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Burton Morris
05-04-09, 01:10
INFIBULAZIONE: NON MOLLARE, MAI
Vanity Fair - 2 gennaio 2008


La lotta alle mutilazioni genitali femminili si fa sempre più difficile. Ma, scrive il leader radicale, sconfiggerle è possibile


di Emma Bonino


Sono passati cinque anni da quando le attiviste più impegnate nella lotta alle mutilazioni genitali femminili (mgf) si riunirono al Cairo con le associazioni Aidos e Non c'è Pace Senza Giustizia per discutere le strategie più efficaci per combatterle.
Da allora, 18 su 28 Paesi afro-arabi dove si praticano le mgf hanno adottato una legge che le proibisce come una violazione dei diritti della donna. E questo è un cambiamento di fondamentale importanza, perché il fenomeno non è più considerato solo come un problema socio-sanitario. L'esistenza di una legge legittima poi il lavoro delle militanti anti-mgf. Certo, di per sé non basta a sconfiggere la pratica, e in diversi Paesi c'è ancora molto da fare proprio per migliorare le norme adottate.
Quello che è emerso con più forza dalla Conferenze "Dichiarazione del Cairo +5", che Non c'è Pace Senza Giustizia ha organizzato al Cairo il 14 e 15 dicembre scorso, è il consolidamento di un lavoro di squadra che, tenendo alta la pressione a livello sociale e politico, porterà nella direzione della completa eliminazione delle mgf.
Ministri, parlamentari, attivisti e rappresentanti delle organizzazioni internazionali più impegnate su questo fronte hanno voluto chiudere i lavori della Conferenza assumendo un impegno per quest'anno: ritrovarsi ancora più numerosi in un prossimo incontro, da tenere magari proprio in uno dei Paesi in cui le mgf sono più diffuse, per elaborare nuove strategie, consolidare i risultati acquisiti, gettare le basi per ulteriori passi avanti e favorire l'armonizzazione delle legislazioni.
Quest'ultimo aspetto ha un'importanza particolare per via di un fenomeno nuovo, che sta prendendo sempre più piede. Si tratta di una sorta di "emigrazione mutilatoria" tra Paesi confinanti. Chi, per esempio, in Burkina Faso vuole far mutilare le proprie figlie, rischia dai 5 ai 10 anni di reclusione. Così si mette su un treno e va in Mali, dove non c'è ancora una legge che proibisce le mgf.
Da questo nasce la necessità di un'azione più incisiva e di un coordinamento più stringente, anche a livello di campagne d'informazione e sensibilizzazione. Perché bandire definitivamente le mgf non solo è possibile, ma è un risultato a portata di mano. Bisogna però non mollare, mai.

http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7173

Burton Morris
05-04-09, 01:10
SALVIAMO IL MERCATO INTERNO
The Financial Times - 12 febbraio 2009


di Giuliano Amato e Emma Bonino*


Dalla fine della seconda Guerra mondiale sino a oggi, l’Europa ha goduto di pace e di prosperità come non mai. Pochi possono contestare il fatto che la Comunità Europea abbia giocato un ruolo chiave. Il suo elemento centrale è il mercato comune, che garantisce libertà di movimento sul continente alle persone, ai capitali, ai beni e ai servizi.

Le economie dei stati membri sono adesso cosi inter-connesse da formare un forte mercato interno. Questo è ciò che tiene insieme le diverse visioni dell’Europa. E' stata la forza trainante che ha spazzato via frontiere e controlli, e ha indotto 16 stati a lasciar cadere le loro monete nazionali per adottare l’euro. Ha inoltre sospinto la crescita economica, e attraverso l’allargamento ha rafforzato e stabilizzato la democrazia in Europa.

È per questa semplice ragione che ogni minaccia al mercato interno deve essere interpretata come una minaccia alla prosperità dell’Europa. Guardando il modo in cui alcuni stati membri stanno reagendo all’attuale crisi finanziaria siamo convinti che il pericolo per il mercato interno è reale.

Certamente la crisi è cosi vasta da richiedere varie misure di pubblico intervento. Gli strumenti politici sono nelle mani dei governi degli stati membri. Ma se le decisioni sono prese in maniera scoordinata con lo sguardo rivolto esclusivamente allo stretto interesse nazionale, queste misure rischiano di entrare in collisione con le regole della concorrenza che presidiano il mercato interno.

Il trattato contempla alcune eccezioni a questa regola, ma chi è il giudice? Non gli stati membri, ma il loro arbitro, la Commissione Europea.

Qui interviene il fattore tempo. L’economia rischia di precipitare nella depressione. Non c’e tempo, dicono alcuni, perché la "burocrazia" di Bruxelles esamini se certi aiuti di stato “distorcono o minacciano di distorcere la concorrenza”. Questa insistenza sull’urgenza è comprensibile. Tuttavia, se misure che generano distorsione entrano in vigore, esse devono essere annullate dalla Commissione oppure rischiano di essere reciprocate da altri stati membri, lasciando alla fine nessuno in condizioni migliori, ognuno in condizioni peggiori, e il mercato interno a pezzi.

I due settori in Europa che hanno beneficiato di massicci aiuti di stato sono il settore bancario e quello automobilistico. La Commissione Europea ha cercato di accelerare il suo processo di revisione, ma i governi hanno preso l’abitudine di annunciare pubblicamente nuove misure quasi quotidianamente. Alcune di queste misure sono di dubbia compatibilità con le regole della concorrenza anche ad un occhio non allenato. Il fatto di accompagnarle con minacce a Bruxelles perché dia il suo consenso si avvicina, in ogni caso, ad una politica del fatto compiuto.

E' tempo di cambiare approccio. Una procedura che funziona in tempi normali, quando le richieste di aiuti di stato sono infrequenti, non può funzionare nelle attuali circostanze. Il Consiglio Europeo dovrebbe riunirsi urgentemente e dichiarare che le banche europee e i produttori di automobili sono in uno “stato di crisi”. Dovrebbero essere create due task forces composte da rappresentanti nazionali nominati dai governi per i due settori, entrambe presiedute dalla Commissione Europea, per coordinare gli aiuti statali, assicurandosi nel contempo che le misure nazionali si rinforzino mutualmente per il maggior beneficio dei settori interessati senza compromettere le regole della concorrenza.

Questo scambio di informazioni può evitare che i governi prendano decisioni che possono apparire sagge ma poi si rivelano disastrose. Questo da anche all’arbitro della concorrenza, la Commissione Europea, un ruolo ex ante, dato che quello attuale ex post è palesemente inadeguato.

I settori bancario e automobilistico stanno attraversando una crisi strutturale che richiede sforzi di ristrutturazione più ambiziosi. C’è un precedente storico per un intero settore industriale sottoposto a un processo di ristrutturazione su scala europea: il settore dell’acciaio negli anni settanta e ottanta, quando la Commissione Europea guidò questo processo grazie ai poteri derivanti dal Trattato costitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.

Ma le similitudini, per quanto incoraggianti, finiscono qui. Il tempo di assegnare quote di produzione è passato. L’essenza della nostra proposta è il coordinamento. Quasi tutti gli stati membri dell’UE sono coinvolti nella produzione automobilistica. La Repubblica Ceca produce più automobili l'anno dell’Italia. Ma chi produce che cosa in Europa è irrilevante. La nostra prosperità è basata su un bene pubblico intangibile: l’insieme di regole che ha reso possibile il mercato interno. I governi europei non dovrebbero mai dimenticare che il loro superiore interesse nazionale è la difesa del mercato interno europeo.



*Giuliano Amato è ex Primo Ministro ed Emma Bonino ex-Commissario Europeo. Entrambi sono membri dell'European Council on Foreign Relations.

http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7266

Burton Morris
05-04-09, 01:11
CASO ENGLARO LA VERITA' E LE MENZOGNE
L'Unità - 13 febbraio 2009


di Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia*


La lotta contro il tempo per ottenere in fretta l'approvazione della legge che avrebbe dovuto "salvare" Eluana Englaro è stata condotta a suon di insulti e di menzogne. Gli insulti si qualificano da sé e soprattutto qualificano chi li ha lanciati. Alle menzogne invece risponderemo nel convegno «Verità e menzogne a proposito di "eutanasia", Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro» (domani, ore 10, al Piccolo Eliseo di Roma) al quale parteciperanno fra gli altri Ignazio Marino, Furio Colombo e Stefano Rodotà. In attesa che riprenda lo scontro sul merito della legge sul testamento biologico, vorremmo riportare l'attenzione su due argomenti usati contro di noi e che forse non sono stati colti in tutta la loro gravità a causa del concitato clamore politico-mediatico che ha accompagnato gli ultimi giorni di Eluana. Il primo è l'accusa di Berlusconi di essere, noi, degli "statalisti". Berlusconi ci ha abituato alle barzellette, però faremmo male se passassimo questa sotto silenzio. Non solo perché in materia di vita e di morte c'è poco da scherzare ma perché questa sortita del Premier s'inserisce nella campagna rivolta ad alimentare l'equivoco che con la legge si voglia attribuire allo Stato un potere sulle nostre vite quando è esattamente il contrario: ciò che si vuole difendere è la facoltà della persona di scegliere se sottoporsi o no ad alcune terapie. Ma come: Berlusconi, Sacconi, Eugenia Roccella, l'intero governo e la sua maggioranza si propongono di toglierci questo diritto di scelta e d'imporci, non solo in caso di coma irreversibile, idratazione e alimentazione forzata e poi saremmo noi gli statalisti? E chi sceglierà per noi dal momento che Sacconi ha già annunciato la contrarietà del governo all'indicazione di una persona di fiducia esecutrice della mia volontà? Il secondo argomento, ancor più grave, è quello che intima al Parlamento e al Diritto di lasciare intorno al malato una "zona grigia" (sono le parole testuali usate da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera), in cui a decidere sarebbero la pietà e l'affetto dei familiari supportati, immaginiamo, da qualche centinaio di euro al personale medico o paramedico. Per l'aborto, prima della legge 194, questa zona grigia è sempre esistita: si chiamava "aborto clandestino". Nel silenzio e nell'ipocrisia dovremmo ora rassegnarci ad una sorta di "fine vita clandestina"? Papà Englaro ha fatto scandalo proprio perché non ha voluto risolvere nel silenzio e nell'ipocrisia il dramma di sua figlia, perché ha creduto nella Costituzione, nella legge e nel diritto. Così facendo ha scosso e turbato le nostre coscienze, ci ha obbligato a interrogarci, a scegliere e a dividerci, mostrando a tutti che la contrapposizione non è fra il partito della vita e quello della morte, ma fra chi difende il diritto di autodeterminazione della persona e chi, invece, lo nega.


*Rispettivamente Vicepresidente del Senato ed ex Segretario del Partito Radicale
http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7268

Burton Morris
05-04-09, 01:11
LA MINACCIA PROTEZIONISTA
Affari & Finanzia - 23 febbraio 2009


di Giuliano Amato ed Emma Bonino


Dalla fine della Seconda Guerra mondiale l'Europa ha goduto di pace e di prosperità come non mai. Pochi possono contestare il fatto che la Comunità Europea abbia giocato un ruolo chiave. Il suo elemento centrale è stato, ed è, il mercato comune, che garantisce libertà di movimento alle persone, ai capitali, ai beni e ai servizi. Le economie degli stati membri sono adesso così interconnesse da formare un forte e coeso mercato interno. Questo è ciò che tiene veramente insieme le diverse visioni dell'Europa. E` stata la forza trainante che ha spazzato via frontiere e controlli, e ha indotto 16 stati membri a rinunciare alle loro monete nazionali per adottare l'euro. Ha inoltre sospinto la crescita economica e, attraverso l'allargamento, ha rafforzato e stabilizzato la democrazia in Europa. E per questa semplice ragione che ogni minaccia al mercato interno deve essere interpretata come una minaccia alla prosperità dell'Europa. Il modo in cui alcuni stati membri stanno reagendo all'attuale crisi finanziaria ci convince che il pericolo per il mercato interno sia reale. Certamente la crisi è cosi vasta da richiedere varie misure d'intervento pubblico. Gli strumenti politici sono nelle mani dei governi degli stati membri. Ma se le decisioni sono prese in maniera scoordinata, con lo sguardo rivolto esclusivamente allo stretto interesse nazionale, queste misure rischiano di entrare in collisione con le regole della concorrenza che presidiano il mercato interno. Il trattato contempla alcune eccezioni a questa regola, ma chi è il giudice? Non gli stati membri, ma il loro arbitro, la Commissione europea.
Qui interviene il fattore tempo. L'economia rischia di precipitare nella depressione. Non c'è tempo, dicono alcuni, per la "burocrazia" di Bruxelles di esaminare se certi aiuti di stato "distorcono o minacciano di distorcere la concorrenza". Questa insistenza sull'urgenza è comprensibile. Ma allora la Commissione deve poter intervenire annullando misure prima che abbiano dispiegato i loro effetti distorsivi sul mercato, oppure siano replicate in altri stati membri, lasciando alla fine nessuno in condizioni migliori, ognuno in condizioni peggiori, e il mercato interno a pezzi. I due settori in Europa che hanno beneficiato di massicci aiuti di stato sono il settore bancario e quello automobilistico. La Commissione Europea ha cercato di accelerare il processo di revisione nonostante i governi abbiano preso l'abitudine di annunciare pubblicamente nuove misure su base pressoché quotidiana. Alcune di queste misure sono di dubbia compatibilità con le regole della concorrenza anche ad un occhio non allenato. Il fatto di accompagnarle con minacce a Bruxelles perché dia il suo consenso si avvicina, in ogni caso, ad una politica del fatto compiuto. E` tempo di cambiare approccio. Una procedura che funziona in tempi normali, quando le richieste di aiuti di stato sono infrequenti, non può funzionare nelle attuali circostanze. Il Consiglio Europeo dovrebbe riunirsi urgentemente e dichiarare che le banche europee e i produttori di automobili sono in uno "stato di crisi". Dovrebbero essere create due task forces composte da rappresentanti nazionalì nominati dai governi per i due settori, entrambe presiedute dalla Commissione, per coordinare gli aiuti, assicurandosi nel contempo che le misure nazionali si rinforzino mutualmente per il maggior beneficio dei settori interessati senza però compromettere le regole della concorrenza.
Questo scambio di informazioni può evitare che i governi prendano decisioni che possono apparire sagge ma poi si rivelano disastrose. Questo dà anche all'arbitro della concorrenza, la Commissione, un ruolo ex ante, dato che quello attuale ex post è palesemente inadeguato.
I settori bancario e automobilistico stanno attraversando una crisi strutturale che richiede sforzi di ristrutturazione più ambiziosi. C'è un precedente storico per un intero settore industriale sottoposto ad un processo di ristrutturazione su scala europea: il settore dell'acciaio negli anni settanta e ottanta, quando la Commissione guidò questo processo grazie ai poteri derivanti dal Trattato costitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio.
Ma le similitudini, per quanto incoraggianti, finiscono qui. Il tempo in cui si assegnavano quote di produzione è passato. L'essenza della nostra proposta è il coordinamento. Quasi tutti gli stati membri dell'Ue sono coinvolti nella produzione automobilistica. La Repubblica Ceca produce più automobili l'anno dell'Italia. Ma chi produce che cosa in Europa è irrilevante. La nostra prosperità è basata su un bene pubblico intangibile: l'insieme di regole che ha reso possibile il mercato interno. I governi europei non dovrebbero mai dimenticare che il loro superiore interesse nazionale è la difesa del mercato interno europeo.


http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7290

Burton Morris
05-04-09, 01:12
DARFUR BRUCIATO
Corriere Magazine - 12 marzo 2009

di Emma Bonino

Dal 2003 il governo di Khartoum appoggia politicamente e materialmente le scorribande dalle milizie Janjaweed nella regione del Darfur. La crisi umanitaria che ne è derivata è una delle più drammatiche dell'ultimo decennio. In questi giorni la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato di cattura a carico del presidente sudanese Bashir, al potere dal 1989. La decisione della Corte non stupisce, perché fa seguito ad una precisa richiesta d'indagine da parte del Consiglio di Sicurezza ONU. Per questo trovo fuori luogo le polemiche che da più parti vengono sollevate all'indirizzo del procuratore Ocampo, che a detta di qualcuno avrebbe peccato di eccessivo protagonismo. La Corte si è limitata a svolgere, peraltro con perizia, il proprio lavoro. Se gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza lo ritengono, possono scegliere di ricorrere all'art. 16 dello Statuto di Roma, che io stessa a suo tempo contribuii a negoziare e che consente di sospendere per 12 mesi il procedimento in corso, magari per trovare una politica da proporre per la soluzione del conflitto sudanese. Questa decisione devono però "motivarla", ossia mettere l'opinione pubblica in grado di conoscerne le ragioni.

http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7337

Burton Morris
05-04-09, 01:13
WOMEN IN THE MEDITERRANEAN: AN UNTAPPED RESOURCE
March 6, 2009*


Emma Bonino
Vice-President of the Italian Senate


Italy, given its geographic location, history, cultural ties, trade flows and security interests, cannot avoid engaging with the Mediterranean region. More importantly, it has no wish to disengage. Historically, the Mediterranean has a symbolic significance as a place of both confluence and conflict between different cultures. It is precisely because of this strong tradition that the Mediterranean can offer the most appropriate backdrop for dialogue and for developing a model of peaceful coexistence that can only be positive for Europe.

Irrespective of whoever has been in power, Italy has always been ready to contribute passionately to the integration process within the Mediterranean region, working shoulder-to-shoulder with its European partners and its coastal neighbours on the southern shores, albeit with modalities that changed according to situations.

Nevertheless, there have been two developments in recent years that we cannot ignore and which I wish to highlight, before moving on to the central theme of women. These developments raise critical issues which call for us to reflect on our identity as Italians and Europeans, and on how we wish to convey this identity to the outside world.

The Mediterranean as a geopolitical priority

The first development is a patent drift in our Euro-Mediterranean policy. On the one hand, there is the Barcelona Process, whose Tenth anniversary the European Union celebrated in 2005 without – to say the truth – popping too many champagne bottles. On the other hand, we have adopted the European Neighbourhood Policy in an effort to go beyond Barcelona. By so doing, we have further clogged an already busy Barcelona agenda with even more diplomatic meetings and various other complications. But what have we achieved? What is the final result? And what are the evaluation criteria?

Clearly, with 2010 looming, we are still far off target of a Free Trade Area. Nor have we seen great progress on governance in the South of the region, whether in terms of economic transparency or of markers of democracy. A few economic indicators here and there have moved in the right direction (such as growth and competitiveness). However, electoral processes have remained the same, in the same countries and under the same conditions. To say nothing of the tensions which continue to beset the southern Mediterranean towards the West (the Sahara) and the East (Israel-Palestine and Lebanon-Syria). Regrettably in these regions, even today, peace conferences far outnumber those devoted to economic cooperation.

Doubtless, even we Europeans have made little progress towards achieving greater cohesion and demonstrating a greater capacity for integration. I am referring to the difficulties encountered in the ratification of the Lisbon Treaty on the redistribution of institutional powers and competences, and the inability to raise public awareness among Europeans, let alone internationally, of the very essence of the "European success story", namely: moving, albeit partially, beyond national States towards an identity, a common area of freedom, free movement and shared values.

In short, whichever way you look at Euro-Mediterranean policy (the Barcelona Process, the 5+5 Dialogue, Neighbourhood Policy or the Turkish accession process), it is very difficult to feel self-satisfied.

The second development is that the Mediterranean is less and less a European sea. For instance, there is a strong and growing presence of Chinese and Indians. My point is that the southern Mediterranean no longer lives in endless anticipation of the arrival of the Europeans.

If truth be known, our common goal has never been to establish some kind of modern-day Monroe Doctrine. In the age of globalisation, that would be simply inconceivable. However, the loss of Europe's "special relationship" with the southern Mediterranean region would not merely impact on business. It is a much more strategic issue – and here I am thinking of geopolitical stability, management of migration flows, the threat of international terrorism and religious fundamentalism. It also relates particularly to the type of model of society and good governance that we wish to promote.

Faced with these two developments, we were pleased to see that, during the course of 2008, the issue of the state of Euro-Med relations was raised at the highest European political level, namely, through the French proposal for the creation of a Union for the Mediterranean and the Italo-Spanish proposal for the establishment of the "Mediterranean Business Development Agency".

If anything, it is the scope and objectives of these proposals that need to be examined, given that since the launch in Paris last 13 July of the "Barcelona Process: Union for the Mediterranean" (as the initiative was finally called), there has not been much progress made. After four months it has been agreed, not without difficulties, that the Secretariat will be based in Barcelona. In respect of everything else, particularly the issues dealing with content, or with who should participate in meetings and who should head the Union, it has to be said, if I may, that we are still in high seas.

In respect of the Union for the Mediterranean – a product of Sarkozy’s "hyper-proactiveness", which is perhaps tactically useful but at times impromptu and confusing – the same can be said as applies to other initiatives adopted in a group or unilaterally by EU Member States: such initiatives cannot make up for the absence of a fully "political" Europe. Only the latter can make us a credible counterpart, in this case in the eyes of other Mediterranean partners who need to have a totally clear understanding of the benefits they stand to gain by joining this Union. To date, there has been no such clarity.

Women in the Mediterranean

As with the rest of the world, women in the Mediterranean represent a great untapped resource. In this regard, I refer to both shores of the Mediterranean, as the issue of the largely underutilised female potential also closely concerns the Mediterranean countries of the European Union. Promoting cultural exchange, networking, opportunities for dialogue and fostering relationships within the business world would contribute to the recognition of this potential along with all its similarities and differences, and to distinguishing between stereotypes and the reality. Indeed, if there are two worlds whose diversity needs to be recognised, without falling prey to the most clichéd of stereotypes, these are exactly women and the melting-pot of the Mediterranean.

If we confine ourselves to looking at the Mediterranean and the neighbouring Gulf States, it is immediately clear that there are profound differences between the Balkans and Egypt, between Turkey and the Middle East and between the Gulf States and the Maghreb – differences which have given rise to very diverse situations.

If we start by examining the issue of human and civil rights, we see States that have legislation that is completely in line with that of the European States and have everyday social relations reflecting this, such as the Balkans. In other countries, such as some of the Maghreb States, modern legislation exists alongside traditions that often, especially in rural areas far from urban centres, contradict and disregard the former in many practices (including forced marriages, restricted freedom of action and limited access to education and employment). Finally, there are countries where legislation is, to a greater or lesser extent, completely aligned with more fundamentalist tradition and therefore often provides a rudimentary (the Emirates) and at times extremely limited (Saudi Arabia) guarantee of rights.

In all cases, there are changes afoot. A recent example is the case of Egypt, where the efforts of the First Lady Suzanne Mubarak and other activists have led to the enactment of an almost radical law prohibiting female genital mutilation and early marriages, and underpinned by a very effective public awareness campaign.

In any discussion of the status of women in the Mediterranean area, it is also worthwhile looking at the Persian Gulf, given that there are significant channels of communication within the regions. There is an increasing number of women in the Gulf who have cleverly exploited the importance of their family of origin in order to break taboos and who today hold influential positions in politics (such as Sheikha Lubna Al Kassimi in the Emirates and Sheikha Moza in Qatar), in the business world (Al Olayan in Saudi Arabia) and many within the cultural sphere. They have also established transnational associations through which their voice is growing more and more powerful and is increasingly exerting pressure for reform.

However, as often occurs, the situation on the ground is moving faster than the institutions.

In 2007, as Minister for International Trade, I organised a Forum for Women Entrepreneurs of the Southern Mediterranean and the Gulf. I believed that, in my ministerial capacity, I would be in a position to encourage greater participation of female entrepreneurs in the growing trend towards internationalisation, thanks also to an increase in networking, and to contribute to boosting trade flows which, although satisfactory, were – and remain – below expectations.

We were expecting around eighty participants but over 250 finally took part which, when added to the 200 Italian women who attended, created a truly unforgettable conference. With its vibrant buzz, lively speeches, the diversity of business sectors represented and even the variety of styles of dress, the audience made it clear just how superficial it is to think in terms of there being a "single type" of Islamic woman – like some faceless black shadowy figure. By further turning the spotlight on this potential, which has remained so invisible to many, it was finally possible to openly reveal its existence and show it off to best advantage.

Veil or no veil, in all of these areas women are acquiring influence and economic independence, which can only help call into question their lack of complete equality of rights.

Hence, the question becomes: What can more advanced democracies do to facilitate a process that can only benefit everyone?

First and foremost, it is necessary to support and encourage signs of progress that emerge in the various countries of origin with all the means at our disposal, including diplomatic pressure and cooperation projects – particularly in the areas of female education and microenterprises. As the Nobel Peace Prize winner Muhammad Yunus said: "It is better to grant loans to women than to their husbands".

There is no doubt that each of these countries offers contradictions and revelations, which add to the temptation for us to simplify and generalize.

In Yemen, where it is still rare to see unveiled women, a visit to universities surprisingly reveals a high number of women who study and obtain degrees. It is also almost never mentioned that in this poor country, still beset by many problems, elections have been held for years – elections in which women may vote and stand as candidates. It may require a few more years before they are elected but, on the other hand, it is not as if Italy provides them with an exemplary model to follow! Yet alongside these positive developments, baleful traditions that are difficult to eradicate still persist. Even these, however, are no longer passively accepted by everyone. A case in point is that of Nojoud, the ten-year-old girl who managed to obtain a divorce from a court in Sana’a by demonstrating the violence perpetrated by her husband, a man three times her age (in Yemen, the law prohibits marriages under the age of fifteen, but an amendment passed in 1999 permits marriage before that age on the condition that it is not consummated before the bride reaches puberty).

Turkey is one of the countries experiencing the most change, courageously adapting its legal system to European standards, with a vibrant economy in which women often participate in positions of leadership, as with the head of TUSIAD, the confederation of Turkish industry. Precisely because of its many contradictions, failing to help Turkey move even more decisively towards complete equality of rights and status is – and would be – a truly lost opportunity.

Perhaps the most striking contrasts, in a positive sense, can be found in the Gulf States, where women educated in the best colleges and universities in the world may manage astonishing fortunes on returning home, whilst adhering strictly to tradition in their private and social lives.

Morocco provides a paradoxical example, where women, especially in the city, are totally emancipated and look on incredulously at emigrant women who return to visit their relatives, labelling them as "veiled women".

Syria is another interesting case: a secular, but non-democratic country, in which women are quickly emancipating themselves.

These are the women of the Mediterranean region: not some monolith, some uniform and homogenous bloc, but rather a diverse and complex world, a great reserve of potential whose nuances need to be completely understood and appreciated. All of which confirms that a more open political regime corresponds with a more tolerant interpretation and practice of Islam. While, conversely, the more authoritarian the political system is, the more reactionary and misogynist the practice of Islam. As Ramin Jahanbegloo, an Iranian liberal intellectual persecuted by the Teheran regime, correctly insists: violence and intolerance are not the products of religion as such, but of the ideologisation of religion.

Female immigration: the case of Italy

Yet we can begin by doing something at home too, starting by fully protecting the rights of immigrant women – as obvious as that might seem. First of all, we need to ensure that they know their rights, they understand who to turn to when those rights are violated and receive support to remove themselves from situations of rights abuse. This applies to wearing a veil, forced marriages, polygamy, so-called house confinement and so on. To give a good example where I was personally involved: in 2006, the Italian parliament felt the need to enact a national law that until a few years ago would have seemed pointless, namely, a law outlawing female genital mutilation.

However, this is clearly not enough. The most recent ISTAT (the national statistics institute) figures for 2008 indicate that there are around 3.5 million immigrants in Italy today, half a million more than in the preceding year. In addition, a recently published report entitled "Donne del Mediterraneo. L'integrazione possibile" (or "Women of the Mediterranean. Integration made possible"), based on research carried out by the Fondazione Farefuturo with field surveys by the Istituto Piepoli, notes that the presence of women is the truly new factor in recent immigration flows (now characterised by equal numbers for both sexes). The report also highlights that women are, in their own right, an important "agent of integration" vis-à-vis their own family unit and the community to which they belong. In short, women represent a clear trait d'union between identity and integration. Indeed, the Istituto Piepoli's surveys show that, for instance, almost 60% of the female sample viewed polygamy as an offensive practice, while only 37% of men agreed, with 11% believing that it is actually "beneficial" for women (!). 56% of women felt that Italian law should not make an exception for women wearing a veil, while those more in favour of such an exception were (Muslim) men. Women predominantly supported a mixed Italian and immigrant child education model, while comparatively more men preferred that dedicated schools be established for foreign children. This latter position finds more than a little support within the Berlusconi government, as we have seen during the recent debate on the Gelmini Decree.

If there is wide consensus today on the part of almost all political forces, both on the right and the left of the spectrum, over the notion that a contemporary State must of necessity remodel itself as a cosmopolitan State capable of internally generating the dynamics of globalisation, the question must therefore be posed as to whether the legislative initiatives of Centre-Right governments in Italy, ranging from the Bossi-Fini Law to the recent so-called Security Package and anti-Rom laws, are the most appropriate response. From a more strictly political perspective, it must also be asked whether it is fitting – for a modern multicultural State – to exploit human diversity, and "fear" as a consequence, a tried and tested weapon of Lega Nord supporters. But also of more refined minds such as writer Oriana Fallaci who, with her trilogy (The Rage and the Pride being the first instalment), remains a point of reference for many exponents of the Centre-Right; or Giulio Tremonti, our Finance Minister, who, with his recent book Fear and Hope, chose to greatly fuel fear but to engender little hope; or Marcello Pera, former President of the Senate, who believed in the "unavoidable" clash of cultures. Leaving aside any ideology or particular political stance, it seems to me that the events unfolding today before our very eyes and the uncertain times that lie ahead tell us that the answer to these questions is "No". As Ramin Jahanbegloo puts it, the reality is that "today, we are not experiencing a clash of civilizations, but a clash of intolerances".



* The Euro-Mediterranean dialogue: prospects for an area of prosperity and security, a report edited by the Foundation for European Progressive Studies with the support of Fondazione Italianieuropei

http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7328

Burton Morris
05-04-09, 01:14
SE IL MONDO SCOPRE LA GIUSTIZIA
L'Unità - 12 marzo 2009


di Emma Bonino


Quando la macchina della giustizia internazionale si mette finalmente in moto, magari colmando un vuoto lasciato dalla politica, c'è sempre qualcuno che si erge a difensore dello status quo. Così, pur di non attaccare un dittatore sanguinario, alcuni trovano più facile attaccare il Tribunale penale internazionale.
Il fatto che il Tpi, che rappresenta 108 governi, abbia, con prove schiaccianti, incriminato il Presidente sudanese al-Bashir di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità, nei sei anni nei quali ha perseguitato le popolazioni non musulmane del Darfur, non li sfiora neppure. Crimini che hanno provocato più di 300 mila morti e 2,7 milioni di rifugiati. Anche Gino Strada si unisce al coro, nel fondato timore di non riuscire ad aprire il suo nuovo centro nel Darfur meridionale, fingendo di non vedere l'espulsione di 13 Ong che alleviavano le sofferenze della popolazione quanto la sua Emergency ma accusate di aver collaborato con gli investigatori del Tpi.
E facile lanciare strali contro il Tpi potendo evitare di sporcarsi le mani con la politica. Ma qualcuno deve farlo. Oppure continueremo in futuro ad avere bisogno non di un ospedale ma di dieci, cento, mille ospedali. È la politica la grande assente in quell'area, non il Tpi che ha fatto il mestiere per il quale è stato creato. E agli scettici ricordo che nel 1999, il Tribunale ad hoc per l'ex Jugoslavia chiese l'arresto di un altro Capo di Stato in carica, Slobodan Milosevic. Nonostante in quel momento sembrasse totalmente al sicuro, un anno e mezzo dopo fu arrestato e trasferito all'Aja.
Nel 2003, un altro tribunale internazionale incriminò l'allora presidente della Liberia, Charles Taylor, che dovette fuggire e, dopo un breve asilo politico in Nigeria, è ora sotto processo all'Aja. Quando quelle richieste di arresto furono inoltrate nessuno poteva predire come si sarebbero sviluppati gli eventi. In retrospettiva, è evidente che i loro effetti delegittimanti hanno avuto conseguenze importanti. Oggi al-Bashir, grazie al Tpi, è un paria internazionale; domani, con grande delusione degli stessi scettici immagino, potrebbe finire all'Aja. Ora è alla politica, se c'è, a dover dare un colpo in Sudan. L'articolo 16 dello Statuto del Tpi prevede che l'ordine di cattura possa essere sospeso per 12 mesi rinnovabili per dare tempo e modo di trovare soluzioni altre, come quella di spingere verso un regime change a Khartum oppure di negoziare impegni seri e verificabili.
Continuare a colpevolizzare il Tpi è sterile, oltre che facile. Più difficile accusare i governi che continuano ad essere i veri latitanti, anche quando finanziano le Ong.


http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7338

Burton Morris
05-04-09, 01:14
VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI: ORA LA CINA NON E' PIU' DI MODA?
Oggi - 1 aprile 2009


Risponde Emma Bonino, Vicepresidente del Senato


Il 2008 è stato l'anno delle aspettative per i diritti umani in Cina. Pechino, con le Olimpiadi, aveva promesso maggiore libertà di espressione del dissenso è continuata. Per questo occorre che riprendano con forza le iniziative per chiedere alla Cina di rispettare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo dell'Onu, un'organizzazione al cui interno aspira ad assumere un ruolo autorevole. Da qui, la necessità di avere la Cina come partner responsabile e trasparente, all'estero come al suo interno, una necessità resa ancor più evidente dalla crisi economica in corso.
Sia tolto dunque il segreto di stato sulle condanne a morte, come chiesto dalla risoluzione Onu per la moratoria universale; sia consentito di monitorare il rispetto dei diritti umani in regioni come il Tibet o il Turkestan Orientale, abituato dagli Uiguri di religione musulmana, come chiesto da una mozione presentata da noi Radicali e approvata all'unanimità il 10 marzo alla Camera; e Pechino partecipi in futuro ad iniziative presso il Parlamento europeo, come l'audizione promossa dai Radicali il 31 marzo sulla questione tibetana, accettando che, come avviene in tutte le crisi internazionali, le parti in causa siano "facilitate" dalla comunità internazionale nel trovare soluzione condivise.


http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7388

Burton Morris
06-04-09, 15:00
Int. ad Emma Bonino: "L'Europa rischia una chiusura nazionalista"

• da Corriere della Sera del 6 aprile 2009, pag. 5

di Maurizio Caprara

«Invece di prendere la crisi come un`opportunità, l`Europa scivola verso una preoccupante visione nazionalista. La questione della Turchia dimostrerà se si aprirà al mondo o si chiuderà», dice Emma Bonino. Radicale eletta senatrice nelle liste del Partito democratico, la vicepresidente del Senato ieri si stava occupando di come evitare che tra poco, a Kabul, entri in vigore la legge sull`obbligo al sesso con i mariti per le sciite afghane non consenzienti. Ma Emma Bonino fa parte anche della commissione guidata dal finlandese Martti Ahtisaari che compie un monitoraggio sulle riforme varate dai turchi per entrare nell`Ue, e aveva presente la divergenza su Ankara tra il presidente degli Stati Uniti, quello dello Francia e la cancelliera tedesca.

Barack Obama, a Praga, ha ribadito la richiesta americana di aprire l`Ue all`ingresso della Turchia. Il francese Nicolas Sarkozy ha confermato di essere contrario, la tedesca Angela Merkel preferirebbe una, meno impegnativa, «partnership privilegiata». Secondo lei chi ha ragione?

«Seguendo una linea esistita da 40 anni, l`Europa in Consigli europei di 1999 e 2002 ha riconosciuto l`eleggibilità della Turchia all`ingresso nell`Unione. Tant`è che nel 2005 sono stati avviati i negoziati per l`adesione, non per una partnership. Obama ne prende atto, gli Usa sono da sempre a favore. Le reazioni rendono evidenti cose note nei corridoi».

Le riserve francese e tedesca?

«Già. L`idea della partnership fu battuta nel Consiglio europeo che diede via libera ai negoziati. Sarkozy poi li ha rallentati, non fermati. Sarebbe drammatico se, dopo un processo decennale, l`Europa dicesse: ci siamo sbagliati».

Perché drammatico? Per chi?

«Per l`affidabilità dell`Europa e i contraccolpi in Turchia. Chiedevamo la riforma del codice penale, e l`hanno fatta. Abbiamo chiesto diritti per i curdi, ed è nata una rete tv di Stato in curdo. Se si blocca tutto, altro che "ponte con il mondo musulmano"».

L`Ue non è già abbastanza in affanno dopo l`allargamento a 27 membri? Oltre che all`Irlanda, la ratifica del trattato di Lisbona sui nuovi meccanismi decisionali è appesa alla crisi di governo ceca.

«L`allargamento doveva andare di pari passo con il rafforzamento delle istituzioni politiche. Comunque, oggi bisogna procedere nella direzione opposta alle misure protezionistiche sulle crisi bancaria e dell`auto, adottate dagli Stati senza coordinamento e con il rischio di cannibalizzarsi a vicenda. La Turchia conta per l`energia, è un Paese democratico e islamico. Saranno quattro o cinque attori a decidere le sorti del mondo: Usa, Cina, Russia, Brasile o altri e l`Europa, se c`è. Se torniamo tutti agli Stati nazionali, siamo destinati all`irrilevanza politica».

Secondo Berlusconi per rassicurare Parigi e Berlino la Turchia potrebbe entrare rinviando a dopo la libera circolazione dei turchi nell`Ue. Che ne dice?

«Dopo? La Turchia entrerebbe verso il 2015-2017. Lei ha idea di che cosa saremo nel 2015-2017? Chi ne ha idea?»

santiago
16-04-09, 15:27
Int. a Emma Bonino: "Aiutiamo le donne o perderemo l'Afghanistan"
Sassi sulle manifestanti in piazza a Kabul contro la legge pro-stupri. Emma Bonino: "Sbagliato cedere ai talebani sui diritti umani"

• da Corriere della Sera del 16 aprile 2009

di Maurizio Caprara

Sassi contro le donne a Kabul. Dopo l'approvazione da parte del Parlamento della legge che stabilisce la subordinazione della moglie al marito, e in pratica ne autorizza lo stupro, un gruppo di un centinaio di attiviste per i diritti umani ha manifestato in piazza denunciando "l'insulto alla dignità delle donne" sancito con l'approvazione del testo e scandendo slogano come: "Non vogliamo la legge talebana". Il corteo è stato però preso di mira da un gruppo di circa duecento uomini (tra loro c'erano anche delle donne) che hanno iniziato a lanciare sassi inneggiando alla "giustizia islamica". Un cordone di poliziotti e di poliziotte è riuscito a tenere separati i due gruppi. Il presidente Hamid Karzai, su pressione degli occidentali, ha promesso di rivedere il testo, che riguarda solo la minoranza sciita del Paese. Secondo il presidente afghano, tuttavia, polemiche e preoccupazioni potrebbero risultare da una "traduzione impropria, perfino errata della legge o di una sua cattiva interpretazione".



Quella dei sassi lanciati sulle afghane scese in piazza contro la legge sugli obblighi di letto per le mogli sciite è una delle notizie che ci ricordano quanto l'Afghanistan resti diverso da come noi occidentali lo vorremmo. Benché sia giusto difendere i diritti delle donne, non stiamo coltivando più illusioni di quante un sano idealismo ne autorizzerebbe?



Il corpo del Paese è meno retrogrado di quanto sembra. L'Afghanistan ebbe nel 1964 una Costituzione che prevedeva il lavoro delle donne. Non era la Svezia, ma succedeva nel 1964. e prima che i talebani andassero al potere, mentre i maschi erano sempre in guerra, spettava alle afghane tenere in piedi la pubblica amministrazione. Non imponiamo nulla, aiutiamo le afghane che chiedono aiuto. E sui diritti di base non si negozia", risponde Emma Bonino, radicale, vicepresidente del Senato, promotrice di un appello per non far entrare in vigore la legge contestata firmato anche da musulmane, tra le quali il ministro egiziano per la Famiglia Moushira Khattab.



L'Amministrazione di Baraci Obama negli Stati Uniti ha ridimensionato le attese: più che prefiggersi di democratizzare l'Afghanistan, come proclamava Gorge W. Bush, punta a neutralizzare il terrorismo. Teme ripercussioni sui diritti come quelli invocati nella manifestazione di ieri?



"Bisogna capire che neppure la nostra sicurezza sarebbe salvaguardata se l'Afghanistan tornasse a uno stadio così crudele e reazionario come quando governavano i talebani. Erano stati loro a togliere le ragazze dalle scuole, a proibire i tacchi perché avrebbero sprigionato un rumore erotico, a vietare le calze bianche perché attiravano l'attenzione. Ho letto con preoccupazione un commento di Gideon Rachman sul Financial Times secondo il quale siamo lì per combattere il terrorismo, non per difendere i diritti umani. Non è nemmeno una buona Realpolitik".



Chi ha sentito di recente a Kabul?



"Martedì, al telefono, Sima Samar, presidente della commissione governativa sui diritti umani. Soprattutto sull'ultima coppia assassinata, due che uscivano insieme senza essere sposati".



Attualmente che ne è della legge che imporrebbe alle sciite, consenzienti o meno, il sesso con il marito?



"Dopo le sollecitazioni estere il presidente Hamid Karzai ha chiesto ai ministri della Giustizia di valutare se viola la Costituzione. Cerchiamo di riempire questa pausa con l'appello che è su www.npwj.org".



se la legge entrerà in vigore, il mnistro della Difesa Ignazio La Russa aveva ipotizzato sul Corriere il ritiro delle militari italiane.



"E' importante trovare una posizione univoca della comunità internazionale, senza che ogni Paese faccia le cose sue".

santiago
17-04-09, 15:10
Les femmes d'Afghanistan ne méritent pas moins que notre soutien total et indéfectible

• da Le Soir del 17 aprile 2009

di Emma Bonino

A la suite de l'annonce de la nouvelle loi sur le statut personnel chiite en Afghanistan, beaucoup ont été scandalisés par le fait que celle-ci légalise le viol conjugal. « Le viol matrimonial légal en Afghanistan », tançaient les titres de nombreux quotidiens, et nous avons tous réagi avec stupeur et effroi. A y regarder de plus près, cependant, la loi est en réalité bien pire que ce que nous avions tous pensé.

Le véritable problème avec cette loi ne réside pas seulement dans ses dispositions sur le viol conjugal, aussi odieuses soient-elles, mais dans le fait qu'elle relègue officiellement les femmes à des citoyens de second ordre.

Cette loi légitime de multiples restrictions quant à la liberté de mouvement des femmes, elle légalise leur soumission aux caprices d'autres personnes, elle les prive de leur mot à dire dans les décisions concernant leurs enfants, et elle leur refuse l'accès à l'éducation et aux soins de santé. Cette négation éhontée des droits humains doit être condamnée – avec force, sans équivoque et de manière universelle.

Fort heureusement, à l'occasion de la Conférence internationale sur l'Afghanistan de La Haye et du sommet de l'Otan, qui se sont tenus récemment, les dirigeants du monde ont précisément réagi de la sorte, et l'impact en a été ressenti à Kaboul. A la suite des critiques retentissantes dont cette loi a fait l'objet, tant à l'intérieur qu'à l'extérieur de l'Afghanistan, le président afghan Hamid Karzaï a déclaré son intention de la faire réviser.

Cependant, l'histoire ne s'arrête pas là. Dès lors que ces deux réunions internationales n'occupent plus les premières pages de l'actualité médiatique, nous ne pouvons pas laisser cette question sombrer dans l'oubli.

C'est pourquoi « No Peace Without Justice » et le « Parti radical transnational » ont lancé un appel international pour indiquer aux autorités afghanes que le monde continuera à être vigilant et que les femmes afghanes ne seront pas sacrifiées dans un souci d'apaisement diplomatique.

Certains disent que cette loi permettrait d'obtenir le soutien de la communauté chiite à quelques mois d'un scrutin présidentiel qui s'annonce difficile pour Karzaï.

Mais, alors qu'un nouveau vent de « réconciliation » et d'endiguement souffle au sein des chancelleries et des think tanks occidentaux, nous ne pouvons pas accepter le sacrifice des droits fondamentaux des femmes comme prix à payer pour la négociation d'une trêve politique en Afghanistan.

Voir les droits des femmes afghanes traités avec mépris dans la vie quotidienne est déjà assez pénible, mais accepter de voir ces violations codifiées et légitimées, et volontairement négociées en vue de gains politiques à court terme, est vraiment abominable. Nos soldats ne devraient pas se battre et mourir en Afghanistan afin d'aider au retour des pratiques restrictives et discriminatoires qui existaient sous le régime des talibans.

Il ne suffit pas de dire, comme beaucoup ont pris soin de le souligner, que cette loi n'étant destinée qu'à la minorité chiite de la population du pays, elle ne s'appliquera qu'à un petit pourcentage de la population féminine de l'Afghanistan.



En réalité, cela la rend d'autant plus discriminatoire et son adoption exige l'action de toutes les femmes (et de tous les hommes), qu'ils soient ou non chiites, qu'ils soient ou non Afghans.

En effet, l'opinion mondiale ne doit pas être moins choquée par cette perspective, nous devrions, au contraire, tous être verts de rage. Aussi longtemps qu'une femme dans le monde n'est pas reconnue comme le principal arbitre de son intégrité personnelle, ce sont toutes les femmes qui souffrent. La perspective d'une légalisation de telles discriminations devrait inspirer l'horreur et l'indignation de tout un chacun.

La nouvelle législation n'est pas seulement une violation directe du droit international, elle contrevient également à nombre de dispositions de la Constitution afghane, dont notamment celle statuant que la « liberté et la dignité de l'être humain sont inviolables ».

Certes, la Constitution permet l'application d'une loi en matière de droit familial distincte pour les chiites, mais ceci ne signifie pas donner carte blanche pour saper les droits fondamentaux des femmes ou des hommes chiites. Toute loi en Afghanistan est encore censée respecter la Constitution et le droit international, y compris les dispositions interdisant les discriminations contre les femmes. Cette loi ne le fait pas.

Malgré l'annonce que la loi sera soumise à révision, le moment n'est pas à la complaisance. Les nouvelles positives émanant de Kaboul ne sont, tout simplement, pas suffisamment rassurantes.

Nous devons maintenir notre indignation et notre vigilance : signer l'appel international, faire part de notre opinion à nos élus et aux autorités afghanes, entreprendre des actions non violentes innovantes. Les femmes d'Afghanistan ne méritent pas moins que notre soutien total et indéfectible.

santiago
17-04-09, 15:10
Afghan women are being sold out for the sake of appeasement

• da Financial Times del 17 aprile 2009

di Emma Bonino

Sir,

I read with great interest Gideon Rachman’s article, “Lift the veil on our war aims” (April 14) on the nature of Western presence in Afghanistan but have difficulties agreeing with its conclusions, namely that "we are not fighting for women's rights" but "to prevent the country ever again becoming a base for attacks on the West".

If this is the case, couldn’t this aim could be better reached, and in a more lasting manner, if Afghanistan became a democratic society based on the rule of law and on the respect of human rights, including those of women?

The real problem with the new Shi’ite Personal Status law is not only the provisions on marital rape, abhorrent as they are; the problem is that it officially relegates women to second class citizens. Even though Karzai has declared his intention to have it reviewed, following resounding condemnation both within and outside Afghanistan, the story does not end here.

While a new wind of “reconciliation” and containment is blowing in western chanceries and think-tanks, I strongly believe that we cannot pay the cost of brokering a political truce in Afghanistan with the sacrifice of fundamental rights of women wilfully traded for short-term political gain, in this case the support of hardline Shi’ites ahead of presidential elections later this year. Our servicemen and women should not fight and die in Afghanistan in order to help return to the restrictive, discriminatory practices that existed under Taliban rule.

This is why No Peace Without Justice and the Transnational Radical Party have launched an international appeal to put the Afghan authorities on notice that the we will continue to watch and that Afghan women will not be sold out for the sake of appeasement (The appeal is available on http://www.npwj.org/).

The murder a few days ago of Sitara Achakzai in Kandahar and today's news about stone throwing against women peacefully protesting in Kabul does not bode well for the "modernisers and brave individuals within Afghan society who will fight for women's rights", as Mr Rachman put it. Our total, unflinching support is needed now.



Emma Bonino

Vice-president of the Italian Senate

and founder of No Peace Without Justice

santiago
17-04-09, 15:11
Int. a Emma Bonino: "Il Parlamento Ue vissuto come un parcheggio"

• da L'Unità del 17 aprile 2009, pag. 31

di U.D.G.

Vice presidente del Senato, Emma Borino è stata Commissario europeo alla politica dei consumatori e agli aiuti umanitari. La sua sensibilità, oltre che il suo impegno, europeista trovano un riconoscimento trasversale agli schieramenti politici.

È opinione diffusa che l`Italia non investa le sue migliori energie in Europa.

«Tradizionalmente l`Italia ha sempre avuto, in termine di classe politica come di opinione pubblica, grandi afflati europeisti. A parole. Perché nei fatti queste aperture europeiste e federaliste sono state scarsamente praticate. A Bruxelles si ricordano ancora quando il presidente della Commissione, Malfatti, si dimise dal suo incarico per fare campagna elettorale per un seggio italiano. Un comportamento illuminante che fece grande scandalo...».

Oltre Malfatti...

«In tutto è così. C`è stata. sicuramente poca cura per quanto riguarda i funzionari. Guardiamo alla Spagna. E impariamo. L’allora premier Felipe Gonzales mandò centinaia di ragazzi a Bruxelles e in tutte le sedi europee per formarsi, impratichirsi e iniziare la scalata, facendo ogni lavoro possibile per imparare i meccanismi, per poi farli rientrare mettendoli nelle varie amministrazioni. Un risultato concreto? La Spagna è uno dei Paesi che meglio usa i fondi strutturali comunitari”.

E l’Italia?

“Triste capitolo. Vivere in Belgio costa di più, ma nessuno paga ai nostri esperti nazionali la differenza. Si disincentiva, laddove altri promuovono. E soprattutto quando tornano nessuno li utilizza. Quando fummo nominati commissari europei, io e Mario Monti tentammo di mettere in piedi una seria politica del personale incontrando varie e consolidate resistenze. Per non parlare poi dell’incapacità dimostrata nell’utilizzare o per meglio dire nel non saper utilizzare i fondi strutturali”.

C’è la fondata sensazione che quando un politico viene investito fuori dall’Italia, lo si fa per pensionarlo, o per spedirlo in un dorato esilio.

“Ed è stato visto così, per tanto tempo, persino per i Commissari. La svolta avviene, di percezione dell’opinione pubblica e di classe politica sull’importanza dei Commissari, con il tandem di cui ho fatto parte assieme a Mario Monti. Resta il fatto che gran parte dei miei colleghi vivono l’andare al Parlamento europeo come una punizione ovvero un parcheggio. Quelli attivi non sono tantissimi…”.

Il tutto in una Europa in cerca di sé…

“L’Europa è in una crisi profondissima. E questa crisi dimostra che avere solo la moneta unica ma non essere andati avanti nell’integrazione – cioè non avere il ministro del Tesoro europeo, non avere una politica economica unica – rende l’Europa un attore guardato con poca attenzione dal mondo. E’ sempre più l’Europa delle patrie e non la Patria europea. La gestione della crisi è una gestione nazionalista, protezionista, qui rischiamo persino di far saltare il mercato unico. Questa è una Europa che ha paura di tutto. Per invertire questa tendenza ci vorrebbe una visione alta, un grande afflato europeo, un grande disegno federalista. Ci vorrebbe un nuovo Altiero Spinelli. Ma all’orizzonte non se ne vede traccia…”.

zulux
28-04-09, 21:44
Fiat: Bonino "da Vereughen iniziativa inaccettabile"

• da Lab il socialista del 28 aprile 2009, pag. 3

“Con Giuliano Amato avevamo messo in guardia dal fatto che ognuno in ambito Ue facesse da sé e avevamo chiesto che la ristrutturazione del settore automobilistico dovesse avere un coordinamento europeo, come si fece già con l’acciaio. Questo richiamo al mercato unico è caduto nel vuoto, la Commissione europea non ne ha fatto proprio niente, così come gli stati membri, e quindi è evidente che ogni impresa automobilistica che conosce molto bene la situazione di crisi strutturale del settore cerchi di trovare una via d’uscita”. Lo ha detto a Radio Radicale la vicepresidente del Senato Emma Bonino.

“L’Europa non avendo voluto prendere questo coordinamento e violando a mio avviso obblighi del mercato interno, poi se ne esce in termini inaccettabili con il commissario Vereughen che prima di essere europeo è evidentemente innanzitutto tedesco – ha aggiunto - .

Il fai da te nazionale è il risultato di un’assenza europea”.

zulux
28-04-09, 21:45
BONINO BOCCIA IL REFERENDUM. D'ALEMA: TENETEVI IL PORCELLUM

La Repubblica - 25 aprile 2009


I Radicali: "Consegnerà il Paese al Cavaliere"


di Giovanna Casadio


Roma - Ultimo scontro sul fronte del referendum anti "porcellum", che dovrebbe tenersi il 21 giugno. Questa volta il conflitto è scoppiato a sinistra, tra i radicali del Pd-che potrebbero non andare a votare o votare no - e il Pd di Franceschini schierato per il sì. Per Emma Bonino che, dal 1978 a oggi, di referendum ne avrà organizzati una settantina, consultazione più consultazione meno, è un paradosso solo pensare di dare forfait ai quesiti per picconare l`attuale legge elettorale. Però la leader radicale, vice presidente del Senato eletta nelle liste dei democratici, è talmente indignata da non escludere nulla: «Questa è la caricatura del referendum. Con un`apposita leggina condivisa si fissa il 21 giugno la data, è il "de profundis" dello strumento referendario, i referendum saranno possibili quando la maggioranza dei partiti sarà d`accordo. E poi, come fa il Pd a dire andiamo avotare e votiamo sì? Se c`è il quorum - e Berlusconi facendo finta di nulla potrebbe riuscire a trascinare, visto che gli conviene - si consegna il paese al Cavaliere. Al Pdl basterebbe il 30% per ottenere il premio di maggioranza e fare un governo monocolore. Alla faccia della paura che si instauri un regime totalitario». Lo sfogo è avvenuto presentando il dossier sul pericolo della partitocrazia per la democrazia. I radicali nei prossimi giorni decideranno tra non partecipare («Con la morte nel cuore») e il no. Bonino proporrà un "comitato per il no": «Sono convintamente per il bipartitismo, ma per un sistema anglosassone, non così: dalle urne uscirebbe il bipartitismo delle oligarchie, senza collegi uninominali, nessun contrappeso». Polemica feroce con Dario Franceschini che ha impegnato il partito, sia pure tra"distinguo" e malumori, a votare "sì": «Non hanno i piedi per terra».
Ma Massimo D`Alema replica con altrettanta durezza, nella conferenza stampa in cui ieri pomeriggio presenta il bilancio (positivo) e il nuovo palinsesto di Red tv: «I radicali che invitano ad andare al mare sarebbe una novità... Potrei rispondergli: allora volte che si mantenga questa legge che è pessima?». Tuttavia, l`ex ministro degli Esteri ammette: «Se vince il referendum sarà obbligatorio fare una nuova legge. Io penso che al referendum bisogna votare sì per scardinare l`attuale legge elettorale, poi il Parlamento ha il dovere e l`obbligo di fare una riforma che rispetti i quesiti, ovvero la cancellazione del principio di coalizione e il no alle candidature multiple». E sul Pd: «Ora il partito naviga controvento, sono questi i momenti in cui si misura l`abilità dell`equipaggio». Nessuno insomma si nasconde il rischio del dopo. A far fallire il quorum punta la Lega di Bossi, che - parola di Berlusconi - ha minacciato la crisi di governo se ci fosse stato l`election day, ovvero l`accorpamento di amministrative, europee e referendum con certezza del quorum. Mentre Gianfranco Fini e gli ex di An sono referendari convinti.
Nel centrodestra il referendum abrogativo di giugno resta una spada di Damocle sulla tenuta del governo. Ma per il centrosinistra è fonte di nuove divisioni tra chi lo considerata un`opportunità - con il referendario Arturo Parisi in testa - e chi una iattura. Francesco Rutelli ad esempio, l`ha detto chiaro: «Il referendum consegnerebbe l`Italia al populismo della destra, quello che uscirebbe sarebbe peggio di adesso». Posizione minoritaria nel partito e si è visto all`ultima direzione Pd, dove anche Franco Marini ha detto: «Questa voltami sento referendario». Rosy Bindi ha sollevato dubbi però ha concluso: «Non ci sono alternative al si». Per l`Udc il referendum è semplicemente «un imbroglio». Martedì il senato fisserà la data del referendum, dopo che la Camera ha deciso per il 21 giugno.

Burton Morris
06-05-09, 19:36
Svegliati Europa!*

di Emma Bonino

Il messaggio centrale dell'Audit politico sulle relazione Unione europea e Cina, vale a dire l'analisi dettagliata di come ciascun Stato membro affronta le questioni più sostanziali nelle proprie relazioni con la Cina e dei loro rapporti di forza, condotto dall'European Council on Foreign Relations (ECFR), è che la politica europea nei confronti della Cina non è coordinata né condivisa e, di conseguenza, presentandoci in ordine sparso e con agende diverse - anzi, spesso facendoci del male da soli in concorrenza l'uno contro l'altro - l'influenza Europea (leverage) sulla Cina è quasi inesistente. Risultato: la Cina, che pure per via della sua storia e tradizione, conosce l'Europa attraverso i suoi secolari rapporti con singoli paesi europei, ha difficoltà a percepire l'Ue come entità unica o comunque come attore rilevante sulla scena mondiale. E, spesso, queste divisioni le accentua ad ulteriore danno dei paesi europei, non avendo incentivi a comportarsi diversamente.



Il rapporto identifica la posizione dei 27 stati membri riunendole, approssimativamente, in 4 gruppi: liberisti ideologici (Danimarca, Olanda, Svezia, capeggiati dalla Gran Bretagna) contrari a qualsiasi iniziativa protezionista anche di fronte all'attuale crisi mondiale, pronti a criticare la Cina sui diritti umani e disponibili ad incontrare il Dalai Lama seppur non ufficialmente; mercantilisti apolitici (Bulgaria, Cipro, Finlandia, Grecia, Ungheria, Malta, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia, Italia, e la Francia chiracchiana perché con l'arrivo di Sakozy la posizione francese è cambiata, con meno realpolitik per esempio su Olimpiadi e Tibet) che ritengono che una politica acritica sia la più adatta per far maturare benefici economici e quindi stanno storicamente alla larga da qualsiasi rilievo sui diritti umani (paradossalmente sono i paesi che più soffrono dalla crescita della Cina); industrialisti intransigenti (Repubblica Ceca, Polonia e Germania) pronti a minacciare la Cina di reciprocità in caso di protezionismi (la Germania se lo può permettere essendo il primo partner commerciale in Europa); i discepoli (Austria, Belgio,Irlanda, Paesi baltici, Lussemburgo), quelli che, passivamente, seguono la posizione europea, quando questa si manifesti.



Una fotografia non proprio lusinghiera per l'Europa: la cacofonia delle posizioni fa sì che la Cina non ci sente; la frammentarietà delle politiche fa si che non ci vede. E' fondamentale che l'Europa trovi la volontà politica e i meccanismi per superare questo stato di cose se non vuole condannarsi alla irrilevanza.



In fondo l'Europa e la Cina non hanno contrasti strategici o interessi conflittuali a livello regionale (basti pensare all'Afghanistan: ha la Cina interesse ad avere ai suoi confini uno stato musulmano integralista di matrice al qaedista? No, ma c'è da domandarsi quanto sia stata finora coinvolta, o si sia lasciata coinvolgere, in un approccio regionale alla questione) ma la strategia realista della Cina, che la rende indifferente per non dire "glaciale" su molte delle questioni internazionali, fa sì che alla fine gli obiettivi di ciascuno rimangano distanti. Ma quando l'Europa si presenta unita - è il caso dell'approccio E3 in Iran - la Cina non rimane insensibile; dove si presenta sparpagliata - è il caso della Birmania - la Cina la ignora.



Per questo, il rapporto propone un nuovo approccio che ha chiamato "reciprocal engagement", accantonando la "unconditional engagement" portata avanti finora. Per i paesi Ue ciò significa "europeizzare" le proprie politiche (perciò l'adozione del Trattato di Lisbona è importante) e il rapporto vede in Gran Bretagna, Francia e Germania gli unici paesi capaci di prendere la leadership in questa direzione. I quattro gruppi identificati dovrebbe fare più compromessi, i primi cominciando ad essere meno dogmatici e meno critici di qualsiasi posizione europea che finisce per indebolirla, i secondi a mollare le mire di un rapporto esclusivo e a sostenere posizioni comuni su Tibet e Taiwan, i terzi ad essere più selettivi nella loro critica e mettere in comune alcuni dei mercati che hanno monopolizzato (in particolare la Germania), i quarti ad essere più proattivi nel sostenere posizioni comuni. Questo darebbe all'Europa più peso sul rispetto dei diritti umani e assicurerebbe un miglior accesso ai mercati cinesi; si troverebbe in una posizione rafforzata per negoziare contenziosi su pratiche sleali e sul rispetto della proprietà intellettuale, e per incitare maggiori riforme economiche. La moneta di scambio potrebbe essere la Market Economy Status per la Cina ed un miglior accesso per gli investimenti cinesi in società europee. L'Europa deve muoversi rapidamente, in maniera coesa, concentrandosi su di un dialogo costruttivo anziché vagheggiare di volta in volta di G8, G14, G20 o G quant'altro. Il rischio è che per semplificarsi la vita si finirà per avere un G2 secco, come già qualcuno propugna, con la Cina unicamente concentrata sugli Usa e viceversa, visti i rapporti così interconnessi: mercati Usa in cambio di liquidità cinese. E' un dossier difficile e complesso, certo. Ma di fondamentale rilevanza: la Cina è oggi un attore imprescindibile sullo scacchiere mondiale dal punto di vista politico, economico, finanziario, ambientale/energetico ed altri ancora. Un' Europa coesa, magari in sintonia con l'Amministrazione Usa, avrebbe più possibilità di ottenere dalla Cina comportamenti coerenti a quello status di "responsible stakeholder" di cui parlava Robert Zoellick.

NOTE

*da Formiche - aprile 2009

Burton Morris
13-05-09, 23:45
"Sono per il 'No' ma niente astensione"

• da L'Unità del 13 maggio 2009, pag. 10

di Emma Bonino

Perché noi radicali abbiamo, per primi, costituito il Comitato per il no? Semplice: perché se dovessero passare i quesiti sul premio di maggioranza alla lista che ottiene più voti si aggraverebbe l`attuale legge elettorale, elegantemente definita come «porcata» dal suo estensore, e si determinerebbe un bipartitismo caricaturale dove «sotto il vestito niente»: niente strumenti di garanzia, niente contrappesi, niente collegi uninominali, niente primarie all`americana, niente Parlamento di eletti ma solo di cooptati. Altro che restituire il potere di scelta ai cittadini! Sia chiaro: noi siamo referendari ma per il tipo di referendum previsto dalla Costituzione non da un regime oligarchico. Non a caso il Comitato nasce anche per rafforzare la legalità referendaria: nel corso degli anni i referendum sono stati snaturati e sviliti dalle sentenze eversive della Consulta e dal tradimento dei partiti e del Parlamento. Se si fosse attuato l`esito dei referendum di inizio anni 90, la riforma americana l`avremmo già fatta da un pezzo. E non ci illudiamo che il referendum del 21 giugno sia un passaggio democratico, anzi sappiamo che non lo sarà: basta guardare. E per il dopo? «C`è chi parla di modello francese, chi di tedesco e del Mattarellum» alla leggina bipartisan varata per spostare la data del voto oltre i limiti temporali previsti dalla legge sul referendum e al regolamento della Commissione di Vigilanza per le tribune elettorali. Chi, come il Pd, invita a votare sì per poi illudersi di fare la riforma elettorale «tutti insieme appassionatamente» fornisce la motivazione meno sostenibile perché il referendum non è un sondaggio: i padri costituenti vollero il suo esito «vincolante» mentre i massimi esponenti del Pd lo considerano solo uno stimolo, una specie di Euchessina in dosi massicce. E per stimolare quale legge poi? C`è chi parla di riforma alla tedesca, chi alla spagnola e chi alla francese e di un ritorno addirittura al Mattarellum... E dico al partito trasversale degli astensionisti: attenzione alle scorciatoie ruiniane. E non vorremmo rimanere i soli a coltivare convinzioni e legalità. L`astensione non è e non sarà mai un fronte credibile di «resistenza» democratica. «Non andate a votare, andate al mare»: l`hanno detto in tanti nel passato e per ultimo il Cardinal Ruini. Sapete che c`è? Io al mare non andrò. Il Comitato è aperto al sostegno di tutti (si può mandare la propria adesione all`indirizzo noalreferendum@radicali.it). Perderemo? Forse, ma nei momenti difficili bisogna rimanere punto di riferimento per il futuro, continuando a lavorare per un cambio di cultura politica. E bisogna insistere: la legalità non è mai un optional.

Burton Morris
20-06-09, 19:16
Intervista a Emma Bonino: sono solo incapaci di governare

• da Liberal del 19 giugno 2009, pag. 4/5

di Errico Novi

Fermo. Immobile. Ispirato da una sorta di atarassia ideologica. Così appare il governo davanti al pressing di Confindustria. E così appare anche agli occhi di Emma Bonino, tra i leader di opposizione meno inclini a parlare di veline e più ansiosi di interventi strutturali. Sulle pensioni per esempio. Un`attesa vana. Verrebbe da credere che a frenare l`iniziativa dell`esecutivo sia anche il poderoso dispendio di energie sul fronte scandalistico. È un`ipotesi, ma rischia di diventare un inaccettabile alibi, secondo la vicepresidente del Senato.

Perché, presidente Bonino, non c`è il rischio, secondo lei, che le polemiche suscitate dall`inchiesta di Bari allontanino ancora di più il governo dai problemi reali?

Non sono tanto convinta da questa teoria della distrazione. Sa perché?

Dica.

In campagna elettorale Berlusconi è stato presente in maniera ossessiva. Su qualsiasi cosa ci si sintonizzava, appariva lui, anche se accendevi il boiler, se rispondevi al citofono... a parte gli scherzi, io credo che a fronte di una consolidata abilità nelle campagne elettorali, questa maggioranza e il suo leader accusino una sostanziale incapacità di governare.

Eppure le riforme che ieri Confindustria è tornata a invocare non sembrano cose rivoluzionarie.

All`inizio la crisi è stata sottovalutata: è passato giusto un anno dal varo di una manovra triennale espansiva. Poi la crisi è diventata finanziaria, economica, quindi sociale. Adesso, come giustamente teme Confindustria, rischiamo di trovarci con una massa enorme di disoccupati. Lo studio diffuso ieri parla di un milione in due anni, noi Radicali abbiamo diffuso l`allarme a fine 2008 e siamo stati anche più pessimisti. Ma avete per caso visto un passo avanti sulla riforma degli ammortizzatori sociali?

La risposta è sempre la stessa: le riforme non si fanno in tempo di crisi.

Un po’contraddittoria, direi: il governo si è attribuito una delega sul welfare, che avrebbe dovuto essere assolta entro luglio ma che è destinata a restare sul tavolo.

Perché va così?

Non si considerano prioritari questi temi, manca la necessaria attenzione.

Lei dice che la distrazione non dipende dagli scandali.

E infatti: di cose il governo trova pure il tempo di proporne, basta guardare al massiccio uso che si fa dei decreti legge. Ma il più delle volte si tratta di provvedimenti sulla sicurezza, che poi in realtà generano insicurezza, ma non di riforme essenziali.

Forse il punto è che la Lega ha iniziativa politica, il Pdl no.

Che la Lega faccia bene il proprio mestiere è vero. Sul Pdl va detto che alcuni ministri, e penso proprio a Sacconi, sono stati molto attivi su vicende come quella di Eluana Englaro, mentre se si tratta di pensioni, dicono che non vanno toccate. C`è una vera e propria teoria dell`immobilismo. È questo il problema. Solo che così andrà a finire come teme Confindustria: terminata la crisi, risalire sarà più faticoso.

E’ sorprendente scoprire che il partito della rivoluzione liberale si dimostra più conservatore dei governo Prodi. Almeno nella scorsa legislatura c`era la giustificazione di una maggioranza conflittuale.

Io non sono sorpresa. Anche nel quinquennio 2001-2006 la maggioranza aveva numeri forti, cento seggi in più alla Camera e cinquanta al Senato. All`inizio si fecero in effetti grandi proclami, si esibiva una forte determinazione per il cambiamento. Poi si è visto che di riforme ce ne sono state pochine, nel campo economico come in quello della giustizia, soprattutto della giustizia civile che incide di più sull`economia. Al massimo si è privatizzato l`ente tabacchi. Ho l`impressione che si ripeta lo stesso schema. E che si limiteranno a fare `cucù, la crisi non c`è più’senza aiutare davvero il Paese.

il Gengis
09-07-09, 20:18
SUBITO FONDI PER IL WELFARE

CorrierEconomia - 29 giugno 2009


di Emma Bonino*


Le stime Ocse prevedono un ulteriore calo del nostro Pil del 5,3% per il 2009, un dato confermato anche dal governatore Draghi, e una lieve ripresa nel 2010 con un più 0,4%.
Due milioni di disoccupati e più della metà non coperti da nessuna forma di ammortizzatore sociale.
A questo proposito voglio fare una pressante richiesta ai Ministri Sacconi e Tremonti che hanno messo in discussione i dati dell'Istat sui disoccupati (1.982 mila nel primo trimestre 2009) sostenendo pubblicamente che l'Istat li ricaverebbe da un campione di mille persone, più o meno come quello usato per i sondaggi elettorali. A me risulta che il campione utilizzato dall'Istat sia ben più ampio e affidabile: circa 175 mila persone intervistate ogni trimestre per un totale di circa 76 mila famiglie. Se i due autorevoli ministri ritengono che informazioni dell'Istat - ente di ricerca pubblico - sui disoccupati siano inattendibili - peggio sovrastimate - intervengano subito per impedire che siano fornite all'opinione pubblica informazioni false che distorcono la realtà della crisi in Italia. In caso contrario, meglio non aggiungere confusione a confusione.
Che fare di fronte a questa situazione allarmante?
Ci sono due aspetti che, secondo me, devono essere affrontati da subito.
Il 25 giugno è arrivata la messa in mora della Corte di giustizia europea in materia di equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nella pubblica amministrazione, apripista per una equiparazione anche nel settore privato. Secondo alcune stime che circolano in questi giorni, quantificate da collaboratori dei ministri Sacconi e Brunetta, sono 2,3 i miliardi che in 8 anni potrebbero svincolarsi da questa misura, da cui uscirebbe l'equivalente di 3 piani straordinari asili nido, progetti voucher per servizi ed emersione del lavoro nero, detrazioni fiscali per imprese che assumono donne.
Nel giro di un anno o due qualche centinaia di milioni di euro sarebbero intanto sufficienti per misure tampone come ad esempio quella dei voucher, già sperimentati in Francia, per pagare persone con lavori occasionali.
La convenienza è che questa misura quasi si autofinanzia grazie alla riemersione dal nero e che lo Stato anticipa “ la differenza” tra costo del lavoro e costo del lavoro nero.
Nel caso non si rispondesse alla condanna europea, la multa, salata, sarebbe certa e quel che è altrettanto certo è che non possiamo permettercela.
Poi esiste una riforma tanto ambiziosa, quanto necessaria e imprescindibile: “meno pensioni più welfare.”
La creazione di un welfare più europeo e a misura di tutte le categorie di lavoratori, attraverso un complessivo innalzamento dell’età pensionabile ai livelli del resto dell’UE.
I risparmi sarebbero sufficienti per creare una rete di servizi di assistenza e cura per i cittadini più deboli, e soprattutto per un moderno modello di ammortizzatori sociali, già sperimentato in Europa, ispirato al welfare to work.
Occorre precisare però che il modello inglese, da tempo proposto dai radicali, non corrisponde al reddito minimo garantito o a meri sussidi di disoccupazione. Questi ultimi ad esempio esistono in paesi come la Spagna, ma sono difficilmente sostenibili per le finanze dello Stato, poiché non regolati da patti precisi e molto inclini alle truffe per via della pervicace tendenza al lavoro nero, fenomeno che si verificherebbe anche in Italia.
Il welfare to work non è una mera misura assistenziale ma è votata alla ricerca attiva di un nuovo impiego, garantisce per un anno un sussidio proporzionato alla professionalità delle persone disoccupate e si basa su regole d’ingaggio, formazione continua, sulla stretta cooperazione e responsabilità di stato, centri per l’impiego (sul modello inglese dei job centre plus) e cittadini.
Il mio appello al governo è di agire ora. Ma la mia è anche una richiesta al Pd e ai sindacati di non arroccarsi in una posizione puramente difensiva di uno status quo inaccettabile ed iniquo: non mi parrebbe una grande politica riformatrice che ha a cuore gli interessi del paese e delle sue fasce obiettivamente più deboli.



*Vicepresidente del Senato

il Gengis
09-07-09, 20:18
NESSUNO IN ITALIA S'INDIGNA PER I DIRITTI CALPESTATI?

Oggi - 1 luglio 2009


Certo, anche contro la repressione degli ayatollah c'è chi è sceso in piazza. Ma dove sono le "armate" dei pacifisti?


Risponde Emma Bonino, vicepresidente del Senato e leader Radicale


"Non appena ci sono giunte le prime notizie, e soprattutto le prime immagini, dalle strade di Teheran, all'indomani di elezioni evidentemente fraudolente, Radio Radicale e Il Riformista hanno organizzato a Piazza Farnese a Roma una manifestazione pubblica coinvolgendo tutte le forze politiche, i sindacati, le associazioni. Ci sono poi state tante altre manifestazioni in giro per l'Italia, ad esempio a Trieste durante il G8 dei ministri degli esteri, come pure in giro per il mondo.
Il ruolo sempre crescente di Facebook, Youtube o Twitter aiuta a canalizzare sostegno e solidarietà: per questo ritengo che la Rete sia uno strumento potente di comunicazione per una mobilitazione che richiede sforzo e organizzazione, come i cortei, i sit-in o i concerti come quello promosso da Joan Baez.
Ma tutto questo non basta. Nonostante le nuove tecnologie, non ho per esempio visto alcuna mobilitazione dei pacifisti, di solito così solerti a scendere in piazza: forse perché non c'era alcuna bandiera americana o israeliana da bruciare?
Di fronte all'oppressione che non accenna a diminuire, le voci di gruppi o di singole persone, anche autorevoli, che continuano ad alzarsi in Occidente - punto di riferimento per una moltitudine di iraniani scesi in piazza - non devono rimanere isolate ma aumentare fino a creare quella massa critica che è finora mancata. E' presto per dire se in Iran la violenza del regime soffocherà l'Onda Verde di protesta ma noi dobbiamo fare di tutto affinché questo processo innescato da una forte richiesta di cambiamento non si spenga e, anzi, diventi irreversibile.
Un modo per farlo è di non distogliere lo sguardo neppure quando il regime oscura la Rete e, soprattutto, quando cesserà il fermento nelle piazze."

il Gengis
09-07-09, 20:20
Intervista a Emma Bonino: un affronto alla Costituzione sanare solo badanti e colf

• da L'Unità del 8 luglio 2009, pag. 11

di Susanna Turco

«Che cosa ha detto La Russa?». Ha avanzato, onorevole Bonino, una mediazione per affrontare gli effetti del reato di clandestinità. Visto che Giovanardi vuole regolarizzare colf e badanti che già lavorano in Italia, e la Lega no, propone di "restringere il campo alle sole badanti che si occupano di anziani ultrasettantenni". «In pratica occuparsi del suocero mai, magari del figlio sì?». In pratica. «Siamo già alle sottospecie di discriminazione, eh? Ma bene». Emma Bonino, radicale, vicepresidente del Senato, è persona seria che non difetta d’ironia. Così, pur avendo già pronta una serissima proposta di legge per regolarizzare quanti hanno già fatto domanda per un permesso di soggiorno - in modo non incorrano nel reato di clandestinità contenuto nel ddl sicurezza non le sfugge il lato irresistibilmente comico del governativo dibattito su chi regolarizzare e chi no tra tutti gli immigrati clandestini che pure da noi vivono e lavorano.



Allora, Bonino, riassumo. C’è Giovanardi che si batte per colf e badanti. C’è Calderoli che di sanatoria non vuoi sentir parlare. Poi Maroni...



Al problema è che la legalità da noi è un optional. Il senso de "la legge è uguale per tutti" sembra aver perso l’orientamento. Io credo invece che l’elemento di fondo di qualunque politica sia la legalità, lo stato di diritto, la Costituzione...»



In pratica?



«In pratica, c’è la Bossi-Fini che regola gli ingressi degli extracomunitari - e, ricordo, i rumeni sono cittadini europei. In base a quella legge, nel 2007 740mila persone hanno fatto la fila e depositato la loro richiesta di permesso di soggiorno, peraltro in violazione alla legge medesima visto che in teoria la fila avrebbero dovuto farla i loro datori di lavoro, e loro stare invece a Manila, Lima eccetera».



Bene.



«Di questi 740 mila presunti fantasmi, presenze che tutti abbiamo fatto finta di non vedere, 170 mila hanno ottenuto il nulla osta - dopo una trafila in totale violazione della legge - 80 mila no. Gli altri sono rimasti nel limbo».



Quanti?



«Considerando il decreto flussi del 2008, 360 mila persone».



Nel limbo. Né dentro, né fuori.



«Beh, con l’entrata in vigore del ddl sicurezza, questa grida manzoniana che tra le altre delizie contiene il reato di clandestinità, passeranno in fretta all’inferno».



Dice Maroni che non c’è problema: la legge non è retroattiva.



«E ci mancherebbe altro! Il problema però è che il reato, secondo questo ddl, si applica non solo a chi entra ma anche a chi ha già i piedi sul territorio italiano».



Dunque?



«Quei 360 mila diventano criminali, e con loro anche i 360 mila italiani che gli danno lavoro».



Bel risultato.



«Per nostra maggior sicurezza, si crea una massa di fuorilegge».



Calderoli dice che si tratta in gran parte di prostitute.



«Ma, scusi, lui che ne sa?».



Giovanardi...



«Dice che la nostra utilità sociale riguarda colf e badanti. Perché edili e pizzaioli sono meno utili».



Ironizza?



«Dico che non si può discriminare qualcuno per il mestiere che si fa, lo dice pure Onida. È incostituzionale, oltreché ingiusto».



Beh, certo, siamo alla scoperta dell’acqua calda...



«No, scusi, siamo alla frutta. Ci sono una valanga di clandestine che, pur di non rischiare l’espulsione, non escono più di casa, lo sa?».



La Russa dice che nessuno «si metterà a dare la caccia alle colf».



«Dire che la legge non si applicherà non è una consolazione».



Soluzione?



«Ragionarci insieme. Chiamiamola regolarizzazione, se non sanatoria, ma troviamo una soluzione. Un decreto flussi, un emendamento al decretone omnibus, una legge».



Preferenze?



«Che non si faccia un rimedio peggiore del male, una ulteriore discriminazione. Anche perché la impugnerà la Consulta».

motorino radicale
16-07-09, 12:29
IMMIGRAZIONE, UNA PROPOSTA IN NOME DELLA LEGALITA'

Fare Futuro Web Magazine - 11 luglio 2009


L'Italia deve trasformarsi da "terra promessa" in promessa mantenuta


di Emma Bonino*


Credo sia preciso compito e responsabilità del mandato che ci è stato conferito in quanto parlamentari di legiferare in maniera sempre attenta e rispettosa sia del dettato costituzionale, sia delle regole europee, che delle norme internazionali alle quali l'Italia aderisce. Purtroppo, non mi sembra sia sempre così. Nel caso delle recenti norme in materia di sicurezza, l'obiettivo dichiarato del governo è stato quello di affrontare la questione dell'immigrazione - dell'immigrazione figlia dei nostri tempi, che molti definiscono biblica, epocale - semplicemente in un'ottica repressiva, trasformandola in questione di ordine pubblico. Questo rischia di mettere l'Italia dalla parte sbagliata della storia; è velleitario pensare che l'ondata migratoria si fermerà ai confini dell'Italia solo perché è stato introdotto il reato di clandestinità.

In Senato numerosi colleghi hanno quindi avvertito il bisogno di correggere in qualche modo il tiro. Il disegno di legge che ho promosso è stato firmato da 53 senatori, di cui ben 13 del Pdl. Lo scopo è di far emergere dalla clandestinità i 360mila lavoratori immigrati che avevano espresso una chiara volontà a uscire dalla loro situazione di irregolarità partecipando alle procedure previste dai decreti flussi ma che, nonostante avessero i documenti in regola, sono stati scartati perché il numero delle domande eccedeva le quote, quote alquanto arbitrariamente fissate essendosi dimostrate ben al di sotto della domanda.

Come è noto, a seguito del decreto flussi (Dpcm del 30 ottobre 2007), furono presentate circa 740mila domande di assunzione, in base alle quali all'inizio del giugno 2008 furono rilasciati circa 170mila nulla osta. Altre 80mila domande furono respinte dalle Direzioni provinciali del lavoro (perché le condizioni contrattuali offerte non erano quelle previste dalla legge) o dalle questure (in genere per vecchi provvedimenti a carico del lavoratore straniero).

A seguito del decreto flussi del 2008 potranno essere evase altre 150mila richieste. Resterebbero quindi fuori circa 360mila domande di persone che da anni lavorano nei ristoranti, nel commercio, nelle piccole aziende edili o agricole, e nelle nostre case per prendersi cura dei nostri figli e dei nostri anziani. Se domani queste centinaia di migliaia di persone dovessero incrociare le braccia il nostro paese quasi si paralizzerebbe.

Per questo ritengo, diversamente dai ministri Sacconi e Maroni che hanno raggiunto un'intesa battezzata "regolarizzazione selettiva del rapporto di lavoro domestico", che la regolarizzazione non possa limitarsi, magari per ragioni di convenienza, a colf e badanti solamente - tra l'altro creando una discriminazione in base al mestiere in contraddizione con la nostra Costituzione - ma che deve riguardare tutti questi lavoratori immigrati, indipendentemente dall'attività svolta.

Non si tratta quindi di una "sanatoria indiscriminata", come l'ha definita il capogruppo della Lega al Senato, ma più semplicemente del ripristino della legalità attraverso l'emersione dal nero di persone che da anni vivono nelle nostre famiglie o lavorano nelle nostre imprese e la cui idoneità ad ottenere il permesso di soggiorno sarà scrupolosamente esaminata dalla autorità competenti, così come previsto dal ddl: i datori di lavoro avranno quattro mesi di tempo per presentare la domanda di emersione dalla data di entrata in vigore della legge; nei due mesi successivi prefetture e questure competenti territorialmente accerteranno l'esistenza di motivi ostativi all'eventuale rilascio del permesso di soggiorno; in caso di luce verde, le prefetture avranno un altro mese di tempo per rilasciare il permesso. Per questo abbiamo previsto un contributo di 100 euro come partecipazione alle spese di istruzione della pratica, non per vessare ulteriormente persone che hanno già pagato in precedenza senza aver ottenuto nulla in cambio, ma per togliere qualsiasi alibi all'Amministrazione che ha spesso giustificato la situazione di stallo con la mancanza di mezzi e di personale.

Vedo questo ddl come contributo per risolvere una situazione inaccettabile dal punto di vista della legalità e dello stato di diritto nel nostro paese, situazione aggravata - come dicevo - da queste norme approvate anzitutto sull'onda della propaganda demagogica della Lega al punto che anche nelle file della maggioranza di centrodestra c'è qualcuno che ha cominciato a capire che lasciare nella clandestinità centinaia di migliaia di persone che svolgono mansioni indispensabili nella nostra vita quotidiana, e che creano ricchezza per la nostra economia, sia un errore madornale per l'interesse nazionale. Oltre al fatto che le norme prevedono come corollario il principio di correità: così, con un colpo solo si trasformano anche centinaia di migliaia di italiani in delinquenti punibili con la reclusione da sei mesi a tre anni e a multe di 5 mila euro per ogni lavoratore impiegato.

Infine: proprio alla luce di quello che è successo e per il rischio che io avverto che la questione continui ad essere mal posta e quindi né gestita né governata a dovere da questo governo, credo che si ponga con forza la questione della cittadinanza in questo paese, parola che associo alla garanzia di diritti e doveri uguali per tutti. Per gli immigrati la cittadinanza dà un’idea di scelta, di appartenenza volontaristica ad una comunità. Ci sono centinaia di migliaia di immigrati che hanno scelto l’Italia come loro comunità; non sono italiani né per diritto di suolo, né di sangue, ma per diritto di adozione. Per questi, l’Italia deve diventare la possibilità di farsi una vita e di contribuire alla crescita della collettività all’interno della quale hanno deciso di fare una famiglia, di pagare le tasse, di vivere. L’Italia deve diventare da una terra promessa, una promessa mantenuta. Per ottenere questo, bisogna inaugurare una politica di immigrazione e di integrazione chiara basata sulla certezza del diritto; bisogna finirla con le scene di queste donne e uomini perennemente in coda; bisogna mettere gli immigrati nella condizione di aspirare genuinamente alla cittadinanza e di poter quindi coltivare una cultura della "responsabilità condivisa".



*Vicepresidente del Senato

motorino radicale
22-07-09, 22:56
Se le guerre non hanno un giudice

• da "L'Unità"

di Emma Bonino

Undici anni fa nasceva il tribunale internazionale sui crimini di guerra. Oggi la posizione dell’Africa che non coopera rimette tutto in discussione



Questa settimana ricorre l'undicesimo anniversario della nascita della Corte Penale Internazionale. Il 17 luglio 1998 i governi di 120 stati adottarono a Roma lo Statuto che consentì, quattro anni dopo, d'istituire, per la prima volta nella storia, un tribunale permanente su crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio. Dovrebbe essere una settimana di celebrazioni, quindi. Celebrazioni per festeggiare il fatto che, indipendentemente dall'incarico di potere ricoperto, chi si macchia di questi gravi crimini alla fine viene giudicato. Prevale, invece, un senso di apprensione e di frustrazione: proprio quando la Corte avrebbe dovuto avvicinarsi all'età adulta, improvvisamente scoppia una crisi adolescenziale.


Paradossalmente, la fonte di preoccupazione proviene dall'Africa, continente che in questi anni ha dimostrato il maggior interesse per la crescita e l'affermazione della Corte. Le nazioni africane sono state la forza motrice della sua costituzione e le più attive nel sottoporle casi, come tre dei quattro attualmente in giudizio. Per questo, la dichiarazione della scorsa settimana a conclusione del Summit dell'Unione Africana in Libia, che esortava i suoi stati membri a non cooperare con la Corte, rappresenta un passo indietro inquietante.



Innanzitutto, è una violazione dei principi di responsabilità contenuti nell'Atto Costitutivo dell'Unione Africana. In secondo luogo, viene meno all'impegno, preso dagli stati africani membri della Corte al meeting ad Addis Abeba d'inizio giugno, in cui riaffermavano il loro supporto allo Statuto di Roma come mezzo per porre fine all'impunità. Infine, è soprattutto un tradimento nei confronti del popolo africano, dal momento che schiera l'Unione dalla parte dell'impunità e a favore degli oppressori anziché degli oppressi. Le ciniche e antidemocratiche tattiche usate dalla presidenza libica, durante il Summit, per imbavagliare il dibattito, forzare l'adozione della dichiarazione e dipingere la Corte come una sinistra istituzione coloniale, vanno denunciate in maniera ferma. Come pure il tentativo, purtroppo riuscito, di una classe dirigente che fa quadrato per proteggere «uno dei loro».

Invece, la comparsa questa settimana del presidente della Liberia, Charles Taylor, davanti al Tribunale Speciale per il Sierra Leone prova che, con una sufficiente pressione internazionale, anche leader come Omar Al-Bashir possono essere portati a rispondere delle loro azioni. I meccanismi della Corte non sono perfetti, d'accordo, ma non dobbiamo dare adito alla tesi fuorviante che questi abbiano un impatto negativo sui negoziati di pace nei paesi dove si svolgono indagini. In Uganda, per esempio, dove una guerra civile è infuriata per più di 20 anni, solo quando la Corte ha iniziato le indagini i protagonisti si sono seduti al tavolo dei negoziati; e in Sierra Leone i tentativi di pace si sono sbloccati quando il Tribunale Speciale per il Sierra Leone è diventata componente centrale nella ricostruzione post-conflitto.

L'esperienza dimostra che la Corte rafforza gli attori locali che vogliono costruire una pace reale e stabile, basata sulla responsabilità e sullo stato di diritto. È forse anche per questo che per la giustizia in Africa sono tempi difficili. Ma, in occasione dell'undicesimo anniversario della CPI, la scelta che si presenta ai leader del continente è molto semplice: o sono dalla parte delle vittime del Darfur e della giustizia, oppure dalla parte del Presidente Al-Bashir e dell'impunità. La prima scelta aiuterebbe a costruire un futuro migliore per la loro gente, la seconda non solo minerebbe il sistema di giustizia penale internazionale - della quale si dichiarano sostenitori - ma anche, riprendendo le parole di Kofi Annan, «indebolirebbe il desiderio di dignità umana che risiede nel cuore di ogni africano».

E l'Italia? Rischia di predicare bene e razzolare male. Nonostante sia stata tra i primi ad aver ratificato lo Statuto (luglio 1999) e nonostante la creazione di quattro commissioni ministeriali e altre iniziative parlamentari - tra cui la proposta di legge presentata dai deputati radicali - l'Italia non ha ancora adottato alcuna normativa di attuazione necessaria per consentire la cooperazione delle nostre autorità con la Corte. Senza la quale anche le migliori intenzioni rischiano di vanificarsi, con la prospettiva che l'Italia diventi il rifugio per i peggiori criminali di guerra.

motorino radicale
29-07-09, 13:07
BERLUSCONI MALE DERIVATO

Reset - 28 luglio 2009


di Emma Bonino


Addebitare unicamente a Silvio Berlusconi la sistematica violazione di regole e legalità in questo paese è fin troppo facile. La metamorfosi della nostra democrazia, che ha finito per spianare la strada al regime populista di oggi, in realtà viene da lontano. Non si può continuare a far finta di non vedere che le regole democratiche che i padri costituenti intesero porre alla base della nostra Carta fondamentale sono state, da subito e in maniera ampia, disattese dalle forze politiche che, attraverso i partiti e gli anni, si sono impadroniti del sistema politico-istituzionale del nostro paese. Nei decenni successivi il processo degenerativo ha investito tutti gli organi e le istituzioni repubblicane, via via erodendo lo Stato di diritto per finire ai giorni nostri, dove il processo di svuotamento e di svilimento della Costituzione è venuto a compimento in maniera così eclatante, oltre che condivisa.

In altre parole, Berlusconi non è il "male" in sé ma la conseguenza di un male prodotto da un regime - partitocratico, corporativista, oligarchico - che ha operato per distruggere la Costituzione fin dal `48, smantellando ogni elemento di discontinuità con il Regime Fascista del quale sono intatti i codici, oltre alle sedi fisiche (sotto nuove sigle) del potere.

Questa degenerazione noi Radicali la abbiamo documentata nel dossier intitolato "La Peste Italiana". Un documento che invito tutti a leggere perché se non si conosce l'evoluzione del fenomeno non si può neppure capire come si è arrivati fin qui.

Dove erano i nostri liberal-democratici in tutti questi anni quando la partitocrazia imperava alla Rai soffocando il pluralismo, gli esiti dei referendum venivano traditi in Parlamento, la certezza del diritto svaniva all'insegna della mala-giustizia? Perché appunto noi Radicali non scopriamo da oggi che l'Italia non è un paese "a regime democratico"; al contrario, sono decenni che proviamo a dire che c'è un regime dei partiti.

E non abbiamo avuto bisogno di Freedom House per renderci conto di come versava l'informazione nel nostro paese. E' da tempi non sospetti che ne denunciamo le gravi distorsioni causate dall'occupazione partitocratica del servizio pubblico radiotelevisivo, da una parte, e il conflitto d'interessi creato da un partito-tv, dall'altra. E trovandoci quasi sempre da soli, come recentemente avvenuto sulla paralisi della Commissione di Vigilanza e sulle nomine spartitorie del CdA della Rai.

E oggi, ancora, dove sono finiti i liberali di questo paese che di fronte ad un referendum elettorale deleterio e senza un'oncia d'informazione democratica ai cittadini, si rifugiano in un astensionismo che altro non è che una scorciatoia, una fuga dove le convenienze finiscono per divorare le convinzioni? L'astensione è un fronte credibile di "resistenza" democratica e liberale se utilizzata per raggiungere più facilmente l'obiettivo, quasi una caricatura, della scelta ruiniana che ha imposto che "sulla vita non si vota" a proposito del referendum contro la Legge 40? In quanti rimarremmo a coltivare convinzioni e legalità, a dire che il gioco è truccato, che il conoscere per deliberare non ha più cittadinanza in questo paese? E che senza queste condizioni elezioni, referendum, o qualsiasi consultazione popolare, non hanno più senso? Nei momenti difficili rimanere punto di riferimento per il futuro e continuare a lavorare per un cambio di cultura politica è d'obbligo per dei liberali. E bisogna insistere: la legalità non è mai un optional. Se non lo dicono i liberali, chi lo dice?

Bisogna ammetterlo: per la piega che hanno preso le cose, le vittorie laiche degli anni 70 - divorzio e aborto - appaiono come pallidi ricordi. Se mi devo rimproverare qualcosa è forse quello di aver sottovalutato, in occasione del referendum sulla Legge 40, non la forza delle gerarchie ecclesiastiche che mi è ben presente, ma la perdurante inclinazione dei partiti a rinunciare a fare dell'Italia un paese moderno, maturo, civile e responsabile. Anche sul testamento biologico, che riguarda l'individuo e non limita i diritti di nessun altro, neppure quelli di un ovocita, il Parlamento ha deciso di limitare la libertà di scelta individuale ancora una volta in ossequio a diktat d'oltretevere.

Parlare di "rivoluzione liberale" quindi non è anacronistico - come alcuni sostengono - ma rimane l'unica speranza per il nostro paese se si pensa che ancora oggi non siamo capaci di attuare una separazione tra Stato e Chiesa in maniera laica e rigorosa. E credo che la questione della cittadinanza, intesa per i diritti e doveri di ciascuno, concetto base di ogni democrazia liberale, sia una questione ancora aperta in Italia. Anzi, il rischio che corriamo è di tornare indietro: da cittadini a popolo, da popolo a plebe (oppure a audience, versione moderna della plebe).

Rimango dunque una convinta fautrice della Grande Riforma, quella "americana", con i suoi strumenti di garanzia, i suoi contrappesi, con il suo sistema elettorale con collegi uninominali; e per una nuova classe dirigente, alternativa all'attuale e la cui selezione si basi sulla meritocrazia e la trasparenza; per una società aperta come quella immaginata e proposta dai nostri referendum approvati dalla stragrande maggioranza degli italiani ma poi sconfessati dalla partitocrazia. Perché se si fosse attuato l'esito dei referendum d'inizio anni '90, la riforma liberale all'americana l'avremmo già fatta da un pezzo.

il Gengis
31-07-09, 12:01
Vogliono colpire i diritti delle donne

• da L'Unità del 31 luglio 2009, pag. 15

di Emma Bonino

E se si fosse trattato di un farmaco innovativo per la cura della prostata anziché della RU486, avremmo avuto tutto questo fuoco di sbarramento? Credo proprio di no. Ma quando si tratta della donna, allora predomina ancora una cultura che impone per noi dolore e sofferenza fisica. Come nel caso dell’aborto, nonostante la legge 194 già prevedesse per gli enti ospedalieri di tener conto del progresso tecnologico e delle nuove tecniche meno intrusive e violente. L’Italia è davvero un paese bizzarro. La politica entra in settori che non dovrebbero riguardarla. Ed infatti questo farmaco è stato vietato in Italia proprio per veti della politica di stampo più clericale, quella che si arroga il diritto per esempio di stabilire se si possono e devono impiantare 3 o 5 ovociti, se idratazione e alimentazione forzata siano un intervento sanitario o meno... In questo caso, per condizionare l’Agenzia del farmaco si è risorti pure ad una discutibile contabilità dei morti, la cui "presunta connessione" con la RU486 sembra valere solo in Italia. In nessun altro paese questo ha rappresentato un ostacolo alla registrazione del farmaco e il dossier completo è noto da tempo. Insomma invece di limitarsi a stabilire il quadro normativo, la politica entra nel merito delle cure o delle terapie, normalmente nel tentativo di svuotar- ne i contenuti e comunque di limitare la libertà di scelta delle persone e delle donne in particolare. Il risultato di tante interferenze politiche, e non, è che il via libera alla RU486 arriva in Italia con venti anni di ritardo rispetto a Francia, Svezia e Regno Unito, con dieci rispetto agli Usa. L’EMEA, l’Agenzia europea del farmaco, ha approvato già nel 2007 la nuova scheda tecnica della RU486: a questo punto la decisione dell’Aifa è al limite un atto dovuto. Se si vuole ridurre davvero il ricorso all’aborto allora la strada maestra è quella di promuovere la contraccezione e i metodi per la procreazione responsabile, realizzando specifiche campagne informative e pubblicitarie. Certo, se poi c’è chi si oppone anche a questo, compresa la pillola del giorno dopo, allora la strada diventa tutta in salita. Insomma ogni giorno peggio, scomunica compresa. Bisogna quindi reagire riprendendo con forza le battaglie laiche (e per questo profondamente religiose) per la libertà di scelta delle persone compresa quella di cura e di terapia. A partire dall’imminente passaggio alla Camera dell’incredibile testo "etico" varato dal Senato. O si appresta il PD a ripetere le contorsioni già viste in base all’ "opinione prevalente" delegando ai radicali un’appassionata e netta battaglia parlamentare?

il Gengis
08-08-09, 23:17
Perchè le badanti sì e gli edili no?

• da L'Unità del 8 agosto 2009, pag. 13

di Emma Bonino
La regolarizzazione di colf e badanti è una discriminazione rispetto a tutti i lavoratori extracomunitari impiegati in altri settori (industria, edilizia, agricoltura, ecc.) che, in quanto irregolari, diventano penalmente perseguibili in base al "reato di clandestinità". A spiegare gli effetti di una discriminazione sulla base del tipo di lavoro basta un esempio. I coniugi Rossi gestiscono un ristorante. Hanno alle loro dipendenze i coniugi Ibrahim, egiziani, in "nero" perché non riescono a legalizzarli: la signora Fatima fa la colf e la badante, e pertanto sarà regolarizzabile; il marito Isham, che fa il cuoco nel ristorante, non è invece legalizzabile. Il signor Rossi, cioè, sarà per metà legale e per metà fuorilegge (favoreggiamento) mentre i coniugi Ibrahim saranno costretti a separarsi. E una pazzia giuridica, logica e morale. Immagino che questo paradosso imporrà un'altra ondata di regolarizzazioni, magari a ottobre. In questo senso abbiamo da tempo presentato una proposta di legge bipartisan per regolarizzare coloro che ne hanno fatto richiesta e sono in possesso di tutti i requisiti. Selezionare i lavoratori in base al criterio dell'utilità sociale - accogliere le badanti e buttar via gli edili - è incoltituzionale prima che ingiusto. È un altro tassello di quella Peste Italiana di violazione dello Stato di Diritto che noi Radicali denunciamo da sempre. Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge senza distinzione alcuna. Idraulici, pizzaioli e raccoglitori stagionali di pomodori sono forse meno uguali degli altri?

il Gengis
08-10-09, 13:53
L’IMPUNITA’ PER I CRIMINALI DI GUERRA METTE A RISCHIO IL FUTURO DELL’AFGHANISTAN

Il Corriere della Sera - 17 agosto 2009


di Emma Bonino*


Caro direttore, quando il 20 agosto andranno alle urne per le seconde elezioni presidenziali dalla caduta dei “talebani”, gli afgani valuteranno con attenzione i candidati e soppeseranno i vantaggi di un futuro regime democratico.
Alla vigilia di questa delicata scadenza, in Italia si è acceso un dibattito centrato principalmente sulla presenza militare, intervallato da parole d’ordine populiste. Il problema del ruolo e delle regole d’ingaggio delle forze NATO è sì un aspetto importante, che richiederebbe un dibattito serio, ma non è il solo.
Anche se i contingenti militari presenti riusciranno a neutralizzare i tentativi dei “talebani” di impedire il regolare svolgimento del voto, la comunità internazionale non avrà aiutato l’Afghanistan nel processo di costruzione dello Stato di diritto se non affronterà la questione dei criminali di guerra, che dopo le elezioni potrebbero acquisire posizioni-chiave in seno alla nuova amministrazione.
Dalla fine del regime dei mullah, nel 2001, le istituzioni statali sono state troppo spesso influenzate dalla presenza di personaggi dal passato più che discutibile, molti dei quali signori della guerra che hanno commesso atrocità nei confronti del loro popolo. In un Paese dilaniato da anni di guerra, sarebbe da ingenui pensare di escludere dal processo politico chiunque abbia avuto o mantenga legami con gli ex-combattenti. Se nessun leader “talebano” venisse coinvolto l’instabilità del Paese crescerebbe, alimentata dal denaro proveniente dal traffico illecito di droga. La vera questione sta quindi nel processo di selezione degli interlocutori, perché coinvolgere i responsabili delle violenze del passato sarebbe come dire al popolo afgano che nulla è destinato a cambiare e che l’impunità sarà sempre il principale parametro di giustizia. La comunità internazionale dovrebbe impegnarsi concretamente nella ricostruzione del Paese, per offrire la possibilità di formare una classe dirigente adeguata a confrontarsi col mondo di oggi.
Sul fronte della giustizia penale le basi per lo sviluppo di un ordinamento conforme agli standard internazionali sono state facilitate dal lavoro congiunto della Commissione Indipendente Afgana sui Diritti Umani, organo previsto dalla Costituzione del Paese ma indipendente, e di Non c’è Pace Senza Giustizia, che hanno realizzato un progetto di mappatura del conflitto. Attraverso le testimonianze di oltre 7000 persone, intervistate in tutte le 34 province afgane, è stato possibile ricostruire i crimini commessi dal 1978 ad oggi, gli spostamenti delle bande di guerriglieri, gli schemi di conflitto delle fazioni in lotta. Questo materiale sarà utile a chi studierà la storia dell’Afghanistan e delle violazioni dei diritti umani commesse in quel Paese, ma soprattutto rappresenta il presupposto per l’identificazione dei criminali di guerra.
Se davvero l’Europa e gli altri Stati che dicono di voler lavorare per la stabilità della regione intendono attuare misure utili a far uscire l’Afghanistan dalla spirale di violenza, devono smettere di favorire l’impunità, evitando per quanto possibile che i colpevoli assumano posizioni di potere e promuovendo la riconciliazione, anche attraverso la ricostruzione e lo sviluppo economico del Paese.
Il rapporto della Commissione Indipendente offrirà gli strumenti per avviare il processo di costruzione di un ordinamento giuridico equo, ma se l’immobilismo dell’Unione Europea e degli altri paesi coinvolti si protrarrà all’indomani del voto, qualsiasi speranza in un futuro democratico per gli afgani verrebbe meno e lo scenario regionale si complicherebbe ulteriormente.



*Vicepresidente del Senato e fondatrice di Non c’è Pace Senza Giustizia – No peace without justice (http://www.npwj.org)

il Gengis
08-10-09, 13:53
STOP REWARDING VIOLENCE IN AFGHANISTAN

The Guardian - August 18, 2009


Too many perpetrators of human rights abuses are given positions of power. This cycle must be broken


by Emma Bonino


When Afghans go to the polls on 20 August for their nation's second presidential election since the fall of the Taliban in 2001, they will be looking closely at the names on the ballot paper and weighing the merits of a democratic future.

The elections will not only be measured by how effectively international military forces avert Taliban attempts to disrupt voting, but also by the post-election handling of one fundamental issue – the participation by alleged war criminals in the Afghan political process through the ensuing presidential appointments to positions of authority throughout the new administration.

Since the toppling of the Taliban eight years ago, the Afghan parliament and state institutions have been dominated by individuals with highly questionable backgrounds. Many of the most visible representatives of the state are well-known warlords who have inflicted – and continue to inflict – the gravest human rights violations against their own people.

And yet they stand to be rewarded once again in the provincial council elections and – most conspicuously – through the next round of presidential appointments as governors, mayors, deputy ministers and ministers, donning the cloak of legitimacy afforded by an internationally monitored election process.

Given the complicated political history in the country, it would be naive to suggest that anyone with links to former combatants should be excluded from public office. Indeed, there is little doubt that unless at least some Taliban leaders are engaged in the political process, insecurity in Afghanistan will continue, fuelled by the substantial amounts of money still coming from the country's illicit drug trade. There is equally little doubt the country needs a comprehensive reconciliation plan to encourage those members of the Taliban prepared to suspend violence and move into the political arena.

The real question is how to select these interlocutors. To choose the wrong actors and engage with those who bear the greatest responsibility for the crimes of the past would only serve to foster impunity and further alienate an already disillusioned Afghan population from the structures of the Afghan state. Put simply, it would send a strong signal to the people of Afghanistan that nothing has changed and nothing is likely to change.

That is why the Afghan Independent Human Rights Commission (AIHRC), together with No Peace Without Justice (NPWJ), the international organisation I founded, has been working for the past four years to implement a conflict mapping programme in Afghanistan. The aim of the programme is to investigate mass violations committed in Afghanistan between 1978 and 2001 and identify those who bear the greatest responsibility for war crimes and crimes against humanity.

Recognised in the Afghan constitution but operating independently, the AIHRC has collected statements from more than 7,000 people throughout all of Afghanistan's 34 provinces. Information has been gathered from victims, witnesses and key informants on crimes, troop movements, chains of command and patterns of conflict of the different fighting factions.

Built on extensive consultations with community elders, victims' groups, provincial council representatives and women's groups, the mapping work done by the AIHRC is not simply creating a historical record of the worst crimes committed during wartime in Afghanistan, but also, crucially, it has gone a long way to identifying the perpetrators.

If the international community is serious about helping to create a secure and stable Afghanistan, if it wishes to avoid the periodic recurrence of conflict, it needs to stop rewarding violence. To do that, it needs to keep human rights abusers from positions of power and promote reconciliation in the country – the AIHRC report will help determine that process.

This is why the international community needs to support the work of the AIHRC and not betray those Afghans who believe in human rights and the rule of law as the basis for a stable and peaceful society.

As it currently stands, too many of the people holding public office are the perpetrators of heinous human rights abuses. If this situation is allowed to continue, without being challenged from Europe and other countries who claim an interest in the establishment of a new Afghanistan, then any hope of a democratic future for the country will be lost.

il Gengis
08-10-09, 13:54
AFGHANISTAN: NON A LA PRIME A L’IMPUNITE!

Le Figaro - 19 août 2009


par Emma Bonino*


Quand les Afghans se rendront aux urnes le 20 août pour la deuxième élection présidentielle depuis la chute des “Talibans”, ils examineront avec soin les candidats et pèseront les avantages d'un futur démocratique.

A la veille de cette échéance délicate, on assiste dans les pays engagés dans la reconstruction de l’Afghanistan à un débat centré principalement sur la question de la présence militaire. Le problème du rôle et des règles de recrutement des forces de l’OTAN est certes un argument important, qui nécessite un débat sérieux, mais il n’est pas le seul.

Même si, comme nous l'espérons tous, les contingents militaires présents parviendront à neutraliser les tentatives des "Talibans" pour empêcher le bon déroulement des élections, la communauté internationale n'aura pas aidé l'Afghanistan dans le processus d'édification de l'État de droit, si elle n’est pas capable de traiter adéquatement la question des criminels de guerre, qui, dans la phase post-électorale, pourraient acquérir des positions clés dans la nouvelle administration.

Depuis la fin du régime des Talibans en 2001, le Parlement afghan et les institutions de l'État ont été trop souvent influencés par la présence de personnalités au passé plus que douteux, dont bon nombre sont d’illustres chefs de guerre qui ont commis - et continuent à commettre - des atrocités de masse contre leur propre people. Or, ces derniers, après le vote, pourraient à nouveau assumer des postes de gouvernement aux niveaux national et provincial, sous le couvert de la légitimité d'un processus électoral tenu sous observation internationale.

Dans un pays déchiré par des années de guerre et de brutalité intérieures, il serait naïf de penser exclure de la fonction publique toute personne ayant eu ou conservant des liens avec les ex-combattants. Si aucun leader "taliban" n’est impliqué dans le processus politique, l'instabilité politique du pays s’accroîtra, alimentée par l'argent du trafic illicite de stupéfiants. La vraie question réside donc dans le processus de sélection des interlocuteurs, car impliquer les principaux responsables de la violence des crimes du passé reviendrait à renforcer l'impunité et à dire au peuple afghan que rien n’est destiné à changer dans leur pays. La communauté internationale doit s'engager concrètement dans la reconstruction du pays, pour offrir aux nouvelles générations la possibilité de former une classe dirigeante apte à répondre aux exigences du monde d'aujourd'hui.

Sur le front de la justice pénale, les bases pour le développement d'un système conforme aux normes internationales ont été facilitées par le travail conjoint de la Commission Afghane Indépendante des droits de l'homme (AIHRC), un organe institué par la Constitution du pays mais indépendant du gouvernement, et de No Peace Without Justice (NPWJ) - l'organisation internationale dont je suis la fondatrice - qui ont realisé, au cours des quatre dernières années, un programme de cartographie du conflit. A travers les témoignages de plus de 7000 personnes, y compris des victimes, des témoins et des informateurs clés interrogés dans les 34 provinces du pays, il a été possible de reconstituer les violations massives commises entre 1978 et 2001, les mouvements de troupes, et les types de conflit entre les différentes factions belligérantes. Ces documents non seulement seront utiles pour ceux qui étudient l'histoire de l'Afghanistan et les violations des droits humains commises dans ce pays au cours de ces années, mais surtout ils représentent aujourd'hui la base indispensable pour permettre l'identification des criminels de guerre.

Si, en effet, l'Europe et les autres Etats qui disent vouloir travailler pour la stabilité de la région, envisagent de mettre en oeuvre des mesures visant à faire sortir l'Afghanistan de la spirale de la violence, ils doivent cesser d'encourager l'impunité, en évitant autant que possible que les responsables n’assument des positions de pouvoir et en promouvant la réconciliation, notamment par la reconstruction et le développement économique du pays. Le rapport de la Commission indépendante fournira les outils nécessaires pour entamer le processus de construction d'un système juridique équitable, mais si l'immobilisme de l'Union européenne et des autres pays impliqués persiste après le vote, alors tout espoir d'un avenir démocratique pour les Afghans s’évanouira et la situation régionale se compliquera davantage.


* Emma Bonino est Vice-Présidente du Sénat Italien et fondatrice de No Peace Without Justice – No peace without justice (http://www.npwj.org)

il Gengis
08-10-09, 13:54
WHAT DID WE REALLY LEARN FROM THE ECONOMIC CRISIS?

The Financial Times (online edition) - September 29, 2009


by Emma Bonino*


The height of sentimentality about the financial crisis may have passed with the morbid first anniversary of the collapse of Lehman Brothers, but that does not mean we should stop reflecting on the worst financial calamity of our time.
Of course, the world will never be the same. Yes, new economic powers have emerged and will reshape the global economy. We can say we all “learnt our lesson”. We have heard it all before. But what have we really learnt?
As the saga of platitudes on the financial crisis comes to an end, hard questions now lie on the hands of world leaders. And the number of hands has expanded, with the Group of 20 leading nations set to replace the G7 and G8 as the hub of global economic co-operation. Economic giants, such as China, India and Brazil, will now have a voice in shaping world finance. This, of course, illustrates that decentralisation of economic power in the new world order is an unstoppable development, which may prove to be a positive one if the newcomers behave as responsible stakeholders.
But will all this summitry really make a difference? With the benefit of hindsight we can see the flaws in the financial system that allowed the collapse of Lehman Brothers to bring the global economy to its knees. But will we be able to say we wised up and put in place a better financial system?
Unlikely. So far, all we have really done is change the decision-making body, while the causes and symptoms of the financial crisis remain unchecked. Small and medium-sized banks continue to file for bankruptcy at a worrying pace. We still have not curbed the noxious behaviour of big banks: their social and political importance was enhanced more than scrutinised by the financial fallout after the Lehman disaster. “No more Lehmans” was the motto, cried both by banks and the public.
The toxic combination of bank subsidies and bankers’ bonuses have socialized losses and privatised gains.
Society (and governments) learnt that we simply cannot afford another bank to collapse. This gave City boys leverage to claim that they really are “Masters of the Universe” and need to keep doing what they have always been doing – making high-risk money – for the “good” of society, even if this means the taxpayer needs to foot the bill.
To make matters worse, in this era of the G20 and globalisation, we still do not have a coherent global response to the crisis. European Union co-ordination has been unacceptably poor, especially for eurozone countries. For example, every member state decided on its own protectionist agenda to nationalise banks or subsidise industries. Europe remains split over bonus regulation, with only France and Germany pushing for tougher pay restrictions in the banking sector.
We are told that the worst is over. We will all be flush with cash again soon. But in the meantime, do not worry about employment statistics – they are bound to take a beating for a while yet. As for international security and our defence commitments, our boys in Afghanistan will do well on a reduced budget. Forget about climate change. We cannot afford green economies at the moment; the health of the planet needs to wait.
We will have to wait and see whether last Friday’s glamorous photo opportunity of the newly empowered G20 will lead to any concrete action to save the world’s economy.
But unless consumer confidence, investments and international trade pick up on a global scale, it will take months, perhaps years, to sort out the current economic predicament. We are more distant today from a fair and functioning market system than we have been for a long time. This is fast becoming the legacy of the collapse of Lehman Brothers. What did we really learn again?


*The writer is vice-president of Italy’s senate and a council member of the European Council on Foreign Relations

il Gengis
14-10-09, 19:04
Pd: Bonino, Franceschini e Bersani poco innovativi

• da Lab il socialista del 13 ottobre 2009, pag. 3

"Dei tre interiventi nella convention Pd il piu’ fresco, quello che ha detto cose al di la’ del politichese spinto a me e’ sembrato quello di Marino, che non ho condiviso completamente, ma almeno ha tentato di parlare ad altri che non fossero i soli iscritti". Lo dice la vicepresidente del Senato Emma Bonino, a Radio Radicale "Da Bersani e Franceschini – prosegue - sono venuti due interventi molto antichi e poco innovatori, poco adeguati a scaldare l’anima di elettori o cittadini".

il Gengis
14-10-09, 19:04
"NON FERMIAMOCI AL NUCLEARE. LOTTIAMO PER I DIRITTI UMANI"

Il Corriere della Sera - 11 ottobre 2009


di Cecilia Zecchinelli


«Le nuove sentenze di morte in Iran dimostrano quanto abbia ragione Shirin Ebadi che da anni ripete all'Occidente di non fermarsi all'ossessione sul nucleare, supplicando di occuparci anche di diritti umani senza trovare ascolto. Sono un fatto drammatico e da tutti deve arrivare una condanna molto forte. Ma non c'è solo l'Iran: per la pena di morte la situazione è in salita in molti Paesi». Emma Bonino, radicale e vicepresidente del Senato, è stata tra i fondatori nel 1993 di Nessuno Tocchi Caino, la campagna internazionale che si prefigge di abolire l'«assassinio di Stato» nel mondo. E proprio ieri, Giornata della lotta contro la pena di morte, ha così commentato i verdetti di Teheran.

Secondo lei cosa deve fare l'Occidente? Qualcuno lamenta un atteggiamento troppo morbido verso il regime iraniano.
«L'Occidente non è più forte come un tempo, non può imporre niente. La presenza di potenze ormai emerse, a partire dalla Cina, fa sì che antichi strumenti come l'isolazionismo non funzionino più. E quindi si deve dialogare ma allo stesso tempo pensare a nuovi strumenti: rafforzare i rapporti tra le società, non solo quelli tra governi. Lavorare sull'informazione che non si limita certo a Internet».

L'Iran è tra i cinque Paesi con più esecuzioni al mondo. E altri due, Pakistan e Arabia, sono musulmani. C'è una componente religiosa?
«No, è solo una questione politica, di regimi, di mancanza di, democrazia. Come sul velo, dipende da quale Corano leggi e come, Tra Arabia e Turchia c'è un abisso. E la pena di morte è diffusissima in Cina. E negli Stati Uniti».

Pensa che con Obama, ora Nobel per la pace, cambierà qualcosa?
«Non dobbiamo aspettarci magie, ma in America gli Stati abolizionisti stanno aumentando, dobbiamo insistere. Lì il dibattito pubblico c'è, a differenza della Cina. Con Pechino chiediamo che ci sia almeno trasparenza, che dica quante esecuzioni avvengono, per quali reati e con quali procedure. Non è una linea minimalista ma un primo passo. Come lo è stata la storica moratoria Onu sulle esecuzioni del 2007».

Cos'è cambiato da allora?
«Ormai ci sono 139 Paesi abolizionisti al mondo e 35 lo sono in pratica da dieci anni. Nessuno Tocchi Caino si è svenata, finanziariamente e come risorse umane, per quella campagna che fu contrastata dall'Ue e da Amnesty perché volevano l'abolizione della pena capitale o niente. Ora stiamo lavorando per una moratoria in Africa, e poi tenteremo in Asia. Ma in quest'ultimo continente è particolarmente difficile».

II 10 ottobre è la giornata mondiale contro la pena capitale. Perché quasi nessuno ne parla? E' una battaglia di serie B?
«Lo è sempre stata: da noi perché la pena di morte non c'è e si dà per scontato che sia una battaglia facile. E dove c'è, a maggior ragione, il silenziatore è notevole. Ma si deve andare avanti. In Iran e non solo».

il Gengis
14-10-09, 19:05
EMMA BONINO: "DA NOI IL MASCHILISMO NON E' UN'ESCLUSIVA DEI BERLUSCONES"

L'Atro - 9 ottobre 2009


di Eloisa Covelli


Emma Bonino, lei si è sempre dichiarata contraria al burqa in Italia, cioè al velo integrale. Secondo lei, è una questione di ordine pubblico o di rispetto della donna?

«Chi si rende irriconoscibile in pubblico - uomo o donna, con passamontagna o burqa - si scontra con uno dei pilastri della convivenza civile, quello dell’assunzione della responsabilità individuale. Questo è per me un punto fondamentale in uno stato di diritto».

Cosa ne pensa dell’uso di chador o hijab in Italia, ovvero dell’uso del velo che lascia scoperto il volto?

«Per gli stessi motivi, finché il viso è scoperto non ho alcun problema».

Come si fa a coniugare il rispetto per la cultura islamica con le leggi italiane?

«Intanto distinguendo appunto tra cultura e religione, il che non sarebbe una cattiva idea.
Ma soprattutto promuovendo una politica dell’integrazione individuale anziché comunitaristica, evitando cioè che i musulmani in Italia formino delle comunità chiuse all’interno delle quali la sharia prevale sulle leggi dello Stato».

Ma l’Islam prevede l’uso del burqa o del velo?

«Come ci ripetono da tempo e in maniera insistente le più alte cariche islamiche, il burqa e gli altri copricapi integrali non sono simboli religiosi ma discendono da arcaiche tradizioni tribali che vedono nella donna un essere inferiore la cui presenza va tenuta il più possibile nascosta o addirittura annullata».

Secondo lei qual è la condizione della donna islamica oggi in Italia?

«Non rosea perché da una parte c’è intolleranza, che a volte rasenta il razzismo, e dall’altra usanze dure a morire ma che magari nel paese d’origine, grazie all’emancipazione femminile, cominciano ad essere abbandonate - penso ad esempio all’infibulazione e alle mutilazioni genitali femminili o ai matrimoni forzati - e che qui invece trovano un terreno fertile perché fuori da qualsiasi controllo sociale. Gli episodi delle giovani ragazze assassinate dal padre perché volevano vivere “all’occidentale”, o perché avevano un fidanzato italiano, ne sono gli esempi più eclatanti e tragici».

E la condizione della donna italiana? Proprio ieri Rosy Bindi è stata insultata in diretta da Berlusconi e Castelli. Cosa ne pensa? Bisogna riderci su o preoccuparsi?

«E’ semplicemente patetico. Nessuno scontro politico giustifica ingiurie di stampo misogino, così dozzinali per giunta. Sono sorpresa che nessuno dei “signori” presenti in studio si sia sentito in dovere di reagire alle parole di Berlusconi e di Castelli. Forse perché da noi il maschilismo non è un’esclusiva dei berluscones o dei leghisti… »


Emma Bonino è attualmente Vicepresidente del Senato della Repubblica, eletta nell’aprile 2008 nelle liste del Partito Democratico. Nella scorsa legislatura è stata Ministro per il commercio internazionale e per le politiche europee nel governo Prodi II e deputato della Rosa nel pugno. Fino alle elezioni politiche del 2006, era deputato europeo e ha fatto la spola tra le sedi di lavoro dell’Unione europea e Il Cairo. Ha puntualmente proseguito l’attività connessa al suo mandato parlamentare, ma al Cairo ha potuto frequentare lezioni di lingua araba, che le consentono oggi di seguire le trasmissioni di Al-Jazeera e di leggere i principali quotidiani del Medio Oriente. Dal marzo 2003 cura per Radio Radicale la rassegna della stampa araba, iniziativa unica nel panorama dell’informazione italiana. E’ divenuta così uno dei più autorevoli esperti e commentatori dei problemi dell’area.

il Gengis
14-10-09, 19:06
Chi dice donna non dice Italia

• da Il Sole 24 Ore del 13 ottobre 2009, pag. 14

di Emma Bonino, Fiorella Kostoris e Valeria Manieri

Ieri la prima studiosa donna ha vinto il premio Nobel per l’economia, Elinor Ostrom dell’Indiana University, e ne siamo liete, in un anno record di cinque Nobel femminili. Domenica, sul Sole 24 Ore Moisés Naím ha scritto che «si chiama donna il mondo globale», perché mai in passato nel pianeta erano esistiti tempi così favorevoli per la popolazione femminile, in termini di potere e lavoro retribuito.

Nulla del genere si sarebbe potuto scrivere sulla condizione italiana del gentil sesso. L’ultima riprova ne è la bozza del nostro decreto di recepimento della direttiva europea 2006/54 riguardante «l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento... in materia di occupazione e impiego». Essa giunge in ritardo di più di un anno rispetto a quando era dovuta, e appare gravemente insufficiente per almeno tre motivi. eSi pretende di adottare una riforma a costo zero a fronte di una situazione di disparità d’accesso e soprattutto di trattamento sul lavoro delle donne, che pone l’Italia all’ultimo posto nell’Unione Europea, con la sola eccezione, forse, di Malta. In proposito è grave che i risparmi di finanza pubblica, ottenuti a seguito dell’aumento dell’età di quiescenza nelle pensioni di vecchiaia delle lavoratrici del pubblico impiego (legiferato nel luglio 2009, dopo la sentenza di condanna della Corte di giustizia europea) non siano andati a beneficio dell’universo femminile, bensì di un generico Fondo strategico per politiche sociali e familiari, in particolare a favore della non autosufficienza. Giustamente la direttiva europea impone agli stati membri di designare uno o più organismi indipendenti «per la promozione, l’analisi, il controllo e il sostegno della parità di trattamento... senza discriminazioni basate sul sesso». La bozza di recepimento italiano individua poco opportunamente tali organismi nel(la) consigliere(ra) nazionale di parità e nella rete dei consiglieri locali. Pur non negando l’utilità di queste figure, ma insieme notando i modesti risultati da esse finora conseguiti, bisogna sottolineare che:

possono essere definiti indipendenti né terzi rispetto all’esecutivo (caratteristica tipica dei componenti delle Authority) i consiglieri che sono nominati (articolo 12 della bozza di recepimento) «dal ministro del Lavoro di concerto con il ministro delle Pari opportunità» e ad essi debbono riferire anche con la presentazione di rapporti circa la propria attività, mentre sono tali ministri quelli che relazionano al parlamento;

consigliere nazionale di parità opera in comitati e collegi presieduti dal governo, dove l a stragrande maggioranza dei partecipanti è costituita da rappresentanti delle parti sociali, dell’associazionismo femminile e della burocrazia ministeriale. La sua indipendenza è ulteriormente minata dal fatto che il mandato, originariamente previsto « di quattro anni rinnovabile una sola volta» (decreto legislativo 198/ 2006), può, secondo l a bozza di recepimento, essere rinnovato in eterno, se così piace ai due ministri in carica sopra citati;

procedura di nomina dei consiglieri rimane del tutto opaca, limitandosi all’ «espletamento di una valutazione comparativa» , laddove invece sarebbero opportune una piena trasparenza e l’ introduzione di requisiti innovativi, simili a quelli recentemente deliberati da questo stesso governo in altre norme (quali quelle sull’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, promossa dalla ministra Gelmini o sul neoapprovato decreto Brunetta per « l’efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione»). Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che per la nomina dei componenti degli organismi indipendenti operanti per la promozione e il controllo della parità di genere, voluti dalla direttiva europea, fosse istituito un comitato di selezione di autorevoli personalità esterne all’amministrazione, atte a proporre una lista di nomi entro cui il governo possa scegliere (Anvur), oppure si facesse ricorso a meccanismi di garanzia rafforzata, richiedenti due terzi dei voti favorevoli del parlamento (decreto Brunetta). La direttiva stabilisce che gli stati membri trasmettano alla commissione europea ogni quattro anni un rapporto su «eventuali misure adottate in base all’articolo 141 del Trattato (servendosi cioè della discriminazione positiva di genere), nonché relazioni su tali misure e la loro attuazione». Tutto ciò al fine di arrivare a un confronto intracomunitario. Paradossalmente, quasi risibilmente, la traduzione nel recepimento italiano di questo concetto consiste nel prevedere una relazione sugli «esiti delle valutazioni in merito al mantenimento delle differenze di trattamento tra uomo e donna consentite dalla normativa vigente » nel nostro paese..

La proposta operativa che intendiamo illustrare è dunque semplice: in omaggio al sopra citato articolo 141 e alla direttiva 54, si crei in Italia un’Autorità indipendente per l’effettiva parità di genere nel mercato del lavoro. Essa sia dotata di un budget non ampio ma adeguato al compito di combattere le secolari, perduranti e talora crescenti discriminazioni esistenti non tanto nell’accesso, nella retribuzione a parità di occupazione, nella formazione professionale o nei regimi di sicurezza sociale, quanto nel trattamento sul lavoro delle donne, drammaticamente colpite da segregazioni, soprattutto verticali, che impediscono loro di rompere i l soffitto di cristallo delle posizioni apicali, nonostante il loro maggiore capitale umano.

L’ Autorità perciò si focalizzi sull’analisi delle disuguaglianze di genere nel mercato italiano e proponga soluzioni efficaci al fine di contenerle e possibilmente eliminarle, puntando sulla meritocrazia e ispirandosi alle migliori pratiche di altri paesi. Essa vigili sulla nostra realtà, denunci agli organi competenti i cattivi comportamenti, evidenzi quelli buoni, attribuendo essa stessa premi e sanzioni di carattere morale, e riferisca alla commissione europea in uno spirito di coordinamento aperto.

In attesa che tanti Nobel continuino ad arrivare alle donne e che, come nel passato, tornino anche nomi di italiane.

il Gengis
23-10-09, 19:58
Bonino: e le mie amiche precarie a Mediaset?
«Bisogna puntare sui sussidi sociali»

• da Il sole 24 ore del 22 ottobre 2009

«E adesso cosa dico alle mie amiche precarie a Mediaset? Che il posto fisso glielo garantisce il presidente del Consiglio?». Emma Bonino, vicepresidente del Senato e punta di lancia del drappello dei Radicali, fa ricorso a una battuta per commentare l’ultima presa di posizione del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sul valore del posto fisso e sulla necessità di ripensare la flessibilità nel mercato del lavoro, prontamente confermata da una nota di Palazzo Chigi.


«Fuor di battuta, quella di Tremonti è una presa di posizione che mi ha lasciata stupita e perplessa. È come se in un pomeriggio fossero state bruciate le convinzioni e gli atti degli ultimi 15 anni di attività politica del centro-destra. Ormai siamo in un paese dove ogni settimana la discussione si infiamma su un tema, prima il burqa, poi l’islam a scuola, poi il posto fisso. Temi grandi, discussi in modo sgangherato e approssimativo, propagandistico. Sembrano chiacchiere al bar, invece diventano dibattito politico». Per Bonino non è un problema di valori: «La flessibilità è uno strumento di gestione del mercato del lavoro e della produzione, non un valore. È una necessità del mondo in cui viviamo noi e in cui vivono lavoratori e imprenditori. Semmai il problema è che la flessibilità va comunque ben supportata per poter funzionare al meglio. Annunciare l’apologia del posto fisso temo possa avere come conseguenza pratica solo una nuova crescita del lavoro nero». Servono ammortizzatori sociali e "paracadute" efficienti per chi perde il posto: «Il tema è quello della riforma degli ammortizzatori sociali. È stato fatto qualcosa nella direzione giusta, ma anche le casse integrazioni in deroga hanno ancora problemi procedurali e sono solo uno sforzo iniziale. Comunque si dimostra che la stabilità da tutelare è quella del lavoratore non del posto di lavoro, per questo la direzione giusta è quella del welfare to work o della flexsecurity su cui il governo sta peraltro già lavorando». Il riferimento è al prossimo Statuto dei lavori, cui si sta applicando un gruppo guidato da Maurizio Sacconi, e ai progetti di legge elaborati da Pietro Ichino.


Bonino non trascura nemmeno di rilevare come lo stato datore di lavoro sia, quanto a valorizzazione dei posti fissi, particolarmente inadempiente: «L’amministrazione pubblica è il più grande datore di lavoro precario, e la bagarre sul decreto scuola lo ha confermato. Dunque mi stupisce ancora di più, anche come tattica politica, l’annuncio del ministro dell’Economia: è come se avesse solennizzato uno stato di impossibilità operativa, di debolezza intrinseca. Il riferimento culturale del ministro, come in altre occasioni, è stata l’ultima enciclica di Benedetto XVI – continua la vicepresidente del Senato – ma mi chiedo se un ministro potente come Tremonti non debba anche guardare altrove. Magari al suo elettorato più classico, le piccole e medie imprese del Nord: che ne pensano di stabilizzare l’occupazione oggi flessibile? Non vorrei – continua – che la discussione fosse impostata in modo assurdo. È chiaro che è meglio il posto fisso della precarietà, ma è chiaro anche che sarebbe meglio essere tutti sani, ricchi e magari tutti italiani, così risolviamo anche il tema della globalizzazione».

il Gengis
27-10-09, 08:45
Intervista a Emma Bonino
« Bene il referendum irlandese, ma ora l?Europa esca dal torpore ! »

• da Eurosduvillage.eu del 26 ottobre 2009

di Valentina Marino

Da europeista convinta come ha accolto il recente esito del referendum irlandese a favore del trattato di Lisbona, dopo il risultato contrario del giugno 2008 ?

Con sollievo.

Secondo Lei quale significato si deve attribuire a questo risultato ?

L’Irlanda era uno scoglio importante da superare e gli irlandesi hanno capito che in questo mondo da soli non si va da nessuna parte. Certo, non dobbiamo nasconderci che la crisi economica ha colpito l’Irlanda come ovunque e ciò ha favorito il ripensamento.

Quanto questo dato sarà in grado di influenzare e di rendere probabile la firma del presidente Ceco Klaus ?

Sono tra coloro che pensavano che Klaus l’avrebbe tirata in lungo e in largo ma realisticamente non può reggere, come vorrebbe, fino alle elezioni inglesi in giugno e dunque all’eventuale referendum prospettato da Cameron in caso di vittoria. Credo che lo showdown si avvicini, al vertice europeo di fine ottobre oppure al massimo a quello di metà dicembre.

Si corre il rischio che, una volta approvato, il Trattato sia già datato ?

Questo Trattato, come sappiamo, ha subito molti compromessi e il risultato finale obiettivamente non può « illuminare d’immenso » dei federalisti europei come noi Radicali. Ma è comunque un passo avanti nella governance europea e nell’istituzione di nuove figure comuni - un Presidente del Consiglio Ue più stabile e un Alto rappresentante per la politica estera in primis - e mi auguro che tanto basta per farci uscire da questa protratta situazione di stallo.

Cosa manca alle istituzioni comunitarie, ai suoi meccanismi ed ai governi europei per stare al passo con i tempi che le vengono imposti dal contesto delle relazioni internazionali nella quale è inserita ?

Prima di tutto occorrerebbero dei leader lungimiranti e un grande disegno federalista. All’orizzonte non vedo nessuno dei due. E, da federalista convinta, ritengo che la via che privilegia la qualità dell’integrazione sia oggi prioritaria rispetto alle discussioni metodologiche. Non è più questa l’epoca in cui il metodo (comunitario) sia al tempo stesso l’equivalente e la condizione unica dell’integrazione. Per avanzare oggi, c’è verosimilmente bisogno di un motore politico, di un nucleo duro di paesi fortemente motivati sul cammino di una maggiore integrazione che faccia da apripista a nuovi e più ambiziosi percorsi di integrazione. Non parlo di cooperazioni rafforzate, tributarie di procedure « pesanti » previste dai Trattati, ma di Governi « like-minded » pronti a condividere i rischi e l’onere politico di cessioni di sovranità ulteriori, appunto ai meccanismi comunitari, per il bene comune di tutti. E’ stata questa, non dimentichiamolo, la via che ha segnato l’avvio delle più significative realizzazioni politiche dell’integrazione nell’ultimo decennio : dall’Euro a Schengen, dalla Difesa (St Malo) a Galileo. E’ la via del coraggio di pochi che finisce col catalizzare l’entusiasmo di molti.

Dal suo punto di vista quali sono i nodi europei ai quali non è più possibile rimandare una risposta ? Turchia ? Balcani ?

Credo senz’altro che la questione dell’adesione della Turchia sia la « cartina di tornasole » su che tipo di Europa vogliamo, non soltanto dal punto di vista della credibilità - perché pacta sunt servanda avendo noi preso impegni formali con la Turchia - ma più profondamente se confermare o meno la visione di un’Europa che non è un progetto geografico, né tantomeno religioso, ma un progetto politico che vede nell’allargamento e consolidamento della democrazia, dei diritti umani e dello stato di diritto il valore principale da portare avanti.

Condivide l’espressione di Giuliano Amato che definisce l’Unione un’« ermafrodita » ?

Cosa vuole dire Amato con questa definizione ? Che l’Europa è un’entità ambigua ? Non mi sembra questa l’immagine più calzante. Semmai, vedo una Europa intorpidita, al limite della paralisi, che stona in maniera stridente con il contesto internazionale che muta costantemente e a ritmi evidentemente « non europei ».

Burton Morris
06-11-09, 20:17
L'Europa, il rapporto con gli Usa e la scommessa di un G3 economico

• da Corriere della Sera del 6 novembre 2009

di Emma Bonino, Marta Dassù

Martedì scorso si è svolto a Washington il summit Usa-Ue: nessuno se ne è accorto, o quasi. Mentre tutti si accorgono, in anticipo, che fra pochi giorni Barack Obama andrà in visita in Cina. C’è qui, in questo scarto fra disattenzione e attenzione, la vicenda internazionale degli ultimi anni: lo spostamento degli equilibri globali verso l’asse transpacifico a spese di quello transatlantico. Il G2, insomma. Ma è proprio così? La nostra tesi è che non sia esattamente così. O meglio, che gli europei abbiano ancora delle carte da giocare per restare nel gioco — se solo volessero. Se solo volessero, insomma, guardare a un G3. Prendiamo i numeri. L’area economica transatlantica resta, per ora, l’area più vasta, più ricca e più integrata del mondo. Se guardiamo agli investimenti esteri diretti, il rapporto fra Stati Uniti ed Europa è ancora molto più importante, per entrambi, della relazione con la Cina. E al di là di tutti i discorsi sull’ascesa della potenza cinese, il peso europeo nel commercio globale ha continuato a crescere, nell’ultimo decennio. L’Ue è la principale potenza commerciale del mondo, anche se— per ragioni abbastanza misteriose— facciamo finta di non accorgercene. Apparentemente, la discussione sugli equilibri monetari globali sembra dipendere in modo esclusivo dalla relazione fra la Cina e gli Stati Uniti, fra il grande creditore asiatico e il grande debitore occidentale. Nei fatti, l’euro ha una sua voce da esercitare, ammesso che la politica monetaria europea venga finalmente vista non solo come politica «interna» all’Ue ma come parte di una strategia globale. Il che ci permetterebbe di reggere alle pressioni congiunte che oggi si scaricano sull’euro. Un G3 monetario sarebbe insomma un progresso, per l’economia europea e per la riforma della governance internazionale. Dopo tutto, il G2 lo abbiamo già sperimentato nei fatti: difficile chiamare in modo diverso quella «relazione pericolosa» fra la propensione alla spesa degli Stati Uniti e la tendenza al risparmio della Cina che è stata fra le cause, fra le cause certe, della crisi finanziaria. Se un G3 economico non è impossibile da immaginare — perché lo dicono i dati sulla rilevanza dell’euro-zona e perché l’Ue ha in teoria strumenti comuni, monetari e commerciali, da esercitare— è più difficile capire se l’alleanza politica fra l’Europa e gli Stati Uniti faccia parte del passato o abbia anche un futuro. Perché, se così non fosse, se cioè non reggesse il lato atlantico, l’Europa resterebbe una potenza regionale, magari con un rapporto preferenziale con Mosca (l’Eu-Russia); ma non diventerebbe un attore del nuovo assetto globale. Secondo un rapporto appena pubblicato dallo European Council on Foreign Relations, esiste in proposito un rischio specifico: il rischio che gli europei continuino a raccontarsi, sui rapporti con Washington, una serie di comode «balle». La realtà è che Barack Obama è il primo presidente postatlantico da mezzo secolo a questa parte; la realtà è che dell’Europa in ordine sparso non gli importa granché; e la realtà, infine, è che l’America è sufficientemente pragmatica da giudicare l’Europa non su basi nostalgiche (il legame indispensabile degli anni della Guerra fredda) ma sulla base del contributo concreto che gli europei sono in grado di offrire nella gestione delle crisi internazionali (Afghanistan, Medio Oriente, etc). Per cui, se l’Europa intende preservare il legame con gli Stati Uniti, non può limitarsi a coltivare i riti atlantici del passato; deve anzi liberarsene. Solo un’Europa «post-americana», questa la tesi di fondo, sarà interessante anche per Washington. Paradossalmente, infatti, l’Europa riuscirà a maturare, come attore internazionale, solo emancipandosi da un rapporto ancora troppo subalterno con l’altra sponda dell’Atlantico (quanto a scelte strategiche, definizione dei propri interessi, strumenti comuni di politica estera e di difesa). L’autonomia come condizione per la rilevanza. E la rilevanza come condizione per salvare un’alleanza occidentale che dovrà essere meno squilibrata — e quindi più utile agli Stati Uniti— o non sarà più. D’accordo. D’accordo a grandi linee e d’accordo in parte. Perché alcuni degli assunti del Rapporto sono discutibili (in che senso viviamo in un mondo «postamericano»?) o non vengono dimostrati. Si può per esempio dare per scontato che l’Europa non abbia più bisogno, in termini di sicurezza, della protezione americana? A giudicare dal livello delle spese militari europee, e soprattutto dalla loro qualità, risponderemmo di no. E quali sono gli interessi divergenti fra Stati Uniti ed Europa, spesso evocati nel Rapporto del Council ma mai definiti? La vera frattura geopolitica che potrebbe verificarsi— quella fra «Eu-Russia» e «China-America» — non viene presa in considerazione. Ma come invito a pensare senza troppi tabù, il punto di partenza che ci viene sottoposto è utile: nella relazione con gli Stati Uniti, gli europei continuano a soffrire di un insopportabile infantilismo. Chiedono protezione, sono abituati a delegare, muoiono dalla voglia di preservare rapporti bilaterali sempre definiti «speciali». Tutte cose che, messe insieme, impediscono all’Europa di assumersi le proprie responsabilità. E di combinare, al proprio peso economico, quel peso politico potenziale che— solo — potrebbe evitare un G2.

il Gengis
11-11-09, 12:37
Dalla parte di tutte le bambine
Si apre oggi nel Burkina Faso la conferenza mondiale per la messa al bando delle mutilazioni genitali. All'Onu il prossimo passo

• da L'Unità del 9 novembre 2009

di Emma Bonino

Ricordo ancora con emozione il racconto di donne africane, con le quali ho poi stretto amicizia, sulla lotta che faticosamente e nella quasi totale clandestinità stavano portando avanti da oltre un ventennio. Eravamo alla fine degli anni Novanta, avevo da poco concluso il mio mandato di Commissaria europea e, nonostante ne avessi sentito parlare essendomi occupata di Africa a lungo, fino ad allora non mi ero impegnata in prima persona contro la pratica, così diffusa nel grande continente, delle mutilazioni genitali femminili. All`epoca, parlarne apertamente era impensabile in molte realtà, si trattava di un argomento tabù, gelosamente custodito all`interno delle comunità in nome di tradizioni antichissime spesso confuse con le religioni. La conoscenza dell`incidenza effettiva delle mutilazioni genitali femminili mi colpì per la sua violenza, per la sua portata simbolica di soggiogamento della donna, per le conseguenze nefaste sulla salute psicofisica delle vittime, ma soprattutto per la sua diffusione: due milioni di bambine esposte al rischio di mutilazione ogni anno. La determinazione delle attiviste africane e la loro espressa richiesta di sostegno, mi convinse della necessità di un impegno di lungo periodo e fu così che con gli amici di Non c`è Pace Senza Giustizia decidemmo di lanciare una campagna internazionale. L`obiettivo della prima fase fu di contribuire a sollevare la coltre di silenzi. Grazie all`impegno della first lady egiziana Suzanne Mubarak, nel 2003 le militanti anti-mutilazioni si sono ritrovate sedute attorno allo stesso tavolo con i rappresentanti dei rispettivi governi e, per la prima volta, si è parlato di mutilazioni genitali femminili come violazione di uno dei diritti basilari della persona, il diritto all`integrità fisica. La partecipazione delle più alte autorità religiose musulmane e copre ha scardinato l`alibi religioso fino a quel momento usato per giustificare la pratica. Di lì a qualche settimana l`Unione Africana ha adottato il Protocollo di Maputo, un trattato entrato in vigore nel 2005 che bandisce le mutilazioni genitali come violazione dei diritti umani della donna. Come spesso accade quando si tratta di conquiste di civiltà e di spazi di libertà individuale, le esperienze altrui possono giocare un ruolo decisivo nel determinare un`accelerazione, ed è proprio quello che è successo in questa campagna. Dopo il 2003 la rete di attiviste locali ha iniziato a fare sinergia, la loro azione con i governi è diventata più efficace e, ad oggi, 18 Stati africani sui 28 dove si praticano le mutilazioni genitali femminili hanno adottato una legge che punisce penalmente la pratica e hanno messo in campo campagne d`informazione e di sensibilizzazione. A distanza di quasi un decennio, i risultati ottenuti sono eccellenti e continua a crescere il numero di Paesi che scelgono di dotarsi di un quadro legislativo di prevenzione e sanzione. Nel corso della seconda Conferenza del Cairo, che si è tenuta nel dicembre del 2008 grazie al contributo del governo italiano, tutti i partecipanti, governativi e non, hanno preso atto dei considerevoli passi avanti compiuti negli ultimi cinque anni e hanno affermato l`intenzione di raddoppiare i propri sforzi. È ormai evidente l`esistenza di una volontà generalizzata di creare le condizioni politiche per sradicare questa pratica una volta per tutte. Il governo italiano, da anni molto attento e sensibile a questa campagna, ha di recente adottato iniziative ai più alti livelli diplomatici affinché la prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvi una risoluzione di condanna delle mutilazioni genitali femminili come violazione dei diritti umani e che inviti i governi dei Paesi interessati ad adottare tutte le misure necessarie a contrastare il fenomeno. Con questo spirito la first lady del Burkina Faso, Chantal Compaoré, ha voluto organizzare con Non c`è Pace Senza Giustizia e con il sostegno della Cooperazione Italiana la conferenza «Dal Cairo a Ouagadougou: verso la definitiva messa al bando delle mutilazioni genitali femminili», che si apre oggi nella capitale burkinabé. Le first ladies dell`Africa occidentale sono state invitate a partecipare per sancire con la loro presenza l`impegno politico dei rispettivi Paesi a cooperare. Mentre fervono i preparativi per questo evento, le attiviste di tutta la regione cominciano ad arrivare in una torrida e caotica Ouagadougou, dove i venti degli ultimi giorni hanno colorato il cielo di sfumature rosso-arancio e dove le donne burkinabé sfrecciano per le strade sui loro scooter, lasciandosi dietro nuvoloni multicolori che si mescolano alle mille tinte dei loro abiti tradizionali.

Burton Morris
16-11-09, 02:18
Tre strade per cambiare la rotta dell'Europa

• da Corriere della Sera del 15 novembre 2009, pag. 38-39

di Emma Bonino

L'Europa va fiera del suo soft-power. Un orgoglio in gran parte giustificato dal ritorno nella famiglia europea di quei popoli separati per mezzo secolo da una cortina di ferro, dal meritevole soccorso umanitario dell'Unione europea in tanti punti critici del pianeta, dalla determinazione nel promuovere la cooperazione multilaterale come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali. Tuttavia, il lancio nel 1.999 di una Politica Europea di Sicurezza e Difesa (Pesd)- quarantacinque anni dopo la bocciatura della Ced, la Comunità Europea di Difesa - ha rappresentato una presa d'atto del mutamento del quadro strategico mondiale; e con essa, l'esigenza per l'Unione di assumersi la responsabilità e l'onere di partecipare alla gestione delle crisi e alla prevenzione dei conflitti al di là dei suoi confini.

A dieci anni di distanza, siamo ancora lontani dal raggiungere l'obiettivo di fondo della Pesd, quello di dotare l'Europa di una capacità di proiezione autonoma a misura di quelle ambizioni. I problemi di fondo, come sempre nella storia della costruzione europea, sono di natura politica. Ma la crisi finanziaria in corso certamente non aiuta. I bilanci militari sono infatti ovunque - persino oltre Atlantico - sottoposti alla mannaia dei tesorieri nazionali, indaffarati a recuperare risorse per far fronte alla crisi. E soprattutto in Europa, l'insostenibilità crescente di spese per far fronte ad obiettivi strategici totalmente irrilevanti nel mondo di oggi è un problema manifesto. Ha senso oggi mantenere eserciti ed armamenti essenzialmente predisposti alla difesa territoriale e a fronteggiare minacce convenzionali che verrebbero dal fronte orientale del continente, cioè dalla Russia o addirittura da un partner strategico dell'Ue e della Nato?

Abbiamo ancora bisogno di carri armati e di artiglieria pesante, o non piuttosto di trasporto aereo strategico e tattico, di mezzi di terra leggeri e polifunzionali per le missioni internazionali, nonché di comunicazioni più efficienti? La risposta a queste questioni sembrerebbe lapalissiana, ma non lo è ancora nei bilanci, e nemmeno nel calendario politico dei responsabili europei della Difesa. I dati, nudi e crudi, -ci dicono che la spesa militare annuale dei 27 Stati membri ammonta aduna cifra complessiva davvero ragguardevole, 201 miliardi di euro. Di questi, il 55% serve a mantenere quasi 2 milioni di uomini e donne in divisa: oltre mezzo milione in più della superpotenza Usa, che spende peraltro solo il 2o% del proprio bilancio militare per il personale. E, a differenza degli Usa, che presidiano con truppe tutte le zone calde del globo, il 7o% delle forze di terra europee non è in grado di operare fuori dal territorio nazionale. E ancora: gli Usa spendono il 29% del budget militare in investimenti - soprattutto ricerca e sviluppo - mentre gli europei vi dedicano solo il 19%. C'è ben poco da sorprendersi quindi se la somma della spesa militare dei 27, pur ammontando ad un quarto di quella mondiale, produce un'efficienza ben al di sotto di quella soglia.

E, si badi bene, i dati disaggregati peggiorano notevolmente il quadro a livello nazionale: perché rispetto a qualche attore europeo tuttora dotato di qualche capacità di proiezione globale (Regno Unito e Francia), e di bilanci relativamente «robusti» per sostenere lo sforzo relativo, la situazione della maggioranza degli altri Paesi (Italia e Germania incluse) palesa grande inadeguatezza sia sul piano della quantità che della qualità della spesa. È ora di invertire, una volta per tutte, questa tendenza ostinata e perniciosa (anche per i contribuenti) alla irrilevanza strategica dell'Europa. Come fare? Vedo tre vie per cambiare rotta: - quella della razionalizzazione. Non poche voci di spesa potrebbero essere eliminate o drasticamente ridotte, armonizzando progressivamente a livello europeo pianificazioni, investimenti e compatibilità operativa fra gli equipaggiamenti. Era questa, fra le altre, l'ambizione della Agenzia Europea di Difesa - un progetto finora sistematicamente ed incautamente osteggiato da molti Ministeri della Difesa. Per dirla con Nick Witney, che ne fu il primo Direttore, autore anche del recente rapporto dell'European Council on Foreign Relations Re-energising Europe's Security and Defence Policy, «la carenza cronica di mezzi e personale qualificato, e la mancata modernizzazione degli equipaggiamenti significa che molti dei duecento miliardi sono semplicemente sprecati» ; - quella istituzionale, legata alla entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

L'attesa ormai spasmodica dell'ultimo anello dell'interminabile catena di ratifiche fa ombra alla constatazione che una Unione finalmente dotata di strutture operative e riconoscibili sulla scena mondiale (un responsabile della politica estera comune; un Servizio diplomatico integrato; cooperazioni strutturate di Difesa) non avrà più alibi che le consentano di evadere le responsabilità che le competono per il mantenimento della pace e della sicurezza globale; - quella della politica e del dialogo multilaterale. Sembra banale affermarlo, in epoca di conflitti all'apparenza decentrati quanto irrisolvibili, ma la via maestra per la riduzione delle spese militari è quella della risoluzione nonviolenta dei conflitti. È la via perorata dal neo-Presidente Obama, inclusa l'aspirazione ad un disarmo nucleare generalizzato. Ma è anche la via perorata da tanti attori europei di risonanza mondiale, fra i quali mi piace ricordare Science for Peace, il movimento lanciato dalla Fondazione Veronesi. Come pure la storia e il vissuto del Partito Radicale Transnazionale, che del metodo nonviolento ha fatto la sua bandiera, da sempre.

il Gengis
22-11-09, 14:54
LE STREGHE CHE SI RIBELLANO ALLE MUTILAZIONI GENITALI

L'Unità - 15 novembre 2009


L'impegno delle donne ha fatto sì che nei paesi africani l'infibulazione abbia avuto una riduzione del 30%. Ma ora ci vuole la messa al bando


di Emma Bonino e Rita Ghedini


Roma - "Una volta qualcuno ha detto che l'amicizia è un rapporto a due dove ognuno è convinto di essere quello che ha avuto di più e dato di meno" scrive Silvana de Mari ne "Al gatto dagli occhi d'oro" (Fanucci, 2009) descrivendo le relazioni intense e potenti tra un gruppo di adolescenti, che crescendo insieme cambiano il proprio destino individuale e la qualità del contesto in cui vivono, un contesto in cui povertà ed emarginazione si traducono ordinariamente in discriminazione e violenza contro le bambine e le donne.
M.me Mariam Lamizana, Presidente del CIAF (Comitato Interafricano sulle Pratiche Tradizionali) intervenendo a margine della Conferenza internazionale «Dal Cairo a Ouagadougou: verso l'interdizione totale delle mutilazioni genitali femminili», tenutasi a Ouagadougou in Burkina Faso dall'8 al 10 novembre, ha detto «tutto questo è il portato di un'amicizia, di un'amicizia tra donne che hanno creduto di poter cambiare le cose».
Lo ha detto parlando ad un gruppo di donne e di uomini, numerosi questi ultimi, ospiti del «Centro per la salute riproduttiva delle donne e la prevenzione delle mutilazioni genitali femminili» di Ouagadougou gestito da AIDOS, un'ONG fondata da donne per aiutare le donne nel mondo a promuovere e difendere i propri diritti e a migliorare, insieme alla propria condizione, le condizioni di sviluppo delle proprie comunità.
La storia delle donne conosce e riconosce il potere trasformativo delle relazioni femminili. Qui a Ouagadougou questo potere è espresso in tutta la sua forza. Basta guardare il palco e la platea della Conferenza, dove siedono First Ladies di 18 paesi africani, Ministre, Diplomatiche, Parlamentari e funzionarie delle delegazioni
europee, giornaliste, bambine, ragazze, donne di ogni età ed estrazione. Basta guardare ed ascoltare le storie delle donne che frequentano il Centro di AIDOS e che ne hanno fatto, nel tempo, non solo un luogo di cura e di promozione della salute, ma anche un motore per lo sviluppo dei diritti civili delle donne e degli uomini, dei bambini e delle bambine, un luogo di promozione dell'emancipazione e dello sviluppo economico per tutti coloro che vivono nel poverissimo distretto in cui è stato costruito.
Qui, alla Conferenza come al Centro, il modello politico della creazione delle reti per lo sviluppo, del multilateralismo, della cooperazione territoriale si invera nelle parole di ciascuna, nella descrizione dei risultati ottenuti in dieci annidi lavoro per contrastare la pratica delle mutilazioni genitali femminili e raggiungere l'obiettivo, fissato al 2015 della «tolleranza zero» in tutto il mondo.
Diventa evidente come la rete delle donne abbia attivato la rete delle Organizzazioni non Governative e dei Governi consentendo di raggiungere risultati apprezzabili: 18 dei 28 Paesi africani in cui si praticano FMG hanno introdotto Leggi che condannano la pratica delle FMG, in come reato contro la persona; molti altri, pur non avendo ancora normato, hanno avviato campagne di sensibilizzazione ed educazione della popolazione.
I risultati si vedono: nel passaggio tra generazioni si osserva una riduzione del 30% della pratica: trenta madri su cento decidono che le loro figlie «non saranno tagliate e chiuse». Certo, si tratta di una media, fatta dal - 50% della Guinea Bissau e del Togo e, per contro, solo dal - 5% di Djibouti o del -9% del Mali: molto
lavoro deve, quindi, essere ancora fatto. Per questo sono importantissime le conclusioni contenute nella risoluzione finale della Conferenza:
1) adottare in tutti i Paesi la legge per la messa al bando delle FMG;
2) armonizzare e coordinare le legislazioni nazionali in materia, soprattutto sotto l'aspetto della natura ed intensità delle sanzioni, al fine di evitare l'irrilevanza della legislazione sui comportamenti e di contrastare la mobilità transfrontaliera fra Paesi, finalizzata all'aggiramento della legge;
3) promuovere campagne di informazione e di sensibilizzazione della popolazioni e degli operatori più direttamente coinvolti (operatori sanitari, insegnanti, poliziotti,
magistrati, autorità civili, politiche e religiose) nonché misure di sostegno alle donne che decidono di sottrarsi e sottrarre le donne della propria famiglia alla pratica, per evitarne l'emarginazione, l'esclusione sociale e, conseguentemente, la povertà;
4) promuovere gli accordi fra i Governi necessari a pervenire alla stesura e all'assunzione di una specifica Risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la messa al bando definitiva delle FMG. Mi sembra importante sottolineare che l'attenzione e l'impegno di tutti gli Stati e degli Organismi Mondiali è fondamentale anche per evitare che alla riduzione della pratica nelle aree tradizionalmente interessate corrisponda l'incremento nelle aree oggetto di immigrazione.
Su questo, per tutti, un dato che riguarda l'Italia: una ricerca commissionata dal Ministero delle Pari Opportunità Italiano stima in circa un migliaio le bambine e le adolescenti interessate o esposte al rischio di subire questa pratica.
«E' mia la decisione di parlare di queste cose, perché è vietato, se lo fai sei una strega» dice Maryam, bambina somala immigrata del libro di De Masi.
Le donne che si ribellano alla sopraffazione, che parlano, che operano insieme alle altre donne per cambiare la loro condizione e quella delle loro comunità da sempre sono «streghe»: lavoriamo perché la loro «magia» non si esaurisca.

Burton Morris
29-11-09, 13:02
TV: BONINO, IL PICCOLO SCHERMO SPINGE INDIETRO LE DONNE SULLA VIA DELLA PARITA' (3)
(Adnkronos) - ''Siamo al 57,5% e la Regione Toscana ha sottoscritto con le formazioni sociali e gli organismi di parita' il 'patto per l'occupazione femminile', con 12 azioni migliorative e con risorse specifiche. Ma oltre all'innalzamento dell'eta' pensionabile -ha sottolineato Chiara Grassi- bisogna focalizzare gli obiettivi per l'incremento dei servizi di welfare''. Le donne non solo guadagnano meno, hanno meno opportunita', ma devono anche supplire le carenze dei servizi pubblici verso la casa, i figli, gli anziani, l'educazione e la formazione. All'incontro sono intervenuti anche Alessandro Starnini (vice presidente Consiglio regionale), Lucia Franchini (consigliere regionale Pd), Marina Capponi (consigliera regionale di parita').
(Red-Xio/Ct/Adnkrono

Il Riformista (http://www.ilriformista.it/stories/adnkronos/135161/)

il Gengis
25-12-09, 01:08
MA L'ATOMO CONVIENE DAVVERO?

Il Sole 24 Ore - 13 dicembre 2009


L'Italia progetta il ritorno al nucleare mentre in Francia tempi, spese e sicurezza dei nuovi impianti seminano scie di dubbi


di Emma Bonino ed Elisabetta Zamparutti*


Le prevedibili polemiche sui siti nucleari e la convocazione a breve da parte del governo di tutte le imprese "interessate" al settore, ci spingono a riproporre alcuni quesiti di fondo che non hanno avuto risposte convincenti, insieme à problemi rimasti insoluti. E ci portano a farlo proprio su un giornale "nuclearista" perché il confronto è utile tra chi ha maturato opinioni diverse.
Ripetiamo la domanda che abbiamo posto nel 2008: in termini di costi/benefici, conviene al nostro paese costruire centrali nucleari impegnando nei prossimi anni 25/30 miliardi per soddisfare, ben che vada a partire dal 2020 il 25% dei` consumi elettrici attuali che corrispondono solo a circa il 4,5% dei consumi finali di energia? Non esiste altro modo per raggiungere e persino superare lo stesso obiettivo?
Una recente valutazione dell'Enea evidenzia che le uniche opzioni tecnologiche con benefici sociali netti o con costi minimi sono quelle riconducibili al miglioramento dell'efficienza energetica nell'industria, nel terziario, nel trasporto, nell'edilizia residenziale e nella produzione e trasmissione di elettricità. Secondo quanto affermato in questo studio, nel solo settore dell'elettricità, si potrebbero evitare 73 twh di energia elettrica, pari al 21,6% dei consumi finali lordi del 2008 (337,6 twh). Questo enorme potenziale di risparmio energetico al 2020 corrisponde alla produzione elettrica di circa 8 grandi centrali nucleari.
Siamo convinte che sia molto importante continuare ad usare risorse pubbliche per potenziare i nostri centri di ricerca e partecipare a programmi internazionali in questo campo. Ma intanto il rapporto dell'Enea ci dà un'indicazione univoca: le misure di efficienza energetica sono immediatamente praticabili, consentono di guadagnare tempo laddove le innovazioni non sono ancora mature in termini di prestazioni e di costi, e permettono di operare scelte strategiche in modo più consapevole e calibrato alle vere esigenze del nostro paese.
In modo acritico ci viene continuamente riproposto l'esempio francese, nonostante notizie d'oltralpe definiscano un "fiasco industriale" il nucleare francese. Quello, per intenderci, che dovremmo realizzare, incentrato sul reattore Epr. «Non si sa se riusciremo a costruirlo, né a che prezzo potrà essere realizzato: dai 3 miliardi di euro si è passati ai 5 e si evoca la cifra di 6 o 7 miliardi», riassumeva pochi giorni fa un dirigente di Edf dalle colonne del giornale francese Mediapart.fr. Il produttore Areva ha dovuto ammettere che il cantiere finlandese ha già prodotto 2,7 miliardi di perdite destinate a crescere e superare così il prezzo di vendita (3 miliardi) del reattore stesso. Così come ha dovuto riconoscere ritardi tali da far entrare in servizio l'ERP nel 2012 nonostante le previsioni iniziali parlassero del 2009. E il vicepresidente della compagnia elettrica finlandese Tvo, Timo Rajala, dalle pagine di Les Echos si è sentito in obbligo di rispedire al mittente le accuse di essere all'origine dei ritardi, affermando che «il progetto ha richiesto troppo tempo... Noi non vogliamo pagare i costi che si sono resi necessari per ricerca e sviluppo». Più discretamente, Edf ha annunciato il rinvio di almeno un anno della messa in servizio dell'ERP di Flamanville.
Ma soprattutto la Francia non ha risolto con il nucleare la dipendenza da fonti fossili, se consideriamo che consuma pro-capite più petrolio della Germania. E se è vero che nelle ore morte, quando è in una situazione di sovraccapacità, ci vende energia elettrica, è altrettanto vero che nelle ore di punta la compra appunto dalla stessa Germania. Per non parlare dell'avvertimento pesante lanciato dalle tre autorità per la sicurezza nucleare francese, finlandese e inglese. In un comunicato congiunto hanno rilevato la necessità di rafforzare il sistema di sicurezza dell'ERP perché «nel modo in cui è stato originariamente proposto dai licenziatari e da Areva, non osserva il principio d`indipendenza» tra i sistemi di sicurezza e quelli di controllo, che costituisce un principio basilare della sicurezza, e hanno chiesto una revisione completa del sistema. Sostanzialmente hanno detto: «Così non va». E non è difficile immaginare quanto sia costata all'autorità francese muovere una pubblica critica a quello che viene considerato un simbolo della grandeur francese. Né molto diversa pare la situazione di quell'altra tecnologia che potrebbe trovare attuazione in Italia, il reattore AP1000 dell'americana Westinghouse: il 27 novembre la direzione Sanità e Sicurezza britannica (Hse) ha avvertito che potrebbe non approvare il progetto se non risponderà alle riserve espresse in tema di sicurezza. Per cultura e prassi politica radicale non siamo affette dalla sindrome Nimby o da psicosi catastrofiste, ma le alternative esistono, come ha proposto la stessa Enea: efficienza energetica, energie alternative, ricerca.
Sicché ripetiamo la domanda: il nucleare conviene? Risolve?



*Rispettivamente Vicepresidente del Senato e deputata Radicale

Bartolo
26-12-09, 23:07
brava bonino. è sempre la meio :chefico:

Burton Morris
31-12-09, 03:28
brava bonino. è sempre la meio :chefico:

Ciao Bartolo, benvenuto nel forum. :chefico: