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Visualizza Versione Completa : La Cittadella 41-42



GBC1977
14-03-11, 19:44
Da oggi disponibile il numero doppio 41/42 de 'La Cittadella'.

La rivista può essere ordinata inviando un messaggio di posta elettronica a lacittadella@email.it.

A seguire il sommario:


http://www.lacittadella-web.com/images/copertine_citta/citta41_42.png


LA CITTADELLA


Quaderni di studi storici e tradizionali romano-italici
Fondatore Salvatore C. Ruta

Anno XI, nuova serie, n° 41-42, MMDCCLXIV a.U.c.,gennaio-marzo/aprile-giugno 2011 e. v.

Numero speciale dedicato a

IL NOSTRO 150°
Risorgimento e Romanità




Sommario

Editoriale / Il ‘nostro’ 150°, Sandro Consolato

Auctores / Strabone: L’Italia (a cura di LC)

STUDI E RIFLESSIONI

Le misteriose radici del Tricolore d’Italia, Renato del Ponte

1911. L’archetipo di Roma Aeterna e le celebrazioni del 50° dell’Unità, di Federico Gizzi

Giovanni Pascoli e l’Inno a Roma per il Cinquantenario del Regno d’Italia, Gennaro D’Uva

Inno a Roma, di Giovanni Pascoli

Garibaldi e la Tradizione di Roma, Achille Ragazzoni

L’eredità difficile. Fortuna e ricezione di Mazzini nell’Italia post-unitaria (1872-1945), Giovanni Damiano

La riscoperta degli Etruschi e il Risorgimento dell’Italia, Mario Enzo Migliori

Postilla del Direttore: Una Alighieri tra cospirazioni e scavi, SanCo

Umberto Eco nel Cimitero di Praga, Piero Di Vona

Pomponio Leto e i Sacerdotes Achademiae Romanae. Elogio e difesa del Pontifex Maximus degli Umanisti romani, oltre le menzogne e le infamie, Mario Giannitrapani

Congedo meridionale

GBC1977
14-03-11, 19:45
***** EDITORIALE *****

IL ‘NOSTRO’ 150°


Noi non abbiamo aspettato il Centocinquantenario della nascita dello Stato nazionale unitario per parlare del Risorgimento. E, soprattutto, per parlarne positivamente. “La Cittadella” si è particolarmente distinta, in questi ultimi dieci anni, nel sottolineare i legami, palesi ed occulti, che legano le tre R della nostra storia: Romanità, Rinascimento, Risorgimento. Anche il nostro sito internet La Cittadella tradizione romano-italica • Indice (http://www.lacittadella-web.com/forum/) ha svolto e svolge un’opera, addirittura giornaliera, di richiamo al Risorgimento come momento ‘resurrettivo’ di una identità e di una dignità nazionali che trovavano nel più nobile passato d’Italia le loro più profonde giustificazioni, la loro linfa vitale.
Giusto ci pare ricordare che nella storia degli ‘studi tradizionali’ si cominciò a rivalutare il Risorgimento con un importante saggio dal titolo Ghibellinismo dantesco e tradizione italica, a firma Jacopo da Coreglia (pseudonimo di Piero Fenili), apparso nel 1979 sulla rivista “Arthos” di Renato del Ponte. Il tema fu approfondito, con una dettagliata critica ai tradizionalismi guelfi e antiunitari, dalla rivista siciliana “Il Ghibellino” (1979-1983), venne poi ripreso, con una accentuata critica alle visioni storiche di Julius Evola, sul periodico “Ignis” (1990-1992) e quindi sui quaderni di “Politica Romana” (fondati nel 1994 da Piero Fenili e Marco Baistrocchi): qui soprattutto ad opera di chi ora cura “La Cittadella”, quest’ultima essendo peraltro l’unica pubblicazione dell’area ‘tradizionale’ che dedichi un numero monografico al 150° dell’Unità.
Si è trattato di un percorso non facile, perché gli ‘studi tradizionali’ sono per definizione centrati su una visione del mondo e della storia ispirata a quella delle civiltà antiche, hanno in proprio un elemento di ‘antimodernità’ ora più ora meno pronunciato, ma in qualche modo irrinunciabile, poiché tanto gli orizzonti metafisici quanto quelli etico-politici del ‘tradizionalismo’ non sono quelli che la ‘modernità’ ritiene ‘normali’. Si trattava dunque proprio di confrontarsi con la ‘modernità’ e di essere capaci di ritrovare, in tutto il processo di fuoriuscita dal Medioevo della storia italiana (col Rinascimento prima e col Risorgimento poi), gli elementi che, rivestiti o accompagnati da forme ed ideologie ‘moderne’, fossero in realtà testimonianza della durevole forza dell’‘antico’: l’antico sapienziale (la sophia) e l’antico etico, civile e militare (la virtus). Insomma, occorreva capire quella verità che Giovanni Pascoli (un poeta ispirato presentissimo in questo nostro lavoro) espresse in tali versi del suo Inno secolare a Mazzini: “E disse alcuno dei centurioni: / – Pianta l’insegna: ottimo è qui restare. – / Nuovo era solo il rombo dei cannoni” .
Oggi, dopo tante fatiche, di più studiosi, di più gruppi, di più riviste, molte cose sono più chiare, molte vedute che sembravano certe si svelano fragili, e, già passeggiando in internet, vedi che tanto il Rinascimento quanto il Risorgimento entrano nel patrimonio ideale di quegli stessi ambienti politici che li avevano espunti dal loro orizzonte ideologico fin dagli anni ’70.
Ma la società italiana, giunta ai 150 anni dello Stato nazionale, sembra compiere un cammino inverso: tiepido è il Governo nel celebrare la ricorrenza, ostile s’è detta la Confindustria alla (ci si scusi il bisticcio di parole) festività della festa, diffusa in larghi strati dell’opinione pubblica, soprattutto settentrionale, meridionale e insulare, l’idea che l’Unità sia stata un errore o un fallimento, per certuni addirittura un crimine. Uno degli attuali partiti di Governo – è bene non dimenticarlo – ha ancora oggi nel suo statuto il dichiarato obiettivo della secessione e ha votato contro la celebrazione del 17 marzo.
Noi riteniamo corretto e opportuno che si conoscano tutti i limiti, anche gravi, del processo di costruzione dello Stato unitario, che si rifletta su errori ed orrori di tutti i 150 anni della nostra storia. Ma ciò come parte di un processo di purificazione che deve fare ritrovare le ragioni profonde, antiche e spirituali, dell’Unità, e con esse, perché così è giusto che sia, anche le buone motivazioni pratiche (anche quelle legate agli aspetti del vivere e sopravvivere quotidiano delle famiglie italiane) della positività del rimanere uniti e del rivendicare con orgoglio il sacrificio di chi combatté prima per l’Italia una e poi (come si disse) “per la più grande Italia”.
In questo nostro lavoro ci siamo mantenuti quanto più possibile lontani dalle polemiche col fronte antirisorgimentale. Ci interessava operare più per affermazioni, per evidenze simboliche, storiche e artistiche, che per negazioni, per antitesi. Il messaggio che abbiamo voluto trasmettere, come pubblicazione “di studi tradizionali e storici romano-italici”, è quello che nel Risorgimento agì in modo non superficiale una forte ‘memoria dell’antico’, memoria di Roma e dell’Italia antiche. L’antichista tedesco Theodor Mommsen ebbe a scrivere nei suoi Römische Geschichte (1854) che “ciò che si è abituati a chiamare l’assoggettamento d’Italia da parte dei Romani, risulta piuttosto come la unificazione di tutta la stirpe (Stamm) degli Italici in uno stato solo”. Il Risorgimento operò la ri-unificazione di ciò che i secoli post-romani avevano diviso e, da questo punto di vista, date come il 20 settembre del 1870 o come il 4 novembre del 1918 appaiono certamente più significative di quella del 17 marzo 1861, la cui valenza fondamentale è però quella di segnare, con la proclamazione del Regno d’Italia da parte del primo Parlamento nazionale riunito a Torino, l’atto costitutivo dello Stato, del primo Stato italiano e non regionale della nostra storia.

È convinzione ragionata di tutti coloro che hanno scritto per questo numero de “La Cittadella” che il movimento indipendentista e unitario ebbe una sua ‘anima segreta’, che traeva alimento dal più antico retaggio spirituale, precristiano, della Saturnia Tellus (come già in antico venne detta l’Italia), ma anche che, comunque, la stessa secolare presenza tra gli Italiani di una cultura letteraria, monumentale, artistica legata al mondo italico-romano e greco-romano favorì, createsi determinate condizioni storiche, soprattutto quelle connesse con lo sconquasso portato in tutta Europa dalla Rivoluzione francese e da Napoleone, il volgersi decisamente verso la lotta per la libertà e l’unità nazionali di un numero via via crescente di Italiani, pur differentemente orientati politicamente (monarchici e repubblicani, liberali e democratici, centralisti e federalisti) e perfino religiosamente (cattolici e valdesi, massoni e ‘liberi pensatori’ ed ebrei), ma tutti fortemente convinti che l’Italia dovesse tornare ‘una’, e moltissimi certi che – come finalmente ebbe ad affermare Cavour nel suo testamento politico del 25 marzo 1861 – in Roma la stessa Italia dovesse individuare la sua naturale capitale, poiché lì concorrevano “tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente aldilà del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato”.
Esiste, per chi sa leggerlo, un fato dei popoli e delle città, per cui, ne siano consapevoli o meno gli stessi protagonisti ufficiali della storia, certe cose si manifestano in modo sapientemente significativo. Quando Roma divenne anch’essa, sicut erat in votis, italiana, si trasferì qui anche il Parlamento. E la scelta per la Camera dei Deputati cadde sul palazzo di Montecitorio. Ma questo aveva, ha sede nell’antico quartiere del Campo Marzio, e proprio là dove era l’area in cui gli antichi Romani svolgevano le assemblee elettorali, al mons Citatorius. Il ‘caso’ volle che il 27 novembre 1871, allorché Vittorio Emanuele II inaugurò a Roma il Parlamento, fu visto in pieno giorno il pianeta Venere, di solito visibile solo prima del nascere del Sole o dopo il tramonto di questo. La stella brillava sul Quirinale e “il popolo diceva che la stella d’Italia illuminava il trionfo delle idee unitarie” (v. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi,Torino 1975, vol. I, p. 254). Ma quella Stella non è che l’antico sidus della Gens Julia, di Enea, di Cesare, di Augusto; ed è la stella di quella ‘Salute’ che lega con un filo rosso la sapienza italica di Pitagora a quella di Dante.

Abbiamo fatto una precisa scelta di campo storiografica. Come ben sapranno i più eruditi tra i nostri lettori, già subito dopo l’Unità ci si chiese quale fosse la data effettiva di inizio del Risorgimento. Noi abbiamo scelto l’anno stesso in cui apparve per la prima volta pubblicamente il simbolo del Tricolore, cioè il 1794. Ciò ci porta più indietro rispetto anche a chi pone la data d’inizio al 1796, e quindi fa partire il Risorgimento dal cosiddetto “Triennio giacobino” (Triennio a cui oggi, seguendo lo storico Alberto Mario Banti, riteniamo sia più appropriato dare il nome “di Triennio repubblicano – in riferimento al tipo di istituzioni introdotte nella penisola – o di Triennio patriottico – utilizzando il termine che l’avanguardia politico-intellettuale usava per designare se stessa” (Il Risorgimento italiano, Roma-Bari 2004, p. 8 n. 2). Renato del Ponte ha esplorato la rivolta bolognese antipontificia del 1794 segnata dall’apparizione della coccarda tricolore, e ha gettato, con il sapere di antichista e medievista che lo contraddistingue, quanta più luce possibile sulle radici effettive del Tricolore (non riconducibili ad una mera imitazione del tricolore francese come vorrebbe una vulgata consolidata, sia pro che antirivoluzionaria), la scelta del quale come simbolo della risorta Nazione italiana conferma il carattere ‘indigeno’ del ‘cuore’ del Risorgimento nonché la lunga durata, nella storia d’Italia, della memoria, conscia e inconscia, degli archetipi primigenii della Saturnia Tellus.
La presenza di tali archetipi viene evidenziata da Gennaro D’Uva nello stessoInno a Roma che Giovanni Pascoli scrisse per il primo cinquantenario del Regno d’Italia. Si ebbero allora, nel 1911, dei festeggiamenti veramente degni di una grande Nazione e di rilevanza internazionale, tali da fare oggi apparire chiaro che se una “Italietta” v’è mai stata, non era quella del giovanissimo Regno ma è piuttosto questa della senescente Repubblica: Federico Gizzi segnala soprattutto, degli eventi del 1911 (dall’inaugurazione del Vittoriano alle Mostre fino alle monete e ai francobolli), il sentimento della propria romanitas che la Terza Italia uscita dal Risorgimento volle trasmettere a se stessa ed al mondo.
Il mito della “Terza Roma” e della “Terza Italia” (dopo quelle dei Cesari e quelle dei Papi) fu veicolato soprattutto dal pensiero di Giuseppe Mazzini, e nell’azione di Giuseppe Garibaldi quel mito trovò ad un tempo la forza per rendersi quanto più popolare possibile da un lato e, dall’altro, per poter divenire una realtà attraverso l’accordo con la dinastia dei Savoia, senza la quale difficilmente le potenze straniere avrebbero accettato una ‘presa di Roma’ (se il 1849 fu epico ed il 1870 prosaico, e pur vero che un secondo ’49 non sarebbe stato ammesso da nessuna potenza straniera). Di Garibaldi traccia un profilo vivo, originale e nostro Achille Ragazzoni, che è sicuramente il primo studioso di originaria formazione ‘tradizionalista’ ad essersi, per proprio autonomo percorso, accostato allo studio appassionato del Risorgimento e in particolare del garibaldinismo, curando più biografie e testi di ‘camicie rosse’ e divenendo amico dello stesso Giuseppe Garibaldi, figlio di Ezio (il “Garibaldi fascista”, come a volte si scrive). Di Mazzini si è scelto di indagare la “difficile eredità” lasciata nelle famiglie politico-culturali del nostro Paese: lo ha fatto Giovanni Damiano, con il suo consueto rigore storico e filosofico, mostrando come di Mazzini fossero possibili più letture e quali siano state privilegiate nella destra e nella sinistra italiane. L’articolo può essere anche un’occasione per interrogarsi sull’attualità di Mazzini e se la ‘trasversalità’ ideologica del Genovese possa offrire qualche buona idea per il nostro presente.
Nel dicembre 2010 abbiamo inviato Mario Enzo Migliori, il nostro ‘etruscologo’, al Convegno di Orvieto su “La Fortuna degli Etruschi nella Costruzione dell’Italia Unita”. Pochi nostri connazionali conoscono le relazioni intercorse tra nascita dei moderni studi archeologici in Italia e movimento risorgimentale, ma già Federico Chabod aveva segnalato come “veramente certi ricordi classici, certi entusiasmi di archeologi e letterati costituivano uno dei legami che tenevan, in allora, strette insieme le varie parti d’Italia, da tante altre questioni tuttora divise” (Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari 1951, vol. I, p. 302). Il risveglio dell’archeologia italica e romana si era peraltro connesso, già nel Quattrocento, al ritorno d’interesse per la spiritualità antica, di cui fu massimo interprete (e addirittura pontifex maximus) il grande Pomponio Leto: non ci è sembrato fuori tema chiudere con un articolo di un valente antichista come Mario Giannitrapani sul capo dell’Accademia Romana. Né fuori tema apparirà al nostro pubblico – ben consapevole di quanto abbiano insistito e ancora insistano certi ambienti cattolici antirisorgimentali (ma anche alcuni ambienti del ‘tradizionalismo integrale’ rimasti fermi a valutazioni storiche fortemente condizionate dalla polemica antimoderna del cattolicesimo più reazionario) sull’idea che il Risorgimento vada tutto visto entro il quadro di un ‘complotto’ occulto ordito da talune forze metastoriche e storiche – la lettura dell’ultimo libro di Umberto Eco, Il Cimitero di Praga, che abbiamo espressamente richiesto a uno dei nostri più autorevoli collaboratori, il filosofo Piero Di Vona.
Un’attenzione particolare l’abbiamo dedicata alle immagini di questo numero. Abbiamo cercato di offrire ai lettori non solo delle illustrazioni pienamente adeguate ai testi proposti, ma anche di evidenziare iconograficamente quanto affermato in sede dottrinale e storiografica, e cioè la profonda ‘memoria dell’antico’ agente nel Risorgimento e nell’Italia nata dal Risorgimento. Questo è il primo numero de “La Cittadella” in cui non figurano immagini antiche (romane, etrusche o greche), ma solo immagini dei tempi moderni. E però sono proprio talune di tali immagini a farsi testimonianza dell’antico e della sua forza di risveglio sapienziale, etico, politico, militare.
Ci piace sperare che se vi sarà, come ci auguriamo, un 200° dell’Unità d’Italia, esso possa essere più fastoso e festoso di questo 150°, e che qualcuno ricordi allora il nostro contributo alla ricorrenza del 2011 con la stessa simpatia, con lo stesso amore e la stessa riconoscenza con cui noi abbiamo ricordato l’unico degno Cinquantenario dell’Unità, che rimane quello del 1911.


Sandro Consolato