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Visualizza Versione Completa : Barone Giulio Cesare "Julius" Evola



Dark Knight
03-02-12, 09:55
In questo thread vorrei raccogliere più materiale possibile su Evola per un sereno confronto.

Opere di Julius Evola

(1920) Arte Astratta, posizione teorica (10 poemi, 4 composizioni, "Collection Dada", Zurigo), Roma, Maglione e Strini
(1921) La parole obscure du paysage intérieur, Parigi, Collection Dada
(1925) Saggi sull'idealismo magico , Roma, Atanòr
(1926) L'individuo e il divenire del mondo , Roma, Libreria di Scienze e Lettere
(1927) L'uomo come potenza , Roma, Atanòr
(1927) Teoria dell'individuo assoluto , Torino, Bocca (II ed. Roma, 1998)
(1928) Imperialismo pagano , Roma, Atanòr (II ed. Padova 1996; III ed. Roma 2004)
(1930) Fenomenologia dell'individuo assoluto , Torino, Bocca
(1931) La tradizione ermetica , Bari, Laterza
(1932) Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo , Torino, Bocca
(1934) Rivolta contro il mondo moderno , Milano, Hoepli
(1936) Tre aspetti del problema ebraico , Roma, Mediterranee
(1937) Il Mistero del Graal e la Tradizione Ghibellina dell'Impero, Milano, Hoepli (II ed.: "Il Mistero del Graal", Roma 1997)
(1937) Il mito del sangue , Milano, Hoepli (II ed. Milano 1942)
(1941) Indirizzi per una educazione razziale, Napoli, Conte
(1941) Sintesi di dottrina della razza , Milano, Hoepli
(1943) La dottrina del risveglio , Bari, Laterza
(1949) Lo Yoga della potenza , Torino, Bocca
(1950) Orientamenti, undici punti, Roma, Imperium (II ed.: "Orientamenti", Roma 1994)
(1951) Rivolta contro il mondo moderno , 2ª edizione, Torino, Bocca
(1953) Gli uomini e le rovine , Roma, Edizioni dell'Ascia
(1958) Metafisica del sesso , Roma, Atanòr
(1960) L'«Operaio» nel pensiero di Ernst Jünger , Roma, Armando
(1961) Cavalcare la tigre , Milano, Vanni Scheiwiller
(1963) Il cammino del cinabro , Milano, Vanni Scheiwiller
(1964) Il Fascismo. Saggio di una analisi critica dal punto di vista della destra , Roma, Volpe
(1968) L'arco e la clava , Milano, Vanni Scheiwiller
(1969) Raâga blanda , Composizioni 1916-1922, Milano, Vanni Scheiwiller
(1970) Il Fascismo. Saggio di una analisi critica dal punto di vista della destra , 2a edizione, Roma, Volpe
(1970) Il cammino del cinabro , 2ª edizione, Milano, Vanni Scheiwiller
(1972) Il taoismo , Roma, Mediterranee
(1972) Il cammino del cinabro , 2ª edizione, Milano, Vanni Scheiwiller
(1974) Ricognizioni. Uomini e problemi, Roma, Mediterraneee
(1974) Fenomenologia dell'individuo assoluto , Roma, Mediterranee
(1981) Saggi sull'idealismo magico , 2ª edizione, Genova, Alkaest

Traduzioni e opere a cura di J. Evola

(1923) Il libro della via e della virtù, (di Lao-Tzu), Lanciano, Carabba (II ed.: "Tao Tê Ching" di Lao-tze, Roma 2008)
(1932) Il mondo magico de gli heroi (di Cesare della Riviera), Bari, Laterza (II ed. Roma 1986)
(1937) La crisi del mondo moderno (di R. Guénon), Milano, Hoepli
(1949) Le madri e la virilità olimpica (di J.J. Bachofen), Torino, Bocca
(1955) Introduzione alla magia come scienza dell'Io (Gruppo di Ur), Torino, Bocca, 3 voll. (II ed. Roma 1987)
(1956) Sesso e carattere (di Otto Weininger), Torino, Bocca
(1957) Il tramonto dell'Occidente (di O. Spengler), Milano, Longanesi
(1959) I Versi d'Oro pitagorèi , Roma/Todi, Atanòr (II ed. Roma, Mediterranee, 2010)
(1959) Il Libro del Principio e della sua azione (di Lao-Tzu), Milano, Ceschina
(1963) L'uomo contro l'umano (di Gabriel Marcel), Roma, Volpe
(1965) Al muro del tempo (di Ernst Jünger) [con lo pseudonimo di Carlo d'Altavilla], Roma, Volpe
(1973) Il mondo come potenza (di Arthur Avalon), Roma, Mediterranee


Antologie di scritti di J. Evola non compilate dall'autore

(1970) I saggi di “Bilychnis” , Padova, Edizioni di Ar
(1970) I saggi della “Nuova Antologia” , Padova, Edizioni di Ar
(1970) L'Idea di Stato , Padova, Edizioni di Ar
(1970) Gerarchia e Democrazia , Padova, Edizioni di Ar
(1974) Meditazioni delle vette , La Spezia, Edizioni del Tridente (II ed. Roma 2003)
(1975) Diario 1943-44 , Genova, Centro Studi Evoliano (II ed. Scandiano 1989)
(1976) Etica aria , Genova, Centro Studi Evoliano
(1976) L'individuo e il divenire del mondo, Carmagnola, Arktos. (II ed. 1989-1991)
(1977) Simboli della Tradizione Occidentale , Carmagnola, Arktos
(1977) La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mitra , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola (II ed. Roma 2007)
(1977) Considerazioni sulla guerra occulta , Genova, Centro Studi Evoliano
(1977) Le razze e il mito delle origini di Roma , Monfalcone, Sentinella d'Italia
(1977) Il problema della donna , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola (s.d.)
(1977) La Torre, Foglio di espressioni varie e di tradizione una, Soc. Ed. Il Falco, Milano
(1977) Ultimi scritti , Napoli, Controcorrente
(1977) La Tradizione di Roma , Padova, Edizioni di Ar
(1977) Due Imperatori , Padova, Edizioni di Ar
(1977) Gerarchia e Democrazia , 2a edizione, Padova, Edizioni di Ar
(1978) Cultura e politica , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1978) Citazioni sulla Monarchia , Palermo, Edizioni Thule
(1978) L'infezione psicanalitica , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola (s.d.)
(1978) Il nichilismo attivo di Federico Nietzsche , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola (II ed. Roma 2000)
(1978) Lo Stato , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola (s.d.)
(1979) Europa una: forma e presupposti , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1979) La questione sociale , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1979) Saggi di dottrina politica , Sanremo, Edizioni Mizar
(1980) La satira politica di Trilussa , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola (s.d.)
(1980) Scienza ultima , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1981) Spengler e il “Tramonto dell'Occidente” , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1981) Lo Zen , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1981) Ur (1927), Rivista di indirizzi per una scienza dell'Io, anno I, Numero 1, Tilopa ed., Roma
(1981) Ur (1928), Rivista di indirizzi per una scienza dell'Io, anno II, Numero 1, Tilopa ed., Roma
(1981) Krur (1929), Rivista di scienze esoteriche, anno I, Numero 1, Tilopa ed., Roma
(1982) I tempi e la storia , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1982) I saggi della “Nuova Antologia” , 2a edizione, Padova, Edizioni di Ar
(1982) “Civiltà” americana , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1984) La “forza rivoluzionaria” di Roma , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1984) Scritti sulla massoneria , Roma, Settimo Sigillo
(1984) Oriente e Occidente , Milano, La Queste
(1984) Un Maestro dei tempi moderni: René Guénon , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola (1984) Il valore dell'occultismo nella cultura contemporanea , «Quaderni del Basilisco», Il Basilisco , Genova
(1985) Filosofia, etica e mistica del razzismo , Monfalcone, Sentinella d'Italia
(1986) Monarchia, Aristocrazia, Tradizione , Sanremo, Edizioni Casabianca
(1986) I “Placebo” , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1987) Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi (1934-1962) , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1987) Etica aria , 2a edizione, Roma, Edizioni Europa
(1987) I saggi di "Bilychnis" , 3a edizione, Padova, Edizioni di Ar
(1988) Gli articoli de "La Vita Italiana" durante il periodo bellico , Treviso, Centro Studi Tradizionali
(1988) Simboli della Tradizione Occidentale , 2a edizione, Carmagnola, Arktos
(1989) Dal crepuscolo all'oscuramento della tradizione nipponica , Treviso, Centro
Studi Tradizionali
(1991) Il ciclo si chiude, americanismo e bolscevismo 1929-1969 , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1991) Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923) , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1992) Il "genio d'Israele", l'azione distruttrice dell'ebraismo , Catania, Edizioni Il Cinabro
(1992) Il problema di Oriente e Occidente, Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1993) Fenomenologia della sovversione, l'Antitradizione in scritti politici del 1933-70 , Borzano, Sear
(1994) L'Idea di Stato , 3a edizione, Padova, Edizioni di Ar
(1994) Scritti sull'arte d'avanguardia , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1994) Esplorazioni e disamine, gli scritti di “Bibliografia Fascista” , Parma, Edizioni all'insegna del Veltro, (volume primo 1934-1939)
(1995) Esplorazioni e disamine, gli scritti di “Bibliografia Fascista” , Parma, Edizioni all'insegna del Veltro, (volume secondo 1940-1943)
(1995) Lo Stato (1934-1943) , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1995) Lettere di Julius Evola a Benedetto Croce (1925-1933) , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1996) La tragedia della Guardia di Ferro , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1996) Scritti per “Vie della Tradizione” 1971-1974 , Palermo, Edizioni Vie della Tradizione
(1996) Carattere , Catania, Edizioni Il Cinabro
(1997) L'Idealismo Realistico (1924-1928) , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1997) Idee per una Destra , Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola
(1999) Evola portatile (Citazioni 1920-1974), Roma, Settimo Sigillo
(1999) Vita Nova (1925-1933), Roma,
(2001) Il Secolo d'Italia (1952-1954), Roma, Ed. Fondazione Julius Evola
(2002) La Nobiltà della Stirpe (1932-1938) La Difesa della Razza (1939-1942), Ed. Fondazione Julius Evola
(2003) I testi di Totalità, Il Borghese, La Destra, Edizioni di Ar, Padova
(2003) Il Lavoro d'Italia (1927-928) Il Lavoro Fascista (1941) Carattere (1941-1943), Ed. Fondazione J. Evola
(2004) Apolitia (Scritti sugli "orientamenti esistenziali" 1934-1973) Quaderni di testi evoliani n. 40 , Ed. Fondazione Julius Evola
(2004) Lo Stato organico (Scritti sull'idea di Stato 1934-1963), Quaderni di testi evoliani n. 38, Ed Fondazione J.E.
(2004) Il Federalismo imperiale (Scritti sull'idea di Impero 1926-1953), Quaderni di testi evoliani. n. 39, Ed. Fondazione J. E.
(2005) Critica del costume , Catania, Edizioni Il Cinabro
(2006) Augustea (1941-1943) La Stampa (1942-1943), Roma, Ed. Fondazione Julius Evola
(2008) Il mondo alla rovescia. Saggi critici e recensioni 1923-1959 , Genova, Arya Edizioni
(2008) Anticomunismo positivo. Scritti su bolscevismo e marxismo 1938-1968 , Napoli, Controcorrente edizioni

Dark Knight
03-02-12, 09:57
Nell'introduzione alle Enneadi Porfirio scrisse di Plotino: "Della sua origine dei suoi parenti, della sua patria non amava parlare: né mai permise che pittore o scultore gli facesse il ritratto, quasi si vergognasse di avere un corpo".

Di Julius Evola si potrebbe dire la stessa cosa: degli anni dell'infanzia e dell'adolescenza infatti sappiamo poco o nulla, e poco o nulla conosciamo, attraverso di lui, di episodi, esperienze o solo aneddoti della sua vita. Nel Cammino del Cinabro, un libro considerato la guida attraverso i suoi libri e le sue idee, e che possiamo tranquillamente definire la sua autobiografia spirituale, Evola non si abbandona mai all'onda dei ricordi: si ha così l'impressione che nulla nella sua vita sia stato lasciato in sospeso e che soprattutto lui stesso considerasse la sua persona semplicemente come il veicolo, lo strumento, il canale di trasmissione dell'idea tradizionale e della sua etica che ammonisce non esser importante chi agisce ma l'azione compiuta.

Julius Evola nasce a Roma il 19 maggio del 1898 da una famiglia siciliana di antiche origini nobili, le prime notizie, scarne, che lo riguardano le apprendiamo dal Cammino del Cinabro: "Nella prima adolescenza si sviluppò in me un interesse naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell'arte. Da giovinetto, subito dopo il periodo di romanzi d'avventure, mi ero messo in mente di compilare, insieme ad un amico. una storia della filosofia, a base di sunti. D'altra parte. se mi ero già sentito attratto da scrittori come Wilde e D'Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi. a tutta la letteratura e l'arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime serrato e libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l'incontro con pensatori come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger".

Parallelamente era catturato dalla cultura più anticonformista di quel tempo: Marinetti e il futurismo, Papini e Lacerba, Tzara e il dadaismo. Evola fu in contatto anche epistolare con Tzara e lui stesso s'impegnò nel dadaismo dipingendo alcuni quadri che gli hanno fruttato la qualifica di maggiore e più interessante esponente del dadaismo italiano. Sono dipinti questi le cui geometrie metafisiche sprigionano un'aurea come quelle di alcune poesie, scritte anch'esse in quegli anni. Una dedicata all'alba recita così: "A levante ora il cielo si diluisce I ha dissonanze in roseo I mentre giungono lentamente impolverati suoni flautati".

Evola sentiva fortissimo l'impulso alla trascendenza: "quasi il desiderio di una liberazione o evasione non esente da sfaldamenti mistici", ma allo stesso tempo la disposizione intima di kshatriya, di guerriero, gli portava un impulso per l'azione. Nel 1917 partecipa diciannovenne al primo conflitto mondiale come ufficiale di artiglieria. Evola non è un nazionalista, è attratto anzi dagli Stati imperiali contro cui deve combattere. Viene assegnato a posizioni montane di prima linea vicino ad Asiago dove cominciano, forse, le sue meditazioni delle vette, il suo amore per l'alpinismo e la montagna come espe*rienza interiore.

Evola, che non viene impegnato in azioni militari di rilievo, finita la guerra rientra a Roma: gli anni che seguono saranno per lui quelli di una crisi esistenziale drammatica e decisiva. Scrive nel Cammino: "Col compiersi del mio sviluppo, si acutizzarono in me l'insofferenza per la vita normale alla quale ero tornato, il senso dell'inconsistenza e della vanità degli scopi che normalmente impegnano le attività umane. In modo confuso ma intenso, si manifestava il congenito impulso alla trascendenza".

Evola sente il bisogno di raggiungere una percezione più profonda e reale della realtà oltre quella, limitata, dei cinque sensi fisici: comincia a far uso di sostanze stupefacenti per placare in qualche modo la sua fame di assoluto. Ciò però non risolve nulla, anzi aggrava la situazione tanto che giunge ad un punto morto: ha 23 anni, l'età in cui si suicidarono Weininger e Michelstaedter. Decide di farla finita anche lui, di chiudere la partita con la vita.

Ma accade qualcosa: “Questa soluzione”, scrive Evola, “fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini”. Così recitava il testo del Buddha: "Chi prende l'estinzione come estinzione, e presa l'estinzione come estinzione pensa all'estinzione, pensa sull'estinzione, pensa 'mia è l'estinzione' e si rallegra dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione". "Fu per me una luce improvvisa". scrive Evola. "in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi”.

Evola non rinnegherà mai certe esperienze, ma terrà a specificare che non divenne schiavo delle droghe e che successivamente non ne senti più il bisogno né la mancanza. Intanto, si conclude una fase. Già nel 1921 infatti, Evola smette del tutto la pittura, e dopo il 1922 cessa anche di scrivere poesie.

Comincia il periodo filosofico: già nel 1917, in trincea, aveva iniziato a scrivere Teoria e Fenomenologia dell'individuo assoluto, un'opera che conclude nel 1924 e che viene pubblicata in due volumi, dall'editore Bocca, nel 1927 e nel 1930. In questi due libri Evola associa il suo interesse per la filosofia a quello per le dottrine riguardanti il sovrarazionale, il sacro e la Gnosi. L'obiettivo era tentare il superamento della dualità io/non-io: il soggetto che percepisce il mondo deve sentire che quell'io che ha evocato il mondo è lui stesso, che i confini del suo essere sono più estesi di quelli di cui è cosciente nella esperienza di veglia, deve comprendere che il mondo è una "ipnosi cristallizzata alla quale", scrive Adriano Romualdi che fu suo discepolo e suo esegeta, "si sfugge svegliandosi dal mondo dei sensi con una disciplina della mente".

Nelle teorizzazioni di Evola c'era l'influenza della sapienza tantrica che divulga con L'uomo come potenza edito da Atanòr nel 1926. Com'è, noto i Tantra negano ogni dualismo tra dio e natura, tra uomo e mondo: questo mon*do che ci circonda è la divinità stessa e la stessa divinità non è differente dall'io definitivamente liberato: la realtà è celata dal "velo di Maya" che la ispessisce, ma una volta rimosso il velo l'occhio percepirebbe che l'intero universo non è che un'espressione del proprio Sé.

Questi sono gli anni in cui Evola comincia a frequentare i circoli dello spiritualismo romano: entra in contato con kremmerziani, antroposofi teosofi, ma sono anche gli anni delle avventure galanti sullo sfondo di una Ro*ma notturna. Su questo argomento Evola ha sempre tenuto un certo riserbo, ma di una vicenda in particolare sappiamo dal romanzo Amo dunque sono (1927) della scrittrice Sibilla Aleramo con la quale Evola ebbe un tempestoso rapporto sentimentale.

Del 1924-26 sono le collaborazioni a riviste come Ultra, Bilychnis. lgnis, Atanor. Del 1927-29 è l'esperienza del "Gruppo di UR" di cui Evola è il coordinatore dando vita ad una serie di fascicoli, un'antologia dei quali uscirà per Bocca nel 955-6 in tre volumi col titolo: Introduzione alla Magia quale Scienza dell'Io. Qui magia è appunto "scienza dell'Io", apertura verso stati di percezione più sottili, tecnica di risveglio interiore.

Intanto in Italia aveva preso forma il fascismo. Evola era già intervenuto nel dominio della politica collaborando nel 1924-5 a Il mondo e a Lo Stato democratico, testate dichiaratamente antifasciste ma disposte ad ospitare le sue riflessioni ispirate ad un antifascismo antidemocratico. Eppure il suo interessamento a questa sfera non gli aveva mai creato condizionamenti, né lui si era proposto di esercitarli. Nel 1928, invece, con Imperialismo pagano (Atanòr) Evola, dopo una violentissima critica al cristianesimo, si rivolge esplicitamente al fascismo invitandolo a tagliar corto con i cattolici. Il libro gli vale una serie infinita di problemi. Evola stesso, nella sua maturità, giudicherà quest'opera estremistica, un pamphlet giovanile.

Tra il 1927 e il 1929, ha un carteggio con Giovanni Gentile. L'argomento è la collaborazione di Evola all'Enciclopedia Treccani per la voce sull'ermetismo, lettere in cui Evola trova l'occasione per segnalare al Gentile alcune delle sue posizioni anche in materia filosofica e di critica della civiltà. L'epistolario oltre a dimostrare il riconoscimento della competenza di Evola in materia dì scienze occulte da parte del Gentile, denota l'intenzione di Evola di aprire un dialogo con la cultura ufficiale del regime.

Dal 1925 al 1933 ha un rapporto epistolare anche con Benedetto Croce. Evola ha accennato al rapporto con Croce nel Cammino del Cinabro, ma è grazie alle ricerche di Stefano Arcella che oggi se ne conosce il contenuto. Il motivo specifico del carteggio è quello di pubblicare presso Laterza le opere filosofiche: Teoria e fenomenologia, Nelle lettere Evola nconosce al Croce "quel vasto, oggettivo senso di comprensione, che lo distingue così nettamente dal settarismo e dal dogmatismo oggi così diffuso in Italia". Croce spenderà per queste opere un sincero apprezzamento, giudicandole “ben inquadrate filosoficamente”. Con Teoria e Fenomenologia il periodo filosofico di Evola è concluso.

Nel 1930, insieme ad altri amici, tra cui Emilio Servadio, padre della psicanalisi italiana, Evola dà vita a La Torre: "Fu un nuovo tentativo di sortita nel dominio politico culturale. Abbandonando le tesi estremiste e poco meditate di Imperialismo pagano, riferendomi invece al concetto di Tradizione", scrive Evola, "volli vedere fino a che punto con esso si potesse agire sull'ambiente italiano, fuor dal campo ristretto di studi specializzati". Nell'editoriale del primo numero si propugna una rivolta radicale contro la civiltà moderna con queste parole: "La nostra parola d'ordine, su tutti i piani, è il diritto sovrano di ciò che fu privilegio ascetico, eroico e aristocratico rispetto a tutto ciò che è pratico, condizionato, temporale... è la ferma protesta contro l'onnipervadenza insolente della tirannide economica e sociale, e contro il naufragio di ogni punto di vista superiore in quello più meschinamente umano".

Ma Evola non aveva una buona fama presso varie autorità del regime, Imperialismo pagano non viene gradito e meno ancora piace ora l'intransigenza della Torre, la sua indisponibilità assoluta a piegarsi ai conformismi e ai tatticismi della politica. Sempre nel primo numero, in un articoletto intitolato Carta d'identità, si legge: "La nostra rivista è sorta per difendere dei principi che per noi sarebbero assolutamente gli stessi, sia che ci trovassimo in un regime fascista, sia che ci trovassimo in un regime comunista, anarchico o democratico. In sé questi principi sono superiori al piano politico; ma applicati al piano politico, essi possono solo dar luogo ad un ordine di differenziazioni qualitative, quindi di gerarchia, quindi anche di autorità e di Imperium nel senso più ampio". E veniva aggiunto a mo' di chiusa: "Nella misura in cui il fascismo segua e difenda tali principi, in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto".

Ciò che fece saltare i nervi al peggiore fascismo fu una rubrica interna della Torre: L'arco e la clava. Dopo alcuni attacchi, "... si scatenarono le reazioni più violente e brutali, tanto più che ad esser presi particolarmente di mira... erano degli autentici gangsters, uomini privi di ogni qualificazione ai quali per il semplice fatto di essere stati degli squadristi o di ostentare un ottuso fanatismo era stato accordato di fungere da arroganti rappresentanti del pensiero e della 'cultori' fascista, col risultato di offrire uno spettacolo pietoso”.

Per un certo periodo, a seguito di queste polemiche, Evola deve girare per Roma con una personale guardia del corpo. Viene prima diffidato dal continuare a pubblicare la rivista poi, siccome della diffida non tiene alcun conto, la polizia politica proibisce a tutte le tipografie di stampare la Torre. Finisce così l'avventura della Torre che uscì per dieci numeri fino al 15 giugno del 1930.

In un clima di conformismo e di adulazione al Duce La Torre era stata una meteora accesa in un mondo culturale abbastanza grigio, anche perché, nelle pagine della rivista era contenuto il nucleo originario dei libri che Evola pubblicò subito dopo presso Laterza e Bocca, libri che indagavano il inondo dei simboli primordiali e dell'esoterismo: La Tradizione ermetica del 1931, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932, il mistero del Graal del 1937.

Il primo e il terzo libro delineano la via occidentale alla gnosi: l'alchimia e la ricerca del Graal, la religione segreta dell'imperialismo ghibellino. Il secondo, Maschera e volto, è un'opera volta ad indagare criticamente le correnti pseudo-spirituali di allora e di oggi: lo spiritismo, il superomismo, il satanismo, certi misticismi. Ma vi è anche lo studio e l'apprezzamento di autori come Meyrink e il Kremmerz, e qualche giudizio, forse un po' troppo sbrigativo su Steiner, un pensatore cui Evola è stato sotto certi aspetti concernenti le scienze spirituali, debitore.

Dopo l'esperienza de La Torre Evola comprende che per poter agire con una certa libertà occorre essere ben protetti dentro qualche base della cittadella fascista. Le basi sono il mensile La Vita Italiana di Giovanni Preziosi e il quotidiano Il Regime Fascista di Farinacci, un uomo oggi universalmente esecrato ma del quale Evola scrive parole di stima: "Chi era con lui poteva esser sicuro di non esser tradito, di esser difeso sino all'ultimo, se la sua causa era giusta".

Su questa testata Evola reincarna praticamente la battaglia della Torre ora con la sua pagina speciale "Diorama Filosofico" alla quale collaboravano autori di grande prestigio come Guénon, Dodsworth, Benn e Paul Valery, tutti accomunati da una visione del mondo aristocratica, antiborghese, antimoderna e tradizionale. Evola dal canto suo attacca il sentimentalismo, la retorica del fascismo piccolo borghese, demolisce il razzismo biologico, lo scientismo, l'umanitarismo in nome di un elitarismo ascetico, sapienziale e cavalleresco.

Nel 1934 appare l'opera fondamentale e principale di Julius Evola: Rivolta contro il mondo moderno. In Rivolta Evola traccia un affresco grandioso della morfologia della storia che vien letta con lo schema ciclico tradizionale delle quattro età (oro, argento, bronzo, ferro, nella tradizione occidentale; satva, treta, dvapara, kali yuga, in quella indù), comune ad Oriente ed Occidente.

Il libro si divide in due parti: la prima tratta di "una dottrina delle categorie dello spirito tradizionale: la regalità, la legge, lo stato, l'Impero, il rito e il patriziato, l'iniziazione, le caste e la cavalleria, lo spazio, il tempo, la terra e poi il sesso, la guerra, l'ascesi e l'azione". La seconda parte contiene "un'interpretazione della storia su base tradizionale partendo dal mito". Il libro si fonda sulla dialettica tra mondo moderno e mondo della Tradizione: il mondo moderno poggia sui criteri dell'utile e del tempo, il mondo della Tradizione sui valori del sacro e dell'eternità. Quello attuale è il tempo del ferro, il kali yuga, in cui l'ordine cede al caos, il sacro alla materia, l'uomo all'animale, ove dilaga la demonia delle masse e del sesso, dell'oro e della tecnica scatenata; un'epoca senza pietà, senza luce, senza amore.

Il poeta tedesco Gottfried Benn dirà di Rivolta contro il mondo moderno: "Chi lo legge si sentirà trasformato".

Nel 1938 in Italia alcuni si improvvisano razzisti e danno vita al Manifesto della razza dove viene riproposto confusamente il razzismo nazista, una rozza dottrina deterministica che non vede nulla al di là del corpo. Ad Evola il razzismo ripugna: per lui teoria dell'eredità eugenetica e vitalismo naturalistico sono abiezioni moderne. Ma d'altro canto non crede alla promiscuità comunistica ove ogni differenziazione scompare in una totalità animale. Per questo dal 1937 al 1941 studia il problema del razzismo, al quale si era già applicato all'inizio degli Anni Trenta. Scrive due libri Il mito del sangue nel 1937 e Sintesi di dottrina della razza nel 1941, editi da Hoepli.

Per Evola è lo spirito che informa di sé il corpo: “Il concetto della razza dipende dall'immagine che si ha dell'uomo... Come salda base della mia formulazione presi la concezione tradizionale che nell'uomo riconosce un essere composto da tre elementi: il corpo, l'anima e lo spirito. Una teoria completa della razza doveva perciò considerare tutti tre questi elementi”.

Evola in questo lungo dopoguerra si è visto etichettare indelebilmente come razzista, che oggi è più di un'accusa, è un anatema, mentre personaggi come Guido Piovene e Luigi Chiarini negli Anni Trenta feroci antisemiti nel dopoguerra si sono ammantati di rispettabilità antifascista. Sta di fatto che Evola, per le sue posizioni in merito alla razza, fu osteggiato da ambienti ufficiali tedeschi, come oggi rivelano i documenti segreti del ministero degli interni del Reich e della Anenherbe, la sezione ideologica delle SS.

In questo periodo Evola compie alcuni viaggi, soprattutto in Germania, dove tiene un numero considerevole di conferenze. Del 1938 è l'incontro in Romania con Cornelio Codreanu, del quale Evola, in un articolo che ne ricordava la figura, scrive parole di grande stima.

Intanto dal 1940 l'Italia è in guerra, all'inizio della compagna contro l'URSS Evola chiede di partire volontario. Ma la risposta giunge quando ormai l'Armir è in ritirata, motivo del ritardo: Evola non è tesserato al partito fascista!

L'8 settembre sorprende Evola in Germania. È tra i pochi, con Preziosi, il figlio Vittorio e qualche altro, ad accogliere Mussolini, liberato da Skorzeny al Gran Sasso, al Quartier Generale di Hitler. Aderisce alla RSI, lui monarchico, aristocratico e reazionario aderisce ad una repubblica sociale. Una contraddizione? Evola non sposa i punti di Verona, ma lo spirito legionario di chi, pure ormai militarmente sconfitto, rimane fedele ad un'idea scegliendo di battersi su posizioni perdute.

Nel 1943, in un'Italia sconvolta dalla guerra esce per Laterza La dottrina del risveglio, saggio sull'ascesi buddhista. Scrive Evola nella sua autobiografia: “Il carattere aristocratico del buddhismo, la presenza in esso della forza virile e guerriera (è un ruggito di leone che designa l'annuncio del Buddha) sono stati i tratti che io ho messo in rilievo nell'esposizione ditale dottrina". D'altronde abbiamo visto come Evola avesse un debito con la dottrina del principe Siddharta: il libro è anche un gesto di gratitudine.

Negli ultimi anni della guerra Evola è prima in Germania poi a Vienna, in questa città, probabilmente nell'aprile del 1945 si trova coinvolto in un bombardamento mentre passeggia per strada. Evola viene sbalzato da uno spostamento d'aria: una lesione al midollo spinale gli provoca una paralisi agli arti inferiori che purtroppo, malgrado tentativi chirurgici e sottili, risulterà definitiva. Può sembrare strano, e di fatto ad una logica comune lo è, che Evola passeggiasse per le vie di Vienna durante un bombardamento ma, spiega nel Cammino, "il fatto non fu privo di relazione con la norma, da me già da tempo seguita, di non schivare, anzi di cercare i pericoli nel senso di un tacito interrogare la sorte". E poi commenta così la sua paralisi, quasi che fosse quella di un altro: “Nulla cambiava, tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico che, a parte dei fastidi pratici e certe limitazioni della vita profana, poco mi toccava, la mia attività spirituale e intellettuale non essendone in alcun modo pregiudicata o modificata".

Poi con distaccata ironia aggiunge - è il 1961: "Per intanto, mi sono adeguato con calma alla situazione, pensando umoristicamente talvolta, che forse si tratta di dèi che han fatto pesare un po' troppo la mano, nel mio scherzare con loro

Non era nuovo a questo contegno. Pio Filippani-Ronconi, in un ricordo di Evola scrive: "Amo raffigurarmi la solitudine di Evola con l'immagine del suo soggiorno viennese durante la guerra: quando, durante i più terrificanti bombardamenti aerei, il silenzio fra le esplosioni era punteggiato dal ticchettio della sua macchina da scrivere, sulla quale, indifferentemente allo squasso circostante, continuava placidamente a lavorare".

Dopo l'esplosione Evola si risveglia in ospedale, si guarda intorno e chiede che fine abbia fatto il suo monocolo.

Nel 1948, grazie alla Croce Rossa Internazionale. viene trasferito a Bologna. Nel 1951 rientra nella sua casa di Roma. Sono cinque anni di vero e proprio calvario passati in letti d'ospedale con assistenza precaria e cibo al limite del commestibile. Evola considera tutto ciò come una prova di autosuperamento. Del passato non rimpiangeva nulla, o quasi. Gianfranco de Turris che dal 1968 sino alla morte gli è stato assiduamente vicino, ha scritto che gli mancavano soprattutto Vienna e la montagna, il mondo dell'aristocrazia e la solitudine delle vette.

Evola si guarda intorno e vede un panorama di rovine, non solo materiali. Non ha più alcuna speranza negli uomini; invece viene a sapere che esistono dei gruppi giovanili che non si sono lasciati trascinare nel crollo generale e che leggono i suoi libri. Per questi giovani nel 1950 scrive Orientamento dove sviluppa in undici punti le direttrici di un'azione Politico-culturale. "Non senza relazione con ciò", scrive Evola, “mi trovai coinvolto in una comica vicenda”. Si riferisce al processo contro i FAR dei quali viene indicato, e arrestato come ispiratore.

"Naturalmente e ancora la voce di Evola, "la cosa finì in un nulla, quasi tutti gli imputati vennero assolti". A difendere gratuitamente Evola c'è un avvocato antifascista Francesco Carnelutti. Personalmente tiene anche una brillante autodifesa poi pubblicata, dove oltre a chiarire la sua posizione (aveva Scritto un paio di articoli su Imiperium. la rivista dei neofascisti ed era all'oscuro delle azioni illegali di questi che furono comunque tanto inutili quanto innocue), mette in chiaro la sua visione del mondo, anche per ribattere alle accuse di apologia del fascismo. Scrive Evola ricordando quel fatto:

"Dissi che attribuirmi idee fasciste era un assurdo. non in quanto erano fasciste, ma solo in quanto, rappresentavano, nel fascismo, la riapparizione di principi della grande tradizione Politica europea di Destra in genere, io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali concezioni. Ma in tal caso si do vano far sedere sullo stesso banco degli accusati Platone, un Metternich, n Bismarck, il Dante del De Monarchia e via dicendo".

Ne 1953 Evola dà alle stampe Gli uomini e le rovine che è l'estensione degli un ci punti di Orientamenti. Il libro è l'ultimo tentativo di promuovere la formazione di uno schieramento di vera Destra. Lo Stato che delinea Evola è lo Stato organico che ha come base “i valori della qualità, della giusta diseguaglianza e della personalità... ad ognuno il suo e ad ognuno il suo diritto, conformemente alla sua dignità naturale".

Nulla a che vedere con lo Stato totalitario e poco a che vedere, purtroppo, anche col fascismo.

Nel 1963 Evola scrive per la casa editrice Volpe un libretto intitolato: Il Fascismo visto dalla Destra. Contro ogni esaltazione, come contro ogni partigiana denigrazione, Evola enuclea, dal punto di vista dell'idea tradizionale, ciò che di positivo e di negativo risultava nel fenomeno fascista: dà atto al fascismo di aver sollevato gli antichi simboli dell'ascia e dell'aquila, di aver teorizzato un uomo nuovo, di aver agitato il mito dell'ordine e della gerarchia, ma lamenta che tutto sia rimasto a livello di propaganda sia per i tempi, inadatti, sia per la qualità umana che compose i quadri del fascismo, la quale in gran parte, in questo dopoguerra ha composto con la stessa ottusità quelli dell'antifascismo. Il fascismo, in definitiva per Evola, è stato un tentativo generoso ,ma va inquadrato nella fenomenologia delle ideologie moderne.

Nel 1958 intanto era uscito anche Metafisica del sesso un libro tra i più suggestivi di Evola dove viene messa in luce la forza basale. magica e potentissima del sesso, l'ultima, in un mondo ormai desacralizzato, assieme all'esperienza de! l'innamoramento, a rivestire un carattere sacro ove possa balenare un lampo di trascendenza, una rottura di livello della coscienza ordinaria dell'uomo e della donna.

Nel 1961, parallelo a Gli uomini e le rovine, era uscito Cavalcare la tigre, il breviario di chi deve vivere in un mondo che non è il suo forte della propria invulnerabilità. Evola si rivolge a quel tipo di “uomo differenziato” che pur non sentendo di appartenere interiormente a questo mondo, non ha nessuna intenzione di cedere ad esso né psicologicamente né esistenzialmente. "Occorre far sì che ciò su cui non si può nulla, nulla possa su di noi", occorre "cavalcare la tigre" perché la tigre non può colpire chi la cavalca. Bisogna aprirsi senza perdersi, concedersi soltanto ciò di cui si è sicuri di poter fare anche a meno. La differenza tra l'anarchico tout court e l'anarchico di Destra, è che il primo vuol essere libero da tutto tranne dalle sue bassezze e dai suoi vizi, il secondo non riconosce al mondo attuale nessuna legittimità e nessuna legge, ma cerca la libertà in se stesso, il dominio su di sé. l'autarchia; chi cavalca la tigre, non è amico della tigre.

Nella sua abitazione romana di Corso Vittorio Emanuele, Evola vive in affitto e sopravvive con una pensione d'invalido di guerra. Traduce libri, scrive articoli per diverse testate, riceve amici e curiosi. Così lo descrive Adriano Romualdi in un libro del 1968, in occasione del suo settantesimo compleanno: "Chi si recasse da Evola per incontrarvi un ispirato, un profeta, o per udire sentenze ed enigmatici motti, rimarrebbe deluso. Del pari, chi fosse cupido di atteggiamenti preziosi, ricercati o, comunque, remoti dall'ordinario vi troverebbe soltanto un signore dai capelli non ancora bianchi, dalla figura - nonostante la forzata immobilità - ancora imponente, il tratto distinto ed affabile, il volto curioso, intelligente, attento. Più che un santone un aristocratico e, quasi per una certa finezza di modi ancien régime, una figura di filosofo e viaggiatore settecentesco. Eppure", continua Romualdi, con un po' di osservazione potrebbe notare che quell'espressione attenta è la spia di una perpetua vigilanza, di una personalità che 'veglia su se stessa con continua disciplina, “natura intellettuale priva di sonno”.

Nel 1968, mentre il suo pensiero viene contrapposto nelle università a quello di Marcuse, Evola viene colpito da uno scompenso cardiaco acuto. Lo stesso malore si ripeterà nel 1970. In questa occasione viene fatto ricoverare dal suo medico e personale amico. Evola, in ospedale, infastidito dalle suore che lo assistono, minaccia di denunciarlo per sequestro di persona.

Anche se il corpo è stanco lo spirito di Evola è forte e combattivo: continua a scrivere, a rilasciare interviste, a ironizzare se qualcuno lo va a trovare con la ragazza, lui s'infila il monocolo e inscena un corteggiamento, oppure a chi in un'intervista gli chiede molto serioso, dove potrebbe rivolgersi chi sia interessato alle scienze occulte lui risponde: "Se si tratta di giovani donne, anche qui, a casa mia".

Scherza su di sé e gli altri, è sereno.

La salute però peggiora costantemente, perde le forze, il corpo s'indebolisce, ha difficoltà respiratorie ed epatiche. Comincia a contrarre banali infezioni, mangia poco e malvolentieri.

Verso la fine di maggio del 1974 si sente sempre più debole, e sempre più consapevole che il vestito fisico non lo regge più. Pierre Pascal, che va a rendere l'ultimo omaggio al Maestro così lo ricorda negli estremi giorni di vita: "Gli dissi il desiderio supremo di Henry de Montherlant: essere ridotto in ceneri dal fuoco, affinché fossero disperse [...] ha brezza leggera del Foro, tra i Rostri e il Tempio di Vesta. Allora quest'uomo, che era davanti a me, disteso, con le belle mani incrociate sul petto mi mormorò dolcemente e quasi impercettibilmente: “Io vorrei... ho disposto... che le mie fossero lanciate dall'alto di una montagna”.

Martedì 11 giugno, nel primo pomeriggio Evola, sentendo vicina la morte si fa condurre al tavolo dì lavoro di fronte alla finestra che dà sul Gianicolo; sono le quindici quando spira reclinando il capo. Nel suo testamento aveva stabilito che il corpo venisse cremato, che non vi fossero cerimonie cattoliche né annunci.

Le ceneri, secondo quanto scritto nelle sue ultime volontà, vengono consegnate alla guida Eugenio David suo compagno di scalate tanti anni addietro. Un parente del David e una schiera di seguaci seppelliscono una parte delle ceneri del Maestro in un crepaccio del Monte Rosa, le altre vengono lanciate al vento.

Julius Evola unofficial webSite - Biografia di Julius Evola (http://www.juliusevola.it/evola/biografia.asp)

Dark Knight
03-02-12, 09:58
Il Barone sanguinario

<< Il libro di F. Ossendowsky Bestie, uomini e dèi, della cui traduzione italiana si sta preparando una ristampa, ebbe già una vasta notorietà quando uscì, nel 1924. in esso hanno interessato il racconto delle peripezie del viaggio movimentato che l’Ossendowsky fece nel 1921-22 attraverso l’Asia centrale per sfuggire ai bolscevichi, ma anche ciò che egli riferisce sia circa un personaggio d’eccezione da lui incontrato, il barone Von Ungern Sternberg, sia su ciò che ebbe a udire sul cosiddetto "Re del Mondo". Qui vogliamo riprendere sia l’uno che l’altro punto.

Intorno all’Ungern Sternberg si era creato quasi un mito, nella stessa Asia, al segno che in alcuni templi della Mongolia egli sarebbe stato adorato come una manifestazione del dio della guerra. Di lui, è stata anche scritta una biografia romanzata in tedesco, dal tiolo "Io comando" ("Ich befehle"), mentre dati interessanti sulla sua personalità forniti dal comandante dell’artiglieria del suo esercito sono stati pubblicati dalla rivista francese "Etudes Traditionelles". Noi stessi avemmo da udire dello Stenberg da suo fratello che doveva essere vittima di un tragico destino: scampato dai bolscevichi e raggiunta l’Europa via Asia dopo ogni specie di vicissitudini romanzesche, lui e sua moglie furono uccisi da un portinaio impazzito quando Vienna fu occupata nel 1945.

Ungern Sternberg proveniva da un’antica famiglia baltica di ceppo vichingo. Ufficiale russo, allo scoppiare della rivoluzione bolscevica comandava in Asia dei reparti di cavalleria, i quali a poco a poco si ingrossarono fino a divenire un vero e proprio esercito. Con esso, Ungern s’intese a combattere fino all’ultima possibilità la sovversione rossa. È dal Tibet che egli operava: e il Tibet egli liberò dai Cinesi che ià allora ne avevano occupato una parte, entrando in intimi rapporti col Dalai Lam, da lui liberato.

Le cose si svilupparono a tal segno da preoccupare seriamente i bolscevichi che, ripetutamente sconfitti, furono costretti ad organizzare una campagna in grande stile, utilizzando il cosiddetto "Napoleone Rosso", il generale Blucher.

Dopo alcune alterne vicende, Ungern doveva venire sopraffatto, il tracollo essendo stato provocato dalla defezione proditoria di alcuni reggimenti cecoslovacchi. Circa la fine di Ungern, vi sono versioni contrastanti; non si sa nulla di preciso. In ogni modo, si vuole che egli conoscesse con esattezza il termine della sua vita, come pure alcuni articolari circostanze ad esempio: che egli sarebbe stato ferito, come lo fu, durante l’attacco a Durga.

Qui, dello Sternberg, interessano due aspetti. Il primo riguarda la sua stessa personalità, nella quale tratti singolari erano mescolati. Uomo di un prestigio eccezionale e di un ardire senza limiti, egli era anche di una crudeltà spietata, di una inesorabilità nei confronti dei bolscevichi, suoi nemici mortali. Donde il nome che gli venne dato: "il barone sanguinario".

Si vuole che una grande passione avesse "bruciato" in lui ogni elemento umano, non lasciando sussisteree in lui che una forza incurante della vita e della morte. In pari tempi, in lui erano presenti tratti quasi mistici. Già prima di recarsi in Asia egli professava il buddismo (il quale non si riduce affatto ad una dottrina morale umanitaria), e le relazioni che egli ebbe con i rappresentanti della tradizione tibetana non si limitavano al dominio esteriore, politico e militare, nel quadro degli avvenimenti dianzi accennati. Alcune facoltà sovranormali erano presenti in lui: si parla ad esempio, di una specie di chiaroveggenza che gli permetteva di leggere nell’animo altrui secondo una percezione esatta quanto quella delle cose fisiche.

Il secondo punto riguarda l’ideale che Ungern accarezzava. La lotta contro il bolscevismo avrebbe dovuto essere la diana per un’azione assai più vasta. Secondo Ungern, il bolscevismo non era un fenomeno a sé, ma l’ultima, inevitabile conseguenza dei processi involutivi realizzatisi da tempo in tutta la civiltà occidentale. Come già Mettternich, egli credeva – giustamente – una continuità delle varie fasi e forme della sovversione mondiale, dalla rivoluzione francese in poi. Ora secondo Ungern, la reazione avrebbe dovuto partire dall’Oriente, da un Oriente fedele alla proprie tradizioni spirituali e coalizzato contro l’incombente minaccia, insieme a quanti fossero capaci di una rivolta contro il mondo moderno. Il compito primo avrebbe dovuto essere spazzar via il bolscevismo e liberare la Russia.

Peraltro è interessante che, secondo alcune fonti abbastanza attendibili, Ungern, quando si era fatto il liberatore e il protettore del Tibet, in relazione con un tale piano avrebbe avuto contatti segreti con esponenti delle principali forze tradizionali, non soltanto dell’India ma anche del Giappone e dell’Islam. A poco a poco si sarebbe dovuti giungere a questa solidarietà difensiva e offensiva di un mondo non ancora intaccato dal materialismo della sovversione.

Passiamo ora al secondo argomento, a quello del cosiddetto "Re del Mondo". L’Ossendowsky riferisce quel che Lama e capi dell’Asia centrale ebbero a raccontargli circa l’esistenza di un misterioso centro-iniziative chiamato l’Aghartta, sede del "Re del Mondo". Esso sarebbe sotterraneo e per mezzo di "canali" sotterranei sotto i continenti ed anche gli oceani avrebbe comunicazioni con tutte le regioni della terra. Come Ossendowsky ebe ad udirle, tali notizie presentarono un carattere fantasioso. È merito di René Guénon l’aver messo in luce, nel suo libro "Le Roi du Monde", il vero contenuto di questi racconti, non senza rilevare il fatto, significativo, che nell’opera postuma di Saint-, significativo, che nell’opera postuma di Saint-Yves d’Alveydre intitolata "La mission des Indes" uscita nel 1910, di certo non conosciuta da Ossendowsky, si fa cenno allo stesso centro misterioso.

Ciò che va, anzitutto chiarito è che l’idea di una sede sotterranea (difficile da concepire già per il problema degli alloggiamenti e degli approvvigionamenti, se non abitata da puri spiriti) deve essere resa piuttosto con quella di un "centro invisibile". Quanto al "Re del Mondo" che vi risiederebbe, si è riportati alla concezione generale di un governo o controllo invisibile del mondo o della storia, e il riferimento fantasioso ai "canali sotterranei" che fanno comunicare quella sede con vari paesi della terra va parimenti smaterializzato nei termini di influenze, per così dire, da dietro le quinte, esercitate da quel centro.

Però assumendo tutto ciò in codesta forma più concreta, sorgono vari problemi ove si consideri la attualità. Vi è che lo spettacolo offerto dal nostro pianeta in modo sempre più preciso conforta assai poco l’idea dell’esistenza di questo "Re del Mondo" con le sue influenze, se questi debbono essere concepite come positive e rettificatrici.

Ad Ossendowsky i Lama avrebbero detto: "Il Re del Mondo apparirà dinanzi a tutti gli uomini quando per lui sarà venuto il momento di guidare tutti i buoni nella guerra contro i malvagi. Ma questo tempo non è ancora venuto. I più malvagi dell’umanità non sono ancora nati". Ora, questa è la ripetizione di un tema tradizionale noto anche in Occidente fin dal Medioevo.

L’interessante propriamente è che, come si è detto, all’Ossendowsky un simile ordine di idee sia stato presentato nel Tibet da dei Lama e da dei capi dei paesi, con riferimento ad un insegnamento esoterico. E il modo piuttosto primitivo con cui Ossendowsky riferisce ciò che egli ebbe ad udire, innestandolo nel racconto delle sue peregrinazioni, fa pensare che non si tratta di una sua escogitazione. >>

Julius Evola, Il Roma, 9 febbraio 1973

Marco d'Antiochia
03-02-12, 13:48
Qui molto materiale su Evola

Fondazione Julius Evola - Pagina iniziale (http://www.fondazionejuliusevola.it/)

PS. auguri per il nuovo forum

Dark Knight
03-02-12, 16:51
Qui molto materiale su Evola

Fondazione Julius Evola - Pagina iniziale (http://www.fondazionejuliusevola.it/)

PS. auguri per il nuovo forum

Grazie :) spero di leggerti spesso

Dark Knight
04-02-12, 15:32
Gentile non è il nostro filosofo

Non occorre essere anti-idealisti per essere antigentiliani (e anticrociani). Si può dire che è soltanto per ignoranza o per un provincialismo intellettuale che, da noi, cotesti «filosofi» hanno potuto esser presi sul serio e possono essere stati ammirati. Bisogna non aver studiato direttamente (come noi l’abbiamo fatto) i grandi sistemi dell’idealismo trascendentale tedesco, bisogna non averne conosciuto i problemi immanenti che condussero, ad esempio, di là da Hegel, al «secondo» Fichte e al «secondo» Schelling, a Schopenhauer e allo stesso von Hartmann, per non rendersi conto che Croce e Gentile non sono che due sparuti epigoni, il cui unico merito è di aver condotto all’assurdo le posizioni dell’idealismo assoluto, fino ad un vero e proprio collasso speculativo.



In altra sede, di ciò abbiamo data una esauriente dimostrazione. Qui basterà indicare sommariamente il punto centrale, dal quale si può vedere come un gentilianesimo coerente sbocca in una filosofia ignava della rinuncia interiore o del fatto compiuto.



Il punto di partenza dell’idealismo lo ha costituito la cosiddetta «teoria criticistica della conoscenza», riassumibile nell’abbastanza lapalissiano “esse est percipi” del Berkeley, cioè: concretamente, possiamo parlare solo della realtà di quel che percepisco, o penso, o imagino o, comunque, mi rappresento. Così come punto centrale di riferimento per ogni certezza viene posto il soggetto conoscente o pensante. Questo soggetto in Kant diviene l’«io penso» in universale, in Fichte diviene l’Io trascendentale e, infine, nel Gentile diviene il «Logo» o «autoconcetto» o «atto puro». Ma qui interviene una vera mistificazione: dall’idea abbastanza banale, che ci si trova chiusi nel cerchio di ciò che, in un modo o nell’altro, io penso, sperimento o suppongo, ecco che si passa all’idea che l’Io, quasi come un Dio, è il libero, volontario creatore di ogni contenuto di una tale esperienza. È evidente, e stupefacente, qui, la confusione fra l’Io come semplice soggetto conoscente, e l’Io come libertà e volontà. Io posso anche dire che il percepito o il rappresentato non esiste fuori dall’atto del mio percepirlo o rappresentarmelo («il mondo è la mia rappresentazione»), ma quanto a dire (fuor che nei ristrettissimi limiti di certi domini mentali e culturali, e solo in parte sociali e storici) che quel che percepisco l’ho anche «posto», liberamente e volontariamente - ciò è evidentemente tutta un’altra cosa. Il gentilianesimo qui se la cava con la teoria della «volontà concreta» o della «storicità dello spirito», la quale è una autentica mistificazione. Vi è una infinità di cose che accadono, ma che io non voglio né desidero per nulla. E allora? Allora il Gentile vi viene a dire che voi non le volete che in quanto «soggetto empirico» e «volontà astratta»; invece le volete perfettamente in quanto Io-atto-puro, nella cui «volontà concreta» e nella cui «storicità» il reale e il voluto, l’atto e il fatto fanno tutt’uno. Ad un tale Io fantasticato, io quale soggetto empirico (ossia quello che veramente sono) dovrei adeguarmi. Il risultato è questo: che per poter «immanentizzare» e riportare ad un ipotetico Io trascendentale tutto ciò che esiste, sono condannato a riconoscere come «mio» e come «voluto da me» anche ciò che meno voglio e che semplicemente subisco.



L’unica etica deducibile logicamente da tale filosofia, è dunque quella pronta a sanzionare ogni capitolazione interiore, ogni conformismo, ogni imbelle accettazione del fatto compiuto - con ugual prontezza, però, ad accordare lo stesso riconoscimento al fatto compiuto opposto di domani, quando esso riuscisse a scavalcare quello di oggi.



Prendiamo un esempio drastico dal dominio più banale: il gentiliano messo alla tortura dovrebbe riconoscere che la sua «volontà concreta» è quella di chi lo tormenta, mentre la sua volontà che si ribella e patisce sarebbe solo del suo io empirico e «astratto», solo per il quale la realtà può esser diversa dalla volontà. Al più, quel gentiliano potrebbe consolarsi pensando che si tratta di un «momento negativo» posto dallo stesso spirito (senza consultare menomamente l’interessato) per un «superamento dialettico». E se il «soggetto empirico» in tale circostanza dovesse lasciarci la sua vita, parimenti «empirica», l’ultima sua consolazione sarebbe quella immortalità che, per il Gentile, si riduce al sussistere nel pensiero di altri, in una «società trascendentale» che è semplicemente quella terrena degli uomini mortali.



Inutile, poi, dire, che conseguenze deleterie possono derivare da questa dilettantesca filosofia da prestidigitatori quando si passa nel dominio sociale e politico…

fonte: Gentile non è il nostro filosofo | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/evolagentile.html)

Dark Knight
09-03-12, 11:19
Soldati, società, stato
di Julius Evola

Si sa che per le democrazie moderne il “militarismo” è una specie di bestia nera e che uno degli slogans da esse usate nelle ultime due guerre è stato appunto quello della lotta contro gli “Stati militaristi”. In ciò non tutto si riduce ad un espediente di propaganda; anche se oggi vediamo che le democrazie son costrette ad armarsi fino al punto di sentirsi accusare a loro volta di “militarismo” e “imperialismo” dai comunisti, bisogna pur riconoscere che quella loro parola d’ordine tradiva un’antitesi reale, la quale prima di essere quella fra due gruppi di nazioni rivali è quella esistente fra due diverse concezioni della vita e dello Stato.

Tale antitesi riguarda il diverso apporto con cui l’elemento militare sta rispetto a quello borghese, e però anche il diverso significato e la diversa funzione che al primo vengono riconosciuti nel complesso di una società e di uno Stato. La concezione delle democrazie moderne, strettamente solidale con le idee della civiltà capitalistica del Terzo Stato, è che l’elemento primario nella società è costituito dal tipo borghese e dalla vita borghese pacifica, vita determinata dalla preoccupazione fisica del benessere, per la ricchezza, la comodità. Qui l’elemento militare è privo di significato politico ed anche quando gli si riconosce una sua etica, le democrazie non giudicano desiderabile che questa etica si applichi alla vita complessiva di una nazione. Si è persuasi che la “civiltà” non abbia nulla a che fare con quella “triste necessità” e quell’inutile “macello” che è la guerra, che al primo piano debbano stare le virtù “civiche” e “sociali” con “progresso” e “umanitarismo”, e non quelle “guerriere”; l’ideale della cultura è quello liberale, ristretto al dominio intellettualistico. Ciò che ha attinenze con disciplina, guerre e armi viene considerato come materialistico, come antitesi del pensiero, cultura e spiritualità. Più in generale, appare che le democrazie, malgrado la coscrizione universale, tollerano solo il tipo del “soldato”, non quello del “guerriero”; del soldato, quasi nel senso “dell’assoldato”, delle truppe che venivano pagate dall’una o dall’altra città perché si occupassero loro a far guerra. Infatti nelle democrazie moderne il militare dovrebbe semplicemente stare al servizio del “borghese” per continuare le mene politiche “con altri mezzi” sul piano internazionale, per difenderlo “dall’aggressore”, e nelle forme più recenti per assicurare mercati e materie prime all’industria e al capitale in cerca di investimenti. L’elemento puramente guerriero, eroico, non viene considerato come valore in sé anzi viene stigmatizzato appunto come “militarismo” . Quanto alla vita politica essa dovrebbe essere di esclusiva pertinenza dei politicanti e dei partiti [...]

Ora, a tutto ciò si oppone non tanto il “militarismo” o un governo in mano a dei “generali”, bensì la verità di coloro che riconoscono il superiore diritto di una concezione guerriera della vita, con la spiritualità e l’etica sua propria dare la forma e il tono ad un determinato tipo di civiltà di società e di Stato. Il punto fondamentale sta qui nel riconoscere che se tale concezione “guerriera” può si avere una espressione specifica in quanto ha attinenza con la guerra e con la professione delle armi, pure essa non si riduce a tanto; essa è suscettibile ad avere altre espressioni perché si tratta di avere uno “stile” generale il quale può estendersi anche in altri domini di ogni specie non escluso quello dell’economia e della stessa spiritualità. Infatti a valore di tipo “militare” si può concedere una preminenza senza che ciò equivalga per nulla ad una deprecabile casermizzazione dell’esitenza. Amore per la gerarchia e la disciplina, rapporti di comando e di obbedienza, sentimento di onore e fedeltà, un certo amore per la distanza, forme specifiche di impersonalità attiva capaci di svilupparsi fio al sacrificio anonimo, relazioni chiare e leali, insofferenza per le vuote parole e il semplice discutere. [...]

Quanto ha attinenza con l’esercito e la guerra rispetto a tutto ciò costituisce solo un dominio particolare; l’essenziale è piuttotsto un certo grado di tensione spirituale, opposto ad ogni vita “borghese”. [...]

Ogni civiltà normale ha considerato la guerra come un fenomeno naturale, dipendente dallo spirito nel quale esso viene vissuto, accettato e voluto. Non ha torto è stato detto che la guerra indica ad una nazione l’esatta misura di ciò che per essa ha significato la pace; se cioè la pace per essa è sinonimo di semplice vita vegetativa, con prospettive di benessere da bestiame bovino, con piccole morali e solo quel po’ di discipline conformistiche necessarie per un borghese addomesticamento degli istinti.[...]

Per far marciare la massa, dato il livello intellettuale generale, è necessario ubriacarla o ingannarla con fattori passionali ideologici e propagandistici. [...] Di questo non avevano bisogno gli Stati tradizionali (quelli stigmatizzati come “militaristici”) [...] in quegli Stati bastava il comando di un Capo e il richiamo ai principi di fedeltà e onore. [...] È nell’epoca della democrazia che la guerra si è degradata accompagnandosi ad una esasperazione e ad un radicalismo quasi ignoti [...] inoltre le guerre appaiono sempre più scatenate da fattori incontrollabili appunto perché tali sono gli interessi e le passioni che predominano negli stati democratizzati. [...]

Il presente brano è stato tratto da Soldati, società, Stato | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/soldati-societa-stato.html)

Julius Evola unofficial webSite - Soldati, societ, stato, di Julius Evola (http://www.juliusevola.it/documenti/template.asp?cod=721)

Dark Knight
09-03-12, 11:20
Religiosità del Tirolo
di Julius Evola

Sul margine del sentiero vi è una grande croce, con una data ed una scritta sbiadita, di cui non ricordiamo con esattezza le parole tedesche, ma che diceva approssimativamente così: “Tu che vai, fermati un istante, guarda i ghiacci e i segni di Colui, che morì per la nostra redenzione, insegnandoci che la morte è la via verso la vita”.

Un’enigmatica leggenda vuole che il Santo Graal, la mitica coppa che raccolse il sangue del Cristo e simboleggiante la tradizione spirituale vivente dell’Occidente medioevale, dalla Spagna - dal Monsalvato di Salvatierra - si sarebbe trasferito dopo varie peripezie in Baviera, e infine in Tirolo.

In Innsbruck, nella “Cappella d’Argento” , fra le statue dei leggendari antenati dell’ultimo cavaliere “Europeo”, di Massimiliano I, si trova quella di Arthur, il re della Tavola Rotonda e, appunto, dei Cavalieri del Graal. Sia pure nella chiusura e nell’irrigidimento propria ad una realtà residuale, nel Tirolo sembra conservarsi qualcosa di questo oscuro retaggio. Le origini della razza prevalente, dinarìca e nordico-dinarìca, non sono chiare. Certo è che il cristianesimo deve aver ravvivato in essa una credità assai più remota, dandole la possibilità di protrarsi, trasformata, in un ulteriore periodo storico.

La presenza di alcuni simboli primordiali in forma cristianizzata, più che occidentale, deve avere questa origine.

E’ per esempio assai diffuso, nelle valli tirolesi ed anche in città, come Innsbbruck e Lienz, una strana variante del crocifisso, che poggia sul geroglifo dell’Ariete, formato con trofei di caccia e che porta intorno al Cristo una aureola solare dello stesso tipo radiante delle religioni primordiali. Al sommo di case campestri, sempre fedeli ad un tipo caratteristico di stile, si trovano interessanti combinazioni del crocifisso con figure animali sintetiche, varie a seconda delle valli, le quali conservano con grande verosimiglianza arcaici simboli “totemici”. E così via.

Sono frequenti, in ogni caso, i segni di una religiosità che si stacca dal solito piano sentimentalistico o convenzionale e si porta direttamente al piano della sintesi spirituale.

Poco fa ne abbiamo indicato un esempio. Nell’Oetzal un sentiero che conduce fino ai ghiacci è, per così dire, ritmato dalle immagini della Via Crucis. Le varie stazioni si susseguano a lunghi intervalli, dalla “passione” fino alla resurrezione, là dove il mondo delle rocce finisce e si preludia quello dei ghiacci perenni.

Ciò, in una zona fuori dagli itinerari alpinistici più battuti, come un rito anonimo e silenzioso, ma pur saturo di vivente significato.

Nella zona del Gross-Glockner, in una gola ove scroscia in una turbinosa cascata il torrente generatosi da questa cima, vi è una piccola cappella con vari ex-voto. Uno di essi è rappresentato da medaglie al valore militare, con questa scritta: “A Dio devo il coraggio che mi ha conferito questo onore”.

Ci ricordiamo di una cerimonia celebrata, non sappiamo per quale occasione, nella chiesa di Prägraten. La chiesa aveva l’aspetto di un vero e proprio schieramento. A destra gli uomini, a sinistra le donne, gli uni e gli altri nei costumi tradizionali e in perfetto allineamento. Al centro , una specie di rappresentanza corporativo-militare, in piedi con bandiere e stendardi. Tutti accompagnavano il motivo dato da un organo, ma rinforzato da trombe con un effetto singolare, non privo, malgrado le stonature, di una certa grandiosità. Nel Tirolo non vi è gruppo di case, per remoto ed esiguo che sia, che non abbia la sua cappella e passo montano o punto panoramico che non abbia il suo crocifisso, costantemente rimesso a posto ogni volta che vento o tormenta lo abbiano abbattuto o portato via: quasi come un muto invito a trasfigurare ed integrare quello che, come semplice emozione estetica, può venire dalla contemplazione della natura nella forma superiore di un significato spirituale, per non dire di un simbolo illuminante.

Il presente brano è stato tratto da Religiosità del Tirolo | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/religiosita-del-tirolo.html)

Dark Knight
09-03-12, 11:24
L'infatuazione Maoista
di Julius Evola

Un fenomeno curioso, meritevole di essere esaminato, è la suggestione che esercita il "maoismo" su alcuni ambienti europei, in quanto non si tratta soltanto di gruppi di dichiarata professione marxista. In Italia si possono perfino menzionare certi ambienti che rivendicano una esperienza "legionaria" e un orientamento "fascista", pur opponendosi al Movimento Sociale in quanto lo ritengono non "rivoluzionario", imborghesito, burocratizzato, irretito dall'atlantismo. Anche costoro parlano di Mao come di un esempio.

Un tale fenomeno ci ha indotto a prenderci la pena di leggere il famoso libretto rosso di Mao Tse-tung per cercare di vederci chiaro, per scoprire che cosa mai può giustificare siffatte suggestioni. Il risultato è stato negativo. Fra l'altro, non si tratta nemmeno di un a specie di breviario appositamente scritto con una certa sistematicità ma di un insieme eteroclito di passi e di discorsi e di scritti vari compresi in un lungo tratto di tempo. Di una vera, specifica dottrina maoista non è affatto il caso di parlare. Che vi è da pensare quando fin dalle prime pagine del libercolo si leggono frasi categoriche, come questa: "Il fondamento teorico su cui si basa tutto il nostro pensiero è il marxismo-leninismo"? Basterebbe questo per mettere da parte il nuovo vangelo, dove peraltro i soliti vieti slogans della sovversione mondiale -"lotta contro l'imperialismo e i suoi servi", "liberazione del popolo dagli sfruttatori", ecc.- s'incontrano ad ogni piè sospinto.

Così stando le cose, se fra sovietici russi e comunisti cinesi vi sono contrasti, divergenze e tensioni, bisogna pensare che si tratta di pure beghe di famiglia, di faccende interne del comunismo (a parte moventi realistici molto prosaici: i vasti territori sottoposti della Russia asiatica che fanno gola alla Cina sovrappopolata) che a noi dovrebbero interessare un bel nulla, se non per quel che riguarda la speranza, che i due compari alla fine si accoppino a vicenda.

A poter esercitare una suggestione è, pertanto, un puro mito del maoismo, da cui esulano formulazioni ideologiche precise, con interrogazioni avventate e soprattutto con rilievo dato alla cosiddetta "rivoluzione culturale" della Guardie Rosse. Esaminiamo le principali componenti di tale mito.

Da alcuni ambienti "filo-cinesi", dinanzi accennati, come base della dottrina maoista viene considerato "il nazionalismo". Ma a parte il fatto che il nazionalismo si era già affermato con l'"eresia" di Tito e sembra stia facendo strada fra i tanti satelliti dell'URSS, si trascura il punto essenziale, ossia che nel maoismo si tratta essenzialmente di un nazionalismo comunista; la base è la concezione collettivistica, di massa, quasi da orda, della nazione, non diversa, in fondo, da quella giacobina. Quando Mao vuol combattere il processo di concrezione di rigide strutture partitico-burocratiche per una connessione diretta col "popolo", quando egli parla di un "esercito che fa tutto con il popolo" riprendendo la formula a noi ben nota, della "mobilitazione totale", egli manifesta più o meno lo stesso spirito, o pathos, di massa della Rivoluzione Francese e della levèe des enfants de la Patrie, mentre il binomio massa-capo (il "culto della personalità", combattuto nella Russia post-stalinista, è risorto, potenziato, nella persona di Mao, idolo delle Guardie Rosse) riproduce uno degli aspetti più problematici dei totalitarismi dittatoriali. Comunismo più nazionalismo: è l'esatto opposto della concezione superiore,articolata e aristocratica della nazione.

Ma se è una formula del genere ad attirare gruppi "filo-cinsi" che vorrebbero non essere marxisti, non si vede perché essi non si rifacciano piuttosto alle dottrine del nazionalsocialismo di ieri, dove quel binomio era già presente nella formula: "Fuhrer- Volksegemeinschaft" (= guida+comunità nazionale ). Diciamo "alla dottrina", perché nella pratica nel Terzo Reich fecero sempre sentire la loro forza rettificatrice elementi derivanti del prussianesimo e dalla tradizione del Secondo Reich. Ed anche di "volontarismo", altro elemento che definirebbe il maoismo, là se ne sarebbe trovato abbastanza. Non ci sarebbe stato bisogno di spettare Mao per la "concezione attiva della guerra" come "mezzo per affermare e far trionfare la propria verità": quasi che prima dell'avvento degli obiettori di coscienza, di un ipocrito pacifismo e del crepuscolo dello spirito guerriero e dell'orgoglio militare la si fosse pensata diversamente, in tutte le grandi nazioni occidentali. Sennonché bisogna vedere le cose più da vicino ed ascoltare ciò che dice il grande Mao, testualmente: "Noi lottiamo contro le guerre ingiuste che frappongono ostacoli al progresso, ma noi non siamo contro le guerre giuste, cioè contro le guerre progressiste". Non occorre dire che cosa voglia dire "progresso" , in questo contesto: il facilitare l'avvento, in ogni popolo di marxismo e comunismo. Facciamo dunque anche noi tesoro della "concezione attiva della guerra", per la nostra "guerra giusta", che è quella ad oltranza contro la sovversione mondiale , lasciando pure che gli altri si sfoghino nel denunciare "l'imperialismo" nell'esaltare "l'eroico Viet-cong", il generoso castrismo e via dicendo, tutte stupidaggini buone solo per cervelli che hanno subito il "lavaggio"

Ecco altri elementi del mito maoista. Il maoismo confiderebbe nell'uomo nuovo come l'artefice della storia, si schiererebbe contro la tecnocrazia nella quale convergono sia l'URSS sia l'America. La "rivoluzione culturale" sarebbe positivamente nichilista , mirerebbe ad un rinnovamento che parte dal punto zero. Tutte queste non sono che parole. Anzitutto, non è all'uomo che Mao propriamente si rivolge, bensì al "popolo": "il popolo, il popolo soltanto è la forza motrice , il creatore della storia universale". Il disprezzo per la persona, per il singolo non è meno violento che nella prima ideologia bolscevica. Si sé che nella Cina rossa la sfera privata, l'educazione familiare, ogni forma di vita a sé, gli affetti e lo stesso ( se non è ridotto alla minima espressione e alle forma più primitive) sono ostracizzati. L'integrazione (cioè la disintegrazione) del singolo nel "collettivo" la parola d'ordine. La famosa rivoluzione culturale è, propriamente, una rivoluzione anticulturale. La cultura nel senso occidentale e tradizionale (perfino tradizionale cinese: si ricordi l'ideale confuciano dello jen, che si potrebbe tradurre con humanitas), cioè come una formazione collettiva eteronoma, viene combattuta.

Mao ha dichiarato che, come punto di appoggio ha preso l'indigenza, la povertà delle grandi masse, che è, egli dice, un fattore positivo "perché la povertà genera il desiderio de cambiamento, il desideri d'azione, il desiderio di rivoluzione": si ha come "un foglio di carta bianca" dove è possibile scrivere tutto. Anche ciò è piuttosto banale, e nessuno vorrà scambiare una tale situazione con un "punto zero" in senso spirituale, positivo. Può far colpo , sull'ingenuo, quel che è proprio della fase iniziale , attivistica, euforica che è il maoismo come movimento rivoluzionario può presentare, però in non maggior misura di qualsiasi movimento rivoluzionario. Ma una simile fase non costituisce una soluzione positiva, non può essere eternizzata. L'interessante non è il punto di partenza, ma il fine, la direzione, il termine ad quem. Ora, sono innumerevoli quanto precise le dichiarazioni di Mao, il quale nella "costruzione del socialismo" indica un tale fine. Così lungi dal poter scorgere una rivoluzione rigeneratrice, avente in vista soltanto l'"uomo", e partente dal punto zero anticulturale, troviamo un movimento su cui fin ad principio grava un pesante ipoteca, appunto quella del marxismo. Nessun giuoco di bussolotti può cambiare questo stato d fatto, e resta poi a Mao di dirsi come concili l'idea che l'uomo (lo abbiamo visto: l'"uomo-popolo") sia il soggetto attivo della storia, determinante la stessa economia, con il dogma basilare del marxismo, il materialismo storico, che è esattamente l'opposto.

Chi si sente attratto da una rivoluzione che parta davvero dal punto zero, da un nichilismo rispetto a tutti valori della società e della cultura borghese, dimostra di essere proprio uno sprovveduto se non conosce altri a cui ispirarsi, fuori dal grande Mao. Quanto più validi punti di riferimento potrebbero offrirgli, ad esempio, le idee sul "realismo eroico" formulato fuori da ogni strumentalizzazione e devianza marxista da Ernst Jünger gia nel periodo successivo la Grande Guerra.

Quanto all'altro elemento del mito dei "filocinesi", alla posizione antitecnocratica che, partendo più o meno dalle note analisi del Marcuse sulle forme delle società industriali più progredite , si vorrebbe valorizzare, si tratta di un illusione. Forse che Mao non tende ad industrializzare il suo Paese fino ad assicurarsi la bomba atomica e ad immagazzinare tutti i mezzi necessari per aiutare la sua "guerra giusta" nel mondo, mettendosi dunque sulla stessa via per cui la Russia comunista si è trovata fatalmente costretta a creare strutture tecnologiche e tecnocratiche analoghe a quelle delle società industriali borghesi? Di là da una fanatizzazione, che non può essere mantenuta come uno stato permanente, vorremmo proprio sapere se Mao, qualora potesse assicurare alla massa dei suoi seguaci e del suo popolo, rivoluzionaria perché, come egli ha detto, è miserabile, le condizioni di vita proprie ad una "civiltà del benessere" , vedrebbe rivolgersi contro tutta quella Cina sdegnosa della "putrida felicità delle società imperialiste". E se, ipoteticamente, una specie di ascetismo potesse venire suscitato in tutta una nazione da valori del livello di quelli propri del marxismo. La unica conclusione da trarsi è che ci si troverebbe di fronte ad un grado quasi immaginabile di regressione e di imbastardimento di una certa porzione dell'umanità. La completa incapacità di concepire veri valori di contro a quelli della "civiltà del benessere" e della "società dei consumi" è, del resto, la caratteristica di tutti i cosiddetti movimenti di "protesta" dei nostri giorni.

Con osservazioni del genere, sarebbe agevole continuare . Ma già le considerazioni svolte fin qui indicano che l'infatuazione filocinese si basa su miti che per chi sa pensare sino in fondo e per chi si rifà proprio al libretto-vangelo di Mao appaiono privi di fondamento,. Coloro che, pur ritenendo di non essere marxisti e comunisti, subiscono la suggestione maoista, dimostrano invero tutt'altro che una maturità intellettuale; la natura della loro "contestazione totale" e delle loro ostentate vocazioni rivoluzionarie è più che sospetta, se essi non sanno trovare che simili punti di riferimento.

Il presente brano è stato tratto da Julius Evola unofficial webSite (http://www.juliusevola.it)

Dark Knight
09-03-12, 11:50
Il problema ebraico nel mondo spirituale
di Julius Evola

In Italia, il problema ebraico non è molto sentito: a differenza di quel che è proprio ad altri Paesi, e soprattutto ai Paesi tedeschi, ove esso oggi, come tutti sanno, suscita profonde antitesi non solo in sede ideale, ma altresì in sede sociale e politica. Le ultime recenti leggi inspirate dal Goring, secondo le quali in Germania non solo il matrimonio fra Ebrei e non-Ebrei, ma altresì la stessa convivenza viene messa al bando e gli Ebrei, o coloro che già si sposarono con Ebrei, vengono definitivamente esclusi da ogni organizzazione dello Stato nazista, segnano il risultato estremo di queste tensioni.

Il problema ebraico ha origini molto antiche, varie e talvolta anche enigmatiche.
L'antisemitismo è un motivo che ha accompagnato quasi tutte le fasi della storia occidentale. Anche per l'Italia, una considerazione del problema ebraico altrimenti che per curiosità non dovrebbe esser priva di interesse. E il fatto che in Italia non sono presenti quelle speciali circostanze, che altrove hanno provocato le forme più dirette e irriflessive di antisemitismo, permette di considerare l'anzidetto problema con maggior calma e con maggiore oggettività. Come giudizio complessivo, diciamo subito che l'antisemitismo è oggi caratterizzato dalla mancanza di un punto di vista veramente generale, delle premesse dottrinali e storiche, necessarie per poter veramente giustificare, seguendo un procedimento deduttivo, le attitudini antisemite pratiche, cioè sociali e politiche. Per conto nostro, pensiamo che un antisemitismo non sia privo di ragione d'essere: ma la debolezza e la confusione dei motivi prevalentemente addotti dagli antisemiti, unitamente al loro violento spirito di parte, finisce col sortire l'effetto contrario, facendo sorgere in ogni spettatore imparziale il sospetto che tutto si riduca ad atteggiamenti unilaterali e arbitrali dettati meno da veri principi, che da interessi pratici contingenti. E così che in queste note ci proponiamo di procedere ad una disamina delle ragioni vere, da cui un atteggiamento antisemita può esser confortato. Si dice che se oggi esiste in modo particolarmente sensibile un pericolo ebraico nel campo della finanza e della economia in genere, esiste anche un pericolo ebraico in sede di etica e, infine, anche come spiritualità, religione, visione del mondo, tutto ciò che si riconnette al semitismo, e soprattutto agli Ebrei, avrebbe un carattere proprio, repugnante per gli altri popoli di razza bianca. Noi dunque esamineremo totalitariamente il problema, e in tre scritti esamineremo successivamente il problema ebraico nei suoi tre aspetti, spirituale o religioso il primo, etico-culturale il secondo e infine economico-sociale e politico. I punti di riferimento ce li forniranno naturalmente gli autori tedeschi più specializzati in questa materia e più caratteristici per il "mito" da loro sostenuto: ma noi cercheremo di riassumere tutto ciò nel modo più impersonale possibile, escludendo ogni elemento che non si lasci ricondurre ad un piano di pura dottrina. Esiste, in genere, una visione del mondo, della vita e del "sacro" specificamente semitica?

Questo è il punto fondamentale. La parola "semitico", come tutti sanno, implica un concetto più vasto che non il semplice "ebraico", ed è con intenzione che qui noi l'usiamo. Noi infatti crediamo che l'elemento ebraico non si possa separare nettamente dal tipo generale della civiltà diffusasi anticamente nell'intero bacino orientale del Mediterraneo, dall'Asia Minore fino al limite dell'Arabia: per notevoli che possano pur essere le differenze fra i singoli popoli semitici. Senza un esame complessivo dello spirito semita, vari aspetti essenziali dello stesso spirito ebraico in azione in tempi più recenti sono condannati a sfuggirci. Alcuni autori, i quali hanno trasceso un razzismo puramente biologico e si sono messi a considerare la razza anche in sede di tipo di civiltà - p. es. il Giinther più recente e il Clausson venuti più o meno a questo punto, trattando, in genere, di ciò che essi hanno chiamato "cultura dell'anima levantina" (der vorderasiatischen Seele). I popoli partecipanti a tale anima sono più o meno i popoli semitici. Che elementi abbiamo per poter considerare come inferiori la spiritualità e le forme religiose corrispondenti ai Semiti? Qui le i dee degli antisemiti sono tutt'altro che chiare e concordi. Infatti, per poter dire ciò che lo spirito semita ha di negativo, bisognerebbe cominciare col definire quel che invece si pensa esser positivo in fatto di spirito. Gli antisemiti si curano invece assai più della polemica che dell'affermazione, e ciò in nome di cui negano e condannano è, sotto questo riguardo, assai spesso contraddittorio e incerto. Così gli uni si rifanno al cattolicesimo (p. es. Moller van den Bruck), gli altri al protestantesimo nordico (Chamberlain, Wolf), altri ancora ad un sospetto paganesimo (Rosenberg, Reventlow) o ad ideali laico-nazionali (Ludendorff). La debolezza di simili posizioni risulta già dal fatto che tutti questi punti di riferimento costituiscono idee storiche cronologicamente posteriori alle prime civiltà semitiche e in parte influenzate da elementi derivati da quest'ultime: invece di condurci ad un polo spirituale originario e veramente allo stato puro. L'opposizione fra spirito semitico e spirito ariano sta naturalmente a base di ogni antisemitismo.

Ma per venire a qualcosa di serio non ci si può limitare a dare all'"ariano" un vago fondamento razzistico ovvero un contenuto soltanto negativo e polemico, comprendente tutto quel che, in genere, non è "ebraico". Bisognerebbe invece poter definire l'"arianità" come una idea positiva e universale, da contrapporsi, in fatto di tipo di divinità, di culto, di sentimento religioso e di visione del mondo a tutto quel che si riferisce alle civiltà semitiche e poi, in particolare, agli Ebrei. Bisognerebbe riprender dunque su di un altro piano, che non quello piuttosto naturalistico che ad esse corrispose, le idee dei filologi e degli storici del secolo scorso, e soprattutto della scuola di Max Miiller, circa una fondamentale unità delle civiltà, delle religioni, dei simboli e dei miti delle civiltà di ceppo indogermanico; bisognerebbe veder di connettere tali idee con quanto più recentemente il Wirth, sebbene spesso con gravi confusioni, ha cercato di precisare nei riguardi di una civiltà primordiale unitaria pre-nordica (noi diremmo: iperborea) come ceppo originario delle varie civiltà indogermaniche più recenti; non trascurando, alla fine, le geniali intuizioni di un Bachofen sull'antagonismo fra civiltà "solari" (uraniche) e civiltà "lunari" (o telluriche), fra società rette dal principio virile e società rette dal principio feminile-materno (ginecocrazia). È evidente che qui non possiamo inoltrarci in una indagine del genere, del resto da noi già intrapresa in una delle nostre opere (Rivolta contro il mondo moderno, Milano, 1935), Ci limiteremo a riprodurre le conclusioni delineando il tipo di quella spiritualità - che possiamo patimenti chiamare "ariana" o "solare" o "virile" - che, per via di antitesi, deve farci risultare quel che è veramente proprio allo spirito semita. Proprio agli àrya (termine sanscrito che designa i "nobili", intesi come razza non solo del sangue, ma altresì e essenzialmente, dello spirito) fu una attitudine affermativa di fronte al divino. Dietro ai loro simboli mitologici tratti dal cielo splendente si celava il senso della "virilità incorporea della luce" e della "gloria solare", cioè di una virilità spirituale vittoriosa: per cui quelle razze non solo credevano nell'esistenza reale di una superumanità, di una stirpe di uomini nonmortali e di eroi divini, ma spesso a tale stirpe attribuivano una superiorità e un potere irresistibile rispetto alle stesse forze sovrannaturali. In relazione a ciò, gli àrya ebbero per ideale caratteristico più quello regale che non quello sacerdotale, più quello guerriero dell'affermazione trasfigurante che non quello religioso dell'abbandono devoto, più quello dell'ethos che non quello del pathos.

Originariamente, i re ne erano i sacerdoti, nel senso che si riconosceva eminentemente ad essi, e non ad altri, il possesso di quella forza mistica, cui si lega non solo la "fortuna" della loro razza, ma altresì l'efficacia dei riti, concepiti come operazioni reali e oggettive sulle forze sovrannaturali. Su questa base, l'idea del regnum aveva un carattere sacrale, epperò, più o meno potenzialmente, universale. Dall'enigmatica concezione indoariana del cakravartì o "signore universale" passando per l'idea ario-iranica del regno universale dei "fedeli" del "dio di luce" fino a giungere ai presupposti "solari" della romana aeternitas imperi e infine all'idea ghibellina medievale appunto del Sacrum Imperium - sempre si è affacciato nelle civiltà ariane o di tipo ariano l'impulso a fornire un corpo universale alla forza dall'alto di cui gli àrya si sentivano eminentemente i portatori. In secondo luogo, allo stesso modo che invece del servilismo devoto e orante si aveva il rito, concepito, ripetiamolo, come secca operazione necessitante rispetto al divino, così pure, più che non ai Santi, agli Eroi erano dischiuse, fra gli àrya, le sedi più alte e privilegiate di immortalità: la Walhalla nordica, l'Isola dei Beati dorico-achea, il cielo di Indra fra gli Indogermani d'India. La conquista dell'immortalità o del sapere conservò tratti virili; là dove Adamo, nel mito semita, è un maledetto, per aver tentato di prender dall'albero divino, il mito ariano ci figura per consimili avventure un esito vittorioso e immortalante nella persona di eroi, quali p. es. Eracle, Giasone, Mithra, Siegurt. Se, più in alto ancora del mondo "eroico", il supremo ideale ariano è quello "olimpico" di essenze immutabili, compiute, staccate dal mondo inferiore del divenire, luminose in sé stesse come il sole e le nature siderali - gli dèi semitici sono essenzialmente degli dèi che mutano, che hanno nascita e passione, sono gli "dèi-anno" che, come la vegetazione, subiscono la legge del morire e rinascere. Il simbolo ariano è solare, nel senso di una purità che è forza e di una forza che è purità, di una natura radiante che - ripetiamo - ha luce in sé, in opposto al simbolo lunare (feminile), che è quello di una natura in tanto luminosa, in quanto riflette e assorbe luce promanante da un centro che cade fuori di essa. Infine, per quanto riguarda i corrispondenti principi etici, sono caratteristicamente ariani il principio della libertà e della personalità da una parte, della fedeltà e dell'onore dall'altra.

L'Ariano ha il piacere dell'indipendenza e della differenza, ha ripugnanza per ogni promiscuità: ma ciò non gli impedisce di obbedire virilmente, di riconoscere un capo, di aver l'orgoglio di servirlo secondo un legame liberamente stabilito, guerriero, irreducibile all'interesse, a tutto ciò che si può vendere e comprare, e, in genere, volgere in termini d'oro. Bhakti - dicevano gli Ariani d'India; fìdes - dicevano i Romani; fides - si ripeteva nel Medioevo; Trust, Treue - saranno le parole d'ordine del regime feudale. Se nelle stesse comunità religiose mithriache il principio della fraternità risentiva soprattutto della solidarietà virile di soldati impegnati in un'unica impresa (miles era il nome di un grado dell'iniziazione mithriaca), già gli Ariani dell'antica Persia fino all'epoca di Alessandro conoscevano la facoltà di consacrare non pure le loro persone e le loro azioni, ma i loro stessi pensieri ai loro Capi, concepiti come esseri trascendenti. Non una violenza, ma patimenti una fedeltà spirituale - dharma e bhakti - fondava fra gli Ariani d'India lo stesso regime delle caste nella sua gerarchia. Il contegno grave e austero, scevro di misticismo, diffidente verso ogni abbandono dell'anima, che fu proprio ai rapporti fra il civis e il pater romano e le sue divinità, ha gli stessi tratti dell'antico rituale dorico-acheo e della tenuta "regale" e dominatrice dei brahmano o "casta solare" del primo periodo vèdico o degli atharvan mazdei. Nel complesso, è un classicismo del dominio e dell'azione, un amore per la chiarezza, per la differenza e per la personalità, un ideale "olimpico" della divinità e della superumanità eroica, insieme ad un ethos della fedeltà e dell'onore, a caratterizzare lo spirito ariano. Con ciò, seppure sommariamente, il punto fondamentale di riferimento è dato. Si tratta di tener presente i lineamenti di una antitesi ideale, da servire come filo conduttore fra tutto ciò che la realtà storica e lo stato complessivo delle civiltà ci mostra spesso allo stato di mescolanza: giacché sarebbe assurdo, per tempi che non siano assolutamente primordiali, voler ritrovare in qualche luogo l'elemento ariano o quello semitico allo stato assolutamente puro. Che cosa caratterizza la spiritualità delle civiltà semitiche in genere? La distruzione della sintesi ariana di spiritualità e virilità. Fra i Semiti abbiamo da una parte una affermazione Grassamente materiale e sensualistica, ovvero rozzamente e ferocemente guerriera (Assiria) del principio virile; dall'altra, una spiritualità devirilizzata, un rapporto "lunare" e prevalentemente sacerdotale rispetto al divino, il pathos della colpa e dell'espiazione, tutto un romanticismo impuro e incomposto, e, a lato, quasi come una evasione, un contemplativismo a base naturalistico-matematica.

Precisiamo qualche punto. Anche nella antichità più remota, mentre gli Ariani (come gli stessi Egiziani, la cui prima civiltà deve considerarsi di origine "occidentale") avevano dei loro re il concetto di "pari degli dèi", già in Caldea il re non valeva che come un vicario -palési - degli dèi, concepiti come enti da lui distinti (Maspero). Vi è qualcosa di più caratteristico per questa deviazione semitica del livello di una spiritualità virile: l'umiliazione annuale dei re a Babilonia. Il re, vestito da schiavo o da prigioniero, confessava le sue colpe e solo quando, battuto da un sacerdote rappresentante il dio, le lacrime gli sgorgavano dagli occhi, veniva confermato nella sua carica e poteva rivestire le insegne regali. In realtà, come il sentimento della "colpa" e del "peccato" (quasi del tutto sconosciuto fra gli Ariani) è connaturato nei Semiti e si riflette in modo caratteristico nell'Antico Testamento, così altrettanto caratteristico per i popoli semiti in genere, strettamente legato a tipi di civiltà matriarcale (Pettazzoni) e invece estraneo alle società ariane rette dal principio paterno, è il pathos della "confessione dei peccati" e della redenzione da essi. È già il "complesso" (in senso psicanalitico) della "cattiva coscienza", il quale usurpa valore "religioso" e altera la calma purità e la superiorità "olimpica" dell'ideale aristocratico ariano. Nelle civiltà semitico-siriache e in quella assira è caratteristica la predominanza di divinità feminili, di dèe, lunari o telluriche, della Vita, spesso date nei tratti impuri di etère. Gli dèi, per contro, con cui esse si accompagnano quali amanti, non hanno nessuno dei tratti sovrannaturali delle grandi divinità ariane della luce e del giorno. Spesso sono nature subordinate, di fronte all'imagine della Donna o Madre divina. Essi o sono dèi "in passione" che soffrono e che muoiono e risorgono, o sono divinità feroci e guerriere, ipòstasi della forza muscolare selvaggia o della virilità fàllica. Nell'antica Caldea le scienze sacerdotali, specie astronomiche, son poi appunto l'esponente di uno spirito lunare-matematico, di un contemplativismo astratto e, in fondo, fatalistico, scisso da ogni interesse per l'affermazione eroica e sovrannaturale della personalità. Un residuo di questa componente dello spirito semita, secolarizzato e intellettualizzato, agirà fra gli stessi Ebrei di epoche più recenti: da un Maimonide e da uno Spinoza fino a matematici moderni ebrei (p. es. Einstein, fra noi Levi-Civita e Enriques), noi troviamo una "passione caratteristica per il pensiero astratto e per la legge naturale data in sede di numeri senza vita.

E questa, in fondo, può considerarsi come la parte migliore dell'antica eredità semitica. Naturalmente, qui, per non apparire unilaterali, dovremmo svolgere considerazioni ben più vaste di quel che lo spazio ci consente. Accenneremo solo che gli elementi negativi ora accennati si possono ritrovare, oltre che fra i Semiti, anche in altre grandi civiltà originariamente indogermaniche. Senonché in tali civiltà, fino ad un certo periodo, essi rispetto ad un tipo diverso predominante di spiritualità, appaiono come elementi secondari e subordinati, i quali quasi sempre ci riportano a forme di decadenza e ad influssi del substrato di razze inferiori soggiogate o infiltratesi. È fra l'VIII e il VI secolo a. C. che noi assistiamo quasi contemporaneamente nelle più grandi civiltà antiche ad una specie di crisi o climaterium e ad una insorgenza di quegli elementi inferiori. Può dirsi che in Oriente - dalla Cina all'India e all'Iran - tale crisi fu superata da una serie di congrue reazioni o di riforme (Laotze, Confucio, Buddha, Zoroastro). In Occidente, la diga sembra essersi rotta, l'ondata sembra non aver trovato nessun ostacolo importante per la sua emergenza progressiva. In Egitto, è il prorompere del culto popolare di Iside e di divinità affini, con il loro incomposto misticismo popolare, di contro all'antico culto regale, virile e solare, delle prime dinastie. In Grecia, è il tramonto della civiltà acheo-dorica con i suoi ideali eroici e olimpici, è l'avvento del pensiero laico, antitradizionalistico e naturalistico da una parte, del misticismo orfico e orfico-pitagorico dall'altra. Ma il centro da cui il fermento di decomposizione si è soprattutto irradiato sembra esser costituito appunto dal gruppo dei popoli semitici mediterraneo-orientali e, in ultimo, dal popolo ebraico. Nei riguardi della civiltà di quest'ultimo popolo, per esser oggettivi, bisogna distinguere due periodi, che si differenziano definitivamente l'uno dall'altro proprio in quel momento storico di crisi, cui abbiamo accennato. Se vi è una accusa da fare positivamente agli Ebrei, essa è quella di non aver avuto veramente in proprio nessuna tradizione, di dover ad altri popoli, semiti o non-semiti, sia gli elementi positivi, sia gli altri, negativi, che essi seppero poi più particolarmente sviluppare.

Così se noi consideriamo la religione ebraica più antica, l'antico culto filisteo di Jeohva (i Filistei, d'altronde, sembra esser stato un gruppo non-ebraico di conquistatori), la stirpe dei re sacerdoti cui appartennero un Salomone e un David, ci troviamo non di rado di fronte a forme aventi caratteri di purezza e di grandezza. Il presunto "formalismo" dei riti in quella religione aveva con grande probabilità lo stesso spirito antisentimentale, attivo, determinativo, da noi indicato come caratteristica del rituale virile ariano primordiale e anche romano. La stessa idea di un "popolo eletto", chiamato a dominare il mondo per mandato divino - a parte le sue ingenue esagerazioni e il discutibile diritto degli Ebrei di riferirla alla loro razza - è, come abbiamo accennato, una idea che si ritrova in tradizioni ariane, soprattutto fra gli Iràni: così come fra gli Iràni si ritrova anche, benché con tratti virili e non passivamente messianici, il tipo del futuro "signore universale" Caoshianf, Re di re. Fu un punto di crisi, connesso al crollo politico del popolo ebraico, a travolgere questi elementi di spiritualità positiva, che con grande probabilità derivano meno dal popolo ebraico in sé stesso, che dagli Amoriti, popolo di cui alcuni sostengono l'origine nordica e non-semitica. Il profetismo rappresenta già la decomposizione dell'antica civiltà ebraica e la via di ogni successiva decadenza. Al tipo del "veggente" - ròeh - si sostituisce appunto quello del "profeta" - nabi -, dell'inspirato o ossesso di Dio, tipo che precedentemente veniva considerato quasi come un malato. Il centro spirituale si sposta su di lui e sulle sue apocalissi - non cade più sul grande sacerdote o sul re sacerdotale governante in nome del "Dio degli Eserciti", Jeohva Cebaot. Qui la rivolta contro l'antico ritualismo sacrale in nome di una informe, romantica e incomposta spiritualità "interiore" si associa ad un sempre crescente servilismo dell'uomo di fronte al Dio, ad un sempre maggior piacere per l'autoumiliazione e ad una sempre maggiore menomazione del principio eroico, fino all'abbassamento del tipo del Messia a quello dell'"espiatore", della "vittima" predestinata sullo sfondo terroristico delle apocalissi - e, sopra un altro piano, fino a quello stile di inganno, di ipocrisia servile e, insieme, di subdola tenace infiltrazione disgregatrice, che resterà caraneristico per l'istinto ebraico in genere.

Scalando, attraverso le forme prime, precattoliche, del Cristianesimo, l'impero romano già animato da ogni sorta di culti spurii asiatico-semitici, lo spirito ebraico si pose effettivamente alla testa di una grande insurrezione dell'Oriente contro l'Occidente, dei guarà contro gli àrya, della spiritualità promiscua del Sud pelasgico e preellenico contro la spiritualità olimpica e uranica di razze superiori conquistatrici: scontro di forze, che ripete quello già verificatosi in un periodo più antico nella prima colonizzazione del Mediterraneo. Con il che, si è giunti ad un punto, che ci permette di discernere ciò a cui, sotto questo riguardo, si riducono le ragioni degli antisemiti. Diciamo subito che non ve ne è quasi nessuno che dimostri la capacità di elevarsi fino ad orizzonti del genere. L'unico, forse, a tale riguardo, è Alfred Rosenberg: il quale però, nei suoi ultimi atteggiamenti, è andato a pregiudicare quasi irreparabilmente la sua posizione con confusioni di ogni genere e soprattutto con ideologie di marca schiettamente illuministica e razzistico-nazionalista. Nell'ambito religioso, è davvero ingenuo pensar di giustificare l'avversione per la religione ebraica con una scelta di passi biblici, dai quali risulterebbe che il Dio ebraico è un "falso Dio", un Dio "umanizzato", "suscettibile di errore", "mutevole", "crudele", "ingiusto", "sleale" e via dicendo (è il Fritsch che si è soprattutto specializzato in un tale j'accuse) e nello stigmatizzare questo o quell'episodio dubbio della morale dell'"Antico Testamento" (il Rosenberg giunge a definire la Bibbia "una raccolta di storiette per mercanti di cavalli e lenoni"). Certo, con un Ebreo - con lo Spinoza - si può riconoscere una prevalente corpulenza e materialità nell'immaginazione mitologica ebraica. Tuttavia, questo a parte, sarebbe da chiedersi se, quando le religioni dovessero venir giudicate alla stregua di tali elementi contingenti, le stesse mitologie di puro ceppo nordico-ariano avrebbero modo di salvarsi. Poiché gli accusatori son dei Tedeschi, portandoci alla loro stessa mitologia, che cosa dovremmo allora dire, per esempio, della slealtà di Odino-Wotan rispetto ai patti stabiliti con i "giganti" ricostruttori dell'Asgard - e della "moralità" del re Gunther che fa di Siegfried il noto uso per riuscire a stuprare Brunhild? Non si può scendere a questo piano di bassi espedienti polemici. E tutto ciò che, sulla base del già detto, si deve riconoscere di negativo nella religiosità ebraica, non deve portarci a disconoscere che, quando anche presi da altrove, nell'Antico Testamento sono presenti elementi e simboli di valore metafìsico e, quindi, universale.

Quando il Gunther, l'Oldenberg e il Clauss dicono che lo spirito semitico-orientale ha per caratteristica "l'oscillare fra il sensuale e lo spirituale, la mescolanza fra sacrila e bordello", la gioia per la carnalità e simultaneamente per la mortificazione della carnalità, l'opposizione fra spirito e corpo (la quale si pretende arbitrariamente che fosse sconosciuta fra gli Ariani), il piacere del potere su comunità servili, l'insinuarsi strisciando nel sentire altrui; quando il Wolf dice che dall'Oriente semitico scaturirono tutte le malattie di cui soffriamo, "dal terreno pantanoso del caos etnico orientale son nati l'imperialismo e il mammonismo, l'urbanizzazione dei popoli con la distruzione della vita coniugale e familiare, la razionalizzazione e la meccanizzazione della religione, la civiltà sacerdotale mummificata, l'ideale assurdo di uno Stato divino abbracciarne l'intera umanità" - quando gli antisemiti dicono questo, ci offrono una insalata russa, ove si trova anche del giusto, ma fra confusioni di idee alquanto singolari. Per rendersi conto di tali confusioni, basterà dire p. es. che per il Wolf, Greci e Romani non avrebbero avuto altro merito, fuor che quello di aver sviluppato "una fiorente civiltà laica nazionale": dal che si vede, quanto poco l'antica spiritualità ariana valga a questo autore come punto di riferimento.

Al posto di tale spiritualità egli finisce invece col mettere il protestantesimo, onde le vere visuali si capovolgono: il trionfo del profetismo sull'antica spiritualità rituale ebraica sembra al Wolf un progresso, anziché una degenerazione, appunto per la sua analogia con la rivolta luterana contro il ritualismo e il principio d'autorità della Chiesa. Quanto poi all'accusa, propria a quasi tutti gli antisemiti e i razzisti, contro l'ideale di uno Stato sacrale universale che essi considerano come ebraico e deleterio, è da osservarsi che se la civiltà semita talvolta sposò tale ideale, esso non le è però per nulla proprio, esso si ritrova nel ciclo ascendente di qualunque grande civiltà tradizionale, esso in sé è così poco ebraico, da fare d'anima al Medioevo cattolico-germanico, al sogno di un Federico II e di un Dante.

Si è che, strano a dirsi, Roma in tale ideologia antisemita finisce col divenire un sinonimo di Gerusalemme: essa non sarebbe tanto cristianesimo, quanto ebraismo, e, in pari tempo, eredità dell'impero pagano, il quale, a sua volta, nel suo universalismo, sarebbe già ebraico o presso a poco (l'espressione di "Roma semitica" per la Roma imperiale risale del resto al de Gobineau). Che cosa sarebbe invece antiebraico? Per il Wolf, che segue visibilmente le orme del Chamberlain, il cristianesimo evangelico, cioè precattolico, nel suo aspetto individualistico, amorfamente credente e antidogmatico, che risale proprio all'impuro fermento del profetismo ebreo, cioè non solo all'ebraismo, ma perfino alla decadenza di esso; poi, e appunto Luterò, cioè colui che contro la "romanità" di Roma - da lui considerata come satanica - ha essenzialmente rivalorizzato l'Antico Testamento: onde non si saprebbe trovare un antisemita più... filosemita di questo autore. È vero che altri, p. es. il Rosenberg, appunto per questo non esitarono a gettare a mare anche il protestantesimo, ma per cader dalla padella nella brace: qui si propone, come abbiamo detto, un anticattolicesimo di tipo puramente laico, un disconoscimento pieno di tutto ciò che nel cattolicesimo è supernaturalismo e rito, in fondo, un razionalismo - e il razionalismo dai razzisti è proprio considerato come una creatura ebraica! Anche il Miller contesta il diritto di considerare il protestantesimo come tipo di una religione purificata dall'elemento semitico, e se fa accuse alla Chiesa di Roma, lo è a causa dei residui ebraici che essa conserva (p. es. il riconoscimento, che Israele fu il popolo eletto prescelto per la rivelazione), oltreché per il fatto che la Chiesa, da un precedente rigorismo antiebraico, oggi sarebbe gradatamente passata ad un regime di tolleranza di fronte agli Ebrei. Son temi, questi, assai diffusi, oggi, in Germania. Ma altrettanto diffusa è anche l'idea, che Roma sarebbe l'erede di un fariseismo sacerdotale che, al pari di quello ebraico, aspirerebbe con ogni mezzo al dominio universale. Anche nel famoso libro: Protocolli dei Savi Anziani di Sion, su cui avremo da tornare, vien dato come ebraico l'ideale di un regno universale retto da una autorità sacra.

Qui, ancora una volta, si associano e si confondono cose che, sulla base dei principi già indicati, andrebbero invece ben distinte. Se nessuno vuoi contestare l'asiatizzazione e quindi la decadenza che subì, nella Roma antica, l'idea imperiale universale, ciò non può essere un argomento contro questa idea presa in se stessa: né un argomento è che l'ebraismo, in una certa misura, si sia appropriato di ideali consimili. Da un punto di vista "ariano" la Chiesa cattolica in tanto ha valore, in quanto ha saputo "romanizzare" il cristianesimo, riprendendo idee gerarchiche, tradizioni, simboli e istituzioni che si rifanno ad un più vasto patrimonio, rettificando con Roma l'elemento deleterio, strettamente connesso al messianismo ebraico e al misticismo antivirile siriaco, proprio alla rivoluzione del cristianesimo primitivo. Certo, chi pensi a fondo, troverà più di un residuo non-ariano nel complesso del cattolicesimo. Purtuttavia nei tempi più recenti Roma resta l'unico punto di riferimento relativamente positivo per ogni tendenza all'universalità. In relazione a ciò, son da fissare due punti. Come vedremo meglio nei prossimi scritti, vi è, sì, oggi, una idea universale ebraica che lotta contro i resti delle antiche tradizioni europee: ma questa idea va detta internazionale più che universale, rappresenta il capovolgimento materialistico e mammonistico di quel che potè essere l'antica idea sacrale di un regnum universale. In secondo luogo, la molla nascosta dell'antisemitismo nordico si tradisce attraverso la sua polemica antiuniversalistica e antiromana, attraverso il suo confondere l'universalismo quale idea supernazionale con un universalismo che significa solo quel "fermento attivo di cosmopolitismo e di decomposizione nazionale" che, secondo il Mommsen, anche nel mondo antico è stato determinato soprattutto dall'ebraismo. Vogliamo dire, che quel che l'antisemitismo rivela a tale riguardo, è un mero particolarismo.

Ora, vi è una ben curiosa contraddizione in coloro che da una parte accusano gli Ebrei di avere un Dio nazionale solo per loro, una morale e un sentimento di solidarietà ristretto alla loro razza, un principio di nonsolidarietà per il restante genere umano, e così via - e dall'altra parte vanno proprio a seguire questo "stile" ebraico quando essi polemizzano contro quell'altro (presunto) aspetto del pericolo semita, che sarebbe l'universalismo. Chi infatti proclama la nota formula gegen Rom und gegen Judentum quasi sempre in ciò obbedisce alla forma più gretta, più particolaristica, più condizionata dal sangue (quindi da un elemento affatto naturistico) di nazionalismo fino a manifestare, nel tentativo di costituire perfino una Chiesa nazionale soltanto tedesca -deutsche Volkskirche -, lo stesso spirito di scisma del gallicanismo, dell'anglicanismo e di analoghe eresie che riprendono, mutatis mutan-dis, lo spirito di esclusivismo e di monopolio del divino a beneficio di una data razza, che fu proprio appunto di Israele. E a tale stregua è naturale che si finisca in una dichiarata antiromanità, la quale però si equivale senz'altro ad antiarianità, ad un pensiero ibrido, senza nervi, senza chiarità né capacità di ampi liberi orizzonti. E si noti che in alcuni l'antiromanesimo non si limita alla Chiesa cattolica, esso si porta così lungi, da far rinnegare anche i più grandi imperatori ghibellini di ceppo tedesco, appunto per il loro universalismo!

Queste considerazioni però ci portano già all'altro aspetto, etico e politico, dell'antisemitismo, che sarà oggetto degli scritti successivi. Così è tempo di concludere brevemente questo esame delle ragioni dell'antisemitismo sul piano religioso e spirituale. Il Duhring ha avuto occasione di scrivere che "una quistione ebraica esisterebbe anche quando tutti gli Ebrei avessero abbandonata la loro religione per passare in seno alle nostre Chiese dominanti". Bisogna estendere questa idea fino a dire che, nel presente riguardo, si può perfino prescindere dal riferimento alla razza in senso ristretto, per parlare di un semitismo in universale, cioè ad un semitismo quale attitudine tipica rispetto al mondo spirituale. Questa attitudine può venir definita in astratto e può essere individuata anche là dove manchi, in una civiltà, una chiara e diretta connessione etnica con le razze semitiche e con gli Ebrei. Dovunque viene meno l'assunzione eroica, trionfale, virile del divino e viene esaltato il pathos di una attitudine servile, spersonalizzante, ibridamente mistica e messianica rispetto allo spirito - là ritorna l'originaria forza del semitismo, dell'antiarianità.

Semitico è il senso della "colpa" e altresì dell'"espiazione" e dell'autoumiliazione. Semitico è il risentimento dei "servi di Dio" che non tollerano nessun capo e vogliono costituirsi come una collettività onnipotente (Nietzsche) - con tutte le conseguenze procedenti da tale idea antigerarchica, fino alla sua materializzazione moderna in forma di marxismo e di comunismo. Semitico è infine quello spirito sotterraneo di agitazione oscura e incessante, di intima contaminazione e di improvvisa rivolta, per cui, secondo gli antichi, Tifone Setti, il mitico serpe nemico del Dio solare egizio, sarebbe stato il padre degli Ebrei, e Jeronimo e gli Gnostici considerarono il dio ebraico appunto una creatura "tifònica".Così oggi, in sede spirituale, il fermento semitico di decomposizione è da riconoscersi sia nell'intimo delle ideologie culminanti nella mistica di una umanità servile collettivizzata sotto i segni dell'internazionale tanto bianca che rossa, sia nel "romanticismo" dell'anima moderna - riemergenza del "clima" messianico - nel suo attivismo spiritualmente distruttore, nel suo empito incomposto, nella sua irrequietezza nevrotica percorsa dalle forme più impure e sensualistiche di "religione della vita" o di evasione pseudospiritualistica. Per essere antisemiti a fondo, qui non vi è da ricorrere a mezzi termini, a idee pregiudicate esse stesse dal male contro cui si vorrebbe combattere. Bisogna essere radicali. Bisogna rievocare valori, da dirsi "ariani" sul serio, e non sulla base di concetti vaghi e unilaterali soffusi da una specie di materialismo biologico: valori di una spiritualità solare e olimpica, di un classicismo fatto di chiarezza e di forza dominata, di un amore nuovo per la differenza e per la libera personalità e, in pari tempo, per la gerarchia e per l'universalità che una stirpe nuovamente capace di elevarsi virilmente dal "vivere" al "più che vivere" può creare di contro ad un mondo dilacerato, senza principi veri e senza pace.

Così, un punto reale di riferimento si ha solo risalendo ad una antitesi ideale, libera dal pregiudizio etnico. Il semitismo, a tale stregua, finisce col divenire sinonimo di quell'elemento "infero", che ogni grande civiltà - e perfino quella ebraica nella sua antichissima fase regale - ha soggiogato all'atto del suo realizzarsi come cosmos di contro a caos. Anche senza riferirsi al problema della vera origine unitaria e preistorica della spiritualità "solare" formatrice e animatrice del gruppo delle civiltà indogermaniche, restringendoci al solo Occidente, in quel che noi abbiamo già accennato - circa lo spirito delle civiltà del Mediterraneo orientale, circa la crisi subita dallo stesso popolo d'Israele, circa la connessione delle forze attive in tale crisi con quelle che alterarono sia la civiltà egizia, sia quella dorica, sia, infine, in un moto d'insieme, la civiltà romana - in tutto questo noi abbiamo dato sufficienti elementi per giustificare la possibilità di un "antisemitismo" scevro da pregiudizi e da spirito di parte, in connessione a quel che oggi va combattuto in nome delle tradizioni più luminose del nostro passato e, in pari tempo, di un migliore futuro spirituale.

Il presente brano è stato tratto da Biblioteca digitale (http://www.thule-italia.com)

Dark Knight
09-03-12, 11:51
Lo Stato - La "Romanità"
di Julius Evola

In linea di principio, nella dottrina politica fascista ogni ideologia societaria e democratica fu superata. Allo Stato venne riconosciuta una preeminenza rispetto a popolo e a nazione, cioè la dignità di un potere sovraelevato solo in funzione del quale la nazione acquista una vera consapevolezza, ha una forma e una volontà, partecipa ad un ordine supernaturalistico. Mussolini ebbe ad affermare (1924): «Senza lo Stato non vi è nazione. Ci sono soltanto degli aggregati umani, suscettibili di tutte le disintegrazioni che la storia può infliggere loro» - e: «Solo lo Stato da l'ossatura ai popoli» (1927). Aggiunse, precisando: «Non è la nazione a generare lo Stato. Anzi la nazione è creata dallo Stato che da al popolo... una volontà e quindi una effettiva esistenza». La formula «Il popolo è il corpo dello Stato e lo Stato è lo spirito del corpo» (1934) riporta, se adeguatamente interpretata, all'idea classica di un rapporto dinamico e creativo fra «forma» e «materia» (corpo), lo Stato è la «forma» concepita come forza organizza-trice e animatrice, secondo l'interpretazione data a «materia» e «forma» dalla filosofia tradizionale, partendo da Aristotile.

Viene dunque respinta la concezione svuotata di uno Stato il quale dovrebbe limitarsi a tutelare le «libertà negative» dei cittadini come semplici individui empirici, a «garantire un certo benessere e una relativa pacifica convivenza comunitaria», in essenza riflettendo o seguendo passivamente le forze della realtà sociale e economica concepite come quelle primarie. Così si è anche all'opposto dell'idea di una pura burocrazia della «pubblica amministrazione», secondo la immagine ingigantita di ciò che può essere la forma e lo spirito di una qualche società privata a fini puramente utilitari.

Quando presso questa concezione di base il fascismo affermò il trinomio ~T~ «autorità, ordine e giustizia», è innegabile che esso riprese la tradizione che formò ogni più grande Stato europeo. Si sa poi che il fascismo rievocò, o cercò di rievocare, l'idea romana come suprema e specifica integrazione del «mito» del nuovo organismo politico, «forte e organico»; la tradizione romana, per Mussolini, non doveva essere retorica e orpello, ma «un'idea di forza» oltre che un ideale per la formazione del nuovo tipo di quell'uomo che avrebbe dovuto avere nelle sue mani il potere. «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento. È il nostro simbolo, è il nostro mito» (1922). Ciò attestò una precisa scelta delle vocazioni ma anche una grande audacia: era come un voler gettare un ponte su uno iato di secoli, per riprender contatto con l'unico retaggio veramente valido di tutta la storia svoltasi su suolo italiano. Una certa continuità positiva però non si stabilì che limitatamente al significato dello Stato e dell'autorità (dell'imperium, in senso classico) e anche in relazione all'etica virile e ad uno stile di durezza e di disciplina che il fascismo propose all'Italiano. Un approfondimento delle ulteriori dimensioni del simbolo romano - dimensioni spirituali in senso proprio, di visione del mondo - e la precisazione della romanità a cui propriamente ci si doveva riferire, nel fascismo ufficiale non ebbero però luogo; gli elementi che potevano intraprenderlo o erano inesistenti o non furono utilizzati.

Il presente brano è stato tratto da Area privata (http://www.thule-italia.net)

Dark Knight
09-03-12, 11:52
Il partito unico
di Julius Evola

Dopo questa parentesi riguardante la contingenza storica, torniamo all'esame strutturale del regime fascista. Se dal nostro punto di vista non crediamo dunque che la «Diarchia» rappresentò in via di principio un assurdo, vi è però da accusare una situazione duale più generale nell'insieme delle strutture e, nei riguardi di essa, il nostro giudizio deve essere diverso. Infatti, per la sua stessa natura, un movimento rivoluzionario di Destra dopo una prima fase deve tendere a ristabilire la normalità e l'unità su un nuovo piano mediante adeguati processi dì integrazione.

Così in primo luogo è da rilevare il carattere ibrido dell'idea del cosidetto «partito unico», in quanto nel nuovo Stato esso assunse il carattere di una istituzione permanente. A tale riguardo bisogna separare l'istanza positiva che stava alla base di tale idea e indicare in quale più adeguato quadro essa avrebbe dovuto agire, dopo la conquista del potere.

Il vero Stato - occorre appena dirlo - non ammette la partitocrazia dei regimi democratici, e la riforma parlamentare, di cui fra poco ci occuperemo, rappresentò indubbiamente uno degli aspetti positivi del fascismo, Però la concezione di un «partito unico» è assurda; appartenendo esclusivamente al mondo della democrazia parlamentare, l'idea di «partito» solo irrazionalmente può essere conservata in un regime opposto a tutto ciò che è democratico. Dire «partito», per un altro lato, significa dire parte e il concetto di partito implica quello di una molteplicità, per cui il partito unico sarebbe la parte che vuole divenire il tutto, in altri termini la fazione che elimina le altre senza, per questo, cambiare natura e elevarsi ad un piano superiore, appunto perché continua a considerarsi sempre come un partito. Il partito fascista dell'Italia di ieri, in quanto ad esso si dette un carattere istituzionale e permanente, rappresentò pertanto una specie di Stato nello Stato, con la sua milizia, i suoi federali, il Gran Consiglio e tutto il resto, a pregiudizio di un sistema veramente organico e monolitico.

Nella fase della conquista del potere un partito può avere un'importanza fondamentale come centro cristallizzatore di un movimento, come organizzazione e guida di esso. Dopo questa fase, il suo sussistere come tale oltre un certo periodo è assurdo. Ciò non deve essere pensato nei termini di una «normalizzazione» nel senso deteriore, con una corrispondente caduta della tensione politica e spirituale. L'esigenza «rivoluzionaria» e rinnovatrice del fascismo poneva anzi il compito di una adeguata azione continua generale e, in un certo modo, capillare sulla sostanza della nazione. Ma allora è in una forma diversa che le forze valide di un partito debbono sussistere, non disperdersi, restare attive: inserendosi nelle gerarchie normali e essenziali dello Stato, eventualmente ridimensionandole, occupando le posizioni-chiave di esso e costituendo, oltre ad una specie di guardia armata dello Stato, una élite portatrice in grado eminente dell'Idea. In questo caso, più che di un «partito» sarà il caso di parlare di una specie di «Ordine». È la stessa funzione che in altri tempi ebbe la nobiltà quale classe politica, fino al periodo relativamente recente degli Stati centro-europei.

Il fascismo tenne invece a mantenersi come un «partito», per cui si ebbe, come abbiamo detto, una specie di duplicazione delle articolazioni statali e politiche quasi in sovrastrutture che sostenessero e controllassero un edifìcio privo di stabilità, in luogo di una sintesi organica e di una simbiosi: perché lo iato non era funzionalmente superato, ad esempio, col dichiarare - come si dichiarò - che il «partito» e la stessa milizia fascista dovevano essere «al servizio della nazione». Ciò non può essere raccolto come un elemento valido del sistema del fascismo, anche se non è lecito ipotizzare il futuro in relazione agli sviluppi che il regime avrebbe anche potuto avere qualora forze maggiori non ne avessero provocato il franamento, ed anche se si deve riconoscere il valore dell'obiezione che l'esistenza di forze, le quali non seguivano il nuovo corso, ovvero che lo seguivano solo passivamente, rendeva pericolosa ogni affrettata evoluzione nel senso normalizzatore anti-duale dianzi accennato. E quel che successe dopo ben venti anni di regime è, a tale riguardo, abbastanza eloquente.

Però proprio con riferimento a quest'ultimo punto v'è da rilevare il fatto che la concezione del «partito» fascista risentì delle origini di esso, cioè della solidarietà intrinseca del concetto di partito con l'idea democratica, per la mancanza di un criterio rigorosamente qualitativo e selettivo. Anche dopo la conquista del potere il partito fascista tenne ad essere un partito di massa; si aprì, invece di quintessenziarsi. Invece di far apparire l'appartenenza al partito come un difficile privilegio, il regime quasi l'impose a ciascuno. Chi è che, ieri, non aveva la «tessera»? E, anche, chi poteva permettersi di non averla qualora intendesse svolgere determinate attività? Donde la fatale conseguenza di innumeri adesioni esteriori, conformistiche o opportunistiche, con effetti che sùbito si manifestarono al momento della crisi, mentre una controprova retrospettiva è costituita dai non pochi «fascisti» di ieri, anche non semplici privati, ma scrittori o intellettuali, che successivamente hanno cambiato bandiera cercando di mettere in ombra il loro passato, rinnegandolo, ovvero dichiarando cinicamente di essere stati, allora, in malafede. In origine nel comunismo sovietico e nello stesso nazio-nalsocialismo la concezione del «partito» (mantenuta anche in tali movi-menti) ebbe invece caratteri assai più esclusivistici e selettivi. Nel fascismo invece l'idea di un «partito di massa» prevalse pregiudicando la funzione positiva che il partito poteva eventualmente continuare ad avere.

Dal nostro punto di vista lo sbocco positivo in congiunture del genere, la controparte positiva del concetto rivoluzionario di «partito unico» in un quadro istituzionale normalizzato e integrato, deve essere invece pensata nei termini di una specie di Ordine, spina dorsale dello Stato, partecipe, in una certa misura, dell'autorità e della dignità che si raccolgono al vertice - indivisibile - dello Stato.

A tanto dovrebbe condurre l'esigenza del passaggio dalla fase di conquista del potere da parte di un movimento di risollevamento nazionale e politico alla fase in cui la stessa energia si manifesterà come forza naturale motrice, formatrice e differenziatrice dell'elemento umano. In genere, proprio i residui «partitici» furono d'ostacolo per uno sviluppo completo e ardito del regime fascista nel senso di una vera Destra mentre, sul piano pratico, ad essi si debbono varie interferenze dannose: come quando, per un lato, meriti di partito, specie con riferimento alla fase attivistica e insurrezionale (ad esempio, l'essere stati squadristi), furono considerati validi per l'assegnazione di cariche e funzioni che richiedevano invece specifiche qualificazioni e competenze, sia pure presso ad una formazione mentale «fascista», e come quando, per converso, si fu lieti di accogliere nel partito uomini di un certo nome se davano la loro adesione al fascismo, senza troppo curarsi se questa loro adesione fosse soltanto formale, se nell'intimo fossero agnostici o addirittura antifascisti (come fu il caso per non pochi membri della Accademia d'Italia, istituita dal fascismo).

Il presente brano è stato tratto da Area privata (http://www.thule-italia.net)

Dark Knight
09-03-12, 11:52
La Famiglia quale unità eroica. Riscoprirne il concetto più alto e originario.
di Julius Evola

Uno dei pericoli che minacciano le correnti di reazione contro le forze di disordine e di corruzione che stanno devastando la nostra civiltà e la nostra vita sociale, è di andare a finire in forme poco più significanti, se non di addomesticamento borghese. E' stato denunciato più di una volta il carattere di decadenza che il moralismo presenta di fronte ad ogni superiore forma di legge e di vita.

In realtà, affinché un "ordine" abbia valore, esso non deve significare né routine né spersonalizzante meccanicizzazione. Bisogna che esistano delle forze originariamente indomite, le quali conservino in una qualche maniera e misura questa loro natura anche presso la più rigida aderenza ad una disciplina. Solo allora l'ordine è fecondo. Con una immagine, potremmo dire che allora accade come per una miscela esplosiva o espansiva, la quale appunto quando è costretta in uno spazio limitato sviluppa la sua estrema efficacia, mentre nell'illimitato quasi si dissipa. In tal senso Goethe ha potuto parlare di un "limite, che crea" ed ha potuto dire che nel limite si dimostra il Maestro. Occorre poi appena ricordare che nella visione classica della vita l'idea di limite - pèras - si confondeva con quella stessa di perfezione e si poneva come il più alto ideale non solo etico, ma perfino metafisico.

Queste considerazioni potrebbero essere applicate a vari domini. Veniamo qui ad un caso particolare: quello della famiglia.

La famiglia è una istituzione che, erosa dall'individualismo dell'ultima civiltà cosmopolita, minata alle basi dalle premesse stesse del feminismo, dell'americanismo e del sovietismo, si vorrebbe ricostruire. Ma anche qui si pone l'accennata alternativa. Le istituzioni sono come forme rigide nelle quali una sostanza originariamente fluente si è cristallizzata: è questo stato originario che si deve ridestare, quando le possibilità vitali inerenti ad un determinato ciclo dl civiltà appaiono esaurite. Solo una forza che agisca dall'interno, come un significato, può esser creatrice. Ora, a quale significato si deve riferire la famiglia, in nome di che si deve volerla e preservarla?

Il significato usuale, borghese e "perbene" di questa istituzione è noto a tutti, e qui vale meno l'indicarlo, quanto il rilevare che assai scarso sostegno esso potrebbe fornire ai fini di una nuova civiltà. Potrà esser bene tutelarne i residui esistenti, ma è inutile nascondersi, che non è di questo che si tratta, che questo è un "troppo poco". Se si vuole trovare una delle non ultime cause della corruzione e della dissoluzione familiare sopravvenuta nei tempi ultimi, essa può esser indicata appunto nello stato di una società, ove la famiglia si è ridotta a non significare nulla più che questo: convenzione, borghesismo, sentimentalismo, ipocrisia, opportunismo.

Anche qui, solo col riportarsi direttamente e risolutamente non allo ieri, ma alle origini, noi possiamo trovare ciò che veramente ci occorre. E queste origini, a noi dovrebbero essere accessibili. In modo particolare, se la tradizione nostra, romana, della famiglia, è fra quelle che han portato ad espressione il concetto più alto e originario di essa.

Secondo la concezione originaria, la famiglia non è una unità né naturalistica, né sentimentale, ma essenzialmente eroica. E' noto che l'antica denominazione di pater deriva da un termine, che designava il duce, il re. L'unità della famiglia già per questo appariva dunque come quella di un gruppo di esseri virilmente stretti intorno ad un capo, che ai loro occhi appariva rivestito non di un bruto potere, bensì di una maestosa dignità, incutente venerazione e fedeltà. Questo carattere resta senz'altro confermato, se si ricorda che nelle civiltà indoeuropee il pater - oltreché il duce - è colui che in tanto esercitava una potestà assoluta sui suoi, in quanto era in pari tempo assolutamente responsabile per i suoi di fronte ad ogni superiore ordine gerarchico - era anche il sacerdote della sua gens, colui che più di ogni altro la rappresentava di fronte al divino, il custode del fuoco sacro il quale nelle famiglie patrizie era simbolo di una influenza sovrannaturale invisibilmente congiunta al sangue e trasmettentesi con questo stesso sangue. Non molli sentimenti o sociali convenzionalismi, ma qualcosa fra l'eroico e il mistico fondava dunque la solidarietà del gruppo familiare o gentilizio, facendone una sola cosa secondo rapporti di partecipazione e di virile dedizione, pronta ad insorgere compatta contro chi la ledesse o ne offendesse la dignità. Con ragione il De Coulanges. come conclusione dei suoi studi in proposito, ebbe dunque a dire che la famiglia antica era una unità religiosa, prima di esser una unità di natura e di sangue.

Che il matrimonio fosse un sacramento già assai prima del cristianesimo (come p. es. la rituale confarreatio romana), e cosa forse già nota ai lettori. Meno lo è però l'idea, che questo sacramento non valeva come cerimonia convenzionale o formula giuridico-sociale, quanto come una specie di battesimo che trasfigurava e dignificava la donna portandola a partecipare della stessa "anima mistica" della gente del suo sposo. Secondo un rito indoeuropeo, assai espressivo come simbolo, prima che di esso, la donna doveva essere di Agni, il fuoco mistico della casa. Ora, non è diverso il presupposto originario, per cui lo sposo si confondeva col Signore della donna, e si stabiliva quel rapporto, di cui la borghese fedeltà non e che il derivato decadente e depotenziato. L'antica dedizione della donna che tutto dà e nulla chiede è espressione di un eroismo essenziale, assai più mistico o "ascetico", vorremmo dire, che non passionale e sentimentale e, in ogni caso, trasfigurante. All'antico detto:
Non vi è rito o insegnamento speciale per la donna. Che essa veneri il suo sposo come il suo dio, ed essa otterrà la sua stessa sede celeste.
fa quasi riscontro, in un'altra tradizione, la concezione secondo la quale la Casa solare dell'immortalità, oltrechè ai guerrieri caduti sul campo di battaglia e ai capi di stirpe divina, era riservata alle donne morte nel dare alla luce un figlio: in ciò essendo considerata un'offerta sacrificale cosi transumanante, quanto quella stessa degli eroi.

Ciò potrebbe già condurre a considerare il significato stesso del generare, se un tale soggetto non dovesse condurci troppo lontano. Ricorderemo solo l'antica formula, secondo la quale il primogenito era considerato come figlio non dell'amore, ma del dovere. E questo dovere era, nuovamente, di carattere sia mistico sia eroico. Non si trattava solo di creare un nuovo rex per il bene e le forze del ceppo, ma anche di dare alla vita chi potesse assolvere quell'impegno misterioso di fronte agli avi e a tutti coloro che fecero grande una famiglia (nel rito romano, spesso ricordati in forma di innumerevoli imagini portate nelle occasioni solenni) di cui il fuoco familiare perenne era l'equivalente simbolico. Per tal via, in non poche tradizioni troviamo formule e riti, i quali ci fan nascere l'idea di una vera e propria generazione cosciente, di un generare non con un oscuro e semi-conscio atto della carne, ma col corpo e in pari tempo con lo spirito, dando - in senso letterale - la vita ad un nuovo essere, per il quale, in ordine alla sua funzione invisibile, veniva persino detto, che per sua virtù gli avi saranno confermati nell'immortalità e nella gloria.

Da queste testimonianze, che sono alcune fra le tante che facilmente possono esser raccolte, promana una concezione dell'unità familiare che, come sta di là da ogni mediocrità borghese conformista e moralista e da ogni prevaricazione indvidualistica, in ugual misura sta di là dal sentimentalismo, dalla passionalità e da tutto ciò che è bruto fatto o sociale, o naturalistico. Un fondamento eroico è quello che può dare la più alta giustificazione alla famiglia. Comprendere che l'individualismo non è una forza, ma una rinuncia. Nel sangue, riconoscere una salda base. Articolare e personalizzare questa base con forze di obbedienza e di comando, di dedizione, di affermazione, di tradizione e di solidarietà diremmo persino guerriera e, infine, con forze di intima trasfigurazione. Solo allora la famiglia tornerà ad essere una cosa vivente e possente, cellula prima ed essenziale per quel più alto organismo, che è lo stesso Stato.

Il presente brano è stato tratto da Julius Evola unofficial webSite (http://www.juliusevola.it)

Dark Knight
09-03-12, 11:53
Il mito Marcuse
di Julius Evola

Il caso Marcuse è interessante come per esempio del modo con cui ai nostri tempi si forma un mito. Oggi anche in Italia si fa un gran parlare di Marcuse: ciò è di rigore, per essere à la page, in certi ambienti "intellettuali" in margine alla cafè society, mentre altrove il mito comincia già a declinare. Così in Germania dopo che Marcuse era stato inserito, senza però che lui lo avesse voluto , nella formula delle tre M (Marx, Mao, Marcuse) del "movimento studentesco", sembra che recentemente sia stato fischiato.

La forza del mito Marcuse sta nell'aver cristallizzato un confuso impulso di rivolta che, privo di principi, ha creduto di trovare in lui il suo filosofo senza curarsi di veder chiaro, di separare il positivo dal negativo in uno studio serio. In realtà, Marcuse può aver dato un contributo valido alla critica della civiltà moderna, presentandosi però, a tale riguardo, solo come l'epigono di un gruppo di pensatori che già da tempo l'avevano iniziata: senza però che il Marcuse offa qualcosa di consistente come controparte, tanto da poter servire da bandiera.

Si sa che Marcuse ha dipinto un crudo quadro della "società industriale più avanzata" tecnologica e della "civiltà dei consumi" denunciandone le forme di livellamento, di asservimento e condizionamento oppressivo, un sistema di dominio che per essere anodino, per non ricorrere al terrore e all'imposizione diretta, per realizzarsi invece nel segno del benessere, del massimo soddisfacimento dei bisogni e di un'apparente democratica libertà non ha un carattere meno "totalitario" e distruttivo di quello proprio ai sistemi comunisti. Il risultato è un "uomo a una dimensione", meglio sarebbe a dire: a due dimensioni, perché quella che gli manca è propriamente la terza dimensione, la dimensione della profondità. Il Marcuse porta la sua analisi anche su domini particolari e mostra, per esempio, che il "funzionalismo" oggi ha investito lo stesso campo del pensiero speculativo e scientifico, togliendo al sapere ogni carattere metafisico, inserendo tutto in una "razionalità" strumentalistica, elastica e omnicomprensiva, tanto da venir a capo di ogni forza centrifuga e anticonformista.

Con tutto ciò il Marcuse non ha detto nulla di veramente nuovo. Gli antecedenti di una tale critica trovano già in un De Tocqueville, in un J.S. Mill, in un A.Siegried, nello stesso Nietzsche. L'idea della convergenza distruttiva del sistema comunista e di quello democratico americano noi stessi l'avevamo indicata nel libro Rivolta contro il mondo moderno uscito nel 1934 in Italia, nel 1935 in Germania. Si era anche parlato di due forme, omologabili, di "totalitarismo" livellatore, l'una "verticale", definita da una pressione diretta esercitata da un potere visibile, l'altra "orizzontale", dovuta al conformismo sociale.

Si può dire che Nietzsche aveva previsto fin dal principio del secolo lo sviluppo accusato dal Marcuse, nelle brevi, incisive frasi dedicate all'"uomo ultimo": "prossimo è il tempo del più spregevole degli uomini, che non sa più disprezzare se stesso", "l'ultimo uomo della razza pullulante e tenace". "Noi abbiamo inventato la felicità, dicono, ammiccando, gli ultimi uomini", essi hanno abbandonato "la regione dove la vita è dura". Ma che diverso sfondo sta dietro a queste formulazioni di un vero e ribelle aristocratico dall'altra statura! Il contributo specifico del Marcuse si riduce all'esame accurato delle forme specifiche per via delle quali la civiltà tecnologica del benessere è stata un allevamento sistematico di questa razza dell'"uomo ultimo". Inoltre è positiva, nelle sue argomentazioni (sebbene, per ovvie ragioni, non sempre ben marcata), la demitizzazione dell'ideologia marxista: la civiltà tecnologica elimina la protesta proletaria marxista; elevando sempre più il livello materiale della vita della classe operaia, appagandone sempre più i bisogni e il desiderio di un benessere borghese essa l'inghiotte e l'incorpora nel "sistema".

Tutto ciò sembra portare in una via senza uscita. Da un lato Marcuse parla di un mondo che tende a divenire quello di una amministrazione totale che assorbe gli stessi amministratori, che dunque si autonomizza (già W. Sombart aveva parlato del "gigante scatenato" riferendosi agli sviluppi involontari dell'altro capitalismo). Dall'altro lato, egli dice che non è più il caso di parlare di "alienazione" perché abbiamo un tipo umano che si è adeguato esistenzialmente alla sua situazione facendo coincidere ciò che è con ciò che vuol essere, per cui manca ogni punto di riferimento per avvertire una "alienazione". La libertà in un senso non mutilato, diversa da quella ancora ammessa dal "sistema", sarebbe da pagare con un prezzo assolutamente esorbitante e assurdo. Nessuno pensa a rinunciare ai vantaggi della civiltà del benessere e dei consumi per una idea astratta delle libertà. Così si dovrebbe forzare l'uomo ad essere "libero".

Allora, su quale sostanza umana si può contare e quali sono le idee che si possono invocare per la "contestazione globale", per il "Grande Rifiuto"? Qui nel Marcuse tutto diviene inconsistente. Egli non vorrebbe attaccare la tecnica ma auspica un uso diverso di essa; ad esempio, per andar incontro a popoli e strati sociali diseredati e in miseria. Egli non sia accorge che ciò, in fondo, date le premesse, sarebbe far loro un pessimo servizio: si eliminerebbe la loro "protesta", assorbendoli nel "sistema". In effetti, si vede che il "Terzo Mondo" nel liberarsi e nel "progredire" altro non fa che prendere per modello e per ideale il tipo di società industriale progredita avviandosi così verso la stessa trappola. Da qui, anche, l'illusione dei maoisti: ci si ferma alla fase "eroica" di una rivoluzione che vuol fare tabula rasa, come se tale fase potesse venire eternizzata e come si potesse infondere nelle masse il disprezzo costante per il "putrido benessere delle civiltà imperialiste", qualora esso fosse realizzabile (d'altronde la Cina non è soltanto quella delle Guardie Rosse scalmanate nemiche delle sovrastrutture politiche; ma anche quella che sta industrializzandosi, fino a possedere la bomba atomica: tutte cose che il Marcuse fa rientrare in una "civiltà repressiva"). In Russia si è visto come quella fase "eroica" a poco a poco abbia dato luogo ad una tecnocrazia nella quale, la prospettiva del "benessere" alla borghese viene utilizzata come stimolo.

Ha certamente ragione il Marcuse quando dice che bisognerebbe "ridefinire e ridimensionare i bisogni" escludendo quelli parassitari che propiziano il crescente volontario asservimento dell'uomo, e che si dovrebbe arginare la superproduzione. Ma per opera di chi e in nome di che cosa? Arrestare il "Gigante scatenato", contenere il "sistema", sarebbe possibile soltanto partendo da un potere superiore, da un potere politico sovraordinato all'economia, cosa il cui solo pensiero farebbe inorridire il Marcuse, nemico giurato di ogni forma di totalitarismo.

Il Marcuse tiene a far sapere che per lui "la liberazione della società opulenta non è un ritorno ad una salubre, vigorosa povertà, alla pulizia morale e alla semplicità". Ciò che invece propone è assai simile ad una inconsistente fantasticheria (col complesso ossessivo della "pacificazione" ad ogni costo), perché egli di valori superiori quali punti di riferimento motivazionali non ne riconosce nessuno. Per convincersene basta leggere il suo libro meno noto, Eros e civiltà. Da esso risulta inequivocabilmente che l'unico uomo da lui concepito è quello di Freud, un uomo determinato costituzionalmente dal "principio del piacere" (Eros, libido) e da quello che della distruttività (Thanatos); che ogni etica che non sia quella del soddisfacimento di tali impulsi avrebbe un carattere "repressivo" e diverrebbe dell'interiorazione, nel cosiddetto "Super-io" (il tiranno interiore), delle inibizioni esterne e di quelle legate a complessi ancestrali. Il Marcuse traccia tutta una sociologia che deduce appunto all'uomo freudiano ogni struttura politico-sociale, in termini che talvolta sono veramente farneticanti.

In nome di che cosa si chiederebbe dunque il "Grande Rifiuto", dato che ogni principio eroico e ascetico viene stigmatizzato e colpito con aberranti interpretazioni freudiane? L'ideale della "personalità" per il Marcuse, che si oppone agli psicanalisti "revisionisti" (Jung, Fromm, Adler, ecc.) non è forse quello di un "un individuo infranto che ha interiorizzato e utilizzato con successo la repressione e l'aggressione" (sic)? Un esempio per tutti. L'Hendrich aveva parlato di un'armata che continuava a combattere "senza pensare a vittorie o a un futuro piacevole, per un'unica ragione, perché il compito del soldato è combattere e questa è l'unica motivazione che abbia un significato…è un'altra prova della volontà umana". Ebbene, per il Marcuse si tratterebbe del colmo dell'alienazione, della "perdita completa di ogni libertà istintuale e intellettuale", "la repressione divenuta non la seconda ma la prima natura dell'uomo" in una parola, una "aberrazione".

Ogni commento è superfluo. Libertà e felicità per il Marcuse fanno tutt'uno, freudianamente, con la soddisfazione delle richieste della propria immutabile natura istintuale, l'elemento "libido" stando naturalmente in primo piano Tutto ciò che il Marcuse sa prospettare è uno sviluppo della tecnica che dia all'uomo una quantità crescente di tempo libero, non soggetto al "principio della prestazione"; allora egli potrà portare i propri istinti non a quei soddisfacimenti diretti che sarebbero catastrofici per una società ordinata ma a soddisfacimenti vicarianti o trasposti, in termini di giuoco, di immaginazione, di un ordinamento "orfico" (panteistico-naturalistico con sfumature rousseauiane) o "narcisistiche" (estetizzanti - questa è la terminologia usata). Sono più o meno gli stessi campi marginali che Freud aveva indicato, nei termini di una compensazione e in fondo di una evasione, nel caso dell'individuo. Il Marcuse non tiene conto del fatto che la società tecnologica ha già pensato a organizzare sistematicamente queste occupazioni del "tempo libero", offrendo all'uomo le forme standardizzate e stupide che si legano allo sport, alla televisione, al cinema, alla cultura da rotocalchi e da Reader's Digest e simili.

Trarre da tutto questo una bandiera valida per il "Grande Rifiuto" è naturalmente ridicolo. Ciò da cui dipende tutto il resto è la concezione dell'uomo. Quella freudiana, seguita dal Marcuse, è aberrante. Così se si fa il bilancio del mito , il risultato è più o meno questo: una rivolta legittima, ma senza una controparte positiva e senza speranze. Così l'anarchia è l'unico sbocco logico. Forse per questo il Marcuse ha finito con l'essere fischiato a Berlino, certamente dai radicali della protesta. Scaduta la "protesta" di tipo marxista e operaio resta la rivoluzione del nulla. E' significativo che negli ultimi disordini in Francia presso alle bandiere rosse comuniste siano apparse le bandiere nere degli anarchici, come è significativo che in siffatte manifestazioni, ma non solamente in Francia, si siano verificate forme di puro scatenamento selvaggio e distruttivo. Inutile, pertanto, farsi illusioni ottimistiche nei riguardi della così spesso feticizzata "gioventù", studentesca o no, se la situazione di base non cambia. Una rivolta senza quei principi superiori che lo stesso Nietzsche aveva nel suo modo evocato nella parte valida del suo pensiero, a tacere dei contributi degli esponenti di una rivoluzione di Destra, porta fatalmente all'emergenza di forze di un ordine ancor più basso di quelle della sovversione comunista, anche se questa cerca di strumentalizzarle. Con l'affermazione eventuale di ques6te forze, tutto il ciclo di una civiltà condannata si chiuderebbe, se non sorge un potere superiore se non si riafferma l'immagine di un superiore tipo umano.

Il presente brano è stato tratto da Julius Evola unofficial webSite (http://www.juliusevola.it)

Dark Knight
09-03-12, 11:53
L'ermetismo e la critica allo spiritualismo contemporaneo. Il problema del cattolicesimo.
di Julius Evola

Chiudo questa parentesi, forse non del tutto priva di un interesse generale retrospettivo. Tornando alla serie dei miei libri, quelli usciti subito dopo il periodo de La Torre riguardano di nuovo il dominio delle discipline tradizionali e esoteriche. Si tratta di La tradizione ermetica, pubblicata nella sua prima edizione nel 1931 presso l'editore Laterza, e di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, uscito nella prima edizione nel 1932 presso l'editore Bocca.

La materia del primo libro l'avevo cominciata a trattare in alcuni saggi di Introduzione alla Magia. In parte, la conoscenza diretta della letteratura ermetica la dovetti al Reghini, il quale mi prestò o segnalò antichi testi, mentre in precedenti articoli egli aveva indicato alcune chiavi per la comprensione del simbolismo ermetico-alchemico. Inoltre sapevo della materia attraverso gruppi francesi, soprattutto attraverso quello facente capo alla rivista Le Voile d'Isis (la quale poi divenne la guénoniana Études Traditionnelles).

Come nel caso dei Tantra, il mio metodo fu di rifarmi alle fonti originarie e di raccogliere il più vasto materiale possibile con una seria documentazione, per poi esporre una sintesi dell'insegnamento secondo il punto di vista " tradizionale ". Il titolo completo dell'opera era c La tradizione ermetica nella sua dottrina, nei suoi simboli e nella sua Arte Regia ". A dire il vero, fu l'ermetismo alchemico a costituire l'effettiva materia del mio studio. Si tratta di quella letteratura che, partendo da origini mitiche, ebbe già espressioni precise nel periodo alessandrino, in testi greci e siriaci. La corrispondente tradizione fu ripresa dagli Arabi, e in gran parte pel tramite di essi passò nell'Occidente europeo avendo una particolare fioritura nei secoli XVI e XVII e successive promanazioni fino al tempo in cui nacque la chimica scientifica.

Nel loro aspetto esteriore tutti i testi di questa plurisecolare corrente trattano di operazioni chimiche e metallurgiche, soprattutto della fabbricazione dell'oro e della produzione della pietra filosofale e dell'elixir dei saggi. Arte ieratica e arte regia, era stata denominata la disciplina, nel suo aspetto pratico e operativo. Essa era stata esposta impiegando un simbolismo e un gergo cifrato impenetrabili pel profano. ma anche miti tratti dall'antichità classica. Alla cultura moderna è sembrato ovvio trattarsi, qui, di una chimica allo stato infantile, superstizioso e mitologizzante, senz'altro superata dalla chimica scientifica, e d'interesse solo per la storia delle scienze. Tuttavia con ciò si considerò come non esistente quel che numerosi autori ermetici ripetutamente e esplicitamente avevano dichiarato, ossia che le loro esposizioni non erano da prendersi alla lettera, che il loro, era un linguaggio segreto (tanto che - essi dicevano - era come se essi scrivessero solo per loro stessi e per coloro che già sanno), che i principi della loro arte segreta potevano essere compresi solo per bocca di un Maestro o per una improvvisa illuminazione. Inoltre era evidente che tutta la concezione basale dell'universo, della natura e dell'uomo di questi autori era assolutamente diversa da quella che doveva far da fondamento alla scienza moderna, che essa s'identificava invece con quella dello gnosticismo, della teurgia, della magia e delle antiche scienze sacre: apparteneva sostanzialmente ad un altro mondo spirituale.

Intrapresi dunque uno studio sistematico per mettere in luce il vero contenuto interno della tradizione ermetico-alchemica. In realtà, si trattava di una scienza iniziatica esposta con un travestimento chimico-metallurgico. Le sostanze di cui parlavano i testi erano simboli per forze e principi dell'ente umano o della natura assunta sub specie interioritatis e nei suoi aspetti iperfisici. Le operazioni riguardavano_ la trasformazione iniziatica dell'essere umano. L'oro alchemico rappresentava l'essere immortale e invulnerabile, pensato però negli stessi termini dell'accennata teoria dell'immortalità condizionata: non come una realtà data ma come qualcosa di eccezionalmente realizzabile mediante un procedimento segreto. Nell'insieme, ci si trovava di fronte ad una cosmologia e ad uno speciale sistema di simboli e di tecniche.

Ciò, per quel che riguardava il nucleo più autentico e essenziale della tradizione in parola, separato dalle scorie e dagli elementi secondari o accessori. Fra le scorie, rientravano le speculazioni, le opere e le fatiche di coloro che, per incomprensione, avevano preso alla lettera i simboli e si erano dati a operazioni fisiche in un più o meno disordinato sperimentare e provare, nei termini, appunto, di una chimica allo stato infantile e prescientifico. Ma dai veri " figli di Ermete " costoro erano stati chiamati sprezzantemente " bruciatori di carbone ", profani che avevano " messo a rovina " la vera scienza.

Quanto agli aspetti secondari, in essi poteva rientrare la possibilità di operare effettivamente sulla materia, magari su metalli da trasformare, ma per una via del tutto diversa da quella della scienza e della tecnica moderne, cioè " passando da dentro " e in base a capacità non-normali strettamente condizionate dall'avvenuta trasformazione interiore, scopo primo e precipuo dell'Arte.

Già in vista di tale aspetto apparivano perciò inadeguate anche quelle interpretazioni c psicologiche " e psicanalitiche che successivamente dovevano essere date al simbolismo alchemico. Non si trattava di processi dell'inconscio, di imagini della libido o dell'affioramento involontario e coatto degli " archetipi " di Jung, sul piano irrealistico e soggettivo della psiche umana; si trattava invece di operazioni con poteri reali, in base a un sapere preciso. Lo studio in tale quadro fu il carattere distintivo della mia trattazione.

Ma a parte l'esegesi dell'ermetismo alchemico dal punto di vista iniziatico, a me interessava presentarlo anche ne: termini di una tipica testimonianza di una delle due grandi linee tradizionali: dì quella regale, attiva e virile, opposta alla linea sacerdotale o ascetico-contemplativa. Infatti nell'ermetismo alchemico stava in primo piano l'istanza pratica, operativa, il primato dell'" arte ", quindi dell'azione, lo " sperimentalismo " esteso al piano dello spirito. Era già significativa la designazione più in uso di tale disciplina: Ars Regia, cioè arte regale. Ma soprattutto gli orizzonti realizzativi erano caratteristici. Secondo tutti i testi, la Grande Opera alchemica comprende tre fasi principali, contrassegnate da altrettanti colori - il nero, il bianco e il rosso: la nigredo, l'albedo e la rubedo. La nigredo, o opera al nero, corrisponde più o meno all'uccisione dell'Io fisico, alla rottura della chiusura della comune individualità. L'albedo, o opera bianco, è l 'apertura estatica, l'esperienza della luce, però con un carattere passivo, per cui essa viene chiamata anche regime della Donna o della Luna. Lo stadio finale e perfetto, la rubedo, o opera al rosso, comporta però il superamento di tale fase, la riaffermazione della qualità virile e dominatrice, per cui nei testi si parla del superamento della Donna, del regi-me del Fuoco e del Sole. Il rosso, da molti autori ermetici viene messo esplicitamente in relazione con quello della porpora regale o imperiale.

Più tardi, nel 1932, curai, per le edizioni Laterza, una riedizione commentata dell'opera di un ermetista italiano del '600, Cesare della Riviera, intitolata Il mondo magico de gli Heroi (fra l'altro, dedicata ad un principe di casa Savoia). A parte la significativa, diretta assimilazione dell'" eroe " all'adepto ermetico, in essa è interessante la messa in relazione del fine ultimo e segreto dell'Ars Regia con la conquista del "Secondo Legno di Vita", il che vale quanto dire col superamento, mediante un'azione che evita il crollo titanico 0 luciferico, dello sbarramento del luogo da cui, secondo il mito biblico, Adamo era stato bandito affinché non estendesse il proprio potere anche sull'Albero della Vita.

Il complesso dei testi da me esaminati costituiva dunque una testimonianza preziosa del continuarsi, come una vena sotterranea, di una tradizione rifacentesi al particolare ramo della tradizione primordiale che attirava maggiormente il mio interesse, anche in seno ad una civiltà in cui era venuta a predominare una religione che, come il cristianesimo, rappresentava una forma exoterica dell'opposto orientamento. Fra le ragioni dell'accennato travestimento alchemico dell'insegnamento io pertanto indicavo non solo quella generica e intrinseca, per via della quale le " dottrine interne " tradizionali - l'esoterismo - furono sempre tenute segrete, ma anche il fatto della reale antiteticità. dell'ideale iniziatico ermetico rispetto ai valori religiosi cristiani. Se si fosse semplicemente trattato i una mistica sui generis, di una dottrina soteriologica della rinascita e dell'estasi (come alcuni hanno preteso), quella precauzione sarebbe stata superflua. L'ermetismo alchemico continuò, in realtà, una tradizione di spiritualità precristiana e non-cristiana. Anche la parte rilevante che in essa ebbe la mitologia pagana (dèi e vicende di dèi, dati come simboli dei principi, degli stati e delle operazioni dell'Ars Regia) è, a tale riguardo, significativa.

C. G. Jung ebbe a segnalare, di sua iniziativa, il mio libro come una delle opere essenziali sull'argomento. Oggettivamente, credo che fino ad ora esso resti la trattazione più completa dell'ermetismo alchemico dal punto di vista interno e tradizionale. Il libro uscì in seconda edizione presso Laterza nel 1948, e nel 1962 in traduzione francese per le edizioni Chacornac, col testo pressoché immutato, essendo stata solo aggiunta qualche altra citazione. In effetti, il materiale documentario dato nel libro era solo una parte di quello da me raccolto da una quantità di testi; il resto aveva dovuto essere sacrificato per esigenze editoriali.

Un anno dopo La tradizione ermetica, nel 1932, usciva, per le edizioni Laterza, un altro mio libro, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, avente per sottotitolo " Analisi critica delle principali correnti moderne verso il sovrannaturale ". L'argomento l'avevo già cominciato a trattare in saggi usciti sulle riviste L'Italia Letteraria e La Torre, non senza una certa relazione, anche, con le confusioni, dovute in parte ad ignoranza e in parte a malafede, dimostrate da coloro che, come già al tempo di Imperialismo pagano, mi accusavano di essere un " teosofo ", un " massone " e simili, a causa dell'interesse da me dimostrato anche per gli insegnamenti sapienziali tradizionali. Il Guénon aveva già riconosciuto la necessità di tracciare precise linee di demarcazione proprio a difesa di tali insegnamenti, e in due delle sue prime opere, L'Erreur spirite e Le Théosophisme, aveva denunciato gli errori e le confusioni dello spiritismo e della teosofia moderna, indicando il carattere spurio e deviato di tali correnti. Io ripresi questa stessa esigenza, facendola però valere anche nei riguardi di altre tendenze e movimenti contemporanei.

In questo libro, in una certa misura, spostai intenzionalmente il piano della trattazione. Volli rivolgermi ad un pubblico più vasto, affrontando in prima linea il problema della difesa della personalità umana di fronte alle seduzioni e ai pericoli del " sovrannaturale ". La tesi principale da me sostenuta era che nell'epoca moderna esiste, appunto, un " pericolo spiritualistico " facente da controparte a quello " materialistico ". Stretti dalla morsa del materialismo, del razionalismo, del praticismo e dell'attivismo della civiltà ultima e più non trovando, d'altra parte, adeguata soddisfazione nella religione dominante, in molti nostri contemporanei si è di nuovo svegliato un impulso incoercibile verso l'" aldilà ", verso il sovrasensibile, specie se presentato come un dominio di possibili esperienze vissute. Un tale dominio è stato quasi sempre scambiato semplicisticamente con quello del " sovrannaturale ".

È un grave equivoco, dovuto alla mancanza di veri principi. Ripresi l'insegnamento secondo il quale la personalità umana con le sue facoltà normali e con l'esperienza del mondo fisico e della natura ad esse corrispondente occupa una posizione intermedia; è situata fra due opposte regioni, l'una inferiore e l'altra superiore alla condizione che le è propria: l'infranaturale e il subpersonale da un lato, il vero sovran-naturale e il superpersonale dall'altro, tali domini non essendo però da concepirsi in termini teorici astratti ma con riferimento a stati reali e a potenze dell'essere. " In tutto quel che non è più naturale vi sono due domini distinti, anzi opposti ", affermavo. Da qui, la duplice possibilità di un autotrascendimento discendente (verso il basso, verso il prepersonale, il subpersonale e l'inconscio) e di un autotrascendimento ascendente (verso l'alto, verso ciò che sta effettivamente al disopra della chiusura - sotto vari riguardi anche difensiva e protettiva - della comune personalità umana). Ora, nella gran parte delle forme dello spiritualismo contemporaneo si tratta proprio di " aperture verso il basso ", quindi di una direzione regressiva che, ove si vada oltre le semplici teorie, può solo dar luogo a contatti con forze oscure, con l'effetto di un ulteriore indebolimento della compagine spirituale dell'uomo moderno, già per tanti versi incrinata.

L'opposta direzione veniva da me formulata nei seguenti termini: " una via ad esperienze tali che, lungi dal ridurre la coscienza, la trasformino in supercoscienza, che lungi dall'abolire la distinta presenza a sé così facile da conservarsi in un uomo sano e sveglio fra le cose materiali e le attività razionali, la innalzi ad un grado superiore in modo da non alterare i principi della personalità ma invece da integrarli". Solo la via ad esperienze del genere - concludevo - è quella verso il vero sovrannaturale. Nota alla " dottrine interne " del mondo della Tradizione, essa è l'opposto di ogni regressione estatica e di ogni apertura verso il sub-intellettuale e l'inconscio.

Fissato così il punto essenziale di riferimento che, del resto, come si ricorderà, da me era stato già indicato diversi anni prima, nel periodo filosofico, nel mio libro analizzai varie correnti contemporanee per separare il positivo dal negativo sia dal punto di vista dottrinale che da quello pratico. Di tale analisi, qui è il caso di riferire solo qualche singolo aspetto.

Considerai anzitutto lo "spiritismo" e le "ricerche psichiche " (o metapsichica). Il primo, unitamente alla medianità e ad analoghe vie evocatorie, a prescindere dalle mistificazioni, costituisce un caso tipico di c apertura verso il basso ", verso prodotti di dissociazioni psichiche, residui larvali e influenze oscure d'ogni genere, a parte torbide emergenze del subcosciente. Quanto alla "metapsichica" o " parapsicologia ", in essa accusavo l'errore di applicare il metodo scientifico dei semplici accertamenti sperimentali dall'esterno ad un dominio, dove esso può solo cogliere delle banalità - identici fenomeni " extra-normali ", sempre che siano autentici, potendo avere cause quanto mai diverse e un significato sia "subpersonale " che " super-personale ". Inoltre queste ricerche si applicano necessariamente quasi sempre ad un materiale spurio, privo di interesse spirituale, essendo evidente che nessuna figura superiore, nessun adepto o asceta si presenterà mai a farsi osservare o misurare dai metapsichici e a produrre per loro dei " fenomeni " controllabili.

Seguiva la critica della psicanalisi, qui soprattutto di quella di indirizzo freudiano (il completamento di essa con una critica, anche, di quella dello Jung fu dato, come ho accennato, in un esteso saggio della seconda edizione di Introduzione alla Magia). Seppure per un altro verso, anche nella psicanalisi è evidente lo spostamento regressivo del centro di gravità verso il fondo irrazionale e sub-personale dell'essere umano, con l'attribuzione ad esso di una preeminenza e del carattere di forza essenziale motrice della psiche. Rispetto a ciò, la sessualizzazione freudiana di questo substrato in termini soprattutto di libido appariva solo come una deviazione secondaria. Sottoliniavo piuttosto come la terapia psicanalitica comporti una morale alla rovescia, cioè l'abdicazione della persona di fronte a ciò che in lei è natura e istinto, al fine di eliminare le tensioni logoratrici e spesso patogene di un essere interiormente scisso (esula, dagli orizzonti della psicanalisi freudiana, la nozione di un principio spirituale autonomo e sovrano - per essa, una tale nozione è perfino patologica - essa viene ridotta a quella del cosidetto super-Io "). Dunque, di nuovo, un caso di polarizzazione regressiva. Un punto particolare da me indicato era però che la psicanalisi è figlia dei tempi. Se la sua concezione dell'uomo è assurda e grottesca se riferita ai rappresentanti di una umanità normale, essa si attaglia a ciò che, per involuzione, l'uomo occidentale è sempre più divenuto nei tempi ultimi. La messa in evidenza dell'inconscio, di un sottosuolo psichico torbido, nella sua potenza e influenza di là dalle forme illusorie di una pseudopersonalità; con una completa tacitazione della zona superiore, del supercosciente, caratterizza l'orizzonte mutilo e, in un certo modo, demonico della psicanalisi quale visione generale. Essa tuttavia resta un indice segnaletico della situazione esistenziale dell'umanità ultima.

I due capitoli successivi di critica alla teosofia anglo-indiana (Blavatsky, Besant - ciò che il Guénon ha chiamato, più che teosofia, tale termine avendo augusti antecedenti, le théosophisme) e all'antroposofia steineriana avevano un carattere maggiormente teoretico, di separazione di alcuni insegnamenti tradizionali autentici dalle distorsioni da essi subite in tali sette, nelle teorie delle quali è, inoltre, rilevante l'influenza di pregiudizi tipici della mentalità occidentale moderna e, in particolare, anglosassone (evoluzionismo, umanitarismo, democrazia). Forse avrei dovuto essere più severo (così pensò anche il Guénon) nei riguardi dell'antroposofia, e avrei dovuto svolgere alcune utili considerazioni supplementari circa il " caso " costituito dalla persona del suo fondatore, Rudolf Steiner. A tale proposito il paradosso è che lo Steiner era partito dalla giusta esigenza di una " scienza spirituale ", cioè di una disciplina che applicasse al sovrasensibile e alle tecniche pel contatto con esso gli stessi principi di positività, di chiarezza e di esattezza delle scienze naturali moderne (gli stessi principî che in Introduzione alla Magia avevamo detto essere propri al metodo iniziatico in genere). Ciò malgrado, nell'antroposofia quasi tutto si era ridotto ad un orgia di visionarismo e di pseudo-chiaroveggenza, di divagazioni di ogni genere, il tutto inquadrato in un pedantesco sistema. Questo caso poteva anche esemplificare il pericolo di certe tecniche mentali; quando ci si sforza di realizzare il cosidetto " pensiero libero dai sensi " e anche di sciogliere l'imaginazione dalle abituali condizionalità, si crea inevitabilmente un " vuoto ". E se per crisma, per naturale dignità o per un collegamento effettivo con una adeguata " catena " non si dispone di una vera difesa, quel vuoto viene occupato da " complessi autonomi ", da influenze psichiche producenti appunto l'accennata fantasmagoria visionaria, con l'aggravante dell'associarsi ad essa, per via della stessa natura dello stato in cui ci si è messi, della parvenza di una assoluta certezza e verità. Già attraverso le esperienze personali fatte a suo tempo con l'aiuto di droghe, ciò mi era risultato ben chiaro. Questo è il retroscena occulto di gran parte della antroposofia steineriana. Inoltre nello Steiner per la fisima di una " iniziazione individuale " o " dell'Io ", nel senso di una via che l'individuo - qualunque individuo - potrebbe percorrere da solo, senza difese (e nello Steiner vi è l'assurda e frivola presentazione di una tale via come quella di una superiore " iniziazione moderna ", del tutto ignota all'antichità e all'Oriente, resa possibile solo dalla venuta storica del Cristo), gli accennati pericoli a cui si trova esposto chi si mette davvero a praticare aumentano. Il fanatismo degli antroposofi è solo il riflesso di questo cedimento intimo, di questa inavvertita loro possessione.

Un ulteriore capitolo del libro trattava del misticismo in quei casi in cui il fattore estatico rappresenta qualcosa di distruttivo per la personalità formata (come ho detto, soprattutto essa ho avuto in vista in questa mia opera). Nel considerare l'episodio di Krishnamurti e la teoria dell'assoluta liberazione che egli era passato a bandire dopo essersi emancipato dalla tutela dei teosofi (che in lui avrebbero voluto preparare un " veicolo " per la manifestazione di un nuovo Messia), indicavo i pericoli più generali che, nel senso di un incentivo all'anarchia, alla distruzione di ogni forma e legge interna, presenta il proporre simili teorie ad un tipo umano che, come quello occidentale moderno, è fin troppo propenso a scambiare per libertà l'evasione, l'insofferenza verso ogni disciplina. Per giunta, non mancavano, in Krishnamurti, riferimenti ad una equivoca mistica della " Vita " da liberare (in opposto al liberarsi dalla vita) quasi nello stesso senso dell'irrazionalismo di un Bergson, di un Klages e di molti altri figli dei tempi. Ciò mi diede l'occasione di indicare la funzionalità della Tradizione, sfuggente del tutto a Krishnamurti, il quale aveva cominciato col non capire e col buttare in mare la propria tradizione di indù, invitando gli Occidentali a fare altrettanto. Nella prefazione alla seconda edizione del libro, uscita nel 1949, sempre presso Laterza, mettevo in risalto i seguenti punti: " 1) Non bisogna scambiare l'essere di là da una tradizione con l'essere al di qua di essa, come ne è il caso per gli individualisti, le " menti critiche " e ì liberi pensatori moderni: 2) Bisogna riconoscere sotto quali condizioni un limite impietra e sotto quali altre un limite può invece proteggere; 3) Quando quel che vale per il " più che umano " viene applicato all'individuo umano e soprattutto a quello di oggi, si cade nella più pericolosa delle deviazioni e delle incomprensioni, cosa per la quale noi non intendiamo assumere alcuna responsabilità ". Si poteva citare anche il detto: " Vi sono verità simili ad una lama affilata: feriscono, se non sono tenute nel fodero ".

Come si vede, a poco a poco venivano precisati i correttivi alle teorie astratte del mio primo periodo, pur senza abbandonare le posizioni essenziali. Nell'accennata seconda edizione di Maschera e Volto aggiunsi anzi un nuovo capitolo in cui venivano considerati specificamente anche pericoli in precedenza accennati, il titolo di esso essendo " Il primitivismo, gli ossessi e il superuomo ". Da un lato, era indicata la direzione regressiva propria alle tendenze contemporanee verso il primitivismo, con riferimento, in parte, al mondo delle popolazioni selvagge, ma anche ai cosidetti moderni " ritorni alla natura "; dall'altro lato, era però indicata proprio la linea del superuomo nietzsehiano e dostojewskiano, la quale può condurre al crollo costituito dall'ossesso se nel punto-limite non si ha una rottura esistenziale di livello e un cambiamento di polarità l'innesto della dimensione della " trascendenza " presa nel senso " olimpico " e non dualistico, teistico-religioso). Tale ordine di idee doveva essere sviluppato ulteriormente nel mio libro che, fino a questo momento, è il più recente, cioè in Cavalcare la Tigre (1961).

Così non a caso questo capitolo precedeva l'ultimo, intitolato " La magia nel mondo moderno ", nel quale l'esame si portava sugli affioramenti, in alcuni autori e gruppi moderni, di insegnamenti che, in via di principio, si rifacevano alla " magia " nel senso specifico, spirituale e positivo, già spiegato parlando del " Gruppo di Ur ". Qui ci si trova di già ad un livello diverso da quello delle altre tendenze criticate. Trassi alcuni riferimenti essenziali da Eliphas Levi, da Giuliano Kremmerz (creatore, in Italia, di una "catena" denominata Myriam che svolse la sua attività dalla fine del secolo scorso) e da Gustav Meyrink, autore di romanzi nei quali, peraltro, un sapere esoterico si affaccia spesso in una purezza raramente riscontrabile altrove (per questo, anche se non facendo apparire il mio nome, io in sèguito tradussi tre di tali romanzi: La notte di Valpurga, Il Domenicano Bianco e L'Angelo della finestra d'occidente; essi uscirono tutti e tre presso l'editore Bocca). Da tale corrente era indicata "la via pagana al risveglio " dell'integrazione della personalità in base ad una ascesi attiva, libera dai miti religiosi e dalle preoccupazioni moralistiche, con riaffermazione del principio dello sperimentalismo. Così le riserve che qui feci non toccavano l'essenziale; esse riguardavano, ad esempio, il limite proprio alle cosidette forme " cerimoniali " (cioè usanti soprattutto riti e formule, con una oggettivazione quasi realistica di entità e di poteri) o l'inclinazione " occultistica ", cioè il malvezzo del parlare oscuro, ex cathedra e ex tripode, con tono di mistero e con paroline a metà. Ma, in genere, qui si poteva incontrare l'esigenza essenziale: " la possibilità suprema,,, di trasmutare la personalità umana caduca in quella di un semidio partecipante all'immortalità olimpica " - corrispondente alla via all'autotrascendenza ascendente, quindi alla via verso il vero sovrannaturale.

La riserva principale da me formulata era però di un altro genere. Ricordai che una simile via è stata sempre accessibile solo a pochi. Spesso il neo-spiritualismo ha fatto, degli insegnamenti esoterici da esso volgarizzati, un mero surrogato delle religioni, anzi qualcosa di più comodo, data la mancanza di dogmi e di ogni vincolo positivo. Così, dicevo con sarcasmo, si era giunti a dottrine del superuomo e dell'adeptato professate in ambienti di donne fuori uso e di mezzi-uomini, pensionati, umanitaristi e vegetariani - a parte l'altra direzione, quella della americanizzazione dello yoga e dei metodi " occulti " ridotti a mezzi per divenire dei " caratteri dominatori ", per curare la salute, per assicurarsi la via del successo e via dicendo. Tutti questi sottoprodotti stanno evidentemente non al disopra ma al disotto del livello di una religione positiva regolare. Dicevo: " Esiste, sì, il diritto di accedere ad una verità più alta di quella delle religioni positive, a carattere exoterico e devozionale ", alla verità, appunto, affacciatasi negli autori da me per ultimo considerati. Ma questo " è un diritto aristocratico, il solo diritto che la plebe non potrà mai usurpare, né oggi, né in una qualsiasi altra epoca del mondo ", perché condizionato dalla capacità di un " superamento assoluto ". Per la grandissima maggioranza, oggi si tratta piuttosto di avere il senso di un necessario limite e di una necessaria difesa di fronte ad orizzonti ampliati di là dalla visione materialistica del mondo; quindi, anche della capacità del singolo " di chiudere con calma tante porte che luciferinamente si socchiudono e si socchiuderanno sopra di lui e sotto di lui ". " La personalità oggi è nel più dei casi solo un compito, qualcosa di inesistente, a che sia il caso di tendere a quel che sta di là da essa ". Avendo in vista, in questo mio libro, un più vasto pubblico, tutto ciò doveva essere detto.

A metà di Maschera e Volto un capitolo dal titolo " I ritorni al cattolicesimo " può essere stato, per alcuni, motivo di sorpresa, perché per la prima volta nei miei scritti in esso si trovavano alcuni apprezzamenti positivi nei riguardi del cattolicesimo. Distinsi due forme, nei ritorni di oggi al catto-licesimo. La prima era propria a dei falliti, a coloro che, dopo un vano intellettualismo, dopo l'inutile ricerca di una via, dopo delusioni dolorose, si sono ravvicinati al cattolicesimo essendo attirati dal suo aspetto di sistema saldo e imperituro. In tali casi - dicevo - il tutto " si riduce però ad un puro fatto di sentimento e al bisogno di scaricarsi di un peso ormai divenuto insostenibile, di trovare infine una autorità, una forma data che sospenda la ricerca, l'incertezza, l'intima insoddisfazione ". Così in questi casi il contenuto oggettivo e il valore intrinseco della tradizione cattolica non entravano che accessoriamente in quistione. Se un'altra tradizione avesse presentato gli stessi caratteri di stabilità e di autorità con un analogo complesso di mezzi di grazia, essa avrebbe servito egualmente bene allo scopo. Naturalmente, " ritorni " di tale tipo erano privi di interesse. Essi stessi avevano un carattere regressivo, evasionistico.

Io considerai però anche una opposta possibilità, rifacendomi soprattutto ad alcune vedute di René Guénon. Il Guénon era partito dall'idea di una unità interna, trascendente, delle grandi religioni positive, che interpretò come adattazioni varie, condizionate dal carattere specifico di dati popoli, di date aree e di dati periodi storici, di un insegnamento unico riguardante il sovrannaturale. A tale riguardo doveva distinguersi l'exoterismo dall'esoterismo. È exoterismo tutto ciò che è di pertinenza specifica di una singola tradizione nella sua conscritto, oltre ad avere in vista la gran massa. L'esoterismo coscritto, oltre ad avere in vista la gran massa. L'esoterismo riguarda invece la dimensione interna nella quale una data tradizione comunica con la Tradizione al singolare, su di un piano superdevozionale, intellettuale e metafisico. Su tale piano è pertanto possibile scorgere l'identità sostanziale di simboli, riti e esperienze nelle tradizioni " exotericamente " più diverse. Una scala poteva essere stabilita solo in base alla misura in cui tale identità è più o meno percepita.

Il nuovo del mio libro era la disposizione a riconoscere questa dimensione " tradizionale " al cattolicesimo. Non potevo però non fare anche alcune precise riserve. Anzitutto vi era da distinguere fra cristianesimo delle origini e cattolicesimo, dando meno valore al primo che non al secondo. Del cristianesimo in sé, in altri libri, anche in Rivolta, dovevo continuare ad indicare gli aspetti negativi e problematici, specie nel quadro storico, cioè considerando quel che esso ha rappresentato di antitetico rispetto al mondo classico-romano e alla sua visione della vita. Da un altro lato, riconobbi al cristianesimo originario il valore di una possibile via disperata e tragica della salvazione: con riferimento sia all'uomo appartenente alla massa dei diseredati e dei senza-tradizione alla quale a tutta prima si rivolse eminentemente la predicazione cristiana, sia, più in generale, ad uno speciale tipo umano. " L'alternativa di una eterna salvezza o di una eterna perdizione da decidersi una volta per tutte su questa terra, esasperata da imagini impressionanti dell'aldilà e dall'idea dell'imminente venuta del Giudizio Universale... era un modo per suscitare, in alcune nature, una estrema tensione la quale, se unita ad una certa sensibilità pel sovrannaturale, poteva anche dare i suoi frutti " : se non in vita, forse in punto di morte o nel post-mortem.

Quanto al cattolicesimo, io lo concepii come l'opera di influenze invisibili o " provvidenziali " che, di là dalla materia prima del cristianesimo, avevano creato, rettificandola in varia misura, una struttura con tratti " tradizionali " : qui entrando propriamente in quistione l'elemento positivo e gerarchico, il corpus dei riti, dei simboli, dei miti, di una certa parte degli stessi dogmi. A tale stregua, in astratto, il cattolicesimo rivestiva l'aspetto di un particolare modo di apparire della Tradizione e, sempre in astratto, era data la possibilità di integrarne i contenuti di là dal piano semplicemente religioso, in termini metafisici e intellettuali. È in tale quadro che presentai la seconda, eventuale forma di un ritorno al cattolicesimo, forma, allora, non più regressiva e fallimentare. In tale caso il cattolicesimo si presentava non come un punto di arrivo, ma come un punto di partenza e si doveva prescindere da tutto ciò che il cattolicesimo è praticamente, dal suo livello sempre più abbassatosi e dall'inesistenza, in esso, di una salda " dottrina interna ". Come conclusione di una analisi necessariamente sommaria, io scrivevo: " Pei migliori, pei nonspezzati, il ritorno al cattolicesimo in tanto può avere un valore positivo, in quanto costituisca il primo passo in una direzione, la quale deve necessariamente portare oltre il cattolicesimo in senso stretto, verso una tradizione veramente universale, unanime e perenne, ove la fede possa integrarsi in realizzazione; il simbolo, in via di risveglio; il rito e il sacramento, in azione di potenza: il dogma, in espressione simbolica di una conoscenza assoluta e infallibile, perché non-umana, e come non-umana vivente negli " eroi " e negli "asceti ", in coloro che si sono sciolti dal vincolo terrestre ".

Questa più alta possibilità era, naturalmente, più che problematica. Si capiva da sé che su tale linea gran parte dei contenuti specifici cristiani del cattolicesimo era o da " ortopedizzare " o da eliminare del tutto, che la pretesa di unicità, di esclusività e di superiorità del cristianesimo era da respingersi, come era da respingersi il mito del Cristo storico quale " figlio di Dio " espiatore e redentore dell'umanità, quindi figura non paragonabile a nessun altro creatore di religioni o ad un " avatar " divino: che la dimensione simbolica e esoterica della gran parte degli insegnamenti doveva essere considerata come la sola essenziale. L'elemento intellettuale e metafisico avrebbe dovuto consumare quello emotivo, sentimentale e devozionale che, sostanza originaria del cristianesimo, costituisce pur sempre l'irriducibile sottofondo dello stesso cattolicesimo.

D'altra parte non avevo difficoltà a riconoscere che "di fronte a tante confusioni e deviazioni " spiritualistiche " il cattolicesimo può ancora mantenere un significato ". Inoltre, " che persone, le quali non hanno conosciuto altro che le vanissime costruzioni della filosofia profana e della cultura plebeo-universitaria e che le contaminazioni dei vari estetismi, individualismi o romanticismi contemporanei si " convertano " al cattolicesimo e con ciò si dimostrino almeno capaci di entrare in un ordine di maggiore serietà interiore: che tali persone facciano così, a noi - agli autori di Imperialismo Pagano - non può che sembrare desiderabile. Ciò è già qualcosa, è meglio di nulla. La fede e l'obbedienza non nel senso sentimentalistico, passivo-feminile, ma nel senso virile, eroico e sacrificale è già cosa ben più alta e difficile di tutte le " affermazioni " di un malo individualismo ".

Queste frasi ribadivano la posizione nettamente antilaica, lontana da ogni volgare anticlericalismo, che è stata sempre propria al mio orientamento. In effetti, personalmente per il più umile e incolto sacerdote cattolico io ho sempre avuto maggior considerazione che non per un qualsiasi noto esponente della "cultura" e del pensiero moderno (con inclusione, però, degli esponenti di certa filosofia cattolicheggiante).

Il Guénon aveva già impostato il problema della integrazione "tradizionale" del cattolicesimo non solo sul piano individuale, ma anche su quello generale; dalla soluzione positiva di esso egli aveva fatto dipendere (in La crise du monde moderne) la possibilità di una rinascita dell'Occidente. Naturalmente, simili avances non avevano avuto séguito alcuno, per quel che riguarda gerarchie cattoliche dotate dì autorità. Il Guénon poteva anche dire che " il fatto che i rappresentanti attuali della Chiesa cattolica capiscano così poco della loro dottrina non deve essere motivo per dimostrare, noi, la stessa incomprensione ". Ma ciò non cambiava in nulla le cose: chi eventualmente capisce di più " resta un outsider.

La direzione positiva, da me accennata, di un ritorno al cattolicesimo era dunque riservata a qualche individuo isolato, dotato di una special qualificazione, che però non poteva conta: .e su di un vero sostegno, che anzi, se come praticante regolare fosse entrato nell'orbita del cattolicesimo, doveva star bene attento a non farsi insensibilmente piegare dalla corrente " psichica " corrispondente a tale tradizione presa non in astratto ma nella sua concretezza. In effetti, in quello che vien chiamato il " corpo mistico del Cristo " è ormai da vedersi, piuttosto, una corrente psichica collettiva agente in un senso meno sovrannaturale e trascendente che non vincolante, sì da paralizzare ogni più alta vocazione.

Di passata, posso accennare che negli anni del '30 feci io stesso alcune esplorazioni personali trascorrendo un breve periodo in incognito in monasteri di Ordini che valgono eminentemente come i rappresentanti della tradizione ascetico-contemplativa cattolica - i Certosini nella loro sede centrale, i Carmelitani e i Benedettini della regola antica. Feci la stessa vita dei monaci e presi contatto coi patres preposti alla formazione spirituale dei novizi. Raccolsi informazioni anche presso i Cistercensi di Heiligenkreuz, in Austria. Delle forme superiori, intellettuali della tradizione contemplativa, non vi era quasi più nulla da trovare. La base era l'elemento liturgico-devozionale in uno sviluppo ipertrofico. Le cariche " psichiche " di quegli stessi monasteri mi sembrarono tutt'altro che favorevoli per un'opera anche segreta, individuale, di realizzazione di contenuti metafisici nel quadro cattolico. Del livello del cattolicesimo ufficiale di oggi - livello barrocchiano, moralistico, socializzante e politicizzante, fiaccamente paternalistico, aborrente i " medievalismi " - è poi superfluo parlare.

Tornando a Maschera e Volto, il riconoscimento degli aspetti "tradizionali" del cattolicesimo era peraltro limitato al piano specifico dei problemi trattati nel libro (la difesa della personalità, i pericoli dello "spirituale", il senso del vero sovrannaturale); per il resto, come ho detto, si trattava di una considerazione sul piano astratto, soltanto dottrinale. Perciò restava impregiudicato il giudizio sulla funzione storica avuta in Occidente dal cattolicesimo quale erede, malgrado tutto, del cristianesimo, in antitesi con l'altro polo, con quello di una spiritualità a carattere non sacerdotale-contemplativo, ma regale e attivo. I punti precisi di riferimento, a tale riguardo, dovevano essere fissati nella mia opera principale, di morfologia delle civiltà e di filosofia della storia, con notevole divergenza dalle vedute del Guénon.

Maschera e Volto forniva dunque dei criteri per un orientamento e per una discriminazione oggettiva nel campo del neo-spiritualismo. Il libro avrebbe dovuto eliminare anche, una volta per tutte, ogni equivoco nei riguardi delle posizioni da me difese, che non erano né " teosofiche ", né " occultistiche ", né " massoniche " o simili. Invece le cose poco cambiarono. Gli esponenti della cultura profana non avevano nemmeno una lontana idea di differenze essenzialissime di rango; tutto ciò che cadeva fuori dal loro campo e delle loro routines di una " stupidità intelligente " (per usare una felice espressione dello Schuon), era immerso come in una notte, in cui tutte le vacche sono nere. D'altra parte, specie Maschera e Volto mi fece nemico l'opposto campo, appunto quello dei neo-spiritualisti, dei teosofisti, degli antroposofi, degli spiritisti e simili, ai quali non avevo risparmiato le più severe critiche, di cui avevo indicato gli errori, le falsificazioni e le divagazioni. Vero è che costoro non erano nemmeno in grado di capire; dato il loro livello intellettuale, per essi esposizioni basate su di un serio apparato culturale e critico, erano inaccessibili e fastidiose, tanto essi erano usi alle volgarizzazioni e ai più piatti adattamenti richiesti da esigenze sentimentali o dal gusto per l'inusitato e per l'" occulto ". La via giusta - tenersi lontani sia dalle divagazioni spiritualiste, sia dai trivi e dalle convenzioni della cultura ufficiale pur seguendo il metodo, i criteri di seria informazione e di critica oggettiva di questa - era la meno ripromettente. Proprio ciò ha limitato la diffusione dei miei libri sugli accennati argomenti. Ma è su questa linea che io mi sono sentito tenuto ad assolvere un compito, compito avente invero pochi antecedenti.

Il presente brano è stato tratto da Julius Evola unofficial webSite (http://www.juliusevola.it)

Lucio Vero
08-04-12, 23:13
Se può interessare stavamo riportando, su Rivoluzione Conservatrice, i titoli degli articoli di Julius Evola rivista per rivista. Ecco il collegamento: http://politicainrete.it/forum/movimenti-e-cultura-politica/rivoluzione-conservatrice/41719-il-barone.html

José Frasquelo
10-05-12, 23:04
Un argomento nuovo vedo.. :D

Zed
26-05-12, 09:50
Come nel caso dei Tantra, il mio metodo fu di rifarmi alle fonti originarie e di raccogliere il più vasto materiale possibile con una seria documentazione, per poi esporre una sintesi dell'insegnamento secondo il punto di vista " tradizionale ".

Beh, non proprio...

Evola non attinse mai dalle "fonti originarie" e come studioso di dottrine tantriche, benché meritevole di stima e rispetto, aveva due grossi handicap:

1) Non conosceva il sanscrito (dunque attinse da testi già tradotti dal sanscrito all'inglese) e per forza di cose i suoi studi non furono esenti da errori ed equivoci di natura linguistica, specie nel momento in cui setacciava tali studi attraverso il filtro delle proprie interpretazioni personali (che lui definisce "tradizionali").

2) Da quel che mi risulta, Evola non ha mai messo piede in India e non ha mai potuto condurre ricerche sul campo, cosa che invece fu di primaria importanza per studiosi ben più autorevoli nella materia che concerne i Tantra, come Arthur Avalon (Sir Woodroffe).