dal “regime” romano, un regime da individuare non solo nel fascismo mussoliniano, ma anche in quello dei potentati economici ed ecclesiastici che volevano sfruttare la città staccandola dal suo entroterra per interessi pericolosamente nazionalistici.
    Una parte importante dell’attività politica, giornalistica e storica di Cusin fu diretta contro quello che riteneva essere il nuovo fascismo: la dc, mons. Santin, Ermanno Cammarata, rettore dell’università di Trieste e i giornalisti del “Giornale di Trieste” con in testa Rino Alessi, il direttore.
    Gli attacchi ai “neofascisti” democristiani erano portati soprattutto dalle colonne del “Corriere di Trieste”. Cusin, nella sua rubrica Sette giorni nel mondo, si scagliò spesso, ad esempio, contro la maggioranza comunale, e il sindaco Bartoli in primis, riguardo al problema del naviglio. Riteneva che i politici irredentisti triestini fossero talmente succubi di Roma da augurarsi la bancarotta per costringere gli Alleati a cedere la città.
    La Chiesa e il clero erano oggetto di attacchi durissimi. Cusin riteneva che l’ingerenza religiosa nella vita politica italiana e triestina fosse causa del carattere bigotto che permeava la società. Inoltre, spesso, i membri della curia triestina, mons. Santin in testa, si erano espressi per il ritorno della città all’Italia fomentando, secondo Cusin, il sentimento irredentista, quindi fascista, dei triestini.
    Spesso, così come gli altri consiglieri indipendentisti, Cusin presentò interrogazioni e mozioni per cercare di risolvere la questione degli alloggi. Due erano i problemi: la dipendenza, sull’argomento, del gma dal governo italiano e la presenza massiccia di «presunti esuli» che, per interessi politici, venivano favoriti rispetto ai triestini.
    Talvolta le accuse alla maggioranza si rivelavano incaute e, quindi, Cusin si trovava esposto a reazioni molto dure. Spesso, e l’abbiamo già visto nell’ambito storiografico, lo storico triestino si lasciava guidare più dalla vis polemica che dal ragionamento. Sempre nel 1952 pubblicò Venti secoli di bora sul Carso e sul Golfo78. Nella prefazione era riportata una lettera scritta a Umberto Saba, dove possiamo trovare descritto il metodo storico e rappresentata la disperazione di Cusin:

    la storia non può essere poesia né sogno, ma cruda e talora urtante realtà atta ad allietare solo coloro che al sonno hanno rinunziato […]. Perché mi pare che la questione sia proprio questa: liberarsi dal sogno significa anche liberarsi dal passato confezionato dalla nostra pseudocoscienza collettiva che vorrebbe mostrarci le cose come fa più comodo al nostro equilibrio79.

    Gli interventi al consiglio comunale si fecero sempre più rari, sia per gli impegni accademici a Urbino sia per la malattia che poi l’avrebbe ucciso; tuttavia l’attività giornalistica proseguiva assiduamente. Parlando del nazifascismo, Cusin scrisse che era una mentalità insita nel carattere tedesco e italiano, quindi un possibile ritorno di movimenti totalitari non sarebbe stato una sorpresa.
    Nella primavera del ’53 la rubrica cambiò nome in La settimana. Cusin divenne sempre più pessimista: commentando le primarie americane scrisse di sentirsi piccolo e inutile di fronte alla grandezza economica e militare degli Stati Uniti. Nel mondo la potenza del denaro, ormai, era molto più importante di quella della cultura e della ragione80. Inoltre, commentando la Nota bipartita disse che gli Alleati non avevano considerato il carattere di Trieste: italiana per lingua e cultura, viva, però, solo se in un contesto internazionale. Con le concessioni all’Italia, l’attuazione del tlt veniva impedita e la libertà e la pace erano messe in pericolo81.
    Riguardo agli scontri del novembre ’53, al Consiglio comunale Cusin disse che, oltre a dover piangere i morti, bisognava darne la colpa non solo alla polizia. Gli animi erano ormai esausti dopo otto anni di governo militare; erano infiammati dalla retorica irredentista e, spesso, gli scontri erano stati fomentati criminalmente da interessi di parte. Era giusto voler sventolare la bandiera italiana (proprio l’averlo impedito aveva scatenato la protesta italiana), ma non a scapito di quella rosso alabardata82. Sul “Corriere” fu molto più duro. Colpevoli non erano solo i partiti e gli Alleati, colpevoli erano le famiglie dei manifestanti: avrebbero dovuto tenere i figli a casa; avrebbero dovuto opporsi, proprio per amore verso i congiunti, alla creazione del clima d’odio e risentimento che, fatalmente, aveva portato alla tragedia83.
    Il 30 aprile del ’54 Cusin partecipò per l’ultima volta a una seduta del Consiglio. Il 3 ottobre ’54 rinfacciò, dalle colonne del quotidiano, agli Alleati di non aver fatto tornare, insieme a Trieste, l’Istria all’Italia, sancendo così definitivamente la separazione tra la città e il suo naturale entroterra. E poi Trieste italiana avrebbe significato dare forza e prestigio alle posizioni nazionaliste e suscitare tensioni sempre maggiori tra italiani e slavi84.
    Il 27 maggio 1955 Fabio Cusin si spegneva a Trieste dove si era fatto trasferire, pochi giorni prima, per morire nella propria città.
    Come testamento rimane, credo, un articolo del 30 maggio 1954. Un articolo che era la summa della sua vita politica, giornalistica, accademica.

    Triste cosa portare la morale nella politica, triste cosa portare i nostri sentimenti di fronte alla realtà, dove esiste gente che gioca con i sentimenti altrui. E se ne fa scalino per salire o se ne fa beffe, a seconda dei casi. Gente che non prende posizione se non ha le spalle al sicuro e si meraviglia che ci siano ancora i “fessi” che ci credono. Ma noi, poveri fessi, noi che amiamo la nostra città e la guardiamo morire giorno per giorno sotto il tallone di ferro di gente che non l’ama, ma l’odia, ed a noi ci trova tanto incomodi perché abbiamo il brutto vizio di amare la verità e la giustizia; né possiamo fare a meno di rispettare il popolo che un giorno chiedesse pane e giustizia… Che la risposta è sempre la stessa: al più ti daremo un po’ di salato, amarissimo pane, al patto che tu rinunzi alla giustizia, anzi tu sia disposto a plaudire all’ingiustizia eretta a sistema politico, morale e religioso. Sissignori, anche religioso85.
    L’indipendentismo triestino tra il 1945 e il 1954 di Emanuele Merlino

 

 

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