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Visualizza Versione Completa : Libertiamo. Radicali e Liberali nel PDL



Carmine
08-04-09, 20:29
INSERITO IN | Biopolitica
Per Baget Bozzo lo Stato etico è quello liberale
Inserito il 03 aprile 2009
Tags: Baget Bozzo, legge 40, Palma, stato etico
- Nella sua lettera teologico-politica pubblicata oggi dal Foglio Gianni Baget Bozzo ribalta sulla Consulta l’accusa che il presidente Fini aveva rivolto nei confronti delle Camere, e ravvisa i rischi dello Stato etico non già in una legislazione “precettistica”, ispirata agli orientamenti morali e religiosi prevalenti tra i legislatori, ma nell’idea stessa che nel sistema istituzionale, cioè nelle norme costituzionali e nei checks and balances tra i poteri dello Stato, siano posti dei limiti all’onnipotenza legislativa del Parlamento.
A prendere sul serio le tesi di Baget Bozzo bisognerebbe concludere che la forma perfetta dello Stato etico è quella disegnata dal costituzionalismo liberale, che si preoccupa di evitare – proprio ponendo dei limiti invalicabili all’esercizio del potere legislativo – che l’uscita dallo “stato assoluto” comporti l’entrata in una “democrazia assoluta” e che alla “tirannia del sovrano” si sostituisca “la tirannia della maggioranza”. Insomma, per Baget Bozzo lo stato etico coinciderebbe con quello liberale e con la sua pretesa di distinguere non solo Stato e Chiesa, ma anche diritto e morale.
Dunque lo Stato “non etico” coinciderebbe con quello che pone strumenti giacobini al servizio di ideali vandeani, che usa la retorica di Robespierre per sostenere un programma neo-legittimista, che subordina la libertà morale, civile e religiosa dei cittadini ai capricci di un Parlamento “misticamente” ispirato e pronto, alla bisogna, a teorizzare un ritorno all’alleanza tra il trono e l’altare contro i pericoli del relativismo etico.
Scrive esplicitamente Baget Bozzo: “le istituzioni divengono così un limite alla democrazia, una riduzione del suo potere di affrontare decisioni ultime sulla base dell’unica legittimità possibile: quella del consenso popolare”.
Lasciamo da parte la questione, tutt’altro che marginale, della reale esistenza di un consenso maggioritario attorno a decisioni – sulla procreazione assistita, come sul fine vita – su cui è assai dubbio che il Parlamento abbia interpretato e interpreti gli orientamenti prevalenti dell’opinione pubblica. Ammettiamo pure che questo sia vero: ma basta questo a legittimare qualunque decisione pubblica relativa a comportamenti che, proprio dal punto antropologico (per usare una parola cara ai teo-con), hanno una realtà irriducibilmente individuale, e non collettiva, personale e non politica?
A garantire della qualità liberale di una legge non può essere, come ha oggi sostenuto Schifani, il fatto che essa sia stata approvata con una grande e trasversale maggioranza, dopo un’approfondita discussione parlamentare e con un ampio ricorso al voto segreto. Di una legge contano le conseguenze sulla libertà dei cittadini, non le intenzioni dei legislatori.
Se a giustificare la legittimità di una norma bastasse il principio del consenso e non servisse un diverso fondamento di natura “costituzionale” bisognerebbe inchinarsi dinnanzi alle decisioni di un Parlamento sovrano che stabilisse, per ragioni o interessi di ordine collettivo, la discriminazione terapeutica dei disabili o l’eutanasia coatta dei malati terminali. Provi a spiegare chi la pensa come Don Gianni perché, in nome del rispetto assoluto dovuto al legislatore, occorrerebbe indignarsi per la decisione di negare ad un malato una cura che questi richiede e invece plaudire alla scelta di infliggere ad un malato un trattamento sanitario, senza il suo consenso e contro la sua volontà.
Inserito da:

Carmelo Palma - che ha inserito 38 articoli in Libertiamo.it.

40 anni, torinese, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo.


http://www.libertiamo.it/2009/04/03/per-baget-bozzo-lo-stato-etico-e-quello-liberale/

Carmine
08-04-09, 20:30
INSERITO IN | Più Azzurro, Più Verde
Basta polemiche sulla prevedibilità del terremoto
Inserito il 06 aprile 2009
Tags: ambiente, Berlusconi, Bertolaso, terremoto
Attualmente la scienza non è in grado di prevedere con sufficiente precisione la ricorrenza di terremoti. Può unicamente limitarsi a effettuare delle ipotesi di ricorrenza sulla base di conoscenze statistiche.

Quanto ai fenomeni precursori, ovvero i movimenti di gas radon (che secondo il ricercatore Giampaolo Giuliani avrebbero permesso di prevedere l’evento), la comunità scientifica è concorde nel ritenere che essi servano per capire le evoluzioni ma non sono in grado di dirci quando si verificherà una scossa.

D’altro canto, in base alle “stime” dello stesso Giuliani, il sisma avrebbe avuto come epicentro la zona di Sulmona. Immaginate cosa sarebbe successo se, sulla base di quella previsione “sciamanica”, il Governo avesse qualche giorno fa deciso di evacuare quell’area e trasferire una importante quota di popolazione a L’Aquila…

La redazione di Libertiamo.it
Inserito da:

Piercamillo Falasca - che ha inserito 21 articoli in Libertiamo.it.

Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo.

Carmine
08-04-09, 20:31
I misteriosi protocolli di Zaia sugli ogm
Inserito il 07 aprile 2009
Tags: agricoltura, ambiente, Berlusconi, Falasca, Lega, ogm, ricerca, zaia
In un recente intervento pubblico, il premio Nobel Rita Levi Montalcini si è interrogata sulla paura per gli Ogm, così diffusa nell’opinione pubblica e spesso subita – quando non cavalcata – dalla politica. La senatrice a vita l’ha definita “una forma di superstizione”, da combattere “come tutte le cose inesistenti che possono essere più pericolose di quelle esistenti”. Avendo in gran dispitto lo Stato etico, figurarsi se noi di Libertiamo sopporteremmo un eventuale Stato “superstizioso”. E non c’è dubbio che di superstizione si nutre l’ideologia ambientalista dominante: sul riscaldamento globale, sul nucleare, sugli organismi geneticamente modificati. Ogni dato confuso e ogni teoria strampalata possono servire a confermare la diffidenza anti-industriale e anti-mercato alla base dell’ambientalismo politicizzato.
Il governo Berlusconi sta dimostrando un approccio pragmatico nei confronti dell’ambiente: lo confermano la presa di posizione sul protocollo di Kyoto e l’apertura all’energia nucleare. Eppure, sugli ogm, prevale una linea tanto timida da apparire ambigua, come abbiamo sottolineato in un precedente articolo. Al ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia, va purtroppo addebitata buona parte di tale ambiguità. Il 20 novembre 2008 Zaia ha convocato la Conferenza Stato-Regioni, affinché questa si esprimesse sullo schema di decreto ministeriale relativo all’adozione di nove protocolli tecnico-operativi per la sperimentazione di altrettante colture geneticamente modificate in campo aperto (actinidia, agrumi, ciliegio dolce, fragola, mais, melanzana, olivo, pomodoro, vite). Si è trattato di un passaggio obbligato dell’iter stabilito dal passato Governo Berlusconi, con il decreto ministeriale 19 gennaio 2005 sulla ricerca in materia di ogm. Per ciascuna coltura, i protocolli regolano le garanzie a carico dello sperimentatore, le modalità da impiegare per preparare e gestire l’area di rilascio, i piani di monitoraggio, le misure da adottare dopo l’emissione, la sorveglianza e i piani di emergenza.
“Non ci vedo nulla di male nelle sperimentazioni”, dichiarò il ministro alla vigilia dell’incontro con le amministrazioni regionali, pur sottolineando la sua personale avversione agli ogm. Personale e padana, aggiungeremmo ad onor del vero. “Siccome ci sentiamo dire che gli ogm fanno bene e da altri che fanno male noi avremo il diritto di comprovare”, disse il ministro. Parve una scelta “laica”, di chi sa separare le proprie convinzioni dalle esigenze di sviluppo e di innovazione del Paese.
La Conferenza Stato-Regioni ha approvato lo schema di decreto, alcune Regioni (come prevede l’iter) sono già pronte ad individuare i siti idonei alle sperimentazioni. Peccato che il decreto contenente i protocolli tecnico-operativi non sia stato mai pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ma giaccia triste e sconsolato in un cassetto della scrivania del ministro leghista. Senza motivazione ufficiale alcuna.
La mancata emanazione del decreto ministeriale appare un estremo e goffo tentativo di rimandare sine die l’avvio delle ricerche in campo aperto. Quel cassetto va aperto e quei protocolli vanno firmati: il Governo eviti una chiusura ideologica e superstiziosa sugli ogm e renda possibile in Italia una ricerca rigorosa sulle tecniche di modificazione genetica, in grado di incrementare senza rischi per la salute e l’ambiente la quantità e la qualità delle produzioni. Lo sviluppo tecnologico non è un nemico dell’agricoltura italiana, ma una possibile leva strategica, sia sotto il profilo ambientale che sotto quello economico.

Carmine
08-04-09, 20:36
Non sono i ‘paradisi fiscali’ la porta per l’inferno finanziario
Inserito il 07 aprile 2009
Tags: Cato Institute, economia, finanza, Magni, paradisi fiscali, Rahn
Il G20 ha dichiarato guerra ai “paradisi” delle tasse basse e del segreto bancario, identificati come luoghi oscuri in cui si nasconderebbero i pirati della finanza, i soldi sporchi delle mafie e del terrorismo, i truffatori che tramano contro i poveri risparmiatori. La retorica anti-capitalista contro i “robber barons” è stata rievocata esplicitamente dal presidente francese Nicolas Sarkozy, con il suo auspicio di una “nuova coscienza” del libero mercato. Sono poche, pochissime, le voci autorevoli che difendono la sovranità fiscale di Paesi come la Svizzera, le Cayman o il Liechtenstein e mostrano l’altra faccia della medaglia del nuovo mondialismo.
Richard Rahn, analista del think tank libertario Cato Institute, ha più volte difeso i piccoli paradisi fiscali e ora rinnova la sua contrarietà alla lista nera in cui sono stati forzatamente iscritti dai “grandi del mondo”. Prima di tutto queste enclave a bassa tassazione non coprono i soldi illeciti. E’ un dato di fatto che i governi delle Cayman, della Svizzera e della maggior parte degli altri paradisi fiscali abbiano già firmato convenzioni con gli Stati Uniti e i maggiori Paesi europei per uno scambio trasparente di informazioni, in caso di inchiesta su soldi sporchi. Senza contare, poi, come nota Rahn, che il segreto bancario ha sempre avuto una funzione positiva, soprattutto per quei dissidenti che nascondono le loro risorse alla rapacità di magistrature corrotte o governi autoritari che violano i loro diritti. “Non ha senso” - spiega Rahn nel suo articolo “In difesa dei paradisi fiscali” pubblicato sul Wall Street Journal alla vigilia del G20 - “approvare una legge che proibisce quel che è già vietato o votarne un’altra che punisce chi cerca di proteggersi da governi rapaci e corrotti. Nonostante le centinaia di leggi, federali, statali e locali e organi di controllo finanziario come la Sec, Bernie Madoff è stato ugualmente in grado di portare avanti per decenni il più grande ‘piano Ponzi’ della storia”.
Venendo a mancare una ragione per perseguire meglio il crimine, a cosa serve sopprimere giurisdizioni che prevedono tasse basse e segreto bancario? Serve sicuramente a limitare la competizione fiscale. A impedire, cioè, che i capitali fuggano da Paesi dove la tassazione è troppo alta per rifugiarsi in altri dove il fisco è meno esoso. “Estendere la competizione fiscale tra giurisdizioni rallenta la crescita del potere dei governi, permettendo ai cittadini di tutto il mondo di avere più opportunità di lavoro e standard di vita più alti” - spiega Rahn - “Nel momento in cui, individui e aziende sono scoraggiati, da tasse e regole che proibiscono loro di investire al di fuori del loro Paese, sceglieranno semplicemente di lavorare e risparmiare meno. Punto”. E’ dunque controproducente, in tempo di crisi economica, voler sopprimere delle istituzioni che incrementano il benessere di tutti, perché funzionano come “stazioni di transito dei capitali”: “servono ad accumulare temporaneamente risparmi da tutto il mondo che verranno investiti in progetti produttivi, come la costruzione di nuovi centri commerciali negli Stati Uniti. I paradisi fiscali permettono una migliore allocazione dei capitali, portando a una maggiore, e non minore, crescita economica globale”.
I governi europei e americano, imponendo nuove regole, finirebbero per “estendere in tutto il mondo i loro errori economici interni” - come nota ironicamente l’editorialista Mark Stein sulle colonne della National Review - “Il presidente francese ha dichiarato che questa è un’occasione unica per dare al capitalismo una sua ‘coscienza’. Ora, per ‘coscienza’, è chiaro che intende un sistema mondiale di regole in grado di assicurare che nessuno possa scappare. Certo, se tu fossi in Francia, che è caratterizzata da un sistema economico rigido, non competitivo, protezionista, con una disoccupazione a due cifre, sarebbe normale e comprensibile voler imporre su scala globale le stesse misure ammazza-crescita che hanno disfatto l’economia di quel Paese. Ma questa non è una bella notizia per il resto del mondo”. Per Stein i veri problemi dell’Europa sono da ricercarsi nei programmi sociali ormai insostenibili, in leggi troppo numerose e rigide, nella spesa pubblica “semi-sovietica”, nella denatalità, causata anche dalla stagnazione economica cronica in cui versa il Vecchio Continente. Non nella ricerca di piccoli capri espiatori nei paradisi fiscali: “Qualcuno pensa davvero che un conto in banca in Svizzera o una cassetta di sicurezza nelle Turks siano i responsabili della crisi globale?”.

LIBERAMENTE
08-04-09, 23:11
Benvenuto Carmine e grazie per questi articoli su Libertiamo, associazione alla quale guardo con grandissimo favore.

Newborn
09-04-09, 13:32
Segnalo questo articolo che ho scritto io, pubblicato oggi su Libertiamo.it

La comunicazione liberale può essere popolare?

Piero Ostellino nel suo ultimo saggio (“Lo Stato Canaglia”) afferma che gli italiani hanno un forte pregiudizio nei confronti del liberalismo (che quindi sostengono poco) semplicemente perché non lo hanno mai conosciuto e non sanno che cosa sia. Secondo il giornalista né lo Stato, né la scuola, né l’editoria, né la stragrande maggioranza degli intellettuali, né la politica hanno provato a spiegare agli italiani cosa voglia dire essere liberali. È evidente che queste considerazioni sono profondamente vere eppure sono molti i politici di ispirazione liberale e numerosi gli opinion makers che con interventi e posizioni riformiste esercitano un discreto appeal nel dibattito pubblico.
E allora perché manca il passaggio successivo? Come mai il “parlare liberale” non tocca l’elettore medio? O meglio perché le soluzioni liberali sembrano a tutti, politici e studiosi, di buonsenso ma non riescono a stimolare emotivamente i cittadini?
In molti ritengono che sia più facile essere liberali in un dibattito tra pochi piuttosto che soli in una piazza che ti ascolta. Effettivamente si potrebbe pensare che la comunicazione e il “parlare” liberali non siano abbastanza popolari, ma alquanto elitari.
Probabilmente i messaggi liberali risultano poco accessibili perché, nella loro “costruzione”, sono indirizzati a un target di cittadini informati e di cultura medio-alta, che esigono uno sviluppo articolato dell’argomentazione politica. Il problema è che per attirare un consenso che potremmo dire di “gamma alta” si tende a tralasciare completamente la comunicazione diretta, semplice e mirata a un pubblico più vasto.
L’elettore medio non ha pienamente in mente quali siano i temi-bandiera dei politici liberali e riformisti, non ne ricorda uno slogan e non fa propria né emotivamente “vive” una convinzione liberale, perché probabilmente non riesce ad associarla a un bisogno personale o a un problema generale.
Insomma la comunicazione politica liberale sembra tendere a offrire la soluzione senza riuscire a trasmettere pienamente quale sia il problema iniziale da risolvere.
Dal punto di vista del marketing comunicativo il pensiero liberale raggiunge solamente una nicchia di ascoltatori, ma fallisce completamente l’obiettivo di allargare il proprio bacino di elettori potenziali.
Il “parlare liberale” non intercetta le richieste, le domande e anche le paure della popolazione o meglio non riesce a porsi come interlocutore per le esigenze più semplici che la gente riporta alla politica.
Il paradosso evidente di questa difficoltà comunicativa è che soluzioni potenzialmente utili a una vastissima platea di persone risultino non popolari o appaiano addirittura, in modo grottesco, favorevoli a corporazioni o a determinati gruppi economici. Parlo di proposte come la flexsecurity, la battaglia pro-ogm, l’abolizione del valore legale della laurea che, nonostante il carattere innovativo per un paese come l’Italia, non centrano l’obiettivo per mancanza di una comunicazione adeguata e per colpa di un’opposizione trasversale, spesso organizzata per smontare qualunque proposta riformatrice.
Si finisce quindi in una singolare situazione, nella quale proposte chiaramente anticorporative e per il rinnovamento vengono incredibilmente ribaltate e presentate dai loro avversari come volte a garantire le posizioni di privilegio che invece intendono combattere.
Insomma al partito di chi tende a rimandare qualsiasi riforma e ai conservatori di ogni colore politico si aggiunge una comunicazione che non riesce a smontare la demagogia degli oppositori, ma ne viene sopraffatta.
A tutto questo va aggiunta l’immagine dei liberali, che risulta abbastanza distorta; l’orgoglio identitario del sentirsi liberali e la patente dei veri riformisti sono svalutati da una frammentazione eccessiva dei liberali stessi in vari partiti, associazioni, circoli, think-tank. Per molti è persino difficile definire la collocazione dei vari gruppi liberali.
In definitiva i liberali sono bravi a scegliere i mezzi di comunicazione (anche quelli più innovativi) ma devono rendersi conto che il messaggio comunicativo risulta piuttosto vecchio, un po’ – diciamo – da convegno.
Il liberale può essere popolare? Usare slogan semplici, corti e mirati non è solamente demagogia. Tocca incominciare a “colpire” l’elettore medio e non solo cercare di convincerlo.

http://www.libertiamo.it/2009/04/09/la-comunicazione-liberale-puo-essere-popolare/

Carrie
09-04-09, 15:03
Questo è esattamente quel che tento di dire a tutti i liberali che insistono a rimanere di nicchia e a creare una ristretta intellighenzia compresa, nei fatti, solo da pochi! Poi si domandano il motivo per il quale rimangono una minoranza! Ed hanno anche la presunzione di dire che loro vogliono fare cultura!!! Cultura per chi? Per comunicare alla gente semplice (che stupida non è, ma che non ha cultura politica appunto) servono parole semplici e lineari. Spiegando bene i concetti, anche quelli di base ma assolutamente fondamentali. Sono stanca di ascoltare certuni che vogliono divulgare cultura liberale utilizzando mezzi poco accessibili e poco idonei alla gente comune. L'ho detto e ripetuto ma mi si risponde picche. Al massimo dicono: "si si" e poi continuano come sempre. Fanno gli intellettualoidi. E questi sono i risultati.
(Parlo della maggioranza perchè per fortuna non tutti sono cosi).

Carmine
12-04-09, 13:37
Segnalo questo articolo che ho scritto io, pubblicato oggi su Libertiamo.it

La comunicazione liberale può essere popolare?

Piero Ostellino nel suo ultimo saggio (“Lo Stato Canaglia”) afferma che gli italiani hanno un forte pregiudizio nei confronti del liberalismo (che quindi sostengono poco) semplicemente perché non lo hanno mai conosciuto e non sanno che cosa sia. Secondo il giornalista né lo Stato, né la scuola, né l’editoria, né la stragrande maggioranza degli intellettuali, né la politica hanno provato a spiegare agli italiani cosa voglia dire essere liberali. È evidente che queste considerazioni sono profondamente vere eppure sono molti i politici di ispirazione liberale e numerosi gli opinion makers che con interventi e posizioni riformiste esercitano un discreto appeal nel dibattito pubblico.
E allora perché manca il passaggio successivo? Come mai il “parlare liberale” non tocca l’elettore medio? O meglio perché le soluzioni liberali sembrano a tutti, politici e studiosi, di buonsenso ma non riescono a stimolare emotivamente i cittadini?
In molti ritengono che sia più facile essere liberali in un dibattito tra pochi piuttosto che soli in una piazza che ti ascolta. Effettivamente si potrebbe pensare che la comunicazione e il “parlare” liberali non siano abbastanza popolari, ma alquanto elitari.
Probabilmente i messaggi liberali risultano poco accessibili perché, nella loro “costruzione”, sono indirizzati a un target di cittadini informati e di cultura medio-alta, che esigono uno sviluppo articolato dell’argomentazione politica. Il problema è che per attirare un consenso che potremmo dire di “gamma alta” si tende a tralasciare completamente la comunicazione diretta, semplice e mirata a un pubblico più vasto.
L’elettore medio non ha pienamente in mente quali siano i temi-bandiera dei politici liberali e riformisti, non ne ricorda uno slogan e non fa propria né emotivamente “vive” una convinzione liberale, perché probabilmente non riesce ad associarla a un bisogno personale o a un problema generale.
Insomma la comunicazione politica liberale sembra tendere a offrire la soluzione senza riuscire a trasmettere pienamente quale sia il problema iniziale da risolvere.
Dal punto di vista del marketing comunicativo il pensiero liberale raggiunge solamente una nicchia di ascoltatori, ma fallisce completamente l’obiettivo di allargare il proprio bacino di elettori potenziali.
Il “parlare liberale” non intercetta le richieste, le domande e anche le paure della popolazione o meglio non riesce a porsi come interlocutore per le esigenze più semplici che la gente riporta alla politica.
Il paradosso evidente di questa difficoltà comunicativa è che soluzioni potenzialmente utili a una vastissima platea di persone risultino non popolari o appaiano addirittura, in modo grottesco, favorevoli a corporazioni o a determinati gruppi economici. Parlo di proposte come la flexsecurity, la battaglia pro-ogm, l’abolizione del valore legale della laurea che, nonostante il carattere innovativo per un paese come l’Italia, non centrano l’obiettivo per mancanza di una comunicazione adeguata e per colpa di un’opposizione trasversale, spesso organizzata per smontare qualunque proposta riformatrice.
Si finisce quindi in una singolare situazione, nella quale proposte chiaramente anticorporative e per il rinnovamento vengono incredibilmente ribaltate e presentate dai loro avversari come volte a garantire le posizioni di privilegio che invece intendono combattere.
Insomma al partito di chi tende a rimandare qualsiasi riforma e ai conservatori di ogni colore politico si aggiunge una comunicazione che non riesce a smontare la demagogia degli oppositori, ma ne viene sopraffatta.
A tutto questo va aggiunta l’immagine dei liberali, che risulta abbastanza distorta; l’orgoglio identitario del sentirsi liberali e la patente dei veri riformisti sono svalutati da una frammentazione eccessiva dei liberali stessi in vari partiti, associazioni, circoli, think-tank. Per molti è persino difficile definire la collocazione dei vari gruppi liberali.
In definitiva i liberali sono bravi a scegliere i mezzi di comunicazione (anche quelli più innovativi) ma devono rendersi conto che il messaggio comunicativo risulta piuttosto vecchio, un po’ – diciamo – da convegno.
Il liberale può essere popolare? Usare slogan semplici, corti e mirati non è solamente demagogia. Tocca incominciare a “colpire” l’elettore medio e non solo cercare di convincerlo.

http://www.libertiamo.it/2009/04/09/la-comunicazione-liberale-puo-essere-popolare/

I liberali italiani sono incapaci di comunicare: complimenti per l'articolo.

Carmine
12-04-09, 13:37
Benvenuto Carmine e grazie per questi articoli su Libertiamo, associazione alla quale guardo con grandissimo favore.

Ciao Liberamente, nonostante i tanti spostamenti il nostro gruppo va avanti, eh?

Carmine
12-04-09, 13:38
Arriva lo scudo fiscale antisismico
Inserito il 09 aprile 2009
Tags: capitali, esteri, governo, scudo, terremoto, Tremonti

da Phastidio.net - Come ampiamente prevedibile, il governo italiano si accinge a mettere in cantiere la terza edizione dello scudo fiscale per il rimpatrio e la regolarizzazione dei capitali detenuti all’estero, dopo quelli del 2001 e 2003. I fondi recuperati servirebbero anche per il finanziamento della ricostruzione delle zone terremotate in Abruzzo. Probabile un decreto-legge nel consiglio dei ministri successivo a quello in programma per domani mattina. Il bottino dei fondi italiani all’estero è stimato in circa 600 miliardi di euro, per i capitali sanati in rimpatrio le indiscrezioni parlano di una imposta sostitutiva del 10 per cento. Lo scudo fiscale del 2001 era stato in parte snaturato perché i contribuenti (si fa per dire, viste le circostanze) non avevano obbligo di rimpatriare i capitali dichiarati e sanati, secondo Tremonti per decisione della Commissione europea. Le motivazioni del rimpatrio sono evidenti: creare una domanda aggiuntiva per l’investimento in titoli di stato e recuperare risorse tributarie con l’imposta sostitutiva. Risorse preziose, visto l’onere richiesto per la ricostruzione delle zone terremotate.

Carmine
12-04-09, 13:39
Perché la caccia ai paradisi fiscali
Inserito il 09 aprile 2009
Tags: economia, paradisi fiscali, scudo fiscale, Tremonti

- da phastidio.net - Il tentativo, promosso soprattutto dagli europei (segnatamente da Francia e Germania: per scoprire il perché, munirsi di una carta geografica e trarre le inferenze del caso) di ridurre il grado di legittimità ed i margini di manovra dei cosiddetti paradisi fiscali (attraverso la classificazione dei paesi in gruppi, in funzione del grado di “cooperazione” fiscale internazionale), tende ad essere interpretato come una decisione puramente populistica, oltre che priva di un qualsivoglia legame con la crisi in atto. Le cose non stanno esattamente in questi termini.

In un momento di ampi e crescenti disavanzi pubblici, causati dalle operazioni di salvataggio del sistema finanziario, oltre che dal crollo del gettito fiscale indotto dalla gelata dei livelli di attività, gli stati nazionali hanno disperato bisogno di capitali. Da qui l’ipotesi di attuare una generalizzata repressione degli stati non cooperativi sul piano dello scambio di informazioni fiscali, da associare (con buona probabilità) ad operazioni di “scudo fiscale”, cioè di rimpatrio agevolato dei capitali. Come noto, nel 2001 e 2003, il governo italiano (Giulio Tremonti ministro dell’Economia) ha attuato due operazioni di sanatoria per il rimpatrio dei capitali, tassati con cedolare secca del 2,5 per cento. Le due operazioni produssero il rientro di circa 80 miliardi di euro, con un gettito erariale di poco meno di 2 miliardi. Negli ultimi anni numerosi paesi hanno adottato analoghe iniziative di rimpatrio giuridico di capitali, tassati a cedolare secca variabile, e con condizionalità varie, quali l’investimento in azienda dei fondi rientrati, o la sottoscrizione di titoli di stato.

Si comprende quindi l’interesse a rimpatriare tali fondi, che potrebbero rappresentare una fonte di domanda addizionale e quasi forzosa di titoli di stato, oltre che produrre gettito d’imposta in un momento in cui i tesori nazionali sono impegnati a finanziare deficit crescenti. Meno certo l’effetto sui flussi creditizi: oggi le banche stanno tesaurizzando le riserve, ed è probabile che finirebbero col fare lo stesso con i nuovi depositi creati dai rimpatri, limitandosi probabilmente ad investire a loro volta in titoli di stato. Già oggi peraltro si starebbe assistendo al tentativo di rimpatrio “coperto” di capitali esportati in paradisi fiscali. Si comprende quindi meglio la potenzialità dell’operazione: rendere meno sicuro detenere fondi in legislazioni fiscali “non cooperative”, e indurre un movimento di progressivo rimpatrio di quel denaro, per dare ossigeno nell’immediato soprattutto a conti pubblici messi in ginocchio dalla crisi. Se questa mossa “dissuasiva”, finalizzata a mutare gli incentivi ed il payoff dell’esportazione di capitali e del mantenimento dei medesimi in centri offshore, non dovesse produrre gli esiti sperati in termini di flussi di ritorno, sarà sempre possibile ricorrere ad un’ulteriore repressione dei paradisi fiscali, ed attuare poi iniziative di scudo fiscale per indurre i rimpatri.

Anche il previsto giro di vite sugli hedge fund (ammesso e non concesso che si riesca a realizzarlo, visto che implicherebbe un grado di cooperazione regolatoria internazionale molto elevato) ha delle motivazioni riconducibili alla crisi. In primo luogo, gli hedge fund sono venditori netti di protezione creditizia tramite i credit default swap, e tendono quindi ad essere elementi di destabilizzazione sistemica, visti anche gli elevatissimi livelli di leva finanziaria utilizzata. Ma soprattutto, gli hedge funds operano prevalentemente in legislazioni fiscali offshore, rappresentando quindi eccellenti veicoli di riciclaggio dei capitali esportati. Ecco perché il tema della stretta sui cosiddetti paradisi fiscali non può essere considerato solo un diversivo populista, nell’ambito della grave crisi che stiamo vivendo.

In tale contesto, occorre poi prestare massima attenzione alla Svizzera, sulla quale stanno addensandosi rilevanti fattori di rischio. Il desiderio, soprattutto francese e tedesco, di ridimensionare un centro di riciclaggio internazionale di fondi (non necessariamente nel senso criminale del termine, s’intende) a due passi da casa, potrebbe determinare fortissime turbolenze nel nostro continente.
Inserito da:

Mario Seminerio - che ha inserito 4 articoli in Libertiamo.it.

Nato nel 1965 a Milano, laureato alla Bocconi. Dopo un’esperienza presso il Centro Ricerche sull’Organizzazione Aziendale dell’Università Bocconi ha lavorato presso istituzioni creditizie italiane ed internazionali. E’ analista macroeconomico presso l’Ufficio Studi di una S.g.r. Ha collaborato con le riviste Ideazione ed Emporion e con l’Istituto Bruno Leoni. E’ stato editorialista di Libero Mercato.

Carmine
12-04-09, 13:40
Un “buono nuova vita” per le vittime del terremoto.
Inserito il 11 aprile 2009
Tags: ambiente, Faraci, ricostruzione, terremoto

Il terremoto abruzzese rappresenta la calamità naturale più grave verificatasi nel nostro paese nel nuovo millennio e l’attenzione dello Stato in questi giorni è stata doverosamente rivolta a salvare quante più vite possibili ed a garantire un rifugio temporaneo alle persone che hanno dovuto abbandonare la propria dimora.
Il governo si è senz’altro mosso bene nella gestione più immediata dell’emergenza e la nostra protezione civile ha dimostrato il consueto standard di efficienza.
Come molti hanno osservato, tuttavia, la fase più che maggiormente qualificherà in positivo o in negativo la gestione complessiva della crisi sarà quella che comincerà quando si spegneranno i riflettori mediatici e scemerà l’alto livello di emozione che si riscontra nel paese a riguardo degli eventi abruzzesi.
Allora bisognerà intraprendere il difficile percorso della ricostruzione – un percorso sulla cui gestione è legittimo nutrire fin da oggi dubbi e preoccupazioni, sulla base di quanto è avvenuto in precedenza quando questo paese ha dovuto confrontarsi con circostanze analoghe.
L’implementazione dei piani di ricostruzione, nel passato, è stata caratterizzate da un alto grado di inefficienza.
Quasi sempre le ricostruzioni pubbliche finiscono per essere un grande affare per la classe politica e per gli imprenditori “amici degli amici” - oltre che specie in certe parti d’Italia per le organizzazioni del racket.
Meno di frequente invece riescono a soddisfare rapidamente le esigenze degli sfollati.
Paradigmatica da molti punti vista è l’esperienza della ricostruzione dopo il terremoto in Irpinia del 1980, tuttora incompleta a distanza di quasi trent’anni, malgrado siano stati stanziati oltre 32 mila miliardi, attraverso 27 diverse leggi.
I fondi allocati alla ricostruzione in Irpinia hanno sforato di oltre 10 volte le stime iniziali e la cuccagna ha alimentato un perverso intreccio di politica e camorra.
Lo scenario irpino rappresenta probabilmente il caso pessimo, ma è indubbio che i piani di ricostruzione sono tali da aumentare a dismisura il potere discrezionale della politica e quindi da creare le condizioni ambientali per l’affermarsi di relazioni clientelari e di comportamenti poco virtuosi.

Sulla scia delle esperienze passate andrebbe seriamente valutato un sostanziale cambiamento del modello di ricostruzione.
L’idea potrebbe essere quella di passare da un modello interamente gestito dallo Stato ad un modello finanziato dallo Stato, ma affidato nelle scelte implementative agli individui ed al mercato.
Dopo una fase in cui siano stimati i danni subiti da tutti i privati, lo Stato dovrebbe assegnare direttamente ad ogni famiglia i soldi che la compensano della perdita o del danneggiamento dell’abitazione.
Una sorta di “voucher-ricostruzione” o meglio ancora di “voucher-nuova vita” che consentirebbe subito ai cittadini di tornare proprietari del valore dell’immobile e di decidere a quel punto liberamente come e dove rifarsi un’esistenza, lasciando alle spalle la distruzione e la tragedia.
Non sarebbe verosimilmente una soluzione più costosa in quanto le spese per i piani pubblici di ricostruzione sono solite gonfiarsi a dismisura, con parte significativa dei fondi che sono puntualmente distratti per ragioni politiche verso finalità diverse da quelle originariamente previste.
I beneficiari dell’erogazione potrebbero scegliere liberamente come spendere i soldi.
Avrebbero modo naturalmente di attendere che venga edificata da qualche costruttore una nuova casa nel luogo che hanno dovuto abbandonare. Ma potrebbero anche acquistare immediatamente un’abitazione già esistente eventualmente in un’altra città o addirittura in un’altra regione.
Niente vieterebbe peraltro che decidessero di impiegare il denaro in maniera diversa, ad esempio per avviare un’attività produttiva, dato che per molti non si tratta solo di aver perso un immobile ma anche il lavoro che svolgevano prima della sciagura.
Le scelte sarebbero sicuramente le più diverse ed alcuni senz’altro potrebbero decidere di costruire il loro futuro lontano da L’Aquila, lontano da Onna, lontano da Villa S.Angelo.

Accettare questo scenario significa, evidentemente, fuoriuscire dalla logica del “dov’era, com’era”.
Inutile illuderci, del resto. Con il terremoto niente potrà più essere identico a prima.
L’idea di restituire alla provincia dell’Aquila l’identica fisionomia demografica ed economica precedente alla catastrofe ha in astratto un forte fascino, ma si scontra con la realtà.
Il terremoto non ha fatto crollare i palazzi, ma ha anche compromesso tutto un insieme di relazioni sociali ed economiche destinate sì a riavviarsi, ma in forme che non possono più essere quelle precedenti alla tragedia.
Non è possibile - non è economicamente e logisticamente efficiente - che si ricerchi forzosamente di restituire vita ad ogni singolo borgo, ad ogni singola strada.
Ed anzi per molti versi è pericoloso, per le dinamiche sociali che possono generare, che decine di migliaia di persone siano lasciate per anni in un limbo in attesa che tutto sia ripristinato.

Dobbiamo riconoscere che le persone hanno l’opportunità di reinserirsi più facilmente e proficuamente in realtà economiche sane che hanno ragionevolmente il potenziale per assorbire chi “fugge” dall’Aquila.

Si tratta di privilegiare una visione pragmatica, realistica e basata sugli interessi degli individui, rispetto ad una visione romantica e un po’”palestinese” basata sull’orgoglio collettivo e sul rifiuto concettuale di quanto purtroppo è avvenuto.
L’obiettivo deve essere oggi quello di mettere il prima possibile le persone colpite dal terremoti in condizione di camminare sulle loro gambe e non quello di creare a beneficio del ceto politico una costituency di assistiti, alimentando una “mistica da campo profughi”, un’attesa di interventi messianici ed una dipendenza di lungo termine dall’intervento pubblico.

Affidiamo allora il denaro ai nostri concittadini colpiti e non ai politici.
Rinunceremo probabilmente ad assistere nei prossimi anni a grandiose cerimonie ufficiali, a pose della prima pietra ed a tagli di nastri.
Ma consentiremo agli sfollati di vivere presto tante piccole cerimonie private - di festeggiare il Natale, magari già quest’anno, nella loro nuova casa e di tornare ad essere fin da subito parte attiva nel tessuto sociale e produttivo di questo paese.
Anche a costo di dover apporre il cartello “CHIUSO” su qualche comune dell’Aquilano.
Sarebbe una scelta saggia, pratica ed in larga misura liberale.

Carmine
12-04-09, 13:40
Attenti Governi: il protezionismo è una filosofia di guerra
Inserito il 10 aprile 2009
Tags: crisi, economia, esteri

La recessione, nella quale è ormai finita l’intera economia mondiale, sembra aver impresso una brusca inversione a quel processo di globalizzazione ed integrazione dei mercati internazionali che aveva avuto una robusta accelerazione nell’ultimo trentennio.
Pochi ricordano che i primi veri processi di globalizzazione risalgono in effetti al XIV Secolo, con il vivace commercio di spezie, oro e argento tra l’Europa medievale dei lussi e delle mondanità e la Cina della dinastia Ming. Spinti dagli enormi guadagni ottenibili con il commercio di oro e argento da e verso la Cina, i mercanti veneziani avevano già mostrato all’Europa i vantaggi del libero scambio, capace di rendere accessibili ad un numero sempre più ampio di persone prodotti fino ad allora considerati prerogativa di sceicchi e maragià. Successivamente, causa la penuria dell’argento, chi governava Venezia e gli altri Comuni italiani cominciò a limitare la libertà di esportare il metallo prezioso. Nel giro di pochi anni, il commercio con la Cina collassò e si dovette aspettare quasi un secolo prima che il volume d’affari ritornasse sugli stessi livelli. Oggi come allora, la miopia dei governanti sembra dare ragione alla paura e non alla lungimiranza, alla chiusura e non all’apertura, insomma, alla protezione e non alla libertà.
Ormai quasi nessuno sembra più credere nel libero mercato. Forse perché nell’immaginario collettivo la parola “protezione” evoca l’immagine di una chioccia intenta a difendere i propri pulcini o di una rondine che protegge amorevolmente sotto le ali i suoi rondinini. Niente di più sbagliato. L’inganno è innanzitutto di natura lessicale: nel lungo periodo il protezionismo non protegge proprio nessuno. Smorzando la pressione concorrenziale internazionale, il protezionismo contribuisce a far calare l’efficienza, la creatività e l’innovazione di un sistema economico. Con il solo risultato di renderlo più fragile ed esposto alla concorrenza internazionale quando inevitabilmente le protezioni verranno abbassate. Un po’ come un giovane cresciuto, come si dice, nella “bambagia”: alle prime sfide della vita, crolla. Ma questo è solo il primo degli effetti distorsivi del protezionismo. Quando i governi proteggono le loro produzioni interne imponendo dazi o tasse sull’importazione, si ottiene un duplice danno. Anzitutto, si rendono più costosi i beni importati a danno dei consumatori locali. Secondo, l’innalzamento dei prezzi finisce per impedire una quota di scambi: così come – quando il Doge scelse di limitare la libertà di commercio - tante famiglie veneziane dovettero rinunciare alle spezie per i loro piatti, così oggi con il protezionismo si finisce per lasciare insoddisfatta una parte dei consumatori. E’ quello che solitamente viene definita in microeconomia una “perdita secca di benessere”: una porzione di benessere che non va né ai consumatori, né ai produttori. E, di fatto, nemmeno allo Stato sotto forma di tributi. Un’altra, ma di certo non l’ultima, inconvenienza dei dazi all’importazione è che modificano i prezzi e, così facendo, distorcono l’informazione che questi veicolano al mercato. Gli operatori si confrontano così con valori “drogati”, sovra o sottostimando l’entità della domanda e dell’offerta.
A questa serie di inconvenienze di natura sostanzialmente microeconomica, se ne aggiungono altre di livello macro come l’eccessiva inflazione, la rarefazione dei prodotti presenti sul mercato, l’impossibilità di finanziare gli squilibri finanziari con disavanzi momentanei nel saldo delle partite correnti. E poi vi sono inconvenienze di natura filosofica: che diritto ha il governo di decidere quali beni tassare e quali no? Perché non viene lasciata la libertà ai cittadini di scegliere se preferire i beni nazionali a quelli esteri? Perché obbligarli a pagare merci e servizi a prezzi più elevati? Nella realtà, quindi, il protezionismo crea molti guai e pochi benefici, peraltro di natura breve e fugace. Anche il più incallito no-global non può restare insensibile ad un’evidenza: l’Europa del nazismo e della guerra era un continente intriso di protezionismo, l’Europa della pace è stata il campione dell’integrazione economica e l’avamposto dell’abbattimento delle barriere.
Ammoniva Ludwig Von Mises: “Ciò che genera la guerra è la filosofia economica del nazionalismo: embarghi e controlli sui commerci, svalutazioni monetarie. La filosofia del protezionismo è, essenzialmente, una filosofia di guerra”.

Carmine
12-04-09, 13:41
In Moldavia la Russia attacca l’U.E. Che tace.
Inserito il 11 aprile 2009
Tags: Magni, Moldavia, Nato, Russia, UE

Giovedì scorso Sergej Lavrov, ministro degli Esteri della Federazione Russa, salutava con favore la nuova era di distensione con gli Stati Uniti di Obama. Perché? Vedere cosa è successo in Moldavia (repubblica ex sovietica) per credere.
In Moldavia (il cui nome ufficiale sovietico è Repubblica Moldova), i comunisti (non “post” e neppure “neo”, ma comunisti duri e puri) pro-Cremlino hanno vinto le elezioni con più del 50% dei voti. Il presidente Vladimir Voronin afferma che le elezioni sono state libere ed eque, nel rispetto degli standard internazionali e dei diritti umani. L’opposizione, costituita da una coalizione di partiti liberali e popolari, la pensa diversamente: brogli e intimidazioni ai danni degli elettori, soprattutto fuori dalla capitale Chisinau. Il segretario del Partito Liberale, Vlad Filat, ha dichiarato alla Reuter che: “le autorità non hanno rispettato i patti stipulati con il presidente Voronin” per permettere all’opposizione l’accesso alle liste dei votanti.
Gli osservatori internazionali denunciano violazioni minori. Il portavoce dell’Organizzazione in Moldavia, Matti Sidoroff, ha dichiarato che il processo elettorale abbia rispettato i principali standard internazionali, ma il 6 aprile, durante lo spoglio, aveva anche citato casi di “indebita pressione amministrativa” nel voto.
Al di là dell’indignazione per il sospetto di frodi, l’opposizione teme di assistere alla crescita di una nuova dittatura post-sovietica, in grado di mantenere il potere, più o meno democraticamente, in un periodo di tempo indeterminato. I comunisti, con una maggioranza schiacciante, possono rieleggere il prossimo presidente della repubblica, mantenere il controllo sull’esecutivo, sulla magistratura e sull’economia locale, negare alla Moldavia le sue aspirazioni a entrare nell’Ue e nella Nato, oscillare fra una politica pro-russa o pro-occidentale a seconda del momento, come tutte le dittature post-sovietiche. Questo contribuisce a spiegare la rabbia scoppiata soprattutto fra i giovani universitari, scesi in piazza e gettatisi all’assalto delle istituzioni. Un morto, 270 feriti, 193 arrestati: è questo l’esito del martedì di fuoco a Chisinau.
Vladimir Voronin ha subito trovato il suo capro espiatorio: la Romania. Il suo ambasciatore è già stato dichiarato “persona non grata”, è stato negato l’accesso ai cittadini rumeni, i reporter loro connazionali sono stati espulsi, un rumeno è stato arrestato, accusato di aver contribuito a pianificare i disordini.
Non è un caso che si scelga di scaricare la responsabilità su Bucarest, perché la Moldavia ha una maggioranza di lingua neolatina, una bandiera uguale a quella del vicino europeo e una storia di appartenenza alla Romania dal 1918 fino alla II Guerra Mondiale, quando, in base al Trattato Ribbentrop-Molotov l’Urss di Stalin occupò militarmente la regione Bessarabia (attualmente divisa fra Moldavia e Ucraina). La Romania fu già accusata di alimentare le insurrezioni moldave negli ultimi anni dell’Urss, quando la popolazione, nel 1988, avviò un vasto movimento di protesta per ripristinare l’uso della propria lingua neolatina al posto del russo ufficiale. Nel 1991, quando la Moldavia dichiarò la propria indipendenza dall’Urss e chiese il ritiro della XIV armata sovietica dal territorio della Transnistria, i russi intervennero militarmente, separarono, di fatto, la loro regione al di là del Dniestr dal resto del Paese (proprio come hanno fatto con l’Ossezia nell’agosto del 2008 a spese della Georgia) e minacciarono ancora la Romania. “Possiamo arrivare a Bucarest in due ore” affermava più volte il generale Alexandr Lebed durante quella guerra, per far capire al vicino che stava facendo sul serio.
C’entrano i russi anche in questa crisi? C’entrano eccome, nel senso che incombono nel teatro d’operazioni. I Russi sono sempre militarmente presenti nella Transnistria e possono intervenire ancora per poi dichiarare l’indipendenza della regione moldava a maggioranza russa. Per ora si limitano alle minacce, sia da parte del ministro degli Esteri Sergej Lavrov (anch’egli ha accusato la Romania di aver fomentato i disordini), che dell’ultimo presidente dell’Urss Michail Gorbachev. Il quale, dal suo buon ritiro, tuona contro le “ingerenze straniere” nella repubblica ex sovietica. Seguendo il solito schema, i partiti nazionalisti russi additano la responsabilità di un nemico esterno che starebbe complottando per rovesciare il governo moldavo. Non mancano le accuse lanciate alla Cia, il capro espiatorio classico di tutti i regimi post-comunisti. Mercoledì, all’indomani degli scontri a Chisinau, il vice-capogruppo parlamentare di Russia Unita (quello di Vladimir Putin e Dmitri Medvedev) dichiarava che lo scopo dell’insurrezione fosse: “Indebolire l’influenza della Russia nei paesi della ex Unione Sovietica affinché intorno alla Russia non vi siano più Stati filorussi”. Il partito putiniano ha ribattezzato arbitrariamente la rivolta “rivoluzione lilla” (visto che “in Moldavia crescono i lilla”) per sottolineare la continuità con le rivoluzioni “colorate” (rosa e arancione) di Georgia e Ucraina, tutte, secondo la propaganda russa, “pilotate dalla Cia”.
Tutto segue il solito schema delle rivoluzioni e controrivoluzioni nelle repubbliche ex sovietiche, dunque. Tranne una cosa: il silenzio assordante di Ue e Stati Uniti. Sia nel caso della Rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), che in quello della Rivoluzione Arancione in Ucraina (2004), Bruxelles e Washington avevano preso posizione al fianco dei partiti democratici e filo-europei. Oggi tacciono, mostrano imbarazzo di fronte alle accuse rivolte alla Romania, danno un appoggio sostanziale alla classe dirigente comunista. Javier Solana, alto rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza dell’Ue ha immediatamente definito “inammissibile” l’assalto alle sedi istituzionali da parte degli insorti. E’ evidentemente inaccettabile issare la bandiera blu stellata dell’Ue su un palazzo presidenziale, come hanno fatto i liberali moldavi. Non c’è stata alcuna protesta per l’arresto di 193 oppositori. Solo un invito alla calma rivolto salomonicamente a entrambe le parti. La Repubblica Moldova parteciperà regolarmente all’incontro per la partnership dell’Est con i membri del club dei 27. Come gesto di buona volontà, Voronin ha concesso all’opposizione il riconteggio delle schede. Sapendo che la Corte Suprema, le commissioni elettorali e tutta la macchina dello Stato sono già nelle sue mani, è sicuro di veder confermata la sua vittoria. Bruxelles è intervenuta solo per smorzare la tensione con la Romania (suo membro a pieno titolo) ma non è affatto diminuito il volume di accuse verbali riversate su Bucarest da Voronin e da Mosca. La Nato (di cui pure la Romania fa parte) tace da quattro giorni. Barack Obama, appena tornato dall’Europa, non ha speso una sola parola sulla crisi.
Ecco perché il Cremlino festeggia la nuova era di rapporti con l’Occidente: ha capito di avere carta bianca sulle sue ex colonie. E che minacciare un Paese membro della Nato e della Ue non costa più nulla.

Carmine
12-04-09, 13:47
Lo sgambetto fa il gioco della Lega, ma la Lega non fa il gioco del Governo
Inserito il 08 aprile 2009
Tags: governo, immigrazione, Lega, Palma

di Carmelo Palma -

La maggioranza è andata sotto alla Camera sulla norma che aumentava a 180 giorni il tempo di detenzione degli immigrati nei centri di permanenza temporanea. La sorte del decreto sicurezza è ora appesa agli inevitabili chiarimenti richiesti dal Carroccio. Si è così arrestata, nel peggiore dei modi, una discussione nata male e continuata peggio, condizionata fin dal principio dall’oltranzismo leghista, che ha inchiodato per giorni l’aula di Montecitorio ad un “emendamento-ronde” destinato alla stralcio. L’ostruzionismo dell’opposizione e lo sgambetto finale dei franchi tiratori che, grazie al voto segreto, hanno “cecchinato” la norma abrogata ha suggellato una situazione in cui, ormai, tutti litigano con tutti e nessuno discute più con nessuno.
Da tutto ciò si può trarre un’utile morale, anzi due.
1. Chi ha scelto di bocciare in questo modo la norma sui tempi di detenzione nei Cpt ha fatto un enorme favore alla Lega. Che l’abbia fatto apposta o inintenzionalmente, volendo al contrario mettere in difficoltà il Carroccio, poco importa. Nei fatti, grazie a questo sgambetto sleale, la Lega presumibilmente otterrà dal Governo “soddisfazione”. Se si vuole smontare la propaganda leghista e mettere in discussione le norme che il Carroccio difende con maggiore enfasi occorre farlo apertamente, contrapponendo argomenti politici ad argomenti politici. Sulla possibilità di denuncia dei clandestini da parte dei medici, i 101 deputati che hanno pubblicamente sfidato la linea imposta dalla Lega hanno consentito alla maggioranza di riaprire una partita che sembrava chiusa. In questo caso, la ventina di franchi tiratori che oggi sono entrati in azione rischiano di avere chiuso una partita che era forse possibile riaprire, come meno furbizia e più chiarezza politica.
2. Se nella maggioranza alla Lega continuerà nei fatti ad essere riconosciuto il controllo di quella sorta di “Superministero della sicurezza”, che gli uomini del Carroccio si sono auto-assegnati e che non coincide con le deleghe istituzionali di Maroni, episodi come quello di oggi si moltiplicheranno. E gli equilibri politici della maggioranza ne usciranno ulteriormente destabilizzati. Ci sono ragioni di contenuto e di metodo che sconsigliano di continuare ad usare i parlamentari del Pdl come massa parlamentare di manovra per politiche di “pura” marca leghista. Le scelte dell’esecutivo sulla sicurezza non possono rispecchiare l’oltranzismo ideologico di un partito che, su questi temi, ha negli anni costruito più un capiente bacino di consenso che una seria piattaforma di governo.

Carmine
12-04-09, 13:48
L’invincibile armata
Inserito il 12 aprile 2009
Tags: Credito, Seminerio, Stati Uniti

di Mario Seminerio - da phastidio.net - Le grandi banche americane, lo diciamo da qualche tempo, hanno vinto la partita per la sopravvivenza. Con alcune strategie di cattura regolatoria destinate a entrare nei libri di testo delle business schools del futuro, sono riuscite a disinnescare il rischio della nazionalizzazione. I manager responsabili della devastazione prodotta dal credito facile sono tutti al loro posto. Hanno incassato decine di miliardi di fondi federali senza fare una piega, ottenendo peraltro innocue azioni privilegiate e non le ben più pericolose (per il loro potere) azioni ordinarie. Ciò ha permesso agli azionisti di questa categoria, pur se pesantemente ammaccati, di salvare la pelle.

I creditori ordinari, cioè gli obbligazionisti, sono riusciti ad evitare di essere sottoposti alla tosatura dell’haircut e del debt-equity swap, cioè della riduzione del valore nominale del proprio credito e della sua parziale trasformazione in azioni. Sorretti in ciò dai maggiori asset manager del paese, tra i quali Pimco e BlackRock, il cui interesse nell’evitare questo evento era praticamente questione di vita o di morte. Poi le banche hanno ottenuto linee di credito a tasso prossimo allo zero da parte della Fed, e stanno impiegando quel denaro con robusti spread, portandosi a casa un grasso margine di interesse (il differenziale tra tassi a credito e a debito). La loro redditività da trading è aumentata a causa della sparizione di alcuni concorrenti: ora la torta è temporaneamente più piccola, ma ci sono meno commensali a tavola, come indicato anche dall’allargamento dei differenziali tra prezzo-lettera e prezzo-denaro, cioè i prezzi a cui le banche vendono e comprano in contropartita della clientela nelle operazioni di brokerage e di market making.

Restava il piccolo problema delle svalutazioni di crediti tossici ed ammalorati, ma anche a quello si è posto rimedio allentando il FASB 157, cioè consentendo alle banche di valorizzare a propria “sensazione” i titoli tossici. Quando i medesimi giungeranno a scadenza, il problema sarà auspicabilmente risolto dalla riparazione dei bilanci avvenuta nel frattempo. Per aiutare la quale ci sarà poi anche il PPIP, con tutte le manipolazioni del caso. Lo stress test di Geithner arriverà in porto solo dopo la earnings season, quindi tra un paio di settimane, ma sappiamo già che sarà un non-evento, e comunque la Fed (che di teoria dei giochi se ne intende) ha già ordinato alle banche di cucirsi le labbra sull’esito. Per fare filotto, dopo una simile sequenza di buone notizie, mancava la clamorosa sorpresa di utili al rialzo, che è arrivata puntuale questa settimana, con Wells Fargo. Che poi agli utili trimestrali abbia pesantemente contribuito il dimezzamento delle svalutazioni per crediti inesigibili (e proprio nel trimestre finora peggiore per i bad loans), è un accidente della storia, il mercato ha voglia di lasciarsi alle spalle i tempi grami e tornare a pensare alla grande.

Ultima tappa di questa cavalcata trionfale, il rimborso dei fondi federali di emergenza. Molte banche hanno espresso la volontà di liberarsi di questa zavorra di populismo congressuale, col suo carico di limitazioni ai compensi dei manager ed il continuo rischio di revisioni retroattive dei contratti. Per il rimborso occorrono però mezzi freschi e soprattutto propri, non certo debito. E così, dopo l’exploit di Wells Fargo, a giorni sarà il turno di Goldman Sachs di annunciare un trimestre da leoni, e all’annuncio farà seguito un bell’aumento di capitale, con cui verrà rimborsato il bailout federale.

Resta il non marginale problema dei warrant azionari che il Tesoro ha ottenuto nel salvataggio. Le banche vorrebbero farli diventare carta straccia, e limitarsi a rimborsare le azioni privilegiate. Tesoro e Casa Bianca si oppongono, per ora. Visto il copione, la resistenza durerà poco. I libri di storia ricorderanno questa crisi come il maggior episodio di corporate welfare della storia americana, col trasferimento di imponenti risorse fiscali dai contribuenti ad alcune imprese private. Il saldo netto, se i rimborsi andranno a buon fine, sarà relativamente contenuto, parlando in termini puramente contabili e di costi monetari. Ma l’onere per la collettività, in termini di costo medio dell’accesso al credito, di istituzioni troppo grandi e politicamente connesse per fallire, e di vulnus al funzionamento del mercato (quello finanziario, il più importante di tutti), sarà enorme e permanente.

E, aggiungendo beffa a danno, dovremo pure leggere che “il mercato ha fallito”.

Carmine
12-04-09, 13:53
Il dibattito c’è e si vede: che bello il partito anarchico!
Inserito il 10 aprile 2009
Tags: Della Vedova, Gasparri, Giovanardi, PdL, Volontè

Stamattina, cornetto in una mano e caffè nell’altra, abbiamo letto su Liberal un’intervista a Benedetto Della Vedova. Il presidente di Libertiamo, riferendosi alle dinamiche interne del Pdl, diceva: “In molti pensavano di costruire, al riparo del consenso di Berlusconi, un partito confessionale, quasi ratzingeriano se si considera il Papa l’interprete privilegiato dei valori dell’Occidente.”
Non diceva solo questo Della Vedova, che nel dialogo con il giornalista Marco Palombi ha ragionato sulle prospettive del Pdl, sul carattere plurale del Ppe e dei repubblicani americani, sul rapporto con la Lega , sul referendum elettorale, sul proprio essere un berlusconiano che apprezza la scommessa di Fini sul futuro.
Ma è su quel “ratzingeriano” che si è scatenato un vespaio. Nel pomeriggio (noi sorseggiavamo un altro caffè, quello di metà pomeriggio) si è udito tuonare Maurizio Gasparri: “Sorprendono i toni delle parole di Della Vedova e la sua interpretazione laicista e anticattolica di talune prese di posizione.”
Per il presidente dei senatori del Pdl, “il Popolo della Libertà non è nato come partito relativista e agnostico, ma come partito che nella sua responsabilità laica di costruttore di politica, è ben consapevole dei valori culturali, cattolici e identitari che sono alla base dell’identità italiana”.
Non ha voluto essere da meno Carlo Giovanardi, il quale si è anzitutto chiesto se Della Vedova non abbia sbagliato indirizzo nell’aderire al Pdl, “scambiandolo per una succursale del Partito Radicale”. In quel “ratzingeriano” Giovanardi ha visto uno “sfoggio di vetero e malmostoso anticlericalismo nei confronti di un Pontefice che merita rispetto e stima”.
Neanche il tempo di passare alla cassa per pagare il caffè ed è arrivata la replica di Della Vedova: “Gasparri e Giovanardi, commentando non il testo della mia intervista a ‘Liberal’ ma una loro personalissima sintesi di comodo, con un attacco al Sommo Pontefice semplicemente inventato, mi accusano di essere laicista e anti-cattolico.”
Restava l’accusa di aver sbagliato indirizzo sollevata da Giovanardi. Prima di uscire dal bar, lasciato qualche spicciolo al bancone, abbiamo chiesto a Della Vedova di rassicurarci sulla questione.
“Ribadisco – e provino Gasparri e Giovanardi a smentirmi,– che sulla gran parte dei temi civili (dalle unioni gay, al testamento biologico) tutti i maggiori leader del Ppe, anche quelli dei partiti culturalmente ‘cristiani’ (come Rajoy e la Merkel ), sostengono opinioni piu’ simili alle mie che a quelle di chi, come loro, propone un rigido ancoraggio del Pdl a posizioni confessionali. Inoltre, ho indicato come modello per l’identita’ politica-culturale del Pdl quello, aperto, tollerante e inclusivo, proposto dal neo-leader cattolico dei repubblicani americani, Michael Steele. Gasparri e Giovanardi dunque sbagliano o, se mi vogliono proprio qualificare come anti-cattolico, devono ammettere che sono in ottima e cattolicissima compagnia.”
Insomma, Della Vedova sa bene dove sta.
Per una volta, dobbiamo dar ragione a Luca Volontè dell’Udc. Passava da queste parti e ha sentito vociare. Vedendo l’animata discussione tra Gasparri, Giovanardi e Della Vedova, ha commentato: “Le esternazioni di oggi e i battibecchi nel Pdl sulla identità poliedrica, dimostrano ancora una volta la natura anarchica del contenitore di Berlusconi”. Che belle parole. Musica per le nostre orecchie.

L’intervista di Benedetto Della Vedova a Liberal http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=LCOV1

Newborn
12-04-09, 18:43
Questo è esattamente quel che tento di dire a tutti i liberali che insistono a rimanere di nicchia e a creare una ristretta intellighenzia compresa, nei fatti, solo da pochi! Poi si domandano il motivo per il quale rimangono una minoranza! Ed hanno anche la presunzione di dire che loro vogliono fare cultura!!! Cultura per chi? Per comunicare alla gente semplice (che stupida non è, ma che non ha cultura politica appunto) servono parole semplici e lineari. Spiegando bene i concetti, anche quelli di base ma assolutamente fondamentali. Sono stanca di ascoltare certuni che vogliono divulgare cultura liberale utilizzando mezzi poco accessibili e poco idonei alla gente comune. L'ho detto e ripetuto ma mi si risponde picche. Al massimo dicono: "si si" e poi continuano come sempre. Fanno gli intellettualoidi. E questi sono i risultati.
(Parlo della maggioranza perchè per fortuna non tutti sono cosi).

Ti ringrazio per la risposta qui e per l'intervento su libertiamo che ha aperto un discreto dibattito. Magari dalla nostre parole ne esce uno stimolo :)

Newborn
12-04-09, 18:44
I liberali italiani sono incapaci di comunicare: complimenti per l'articolo.

Grazie per i complimenti. Se vuoi lasciare un commento su Libertiamo sarebbe interessante anche perchè si è creato un discreto dibattito.

Nicola
12-04-09, 20:08
Bello il tuo articolo, Chris. Quello che non condivido (e trovo gli stessi motivi di disaccordo nel post in replica di Carrie) è che vi riferiate ai liberali come ad una elite culturale.
E' invece proprio il clamoroso ritardo culturale del liberalismo italiano, ovvero delle sue classi dirigenti, a causare l'incapacità comunicativa da voi denunciata.

Newborn
12-04-09, 21:02
Andrea ti ringrazio per l'apprezzamento. Visto che il tuo punto di vista è interessante (e in parte lo condivido) ti invito a commentare l'articolo su Libertiamo, dove c'è un certo dibattito.

Nicola
12-04-09, 21:09
Ci devo passare più spesso, fra l'altro sono pure iscritto. :D
Nella speranza che vi siano lì le risorse per recuperare questo mostruoso gap culturale, in cui, in altri anni, hanno primeggiato, per esempio, proprio i radicali pannelliani. Ma parliamo di oltre trent'anni fa.

Domenico Letizia
12-04-09, 21:43
io invece sogno ancora la sinistra libertaria che sia una estrema sinistra liberale (lo so, sono ripetitivo) per un buon progetto bisogna partire da qui: http://brigantilibertari.blogspot.com/2008/12/pensando-la-sinistra-libertaria-un.html

Carmine
16-04-09, 19:16
Grazie per i complimenti. Se vuoi lasciare un commento su Libertiamo sarebbe interessante anche perchè si è creato un discreto dibattito.

Ci farò un salto quanto prima.

Carmine
16-04-09, 19:17
VIDEO - Ultima ( forse ) puntata della conversazione Pannella - Bordin
Inserito il 13 aprile 2009
Tags: radicali, Video

- Segnaliamo il vivace scambio di opinioni nella conversazione settimanale del giorno di Pasqua. In un crescendo rossiniano il Direttore Bordin annuncia che quella in corso è l’ultima conversazione settimanale da lui condotta. Appuntamento a domenica prossima alle 17.

http://www.libertiamo.it/2009/04/13/ultima-forse-puntata-della-conversazione-pannella-bordin/

Carmine
16-04-09, 19:18
L’azzardo morale non è un problema morale
Inserito il 15 aprile 2009
Tags: crisi, economia, governo, politica, Tremonti

- Il Ministro Tremonti, alcuni giorni fa, ha dichiarato di trarre ispirazione dalla Bibbia (fortunatamente la Genesi e non l’Apocalisse) per affrontare la crisi finanziaria. Capita spesso di trovarsi davanti la strana tesi secondo cui la crisi finanziaria sia dovuta alla cattiveria, la disonestà, o l’avidità dei banchieri, e che quindi la crisi sia eminentemente un problema morale, che non si sarebbe posto senza questi imperdonabili difetti della natura umana. Scherzosamente, si potrebbe dire che questa teoria confonde il rischio morale (moral hazard) con la questione morale di cui si parla tanto nella politica italiana.
L’interpretazione nasconde però una visione inadeguata alla comprensione dei fenomeni economici. L’errore è il volontarismo, l’idea secondo cui le istituzioni sociali non obbediscano ad alcuna legge sociale e che le società non ottengano altri risultati se non quelli che gli uomini intenzionalmente perseguono. L’idea è che l’uomo sia onnipotente e che le scienze sociali non dicano nulla di rilevante: ogni crisi sarebbe dovuta alle mancanze etiche degli individui, siano essi investitori o politici.
Preventivamente, riassumo la mia posizione sulla crisi finanziaria, argomento tosto, di cui non sono certamente esperto, ma su cui nessuno pare aver le idee chiare (e ciò mi conforta): negli ultimi due decenni le politiche monetarie attiviste di Greenspan, prima, e Bernanke, poi, hanno ridotto il rischio percepito dagli investitori, perché questi sapevano che, in caso di problemi, avrebbero avuto un aiuto dalla Federal Reserve. Qualcun altro avrebbe pagato il conto. E’ come se la Federal Reserve avesse detto a tutti gli investitori: “se investite in un’attività ad alto rischio e le cose andranno bene, guadagnerete un enorme profitto, mentre se le cose andranno male il contribuente pagherà le vostre perdite”.
E’ evidente quali conseguenze ciò abbia avuto per gli investitori e nel momento in cui questi si sono trovati di fronte alle due solite vecchie alternative: un’attività ad alto rischio ed alto rendimento, oppure un’altra a basso rischio, che però rende relativamente poco. Perché preferire quella a basso rischio, se il rischio della prima è pagato da qualcun altro? Secondo i fautori della tesi del “problema morale”, gli investitori dovrebbero continuare a preferire l’investimento poco rischioso. Se ciò non accade è perché non c’è abbastanza moralità tra gli investitori.
Gli economisti riconosceranno in questa strategia il ben noto dilemma del prigioniero: sarebbe meglio per tutti non assumere troppi rischi, ma nessuno da solo sceglie “responsabilmente” l’attività poco rischiosa, perché se questa scelta è fatta solo da una parte degli investitori, costoro subiranno perdite a vantaggio degli altri. L’investitore “morale” perderà soldi mentre tutti gli altri faranno profitti, e quante più persone fanno la scelta “immorale”, tanto più gli altri perderanno soldi. Il moral hazard infatti farà aumentare gli investimenti, visto che gli investitori “immorali” potranno indebitarsi di più, fare più leva finanziaria, adottare un maggior carry trade, eccetera: ciò farà aumentare il valore di mercato dei beni di investimento, che quindi saranno più costosi per tutti, diventando meno convenienti anche per gli investitori “morali”. Insomma: si chiede agli investitori in un mercato concorrenziale di subire perdite e di sprecare opportunità di profitto, quando l’incentivo, implicito nel sistema di prezzi, è fare il contrario. La cosa è economicamente, e, aggiungo, antropologicamente improbabile. Il moral hazard crea incentivi ad assumere molti rischi: incentivi che prendono la forma di distorsioni nei conti dei profitti e delle perdite. L’investitore morale può perdere tutti i soldi che vuole, ma prima o poi uscirà dal mercato, perché la sua ricchezza prima o poi finirà. Il moralista deve essere molto ricco e molto masochista per nuotare controcorrente, e per questo confidare nella sua morale è come salvare una diga danneggiata mettendo il dito sulla crepa.
C’è anche un problema di informazioni: gli investitori non sono onniscienti, e quello che sanno del mercato lo sanno grazie soprattutto al sistema dei prezzi. Mercati finanziari drogati da una sistematica sottovalutazione del rischio dovuta alla socializzazione delle perdite non forniscono informazioni credibili sul rischio, e quindi gli investitori “morali” non solo perderanno un sacco di soldi, ma probabilmente saranno tratti in inganno dal knowledge problem tanto quanto gli investitori “immorali”: tutti spinti a sottovalutare un rischio che nessuno sa quantificare e localizzare.
Insomma: chi confonde il rischio morale con il problema morale dimentica di considerare come funzionano i mercati, propone una ricetta che è impossibile da mettere in pratica e fornisce una scusa ai veri responsabili della crisi. Non è un problema morale, ma un problema di cattivi incentivi e di cattive conoscenze, indotto da cattive politiche e cattive istituzioni. Checché ne dica Tremonti, per capire la crisi finanziaria i libri di economia servono.

Carmine
16-04-09, 19:18
DiDoRe: il primo miracolo italiano del Pdl?
Inserito il 16 aprile 2009
Tags: centrodestra, diritti civili, gay, Gaylib, laicità, Priori, Vaticano

- Nonostante sembri un accordo musicale, per giunta dissonante, i DiDoRe potrebbero essere la chiave per sistemare, o almeno cominciare a farlo, la questione irrisolta dei diritti delle coppie omosessuali.
Per capirci, il DiDoRe (Diritti e Doveri Reciproci nelle Convivenze) è la semplificazione dello studio comune dei ministri Brunetta e Rotondi in materia di tutela delle coppie di fatto. Sette articoli che regolamenterebbero le decisioni in materia di salute, in caso di morte di uno dei due componenti della convivenza, l’assistenza in caso di malattia o di ricovero, il diritto di abitazione, la successione nel contratto di locazione e l’obbligo alimentare.
Uno studio lanciato, quasi come una provocazione intellettuale, nel pieno della scorsa estate dai due membri del Governo Berlusconi, ripreso da Lucio Barani, deputato PdL di provenienza Nuovo Psi, seguito da altri cinquantaquattro parlamentari di maggioranza, tra i quali il presidente di Libertiamo, Benedetto Della Vedova.
Lo studio è stato dunque trasformato in una proposta di legge compiuta. Stando alle dichiarazioni rese dello stesso Barani all’emittente Retesole, sarebbe pronto per essere discusso e approvato entro l’estate dalla Commissione Affari Sociali della Camera, per approdare in aula ed essere votato, entro la fine dell’anno 2009. Addirittura col tacito consenso vaticano. “Anno di grazia” si bea speranzosamente sardonico il presidente di GayLib, Enrico Oliari.
C’è da sperare che il buon Barani non la stia facendo troppo facile.
Il dato indubbiamente storico è rappresentato dal fatto che la proposta di legge per i DiDoRe, originando a destra, in un interessante alveo socialista-laico-riformista-democristiano che sa molto di Prima Repubblica, quindi di politica fatta a puntino, senza strappi, potrebbe già da sé essere letta come una sintesi accettabile tanto per le varie anime del Pdl quanto per quelle del Pd e probabilmente anche per gli spiriti più illuminati della Lega.
D’altra parte, a ben vedere, la proposta di legge già scaricabile dal sito della Camera dei Deputati consta di un articolato assai semplice con concetti di base: anzitutto, all’articolo 1, si stabilisce che la famiglia è ben altra cosa, non foss’altro perché – addirittura liberi dagli schemi di carattere valoriale o morale che dir si voglia – è l’unico istituto del quale lo Stato si preoccupa economicamente.
Nei DiDoRe, dunque, non vi è traccia della “reversibilità della pensione” che rappresenta, invece, uno dei capisaldi del PaCS (Patto Civile di Solidarietà) alla francese.
L’obiettivo dichiarato dai proponenti è quello di fare chiarezza tra i mille (inutili) registri comunali varati fino ad oggi in materia di unioni civili.
Non vi è citazione né distinzione tra i sessi dei contraenti, posto che di contraenti si possa parlare.
Il riferimento all’articolo 2 della proposta, infatti, relativamente all’individuazione dell’inizio della “stabile convivenza”, rimanda al decreto del Presidente della Repubblica n. 223 del 30 maggio 1989 (Approvazione del Nuovo Regolamento Anagrafico della popolazione residente) in cui, al primo comma dell’articolo 5, si specificava che “agli effetti anagrafici per convivenza s’intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune”.
Per andare poi avanti, al secondo, specificando che “Le persone addette alla convivenza per ragioni di impiego o di lavoro, se vi convivono abitualmente, sono considerate membri della convivenza, purché non costituiscano famiglie a sé stanti”.
Come si nota a occhio nudo, i DiDoRe partono proprio dai concetti alla base della “convivenza anagrafica” sancita dallo Stato nel 1989 e ripresa da alcuni comuni (Padova, ad esempio) con proprie delibere consiliari. In questo senso, essi potrebbero essere considerati un rafforzamento formale e sostanziale della semplice convivenza anagrafica, alla quale vanno ad aggiungersi tutti gli aspetti afferenti la reciproca solidarietà tra i conviventi.
Tant’è. Ad oggi le reazioni dal movimento gay non sono state molte. Di sicuro, senza voler smentire il gaudente ottimismo di Barani, non mancheranno spasmodici dibattiti, forse soprattutto nell’ambito delle associazioni gay più vicine alla sinistra, con relative confusioni.
A nostro giudizio, un punto - pragmatico e non ideologico - andrebbe approfondito: in materia di successione, fatti salvi il diritto vitalizio di abitazione per il convivente superstite nella casa di proprietà e la successione nel contratto di locazione, di cui agli articoli 5 e 6 della proposta di legge DiDoRe, occorrerebbe (quanto meno per parificare la convivenza omoaffettiva a quella eterosessuale potenzialmente procreatrice di figli legittimamente riconosciuti davanti allo Stato come eredi) riconoscere il valore morale specifico dell’unione omoaffettiva affinché, almeno post mortem, si possa beneficiare, come coppia che non si esaurisce in sé, del dettato in materia di successione legittima (non specificato nella nuova proposta di legge) di cui parla invece il Codice Civile italiano al Libro II, reinserendo quella “pregressa condizione personale” grazie alla quale due persone dello stesso sesso si sono amate per una vita, nel più grande contesto sociale e affettivo delle famiglie da cui esse sono originate o, quantomeno, nella “famiglia” più grande che è la nazione in cui sono vissuti, amandosi finalmente senza vergogna, anzi riconosciuti come una possibilità e non come una rara e innominabile eccezione.

Carmine
16-04-09, 19:23
Sui referendum Calderoli si arrampica sugli specchi della demagogia
Inserito il 14 aprile 2009
Tags: Calderoli, Della Vedova, Palma, referendum

- Le ragioni di metodo e di contenuto in base a cui Calderoli oggi tuona dalle pagine della Stampa contro i referendum elettorali e contro l’ipotesi del loro accorpamento con le elezioni europee sono tanto forti nei toni quanto deboli, ai limiti dell’inconsistenza, nei contenuti.

Calderoli agita, se abbiamo ben compreso, due questioni di metodo e due di merito. Quelle di metodo sono le seguenti:
1. la proposta di accorpamento di europee e referendum è già stata bocciata in Parlamento e i regolamenti di Camera e Senato impediscono di ripresentare e assegnare all’esame delle commissioni competenti una norma già bocciata dalle camere, prima che siano trascorsi sei mesi dalla sua bocciatura;
2. l’esistenza del quorum non solo legittima, ma in qualche misura impone di saggiare la popolarità del quesito attraverso modalità di convocazione della consultazione che non facilitino la partecipazione al voto degli elettori (l’abbinamento diverrebbe così “un anomalo volano che consente di raggiungere il quorum”).
Il primo argomento, quello regolamentare, è quantomeno singolare e neppure la Lega e Calderoli devono esserne così convinti, se a proposito della norma che prevede l’allungamento della permanenza dei clandestini nei centri di identificazione, continuano a richiederne il reinserimento nel decreto sicurezza, malgrado essa sia già stata ripetutamente bocciata sia alla Camera sia al Senato.
Il secondo argomento è una rifrittura della stessa tesi che chiunque, da destra e da sinistra, ha utilizzato, stando al Governo, per giustificare iniziative volte a “disinnescare” la mina politica rappresentata da referendum sgraditi. Che sia un argomento ormai popolare, non significa che sia un argomento sensato. I costituenti, per ovvie ragioni, non pensavano che il “non voto” potesse diventare uno “strumento di voto”. Con il quorum pensavano di disciplinare, in modo comunque restrittivo, il caso in cui il referendum fosse stato disertato dalla maggioranza degli elettori. Se però le forze politiche giocano, come hanno iniziato da tempo a fare, la carta del non voto (che è un unico contenitore che somma il non voto passivo dei disinteressati e quello attivo di chi vuole difendere la legge sottoposta a referendum dalle abrogazioni proposte) allora salta del tutto lo scenario ipotizzato dai costituenti. Se, andando a spanne, almeno un elettore su quattro non vota quasi mai, per far vincere il No con il non voto occorre raccogliere un numero di sostegni pari alla metà di quelli necessari ai favorevoli per fare vincere il Sì. Se il Governo (come Calderoli chiede) si ingegnasse per fare in modo che nei referendum il voto di ciascun elettore non pesi in modo eguale, ma favorisca i sostenitori del no, non farebbe una cosa costituzionalmente dovuta, ma una “furbata” istituzionalmente sleale.

Le due questioni di merito che Calderoli solleva nella sua crociata anti-referendaria sono invece le seguenti:
1. il referendum consente di assegnare il premio di maggioranza alla lista che ottenga la maggioranza relativa di voti con percentuali molto lontane da quelle della metà più uno degli elettori. Quindi, “col referendum, c’è un rischio-fascismo”;
2. il costo del referendum (anche quello politico, connesso alla necessità di reperire, con scelte precise, le risorse per finanziarne la tenuta) non può essere addossato al Governo o alla maggioranza ma andrebbe rinviato al mittente, cioè al Comitato promotore.
Il primo argomento, con annesso “rischio-fascismo”, potrebbe essere riproposto tale e quale nei confronti della Legge Calderoli oggi vigente, che in teoria consente a una coalizione (o a una lista) che ottenga il 25% dei voti di accaparrarsi il 55% dei seggi. Il fatto che il beneficiario del premio di maggioranza sia una lista, anziché una coalizione pluripartitica, non cambia la natura del beneficio. In generale tutti i sistemi elettorali maggioritari o con premio di maggioranza prevedono la possibilità teorica che, a fronte di una grande frammentazione politica, chi ottiene un’infima maggioranza di voti ottenga anche un’enorme maggioranza di seggi. Ma nella realtà, i sistemi elettorali funzionano assai meglio, perché creano incentivi all’aggregazione assai più trasparenti dei meccanismi di equilibrio delle coalizioni pluripartitiche.
Il secondo argomento è manifestamente assurdo, perché come è noto a chiunque e, a maggiore ragione, ad un ministro dell’esperienza e della competenza di Calderoli, il Comitato promotore rappresenta, con prerogative analoghe a quelle di un potere dello stato, quella frazione del corpo elettorale che ha promosso i referendum. Il Comitato promotore è il “canale” e insieme il “garante” dell’attivazione e della corretta attuazione di una prerogativa politica che la Costituzione assegna agli elettori, rispetto a referendum la cui ammissibilità in termini formali e sostanziali è valutata da magistrature terze (Cassazione e Corte Costituzionale). Il compito del Governo (a prescindere dalle posizioni di merito sul quesito) è quello di garantire, non di boicottare l’esercizio di un diritto costituzionale ed è dunque quello di organizzare la tenuta della consultazione, senza pregiudicarne l’esito. Garantire questo diritto, significa anche finanziarne l’esercizio. Il voto referendario, alla stregua di quello politico e amministrativo, è un costo della democrazia, non un onere privato degli elettori che decidono di partecipare al gioco democratico. Alla Lega è toccato, in varie occasioni, di promuovere o sostenere referendum che, per boicottaggi politici analoghi a quelli che ora il Carroccio invoca, non hanno raggiunto il quorum. Nessuno presentò il conto il Via Bellerio.

Carmine
16-04-09, 19:23
La Rai fa fuori Vauro. Comprensibile, ma sbagliato.
Inserito il 15 aprile 2009
Tags: Rai, satira, Vauro

Conoscevamo Vauro come un vignettista di buon talento e di pessimo gusto e avevamo imparato a diffidarne (non diciamo a disprezzarlo) per il modo in cui nel 2006 aveva attaccato i vignettisti danesi, colpevoli di avere scherzato troppo pesantemente con Maometto e di essersi così schierati, con le loro “vignette di guerra”, dalla parte dell’invasore occidentale. In quelle vignette di “cattivo gusto” il noto vignettista vedeva una volontà di “far male, di umiliare”. E quindi non trovava di meglio che sputare (metaforicamente) in faccia a colleghi finiti nel mirino degli estremisti islamici.
Ci fa un certo effetto vederlo ora trasformato in un’icona e in un martire della libera satira. Non ci capacitiamo del favore che qualcuno gli ha voluto fare e che non merita. E, francamente, non ci capacitiamo dell’errore di chi ha pensato di rispondere alle insolenze di Vauro mettendogli burocraticamente una mordacchia. Si poteva punire Vauro in modo molto più liberale opponendogli, in trasmissione, qualcuno che gli ricordasse il suo passato “anti-vignetta libera” e la sua struggente sensibilità per la pietas religiosa islamica. Sarebbe stato assai più efficace che mandarlo a casa per una vignetta che, con l’obiettivo di prendere per il culo il piano-casa del Governo, finisce con il prendere per il culo le vittime del terremoto. Così, anziché sputtanarlo, si finirà per glorificarlo.
Il provvedimento disciplinare che lo sospende dalla trasmissione di Santoro è ovviamente comprensibile. Alla gran parte degli spettatori quelle vignette sono apparse non solo irriverenti contro il “potere”, ma blasfeme contro i morti e i sentimenti umani di pietà. Il problema è che qualunque censura, sanzione o limitazione della libertà di satira e più in generale di pensiero è quasi sempre perfettamente comprensibile. Ma non cessa per questo di essere tragicamente sbagliata e ingiustificabile. Siamo fra quanti hanno difeso i vignettisti danesi (anche contro Vauro). Ma, quanto ad empietà, anche loro ci erano andati giù pesanti. Difendere oggi Vauro continua a farci troppa impressione (anche perché in realtà mica rischia di essere ammazzato, come i suoi colleghi danesi; rischia di diventare “santo subito”, ovviamente da vivo). Però ci sentiamo di continuare a difendere le ragioni che sconsigliano, sempre, comunque e in ogni caso di censurare una vignetta o un vignettista, per quanto impresentabile possa apparire. Se Vauro non ti piace, non lo assumi. Se lo assumi, lo lasci “vaureggiare”. Non lo licenzi perchè “vaureggia” troppo.
Si dirà che il realtà Vauro non viene censurato, ma solo allontanato dal servizio pubblico, che, in quanto pagato dal canone, deve…bla…bla…bla. Argomenti ottimi, dal punto di vista burocratico, ma che valgono meno di zero dal punto di vista civile. Se passa il principio che la Rai deve censurare qualunque cosa offenda la pietà umana o religiosa degli spettatori ovvero di una loro minoranza o maggioranza particolarmente rumorosa, si aprirà una stagione molto buia, molto complicata e niente affatto promettente.

Carmine
16-04-09, 19:24
Ma non tutti “meritano” quegli aiuti…
Inserito il 15 aprile 2009
Tags: bollo auto, Della Vedova, economia, Tremonti, USA

- Di Benedetto Della Vedova, da Il Secolo del 15 Aprile 2009 -

Tra febbraio e marzo, agli americani è stato più volte chiesto cosa pensassero delle ipotesi di salvataggio delle Big Three dell’automobile. La domanda che veniva loro rivolta poteva cambiare (in alcuni sondaggi veniva ricordato come appena qualche mese prima le compagnie automobilistiche avessero usufruito di circa 17 miliardi di dollari, in altri casi il “dettaglio” veniva omesso), ma la maggioranza degli intervistati si è sempre mostrata nettamente contraria all’utilizzo di fondi pubblici per il sostegno dei produttori di auto: per un sondaggio Gallup di fine febbraio, i contrari al bailout si attestano addirittura intorno al 70 per cento, mentre secondo una rilevazione della CNN- Opinion Research si tratterebbe del 61 per cento. Cambia poco, il messaggio è chiaro: l’opinione pubblica americana, nonostante lo stordimento provocato dai trilioni di dollari concessi a destra e a manca, conserva nei suoi riflessi i fondamenti liberali che le sono propri, in primis l’avversione verso l’idea che sia compito dello Stato – anzi, delle tasche dei contribuenti – intervenire per salvare aziende in crisi quando non proprio decotte. I problemi delle grandi case automobilistiche americane non sono emersi all’improvviso, ma sono la conseguenza di una debolezza ormai pluridecennale di un settore iper-sindacalizzato, già sussidiato nel passato e fortemente politicizzato. La crisi ha acutizzato un malessere antico, di fronte al quale nessun piano di salvataggio potrà mai funzionare: che piaccia o meno, è il consumatore americano, acquistando sempre più Toyota e sempre meno GM, ad aver decretato il fallimento del colosso Usa. La bancarotta, ha spiegato il presidente a un Paese che giudica il termine come sinonimo di fallimento, in fondo è “un meccanismo per aiutare a ristrutturarsi rapidamente e riemergere più forti” e potrebbe aiutare GM a “risolvere la questione dei vecchi debiti in modo da rialzarsi e incamminarsi verso il successo”. Obama ha ricordato che con l’amministrazione controllata “i lavoratori possono continuare a produrre auto che vengono poi vendute” e che non si tratta affatto “di un processo di liquidazione di una compagnia, che smetterà di esistere”, e neppure l’ipotesi di “avere una compagnia bloccata in tribunale per anni, incapace di uscirne”. Quindi, nessuna intenzione di veder “svanire” l’industria automobilistica Usa, ma nessuna “voglia di perdonare le decisioni sbagliate” della dirigenza.
D’altronde, ormai da anni compagnie straniere hanno impiantato una parte delle loro produzioni sul suolo americano: Toyota, Honda, Nissan, Bmw e Subaru. Cosa le renda “meno americane” delle Big Three è ormai difficile, se non impossibile, stabilirlo: producono negli Stati Uniti, impiegano personale americano, staccano dividendi per i fondi-pensione americani quanto (e spesso meglio) delle compagnie “di bandiera”. La maggioranza degli americani non crede più nella retorica del “ What is good for GM is good for the country ” (mutuabile per le altri grandi compagnie), perché sa che l’economia americana deve il successo degli ultimi quindici anni alla rivoluzione telematica e tecnologia, allo sviluppo di settori nuovi ed innovativi, all’apertura delle frontiere commerciali. Sondaggi alla mano (ma sarebbe bastata la razionalità a suggerirlo), gli americani sono favorevoli ad un’assistenza governativa in favore degli individui, come i proprietari di casa a rischio pignoramento o i disoccupati, ma non amano l’idea che i soldi pubblici vadano a grandi istituzioni come i costruttori di automobili o le banche. L’ubriacatura da “fine del capitalismo” non ha fatto perdere al popolo americano buon senso e prudenza: non è un segnale da poco il fatto che Barack Obama, dopo aver tanto parlato di salvataggio, ora si mostri molto più cauto, aprendo all’ipotesi di bancarotta per GM e condizionando il sostegno pubblico a Chrysler ad una salvifica (ed italiana) ristrutturazione di mercato.

Rispetto alla crisi, il governo italiano non è entrato nel vortice dell’interventismo pubblico. Va riconosciuto a Berlusconi e Tremonti di aver tenuto ferma la barra della navigazione, scegliendo proprio la linea che il taxpayer americano avrebbe gradito: affrontare la crisi sostenendo il reddito dei disoccupati senza stravolgere le regole del mercato e senza bruciare risorse pubbliche. Va in questa direzione l’accordo della scorsa settimana tra Governo e Regioni, grazie al quale si sono resi disponibili con variazioni di bilancio (quindi, senza aumento di tasse e senza ricorso al deficit) 8 miliardi per gli ammortizzatori sociali in deroga. Passata l’emergenza, è opportuno che da questi interventi si parta per disegnare una riforma strutturale, non emergenziale e di stampo universalistico del sistema degli ammortizzatori sociali, anche immaginando il superamento dello strumento della cassa integrazione straordinaria in favore di meccanismi meno discrezionali e più autenticamente “assicurativi”. L’opinione pubblica americana, con la sua avversione nei confronti di interventi di salvataggio in favore di Wall Street (anche le compagnie automobilistiche e i loro manager abitano lì) a scapito di Main Street, invita i decisori pubblici a concentrarsi sui problemi e le esigenze di sempre, crisi o non crisi.

Carmine
16-04-09, 19:25
Referendum: Data 21 giugno elude, non risolve il problema.
Inserito il 14 aprile 2009
Tags: Della Vedova, governo, Lega, referendum

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl

L’ipotesi di accorpare il 21 giugno i referendum con il turno dei ballottaggi delle amministrative non è un modo per rispondere, ma piuttosto per eludere le questioni poste dal Comitato Promotore.
Spostare i referendum oltre il termine previsto oggi dalla legge consentirebbe di realizzare risparmi ridottissimi e pregiudicherebbe comunque l’esito della consultazione, che peraltro vedrà la campagna elettorale sovrapporsi a quella delle elezioni europee.
Penso che il Governo debba mettere tutti in condizione di competere alla pari. Poi le forze politiche che compongono la maggioranza – la Lega come il Pdl – sceglieranno se e come impegnarsi nella campagna elettorale e quale posizione assumere. Mi pare che il Presidente del Consiglio abbia fatto finora di tutto per assicurare la “neutralità” dell’esecutivo rispetto ad un adempimento - la convocazione del referendum - che il Governo non può subordinare ad interessi di parte. Spero che anche da parte della Lega si possa giungere in extremis ad una posizione altrettanto responsabile.

Carmine
20-04-09, 19:11
Sugli ogm io sono liberale e penso al Sud del mondo. Zaia no.
Inserito il 17 aprile 2009
Tags: ambiente, Berlusconi, Della Vedova, G8, ogm, zaia

Il primo G8 sull’agricoltura, che l’Italia ospiterà nei prossimi giorni nel trevigiano, offrirà al Governo Berlusconi un’importante vetrina internazionale. Allo stesso tempo, il summit rappresenterà un delicato banco di prova: dalle proposte che l’Italia saprà avanzare e sostenere sul futuro del settore primario, si avrà un segnale di rilievo sull’approccio che il Governo italiano intende seguire per il superamento della crisi economica globale. Si scontrano due diversi visioni del futuro: da un lato, la tentazione di “chiudere” i mercati e “proteggere” le produzioni locali dalla concorrenza internazionale e da un progresso scientifico ritenuto dannoso; dall’altro, l’apertura alla competizione internazionale, all’innovazione biotecnologica per lo sviluppo di nuovi prodotti e nuove tecniche. Il ministro Luca Zaia si è apertamente schierato sul primo fronte. La sua posizione – gli va dato atto di riconoscerlo – non è la linea ufficiale del Governo: francamente, è opportuno che non lo diventi.
Fin dal suo insediamento, il governo Berlusconi ha scelto una politica per l’ambiente molto pragmatica, come dimostrano le scelte in materia di cambiamento climatico e l’apertura all’energia nucleare. Anche in materia di ogm, per la prima volta, e per ben tre volte, in sede comunitaria l’Italia non ha aggiunto il suo voto al fronte del no: rispetto ai tentativi della Commissione Europea di revocare alcuni bandi nazionali alla coltivazione di particolari prodotti agricoli geneticamente modificati, Prestigiacomo e Sacconi hanno scelto l’astensione, un traghettamento della politica ambientale ed agricola italiana verso posizioni non più ideologicamente e pregiudizialmente contrarie alle nuove frontiere della tecnologia. Nessuno considera gli ogm una bacchetta magica per la piaga della fame nei paesi poveri del mondo: l’ingresso di centinaia di milioni di persone nel benessere passa attraverso la creazione di un ambiente favorevole allo sviluppo economico, buone istituzioni, rispetto dei diritti umani. Ma è un fatto che tante regioni del mondo potranno essere “conquistate” all’agricoltura solo se sarà possibile sviluppare varietà di piante resistenti alle temperature, alla scarsità di acqua e agli erbicidi o capaci di cicli di crescita più rapidi. E in prospettiva, quanto più sarà possibile aumentare l’offerta alimentare, tante più persone potranno accedere a prodotti della terra “low cost” altrimenti inaccessibili.
Non c’è nulla di nuovo in tutto questo: come si legge in un bel rapporto dell’Accademia dei Lincei, per secoli “la storia dell’agricoltura è anche la storia degli innumerevoli tentativi ed esperienze degli esseri umani di utilizzare, ai fini del miglioramento della produzione, il processo naturale dello scambio genico attraverso l’incrocio tra varietà vegetali e tra razze di animali, cercando, talvolta, di superare anche le barriere di infertilità tra le specie.” In questo plurisecolare percorso, i metodi di miglioramento genetico si sono sviluppati fino a ricomprendere le tecniche di ingegneria genetica molecolare: anziché dipendere dall’empiria e dalla casualità, il metodo molecolare consente di ridurre i tempi della selezione, di conservare le caratteristiche vantaggiose del genotipo originario aggiungendo singoli geni di cui il genotipo originale era carente. Così aumenta, non diminuisce, la diversità biologica naturale. La “lotta agli ogm” di Zaia non è una difesa del particulare dall’invasione delle “cattive” multinazionali, ma è una chiusura alla ricerca scientifica, all’innovazione, al progresso, che rischia di impedire in Italia non solo l’utilizzo ma anche lo studio e lo sviluppo di tecnologie che rappresentano la frontiera più avanzata della conoscenza in campo agroalimentare. In prospettiva, come già stiamo rischiando di fare nel campo biomedico, rinunceremmo ad un enorme e crescente “pezzo” di Pil, di occupazione e di ricchezza.
La popolazione mondiale cresce oggi ad un ritmo superiore della produzione alimentare. A Zaia e a chi imbastisce crociate anti-ogm andrebbe posta una domanda in particolare: riteniamo che la soluzione di questo problema sia nella sostituzione di foreste (queste sì depositarie di biodiversità) con aree coltivabili, o accettiamo la sfida della biotecnologia e il suo tentativo di accrescere la produttività degli attuali agro-ecosistemi?
Quel “mondo antico” – i campanili e le campagne – che Zaia vorrebbe difendere era un mondo di bassa qualità dei prodotti, di scarso igiene e di povertà dei lavoratori. Ciò che oggi chiamiamo produzioni doc e dop, slow food et similia, sono il frutto del progresso e dell’innovazione di prodotto e di processo, non della conservazione del sistema produttivo “dei nonni”.

Carmine
20-04-09, 19:12
La proprietà privata tutela la natura, statalismo e burocrazia la inquinano
Inserito il 20 aprile 2009
Tags: ambiente, economia, politica

L’ambiente è un fallimento del mercato? Questo sembrano suggerire non solo le arringhe verdi, e passino, ma anche e soprattutto le scelte normative compiute quasi ovunque nel mondo e le teorie mormorate dai consiglieri ai loro principi. Eppure, l’idea che solo l’intervento dello Stato possa garantire la tutela dei beni ambientali, qualunque cosa essi siano, pare ignorare due verità che la cronaca, quando non la storia, ci consegna.
La prima verità è che i maggiori disastri ambientali dell’era moderna (ché anche nel passato, quanto a ecologia non ci andavano per il sottile) si sono verificati proprio in quei paesi dove l’intervento pubblico era più pervasivo e onnipotente. Chernobyl e il Lago d’Aral si trovano nel territorio dell’ex Unione Sovietica, non in qualche paradiso capitalista, e sono il risultato – diretto e inevitabile – della pianificazione e dei gosplan. Questo non significa, naturalmente, che anche in quello che una volta si chiamava “mondo libero” non si siano verificate eco-tragedie: solo, ce ne sono state meno, meno devastanti, e più rapidamente affrontate e facilmente risolte.
La seconda verità è che, a dispetto di quanto vuole l’ortodossia verde, la proprietà privata raramente causa rovina ambientale: più spesso, conserva la natura. E’ sufficiente, a questo proposito, una passeggiata in qualunque città italiana. Non v’è angolo del pianeta in cui l’incuria dei parchi pubblici e delle risorse collettive non sia resa ancora più evidente. Ancora una volta, questa non è una regola ferrea: esistono spazi privati mal tenuti e luoghi pubblici sfavillanti. Ma gli uni e gli altri sono l’eccezione,
mentre normalmente accade il contrario. Non è un caso: lo struttura degli incentivi tipica della proprietà privata è tale da rendere la disattenzione più costosa, in quanto i costi ricadono direttamente e interamente sul proprietario, mentre nel caso della proprietà pubblica essi vengono “spalmati” sulla società. Le stesse persone che lasciano cadere carte di caramelle e mozziconi di sigaretta sulla strada, si comportano presumibilmente in modo opposto, in casa propria. Ovviamente, possono esistere situazioni specifiche in cui è difficile o impossibile individuare diritti di proprietà, o garantirne l’enforcement. Ma si tratta di casi marginali, rispetto ai quali si pone spesso – per esempio, col sovra sfruttamento delle risorse ittiche – la sfida, politica, di definire ex novo dei diritti di proprietà, attraverso sistemi di quote scambiabili o simili. Il punto essenziale è che, la maggior parte delle volte, la soluzione di problemi ambientali non passa attraverso la produzione di leggi ad hoc, le cui buone intenzioni sono inferiori solo ai cattivi incentivi che creano. La prima forma di inquinamento che andrebbe sconfitta, nell’interesse dell’ambiente, è l’inquinamento burocratico.

Carmine
20-04-09, 19:13
Referendum: non concedere tutto a Lega, più ragionevole rinvio al 2010
Inserito il 17 aprile 2009
Tags: Della Vedova, Lega Nord, PdL, referendum

Dichiarazione di Benedetto della Vedova, deputato del Pdl

“La scelta di non abbinare il referendum alle elezioni europee premia l’ostinazione della Lega e non le ragioni che il Presidente del Consiglio aveva opposto alle resistenze del Carroccio e che ieri ha, con grande franchezza, ribadito. Si tratta di ragioni sia di metodo, in favore dell’abbinamento, sia di merito, in direzione di una riforma che consenta il pieno consolidamento, anche in Italia, di un sistema elettorale bipolare e in prospettiva bipartitico.

A questo punto, penso che il Pdl, dopo avere concesso alla Lega il non abbinamento, non debba concederle anche una convocazione del referendum nel primo giorno di estate, che con ogni probabilità pregiudicherebbe l’esito della consultazione.

Visto che anche per votare il 21 giugno occorre fare una legge, che stabilisca in via eccezionale il rinvio della consultazione, a questo punto è molto meglio stabilire un rinvio al 2010, che dia il tempo alle camere di saggiare l’effettiva disponibilità, da molti dichiarata, per una riforma del sistema elettorale che non guardi al passato ma al futuro, e che dia modo ai cittadini di avere nella prossima primavera una campagna elettorale piena e partecipata, non “esiliata” nel primo giorno d’estate.

Spero che le aperture fatte ieri in questo senso e ribadite stamattina dal Ministro Bondi siano, a questo punto, colte e fatte proprie dal Comitato Promotore del referendum.”

Carmine
20-04-09, 19:14
Di Pietro ricicla candidate e le spaccia per società civile
Inserito il 17 aprile 2009
Tags: di pietro, europee, politica

Di Pietro, una ne fa e cento ne pensa.
Su internet rimbalza la notizia del “setterosa”, le candidate alle europee, espressione della sempreverde società civile, selezionate via curriculum.
Basta con “i soliti riciclati della politica” ha tuonato Tonino, lanciando un appello dalle pagine del mensile Gioia. Tra gli 800 curricula arrivati in segreteria, ecco le selezionate: Erminia Gatti, Cristina Scaletti, Luisa Capelli, Dringa Milito Pagliara, Elisabetta Rolli, Marianna Anastasia e Lilia Infelise.

“Di bell’aspetto e tutte piuttosto giovani hanno un curriculum di tutto rispetto” leggiamo sul sito del Corriere. Attirati da questi giudizi, le abbiamo cercate su Google.
Ma quale sorpresa è stato per noi l’esito della googlata! Altro che società civile, per quattro candidate su sette, proprio di riciclo si tratta…

Marianna Anastasia: già assessore provinciale di Foggia per i Comunisti Italiani e segretaria cittadina del partito di Diliberto. Ha dichiarato in un’intervista: “Non voglio sembrare una irriconoscente : non rinnego la mia cultura politica, ma le strategie del nuovo corso politico del PdCi hanno scarsa possibilità di attecchire. Inoltre, nella scelta delle candidature alle europee, il partito mi è sembrato più attento a salvare a tutti i costi la sua classe dirigente, anche con candidature poco coerenti.”

Erminia Gatti: amministrativista molisana, è stata consulente di Di Pietro al ministero dei Lavori Pubblici e spesso da lui inviata a convegni ed incontri istituzionali. E’ stata recentemente nominata nel CoreCom del Molise.

Lilia Infelise: prima responsabile di un movimento politico della galassia dell’Unione prodiana, candidata e poi eletta alle primarie del PD, in odore di seggio alle politiche. Operazione purtroppo fallita, con tanto di lettera di ringraziamento ai suoi sostenitori.

Dringa Milito Pagliara: il Corriere la definisce amica di Dario Franceschini, in realtà è una sua collaboratrice, lavorando per lo Studio Legale Ferroni e Franceschini (il sito dello studio non è più disponibile, ma digitando il nome della candidata si risale facilmente all’informazione). In più, scrive per Arel, il think tank di Enrico Letta.

Non c’è nulla di male nel candidare le signore di cui sopra, persone degnissime e sicuramente capaci di rappresentare al meglio l’Italia in Europa.
Ma basta, caro Tonino, con la vecchia e bolsa retorica della società civile. Il più civile tra i tuoi candidati, alla fine, resta il buon Gianni Vattimo!

Carmine
26-04-09, 18:04
INSERITO IN | Economia e mercato, Più Azzurro, Più Verde
Terremoto. No alla psicosi. Sì al risk management
Inserito il 21 aprile 2009
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Tags: ambiente, Faraci, risk management, terremoto

- Quello della settimana scorsa in Abruzzo non è certamente il primo terremoto verificatosi in Italia. Nel ventesimo secolo ce ne sono stati molti anche più terribili nelle conseguenze.
Al tempo stesso il fatto che ci sia stato un sisma nell’aquilano non rende affatto una nuova catastrofe in Italia più probabile di quanto lo fosse un mese fa.
Eppure sull’onda emotiva dei tragici eventi a cui abbiamo assistito, la percezione generale del rischio sismico sembra radicalmente cambiata.

C’è chi ritiene che occorra puntare il più possibile sulla previsione del terremoto, potenziando le ricerche nel campo della sismologia e soprattutto non licenziando i 400 sismologi precari dell’Istituto di Geofisica e Vulcanologia.
C’è altresì chi scopre da un giorno all’altro che una buona parte delle abitazioni di questo paese non sono a norma o che ci sono ospedali che dopo quasi 40 anni di lavori in corso non hanno ancora il certificato di agibilità e non sono accatastati – e chiede che si rendano molto più restrittivi i criteri costruttivi e soprattutto i controlli.
L’opinione pubblica appare molto toccata ed è probabile che in questo clima passerebbero a furor di popolo norme che imponessero di edificare solo gioielli architettonici – a prescindere dalle conseguenza sul prezzo delle case, dagli impatti occupazionali nel mercato immobiliare o dalle spese necessarie per sostenere l’apparato di certificazione e di controllo.

Non c’è dubbio che occorra operare affinché tragedie come quelle della settimana scorsa diventino più rare e che bisognerà fare piena luce su alcune vere e proprie truffe che sono state compiute nell’edificazione di alcune strutture.
Al tempo stesso però sarebbe sbagliato che in un mondo complesso come quello in cui viviamo la difesa dal rischio sismico diventasse in maniera acritica la prima priorità nazionale.

Siamo tutti coscienti che molte azioni potrebbero essere intraprese per ridurre le conseguenze di eventi sismici, sia in termini di morti che di danni agli edifici.
Costruire ogni nuova casa secondo tecnologie che rappresentino lo stato dell’arte nella sicurezza; predisporre verifiche severissime su qualsiasi struttura insista sul suolo nazionale e giungere magari fino all’abbattimento e alla ricostruzione di quelle che non risultino a norma; assumere molti nuovi sismologi e dotare il settore di un budget illimitato per la ricerca, con l’obiettivo di arrivare in futuro a prevede l’ora ed il luogo esatti di ogni evento sismico.
Tutto questo servirebbe a salvare vite umane? Certamente sì.

Ma con la stessa logica bisogna riconoscere che anche raddoppiare il numero di poliziotti consentirebbe di salvare vite umane, rendendo possibile una riduzione del crimine.
Analogamente mettere in perfetta sicurezza tutte le strade d’Italia e dotare ogni singolo veicolo di radar anti-collisione e di sistemi verifica remota della velocità permetterebbe pure di evitare molte morti.
E lo stesso farebbero check up medici completi gratuiti ed obbligatori con cadenza mensile per tutti i cittadini.
Il problema è che noi non disponiamo di un budget illimitato. Le risorse sono limitate e qualsiasi somma di denaro noi destineremo collettivamente o individualmente a ridurre il numero delle vittime di un terremoto (o a qualsiasi altro fine umanitario) sarà implicitamente una somma sottratta a un altro obiettivo.

In un momento fortemente emozionale come quello che stiamo vivendo è facile che chi non si proclami “contro i terremoti senza se e senza ma” sia accusato di superficialità o di cinismo.
Si dirà che le 294 vite che si sono spente sotto le macerie abruzzese erano e dovevano essere considerate un “valore assoluto” - che quindi qualunque cosa doveva essere fatta per impedire “quella” tragedia e qualunque cosa deve essere fatta per impedirne di simili.
Ma ogni vita è un valore assoluto, non solo quelle 294, ma anche quella ad esempio dello scooterista che cade e batte la testa a Roma a causa di una buca sulla strada o del tabaccaio ucciso a Lodi ed ogni altra vita perduta per qualcosa che va storto in questo mondo imperfetto.

Negli ultimi 10 anni sono morte in Italia a causa di un terremoto 326 persone (294 in Abruzzo, 28 in Molise e 4 in Sicilia) pari a circa a una persona su 180.000 abitanti in un decennio.
Nello stesso periodo, tanto per fare un paragone, sono morte oltre un milione di persone per tumore e circa 50 mila per incidente stradale.

Obiettivamente di fronte alla scelta se pagare di più per avere una casa leggermente più sicura o utilizzare gli stessi soldi per revisionare con regolarità l’automobile e pagarsi dei controlli medici frequenti, è perfettamente legittimo ritenere più utile la seconda scelta.
Del resto è alquanto discutibile la tesi che è capitato talora di sentire in questi giorni secondo cui è semmai meglio non avere nessuna casa piuttosto che possedere una casa non perfettamente sicura . A quel punto, infatti, si dovrebbe ritenere anche che è meglio non avere nessuna automobile se non ci si può permettere una Range Rover o meglio ancora un mezzo corazzato oppure che è meglio non prendere l’aereo se non si può contare sulle garanzie offerte dalle compagnie “high-cost”.

Quello che davvero servirebbe, quando si affrontano questioni di questo tipo, è un “risk management” serio e razionale.
Ciò implica innanzitutto una chiara identificazione di quali sono in un’ottica complessiva i rischi ai quali siamo sottoposti e stimare sia la possibilità che si verifichino che il danno che provocherebbero se si verificassero.
A quel punto è necessario capire, per ciascuno dei rischi identificati, quali possono essere le azioni di mitigazione del rischio, di quanto lo mitigherebbero e quale sarebbe il costo di tali azioni. Sulla base di questa valutazione si deve decidere se provvedere o meno ad effettuare le attività connesse.

L’alternativa ad intraprendere azioni di prevenzione o mitigazione del rischio è quella di allocare una “contingency” - cioè di riservare, per ogni rischio che resti presente, dei fondi proporzionali alla possibilità che si verifichi ed ai danni che provocherebbe.
La presenza di questi fondi consente azioni reattive, cioè a posteriori, sui quei rischi che alla prova dei fatti si concretizzino.

La disciplina del risk management insegna, in effetti, che non sempre prevenire è meglio che curare. Tutto dipende, infatti, da una scrupolosa valutazione di costi e benefici.
Si badi bene, da questo punto di vista, che il fatto di non implementare azioni di mitigazione per alcuni rischi non rappresenta tirchieria o cattiveria, ma semplicemente la considerazione che i soldi che servirebbero sarebbero spesi meglio, cioè più efficacemente, altrove.
E se 400 sismologi precari saranno lasciati a casa da quel “mostro” di Brunetta magari è perché - a fronte di risorse limitate – si ritiene più utile per la salute pubblica che sia mantenuto il posto di lavoro di 400 oncologi o di 400 agenti della polizia stradale.

Uno dei maggiori problemi di questo paese, purtroppo, è che non riesce ad accettare il concetto di rischio e la necessità di convivere con il rischio.
L’idea che si possa estirpare il rischio dalla nostra vita è un’idea ingenua e sbagliata, così come illusoria è la convinzione hobbesiana che lo Stato abbia gli strumenti per preservare i suoi cittadini dall’incertezza.
Obbiettivamente tante delle attitudini culturali di questo paese possono essere ricondotte in definitiva all’avversione al rischio ed alla pretesa di esorcizzarlo. Un’avversione che non si concretizza solamente nell’approccio alle questioni ambientali (dal nucleare, agli OGM, fino alla tematica del riscaldamento globale) ma anche e soprattutto nel sospetto generalizzato nei confronti del libero mercato, a causa dei suoi “rischi” connessi - la possibilità di perdere il lavoro o i risparmi e in generale il fatto che in tale sistema le posizioni acquisite vengono continuamente rimesse in discussione.
Comprensibilmente la politica, di fronte alla richiesta generale di sicurezza, coglie la palla al balzo. Fa leva sulla “paura” per aumentare la fiducia della gente nell’azione pubblica e dispensa ai cittadini preservativi mentali grazie ai quali credersi al riparo dai pericoli del mondo.
Si tratta, in ogni caso, di fornire un’illusione di sicurezza in quanto nessuno è dotato della sfera di cristallo – nemmeno i politici lo sono. Nessuno sa che cosa si verificherà e quindi che cosa sia più utile prevenire – non potendo in ogni caso prevenire tutto.
Il rischio è che i politici spendano i soldi dei contribuenti non dove è più utile, ma dove è “più scenico”, cioè dove possono meglio dare agli elettori la sensazione di “essere sul pezzo”.
E’ un rischio serio che può essere evitato solo se gli italiani sapranno valutare le questioni relative alla gestione del rischio in modo attento e razionale e sapranno esercitare una vera funzione di controllo sulle modalità in cui il governo spenderà il denaro delle loro tasse.
La psicosi da terremoto, come ogni altra psicosi, rischia al contrario di essere una cattiva consigliera.

Carmine
26-04-09, 18:04
INSERITO IN | Il mondo e noi
Dal Partito Marxista Leninista un grazie ad Ahmadinejad
Inserito il 21 aprile 2009
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Tags: Ahmadinejad, Berlusconi, Durban, iran, Israele, Lenin, Marx, Obama

“Non condivido le tue idee, ma combatterò fino alla morte per difendere il tuo diritto ad esprimerle”. Siamo liberali e quindi voltairiani. Ma quanto è difficile esserlo quando si leggono cose come questo comunicato del Partito Marxista Leninista Italiano…

“Alla conferenza dell’Onu sul razzismo e la xenofobia ci voleva che qualcuno dicesse una parola di verità su Israele. L’ha fatto Ahmadinejad al quale vanno i più vivi ringraziamenti da parte del Pmli. Denunciando con forza il razzismo del regime sionista e fascista di Israele il presidente della Repubblica islamica dell’Iran ha reso un enorme servizio alla causa del popolo palestinese, vittima di una politica di sterminio simile a quella praticata dal regime nazista di Hitler contro il popolo ebraico. Il suo coraggioso e franco intervento rappresenta, inoltre, un potente incoraggiamento a tutti i popoli del mondo a lottare a fianco del popolo palestinese per la Palestina libera costituita da un solo stato in cui vivono insieme palestinesi e ebrei. Consideriamo, invece, vergognoso e deplorevole l’abbandono della conferenza dei rappresentanti dell’Unione europea mentre parlava il presidente dell’Iran, nonché il boicottaggio effettuato dall’Italia del neoduce Berlusconi, dagli Usa di Obama, nuovo astro della ’sinistra’ dell’imperialismo americano, e di altri sette paesi, tutti stretti alleati di Israele. Obama, disertando la conferenza e facendo condannare dai suoi tirapiedi l’intervento di Ahmadinejad, ha dimostrato di essere antirazzista per sé e razzista verso il popolo palestinese.
Non diversamente si é comportato il segretario generale dell’Onu con la sua rampogna pro Israele contro Ahmadinejad, il quale però ha ricevuto anche molti applausi. Che lo incoraggiano a tenere sempre la testa alta, a non retrocedere di un passo nella lotta contro l’imperialismo, il sionismo e il razzismo. Alla fine questi mostri nemici dell’umanità saranno sconfitti.”

Carmine
26-04-09, 18:05
Un Vaticano troppo indulgente con Ahmadinejad
Inserito il 21 aprile 2009
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Tags: diritti umani, esteri, iran, Israele, Vaticano

- ”La Santa Sede deplora l’utilizzazione di questo forum dell’Onu per assumere posizioni politiche, estremiste e offensive, contro qualsiasi Stato. Ciò non contribuisce al dialogo e provoca una conflittualità inaccettabile. Si tratta, invece, di valorizzare tale importante occasione per dialogare insieme”.
Queste parole, incluse oggi in una nota della Sala Stampa del Vaticano, sembrano volere rimediare alle dichiarazioni rilasciate ieri sera dall’Osservatore permanente della Santa Sede a Ginevra, monsignor Silvano Tomasi, a seguito dell’infuocato intervento del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nella prima sessione della discussa Conferenza contro il razzismo, nota come “Durban 2”, che si è aperta ieri a Ginevra. Tomasi, ieri sera, si ergeva a difensore massimo della libertà di espressione, per cui, se è vero che Ahmadinejad “ha usato delle espressioni estremiste con le quali non si può essere d’accordo in alcun modo”, allo stesso tempo “nel dibattito che si svolge nel contesto della comunità internazionale che s’incontra alle Nazioni Unite ci sono delle opinioni qualche vota radicali che non possono essere condivise ma che è necessario ascoltare perché è questo l’ambiente e la natura delle Nazioni Unite: essere il forum nel quale tutte le nazioni si esprimono”. Il delegato del Vaticano giustificava così la scelta della Santa Sede di non abbandonare l’aula nella quale Ahmadinejad stava dando dimostrazione pratica del perché nove paesi (ora dieci, con la Repubblcia Ceca, presidente di turno dell’Unione Europea, che dopo essere uscita da quella sala, è l’unico paese che non vi ha fatto più rientro) avevano deciso preventivamente di boicottare questo consesso internazionale.
Il presidente iraniano, dopo le rituali formule del Bismallah, Allah il clemente e misericordioso, la menzione della Sua giustezza e onnipotenza, il ricordo e la benedizione di tutti i profeti (il tutto ripetuto per due volte perché inframmezzato dalle reazioni di un pubblico diviso tra applausi e fischi), ha presentato in poche battute un excursus delle discriminazioni che hanno afflitto l’umanità nel corso dei secoli: è bastato ricordare il Medioevo, quando pensatori e scienziati venivano condannati a morte e la tratta transatlantica degli schiavi, per terminare subito con quello che è stato poi il punto focale del suo intervento, ovvero l’oscuro periodo delle occupazioni, giungendo così a condannare il “più crudele e repressivo regime razzista in Palestina”.
Certo non è chiaro quale sia il limite di indecenza che il Vaticano deve vedere superato per reagire. La non partecipazione al coro di sdegno che ha portato numerosi delegati ad uscire, è fastidiosa, ma non costituisce il punto di critica principale, perché questo gesto plateale di fatto non ha mutato la sostanza dello scandalo, ovvero quel paradosso per cui la Conferenza contro il razzismo, per come è stata strutturata nel corso degli anni, trasforma per l’ennesima volta le Nazioni Unite in un palcoscenico dal quale demonizzare, delegittimare ed incitare all’odio.
Per giunta la Santa Sede si era già distaccata dal blocco dei paesi democratici in un’altra occasione relativa al processo di preparazione di Durban 2, ovvero quando era in discussione l’inserimento nella bozza di dichiarazione finale delle “discriminazioni a causa dell’orientamento sessuale”. A battagliare – con successo – per non inserire questa forma di persecuzione, ancora letale in troppi stati, il Vaticano si era trovato in compagnia dei paesi islamici e africani. Lo stesso schieramento scelto anche per fare opposizione al documento sulla depenalizzazione dell’omosessualità proposto all’Assemblea Generale dell’Onu nel dicembre scorso dalla Ministra francese per i diritti umani, Rama Yade.
Il problema sta a monte. Mentre gli stati dell’Unione Europea - stimolati dalla scelta premonitoria dell’Italia di disertare la Conferenza, primo paese europeo ad adottare questa svolta - si sono trovati a discutere del testo principale di “Durban 2” tentando di emendarlo e giustificando la loro presenza con la necessità di vegliare il processo, Benedetto XVI domenica ha lanciato un messaggio neutro, in sostanza un “auguri di buon lavoro” ai delegati per un’iniziativa importante per contrastare un fenomeno ancora così diffuso come il razzismo, ignorando totalmente le polemiche che da giorni – e, per chi era più sensibile all’argomento, da mesi – riecheggiavano sulla stampa, il monito che proveniva dal precedente di Durban I e il fatto che già nel week end, a Ginevra, le organizzazioni non governative si erano date da fare per demonizzare Israele, per esempio in un incontro dal titolo “conferenza di revisione di Israele”.
Il “preoccupante avallo papale di Durban 2”, così lo ha definito in una nota il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, e la scelta di rimanere ad ascoltare Ahmadinejad nel nome di una libertà di espressione esasperata fino all’ammissione dell’incitamento all’odio, fanno seguito alla revoca della scomunica al lefebvriano negazionista Williamson nel porre più di un punto interrogativo nei rapporti Vaticano-Israele. E ciò in vista dell’imminente viaggio in Israele di Papa Ratzinger, il prossimo 11 maggio, nell’ambito del pellegrinaggio in Terra Santa. Una visita che, come ci ricorda il professor Sergio Minerbi da Gerusalemme, già Ambasciatore di Israele presso la Comunità europea ed esperto di rapporti Israele-Vaticano, il Papa compie nonostante le ammonizioni di Padre Peter Gumpel, il relatore nella causa di beatificazione di Pio XII, secondo il quale il viaggio si sarebbe dovuto svolgere solo dopo che Yad Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, avesse rimosso una controversa didascalia su Papa Pacelli, accusato di non avere fatto abbastanza per salvare gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Una visita fortemente voluta da Benedetto XVI che, a pochi giorni dal suo compimento, avrebbe fatto sperare nell’adozione di un atteggiamento di condanna delle critiche doppiopesiste nei confronti di Israele.
Ecco, appunto: sperare.

Carmine
26-04-09, 18:06
La svolta liberale parte dalla giustizia
Inserito il 22 aprile 2009
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Tags: giustizia, riforme

- Ad ondate cicliche, ovvero ogni volta che fatti di cronaca particolarmente efferati colpiscono l’opinione pubblica, si torna a parlare di riforma della giustizia, soprattutto penale e la cosa non meraviglia più di tanto proprio perché il diritto penale, nella sua duplice forma sostanziale e processuale rappresenta un vero e proprio termometro per misurare il livello di civiltà di una democrazia.
L’ultimo esempio in ordine cronologico l’abbiamo riscontrato con la vicenda dello stupro della Caffarella, indagine peraltro scomparsa improvvisamente dalla cronaca giornalistica, quasi che il sacrosanto principio della segretezza delle indagini fosse tornato in auge dopo una prima fase, nella quale per giorni sono stati sbattuti i mostri in prima pagina (sul modello del caso Tortora) salvo certificare successivamente la loro innocenza.
In quei giorni in tanti, consapevolmente o meno, si sono scagliati contro la magistratura senza capire che almeno nel caso concreto i problemi erano altrove e di più ampia portata; nella mancata riforma organica della giustizia penale per esempio, che ancora una volta stenta ad arrivare; nell’assenza di forza, da parte dei governi via, via succedutesi nel tempo, di imporre una propria visione moderna e garantista del diritto penale anche a costo di entrare in conflitto con alcune correnti conservatrici e reazionarie della magistratura che da sempre si sono opposte a qualunque riforma che abbia interessato la giustizia penale: le stesse correnti − per intenderci − che da subito hanno contestato con veemenza la riforma di stampo accusatorio del codice di procedura penale del 1988, anche grazie all’aiuto di una Corte Costituzionale, che operando “chirurgicamente” su alcune disposizioni chiavi del codice di rito ne ha di fatto smontato l’intero impianto basato sul principio “puro” dell’oralità della prova nel dibattimento, che quella riforma aveva avuto il merito di introdurre. Da quel momento, infatti, tutti i successivi interventi del legislatore, sia a livello ordinario che costituzionale, sono sempre stati il tentativo di riparare agli interventi della Consulta; da questo punto di vista la storia del processo penale è in un certo senso una lunga partita a due tra legislatore ed il Giudice delle Leggi.
Necessità di un nuovo ripensamento del rito penale (oltre che del codice sostanziale), dunque, che parta da quello che di buono già c’è nel nostro processo, “depurandolo” dalle disposizioni inutili, obsolete e contraddittorie che negli anni si sono stratificate e sovrapposte: più che una riforma intesa nel senso letterale del termine, una razionalizzazione degli istituti, insomma.
Sotto alcuni aspetti questa strada è già stata imboccata: qualcosa di buono è stato fatto per quello che riguarda i cosiddetti procedimenti speciali, allargando le possibilità di patteggiamento e l’operatività del rito abbreviato ed introducendo nel sistema nuove forme di giustizia premiale: nonostante facili e superficiali conati demagogici abbiano nel corso degli anni contestato questo genere di procedimenti, l’esperienza ha dimostrato come il carattere deflativo che tali meccanismi introducono abbia tentato di risolvere, tra gli altri, uno dei principali problemi della nostra giustizia, cioè l’ingolfamento delle Procure del paese, oltre a rendere più celeri i singoli processi.
Al governo in carica dunque spetta l’arduo compito − ed è questa la vera sfida − di mettere mano ad un vespaio, assumendosi la responsabilità di compiere atti anche impopolari se necessario ma comunque indispensabili a modernizzare un sistema penale che ad oggi si dimostra sempre di più in necrosi avanzata.

Carmine
26-04-09, 18:06
Buono-scuola: sì alla scuola libera, no alla ‘scuola unica’
Inserito il 23 aprile 2009
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Tags: riforme, scuola

- Il buono-scuola va visto in relazione a − e come conseguenza di − una valida visione dell’apprendimento e una competizione corretta tra scuole.
Ciò che costituisce una persona umana è l’apprendimento razionale, cioè competente: parte da bisogni ed attese, attiva la dimensione logica e astratta della conoscenza (problemi-teorie-critiche) e perviene all’azione libera e motivata di risposta, in un miglioramento continuo, ai bisogni ed alle attese, sempre in evoluzione. E’ proprio la dimensione razionale e libera dell’apprendimento che costituisce la persona umana, ne permette la crescita a livello umano, cioè libera e motivata, lungo tutta la vita. L’uomo non è addestrato: apprende. L’addestramento e l’indottrinamento sono manipolazione delle coscienze in vista del consenso.
L’uomo, ogni uomo, deve essere libero di scegliere i propri educatori e maestri. Per questo, fino a che è minorenne, suoi maestri ed educatori sono i genitori, che non hanno compiuto per lui un mero atto di filiazione, ma lo hanno generato e sono tenuti a farlo crescere secondo un personale progetto di vita.
La libertà di scelta dei maestri – e logicamente delle scuole – può avvenire solamente quando vi è un pluralismo delle istituzioni educative, scolastiche e formative e le autorità pubbliche sono garanti sia della libertà di scelta da parte dei cittadini che dell’effettivo pluralismo delle varie organizzazioni di insegnamento.
Gli Stati formalmente hanno dichiarato di volere l’istruzione obbligatoria per tutti e hanno inteso renderla gratuita. Di fatto, l’hanno sovvenzionata per mezzo delle imposte ed hanno reso obbligatoria la scuola unica, ai fini del consenso.
Il risultato? Già nel 1855 Karl Marx si era accorto che l’istruzione secondaria gratuita era pagata da tutti – e quindi in quantità maggiore dai poveri, che erano in numero molto maggiore – ma ne usufruivano quasi solamente i ricchi. Ancora oggi l’esito positivo nelle università è ottenuto tra poveri e ricchi nella proporzione da 1/10 in Inghilterra e fino a 1/50 nel Messico: un solo povero si laurea insieme a 10 o 50 ricchi. Ma le imposte sono pagate da tutti ed i poveri pagano anche per i ricchi.
Se non si vuole far pagare direttamente da tutti l’istruzione, con il rimborso delle spese sostenute, parziale o totale, per coloro che l’hanno meritato, documentando il loro percorso formativo; se si vuole mantenere il regime delle imposte, la soluzione che permette una libertà di scelta effettiva è il riconoscimento di un buono-scuola o voucher, o di una dote per l’istruzione ad ogni studente. L’importo verrà versato alle istituzioni presso le quali gli aventi diritto si iscriveranno per frequentare i rispettivi percorsi formativi. In questo modo saranno premiate le scuole migliori, perché le persone interessate scelgono quanto vi è di meglio sul mercato: l’interesse cattura l’informazione.
In Italia viene avanzata l’obiezione che molti non sono interessati alla formazione, ma al mero titolo di studio. Il titolo di studio con valore legale è una falsificazione della realtà e della serietà degli studi, come ha dichiarato Luigi Einaudi in Assemblea Costituente; e scritto Luigi Sturzo fuori dell’Assemblea: «Il titolo vale la scuola» e «finché la Scuola in Italia non sarà libera [a cominciare dalla scuola di Stato], neppure gl’italiani saranno liberi».

Carmine
26-04-09, 18:07
Diseguaglianza, redistribuzione: gli effetti della crisi
Inserito il 23 aprile 2009
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Tags: Fisco, Mercato, Seminerio

- Alcune interessanti riflessioni di Alberto Alesina e Paola Giuliano su come la crisi potrebbe aver modificato le preferenze degli americani per la redistribuzione, oltre che ridotto la loro accettazione delle diseguaglianze di reddito e ricchezza. Articolo tutto da leggere, di cui segnaliamo un paio di paragrafi:

Quanti si sono arricchiti con complicati strumenti finanziari e sofisticati investimenti in derivati sono ora visti come non meritevoli della propria ricchezza. Gli straordinari bonus di alcuni manager incompetenti, soprattutto quelli salvati dai contribuenti, non hanno certamente aiutato a far loro acquisire solidarietà. Malgrado ciò, un attacco frontale al mondo della finanza è puro populismo. La finanza serve ad uno scopo molto produttivo.

Concordiamo da sempre sulla criticità dei mercati finanziari come architrave dell’economia di mercato, ma è innegabile che oggi il rischio è quello di avere mercati microgestiti dal potere politico, ed in ultima analisi non-mercati, dominati da quella oligarchizzazione capitalistica che da sempre impedisce lo sviluppo e l’innovazione. Ma il punto di Alesina e Giuliano è comunque meritevole di attenzione: andiamo verso un’epoca di minore tolleranza verso la diseguaglianza di reddito e ricchezza, e possiamo attenderci che l’elettore mediano chieda alla politica maggior redistribuzione e maggiore “punizione” fiscale dei più abbienti, anche come risarcimento simbolico per una crisi che appare sempre più simile ad una gigantesca truffa. Sempre Alesina e Giuliano:

Perciò, questa crisi può aver cambiato l’atteggiamento degli americani verso la diseguaglianza. Se essi percepiranno la diseguaglianza come iniqua, richiederanno più redistribuzione. La tradizionale avversione degli americani per la tassazione può cedere il passo ad uno stato d’animo che definiremmo “spennare i ricchi”.

Che fare, quindi?

Maggiori tasse saranno necessarie per gestire l’esplosione dei deficit di bilancio. Prevediamo che anche la progressività del sistema fiscale aumenterà, perché l’elettore mediano lo richiederà. I politici dovrebbero resistere a tali misure populistiche. Aumentare la base imponibile anziché le aliquote è il modo migliore per aumentare le tasse sui ricchi. Una semplificazione della bizantina legislazione fiscale, dove i ricchi possono spesso occultare reddito, è da tempo attesa.

Nel giorno in cui il Regno Unito apre ufficialmente la stagione del populismo fiscale, con l’annuncio dell’aumento della aliquota massima dell’imposta personale sui redditi di ben dieci punti percentuali, misura destinata a produrre assai poco gettito ma molto plauso populista, la ricetta di Alesina è da prendere più che mai in attenta considerazione. Ma in ogni circostanza e sotto ogni congiuntura occorrerebbe perseguire l’obiettivo della semplificazione fiscale, per ampliare le basi imponibili e mantenere invariate (o ridurre) le aliquote d’imposta almeno a parità di gettito. Ciò servirebbe a ridurre le distorsioni ed i disincentivi all’offerta causati da elevate aliquote nominali, anche senza cercare soluzioni taumaturgiche come la flat tax. Oggi, invece, il rischio è quello di un ritorno del primato della politica “in negativo”, come brokeraggio di interessi particolari, e la compressione degli spazi di libertà che un mercato funzionante può offrire. Compito del legislatore dovrebbe invece essere la manutenzione dell’infrastruttura di mercato.

Carmine
26-04-09, 18:07
Ron Paul, la rivoluzione che ci manca
Inserito il 24 aprile 2009
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Tags: libri

- La casa editrice Liberilibri ha appena pubblicato The Revolution. A manifesto di Ron Paul sotto il titolo La terza America, nella traduzione di Stefano Cosimi.
La casa editrice Liberilibri ha appena pubblicato The Revolution. A manifesto di Ron Paul sotto il titolo La terza America, nella traduzione di Stefano Cosimi.
Nel leggere questo saggio gli italiani affezionati al pensiero libertario saranno colpiti da un doppio sentimento di soddisfazione e amarezza.
Soddisfazione per vedere declinati i principi più puri del pensiero libertario in un programma politico molto concreto; amarezza perché quel programma non è stato scritto da un politico italiano, ma da uno dei candidati alle recenti elezioni presidenziali americane, che – ahinoi – non trova omologhi nel panorama politico nazionale.
Ron Paul è forse il politico americano più legato al pensiero libertario e alla Scuola economica austriaca. Eletto per la prima volta al Congresso nel 1976, tornò dopo pochi anni alla vita privata e all’esercizio della professione medica fino al 1985, quando venne di nuovo rieletto parlamentare.
Rigorosamente ligio al pensiero anarco-individualista sia nella sua attività politica che nella vita privata (ha rinunciato all’indennità parlamentare; offre cure gratuite ai pazienti indigenti, al di fuori dei programmi assistenziali; ha finanziato in proprio l’educazione dei figli, senza affidarsi all’istruzione pubblica), durante la campagna presidenziale del 2008 ha goduto di consensi talmente ampi da raccogliere in un giorno solo 10 milioni di dollari da donazioni individuali.
In corsa per le presidenziali del 2008, pur avendo ottenuto il maggior numero di finanziamenti privati, è stato il candidato forse più snobbato dai media americani (per non parlare di quelli italiani), concentrati sulle contrapposizioni – spesso più fittizie che reali – tra republicans e democrats.
The Revolution, nato come programma per le elezioni presidenziali del 2008, ha finito per diventare il nuovo manifesto del pensiero libertario moderno, aggiornato alle più attuali questioni come la crisi dei mercati e delle borse di tutto il mondo.
Le sue idee, che lungi dal rimanere astratte sono indirizzate all’individuazione di soluzione pratiche ai principali problemi che la politica americana deve affrontare, sono del tutto originali, se lette come punti concreti di un’agenda politica presidenziale, oltre che coerenti, se analizzate sotto il profilo della fedeltà al modello teorico liberale, così spesso evocato quanto inapplicato.
Nel libro, Paul parte da una precisa accusa alla politica americana. Essa illude gli elettori di poter scegliere tra opzioni politiche apparentemente diverse, ma in realtà identiche nel chiedere “un po’ più delle solite cose”, ovvero “più governo […], più inflazione, più misure poliziesche di Stato, più guerra senza necessità e più centralizzazione del potere” (p. 13).
All’accusa fa seguire proposte politiche trasversali sia alla destra che alla sinistra, sia ai conservatori che ai progressisti. Propone un’America conservatrice dei valori tradizionali, ma al tempo stesso capace di cambiare le proprie regole quando la società civile si dimostri pronta a un’evoluzione dei costumi; prospetta un governo non più “poliziotto del mondo”, impegnato in guerre che inevitabilmente rendono il paese più povero e meno sicuro; ammonisce circa l’impossibilità di sostenere i costi attuali dell’assistenza sociale, puntando sul mercato come fonte di benessere sociale e ricordando che non c’è minestra che lo Stato possa passare gratuitamente; esprime contrarietà verso ogni legislazione proibizionistica, lasciando alle famiglie e alle realtà sociali ogni compito educativo; sottolinea l’arroganza rispetto al Congresso del potere esecutivo, che è andato ben al di là delle prerogative e dei poteri concessi dalla Costituzione; chiede un maggior rispetto dei diritti di libertà da parte di un regime inutilmente “poliziesco”, soprattutto dopo l’11 settembre; individua le ragioni della crisi dei mercati finanziari nell’indebitamento pubblico e nella politica della FED, piuttosto che nel libero mercato, tanto da proporre la libera concorrenza anche della moneta.
The revolution, che negli USA è risultato primo nella classifica dei best seller edita dal «New York Times», rappresenta una lettura fondamentale per comprendere l’utilità del pensiero libertario rispetto alle attuali problematiche economiche e sociali che affliggono non solo l’America, ma la maggior parte degli Stati contemporanei.

Carmine
26-04-09, 18:07
W il 25 aprile! Ma l’Italia non è stata del tutto ‘liberata’.
Inserito il 25 aprile 2009
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Tags: 25 aprile, Costituzione, Menegon, resistenza

- Il Presidente Napolitano ha chiesto e ottenuto che quella della Liberazione fosse una festa di tutti. E così sarà. Del resto, è una festa che commemora la data che ha restituito la libertà e la dignità all’Italia e agli italiani: un evento che appartiene storicamente anche a quanti, per anni, ne hanno beneficiato senza riconoscerne (anzi disconoscendone) il significato. Eppure, a distanza di 64 anni, le polemiche proseguono, senza sintonia né coerenza con lo spirito che dovrebbe animare la celebrazione di questa ricorrenza. E suscita più di una perplessità il tentativo di sindacare il modo in cui i diversi esponenti politici scelgono di parteciparvi. La resistenza non è stata “una” e “uno”, a distanza di tanti anni, non può essere il modo di celebrarla.
Il 25 aprile 1945 le truppe tedesche lasciavano Milano e Torino e gli anglo-americani entravano a Parma. Il Nord Italia era libero, anche grazie all’azione delle forze partigiane. In senso stretto, oggi si commemora la fine dell’occupazione nazista e della guerra in Italia, nonché la fine del regime fascista. Anche altri eventi successivi meritano però di essere oggi rievocati, perché hanno dato pienezza al significato della Liberazione: il ritorno alla liberaldemocrazia e la connessa, ma pesantemente controversa, opzione euro-atlantica.
Nel nostro paese, tuttavia, la data del 25 aprile è stata ideologicamente rivendicata da alcune forze politiche come un appannaggio esclusivo. Le ragioni per le quali tradizionalmente un alto numero di bandiere rosse colora ogni anno le manifestazioni per la Liberazione riflettono sia l’effettiva preponderanza numerica dei militanti socialisti e comunisti all’interno del movimento partigiano sia l’irragionevole pretesa di volere “rossa” la radice primigenia della democrazia italiana.
Non si può ignorare la notevole consistenza in seno al movimento della Resistenza delle componenti cattolica e azionista, riorganizzatesi in partiti già nel 1942; così come non va dimenticata la partecipazione al movimento partigiano di monarchici, liberali e repubblicani. Molti dei più significativi stimoli intellettuali dell’antifascismo erano stati offerti da Benedetto Croce e dai salveminiani riunitisi attorno all’associazione “Italia Libera” e alla rivista “Non mollare” come il futuro radicale Ernesto Rossi e Nello Traquandi. Ma soprattutto non si può ignorare che il compimento democratico del 25 aprile 1945 segna la data del 18 aprile 1948, con le elezioni che sancirono la sconfitta del fronte social-comunista, cioè del “partito della Resistenza” di stretta osservanza staliniana.
Nella festa della Liberazione merita un tributo chiunque v’abbia contribuito. Ma non si può tacere la diversità dei propositi che animavano le forze partigiane. A sinistra, il compromesso politico raggiunto negli anni successivi deludeva le fazioni delle Brigate Garibaldi che mantennero le armi fino al 1951 in attesa della rivoluzione proletaria. Persino nella trentesima ricorrenza della Liberazione, Enrico Berlinguer auspicava dalle colonne di Rinascita una “seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista” per introdurre elementi di socialismo.
La delusione era avvertita anche altrove e per altre e diverse ragioni. Pietro Calamandrei parlava di Resistenza tradita, rivoluzione promessa e rivoluzione mancata, salvo avvertire una nuova speranza nel 1956, commentando la prima sentenza della Corte Costituzionale che annullava alcune norme della legge fascista di Pubblica Sicurezza in un articolo dall’evocativo titolo: “La Costituzione si è mossa”. Nel dopoguerra, da più parti si chiedeva un rinnovamento più vigoroso delle istituzioni ed un processo di democratizzazione radicale che aprisse più canali alla partecipazione popolare (ricordiamo che l’istituto referendario ha visto la luce con grande ritardo, dopo che per 23 anni il dettato costituzionale era rimasto inattuato).
Oggi, con tutta evidenza, anche chi guarda alla storia da una prospettiva liberale, liberista e libertaria può insieme celebrare la festa della Liberazione ed avvertire i limiti di un processo storicamente incompiuto. La Liberazione (e la Costituzione) non è stata così “liberatrice” e ancora oggi la difesa “feticistica” di alcuni aspetti di quel complesso equilibrio politico-istituzionale che sovraintende ai riti della democrazia italiana lascia più di una ragionevole perplessità non solo in chi avrebbe auspicato allora, ma soprattutto in chi vorrebbe almeno ora che il Paese si incamminasse su di una strada non segnata dalle paure e dai tabù del dopoguerra.
La Liberazione ci ha fatto dono della democrazia, della pace, delle libertà politiche, di molte libertà civili. La scelta euro-atlantica ci ha consentito di godere di invidiabili libertà in campo economico e di una invidiabile sicurezza in campo geopolitico, precedentemente limitate dal regime corporativo, dall’autarchia e dall’avventurismo “imperiale” del regime fascista. Il ritorno al libero commercio internazionale e la fine dell’isolamento strategico del Paese sono stati probabilmente il volano della rinascita economica di cui l’Italia ha beneficiato nel secondo dopoguerra.
Eppure, la totale rottura con alcuni cardini del fascismo non è probabilmente mai avvenuta. Del ventennio fascista, non rimane una memoria nostalgica e reducistica, confinata ormai nelle estreme periferie della contestazione e dell’eversione e politicamente morta con i suoi protagonisti. Rimane invece tanto salda, quanto forse inconsapevole e inavvertita, una sorta di cultura civile e burocratica che vede nello Stato “forte” e interventista uno strumento salvifico in tempi di crisi morale e materiale, civile ed economica.

Carmine
26-04-09, 18:08
Basta con la politica dei nominati. L’Italia liberale c’è, e si farà sentire con le primarie
Inserito il 26 aprile 2009
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Tags: articoli, intervista, Libertates, primarie, Teso

- Intervista di Alessandro Trevisani ad Adriano Teso - da www.libertates.com -

Teso, c’è febbre di primarie. Bordon, Taradash e Calderisi le invocano come una panacea.
Io dico che realizzerebbero un articolo dimenticato della nostra costituzione, quello che prevede la democrazia interna nei partiti.
Panebianco dice che sono un sogno impossibile.
In realtà c’è tanta gente disposta a battersi per uscire da questo sistema, dove i deputati sono nominati dal principe.
Esempio?
Gianfranco Fini, nel discorso al congresso fondativo del Pdl, ha ricordato che non vuol essere nominato, ma eletto.
E Berlusconi?
È andato in un’altra direzione, sacrificando qualche buon principio all’efficienza e alla tenuta del governo.
E il governo tiene benissimo. Che bisogno c’è dei liberali?
In base ai sondaggi poco meno del 50% degli italiani si dichiara laico e liberale.
Anche Berlusconi.
Sì, ma se il popolo capisce che è un discorso di facciata, allora finisce che spunta il rivale.
Un altro partito?
Un raggruppamento delle forze liberali, ora sparpagliate, che potrebbe raccogliere fino al 15%.
Ma anche di meno. Che facciamo coi “partitini”? Hanno retto al maggioritario, e contano ancora tantissimo.
Mi piace il sistema tedesco, proporzionale con lo sbarramento al 4%.
E l’uninominale?
Non serve, se permettiamo a ogni cittadino di candidarsi di diritto alle primarie del suo partito. E se creiamo collegi ristretti, dove soltanto chi risiede da alcuni anni può essere eletto.
Sarebbe come negli Usa, ciascuno potrebbe iscriversi a un partito e decidere, votando alle primarie, i candidati alle elezioni nazionali.
Esatto. Le liste per le elezioni politiche sarebbero compilate dai cittadini. Tanto varrebbe, allora, bloccarle per evitare campagne elettorali dai costi folli e a rischio corruzione.
Il referendum di Guzzetta propone un premio al primo partito.
Per avere stabilità basterebbe vincolare per legge i partiti a governare con gli alleati scelti prima delle elezioni. Si eleggerebbe direttamente il presidente del Consiglio. Se in Parlamento viene meno la maggioranza, si torna automaticamente al voto. Così chi volesse fare cambi in corsa, come la Lega nel ‘95, se ne andrebbe a casa con gli altri.
L’election day unirebbe europee e referendum.
È una cosa opportuna, Fini e molti altri, gente di peso, lavorano per chiuderla col sistema dei “nominati”. Il referendum è una provocazione nella giusta direzione.
Gente di peso? Chi?
Lo stesso Berlusconi non ha riserve di sorta sul referendum, ha detto che il Pdl deciderà a maggioranza.
Per il cambiamento servono anche i giovani. Obama da noi sarebbe un ragazzino.
Ma un “vecchio” capace non deve certo farsi da parte per un giovane che è solo giovane.
Internet aiuta il cambiamento?
Sì, ma dopo aver gettato l’amo dell’innovazione occorre staccarsi dallo schermo e incontrarsi. Gli industriali, i finanzieri, pensano a se stessi, i politici altrettanto.
Che fare?
Scambiare informazioni, conoscenze. Incrementare una filosofia della nazione, dove ciascun corpo non rimane staccato dagli altri, ma comunica, trasmette saperi. Il 90% delle leggi discusse in Parlamento verte sull’economia. Ma quanti deputati sanno cos’è la partita doppia? E non sono i docenti a dare le soluzioni: sulle imprese gravano troppe tasse. Il sistema pensionistico è uno sfruttamento delle generazioni più giovani, che pagano la vecchiaia ai papà.
Lei, come Gianfranco Fini, invoca gli stati generali dell’economia.
Ci vuole l’incontro dei saperi. Industria, finanza, sindacato devono trovare un obiettivo comune. Che Italia vogliamo fra dieci anni? Ciascuno dichiara le sue esigenze, ma la politica deve ascoltare e fare la sintesi. O resteremo sempre parrocchie separate.
In balìa dei “nominati”.
Le ripeto, c’è molta gente, anche di peso, disposta a battersi.

Carmine
26-04-09, 18:09
Sbagliato lasciar morire il referendum per mancanza di quorum Italia
Inserito il 24 aprile 2009
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Tags: articoli, Berlusconi, Della Vedova, l'occidentale, referendum

- da l’Occidentale -

Il direttore Loquenzi s’interroga su quale possa essere il destino dei prossimi referendum elettorali. Di più, auspica che dopo il voto per le elezioni europee nella campagna per il Sì scenda in campo in prima persona Silvio Berlusconi. Condivido l’auspicio, e non solo perché quel referendum l’ho firmato e lo voterò (anche se volevo l’abbinamento con le elezioni europee e, una volta tramontata l’ipotesi, pensavo più ragionevole il rinvio all’anno prossimo), ma perché credo sarebbe politicamente sbagliato lasciarlo morire per mancanza di quorum.
Il referendum nasce all’indomani del voto politico del 2006 per porre rimedio alla libanizzazione della politica italiana conseguente alla prima applicazione del “porcellum”, con il proliferare di micropartiti e microgruppi parlamentari. Nel 2008 la musica è cambiata: due grandi partiti con un solo alleato ciascuno si sono confrontati per il governo del paese. Risultato: maggioranza netta in ambedue le Camere e drastica riduzione dei gruppi parlamentari. Bene. Ma per il futuro? A chi sostiene che il referendum sia stato superato dai fatti della politica, dobbiamo ricordare che la legge attuale continua ad incentivare e premiare la frammentazione e che nulla esclude che le prossime elezioni ripropongano lo schema libanese contro quello bipolare-bipartitico. Abbiamo introdotto lo sbarramento al 4 per cento per le elezioni europee, ma alle prossime politiche, potremmo di nuovo ritrovarci con partiti in parlamento grazie all’1 per cento (con finanziamento pubblico al seguito). Ci sono, dunque, eccellenti ragioni perché il Cav in persona scelga di cavalcare il referendum al fine di consolidare l’attuale assetto politico. A maggior ragione dopo la nascita del “suo” Pdl.
La Lega ha remato e remerà contro. Si capisce: l’assetto attuale è perfetto per essere “di Governo” quando serve e “di lotta” quando conviene (cioè per spararle grosse su sicurezza e immigrazione onde cercare di togliere voti al Pdl). Ma fermarsi all’astensione per non irritare Bossi rischia di rivelarsi una scelta miope, perché nulla impedirà in futuro che la Lega prosegua incessante la sua campagna elettorale ai danni del Pdl con il probabile risultato di minare la solidità della coalizione.
Sia chiaro: per quel mi riguarda il referendum non va vinto per rompere con la Lega, ma, all’opposto, per dare all’alleanza con i lumbard una strategia di lungo termine.
Dopo l’eventuale vittoria del sì – al di là di possibili usi opportunistici della legge elettorale, possibili con qualunque legge elettorale, che potrebbero addirittura accrescere la maggioranza parlamentare della coalizione – si potrebbe immaginare un patto federativo che consolidi in un’unica lista l’alleanza su scala nazionale. Il Pdl non ha alcun interesse a escludere dalla maggioranza di governo una forza tanto radicata nella parte economicamente più forte del paese.
Di più: a referendum celebrato e vinto, si potrebbe aprire la partita della riforma elettorale che, cogliendo l’indicazione al non ritorno al passato degli elettori, riscriva le regole confermando l’impianto maggioritario e bipartitico ma anche consentendo, ad esempio con una drastica riduzione della dimensione delle circoscrizioni, di recuperare la rappresentatività territoriale degli eletti e perfino, se lo si vorrà, di istituire un diritto di tribuna per le forze minoritarie.
Concordo con Giancarlo Loquenzi: vi sono molte buone ragioni perché il Berlusconi riformatore si faccia carico anche del referendum.

DELLA VEDOVA su L'OCCIDENTALE

Carmine
26-04-09, 18:10
INSERITO IN | Archivio Evidenza, Partiti e Stato

Il Pdl e i conti con Montanelli
di P.Falasca (Vicepresidente di Libertiamo)


Inserito il 23 aprile 2009
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Tags: Berlusconi, Falasca, Montanelli, PdL, politica

Oggi, cent’anni fa, nasceva Indro Montanelli. Per molti, ed io sono tra questi, è stato il più grande giornalista italiano. Ci ha raccontato l’Italia, gli italiani, la loro storia. Era un uomo del Novecento, un anti-eroe di un secolo che ha avuto fin troppi eroi.
Montanelli non approvò la “discesa in campo” di Berlusconi, probabilmente non ne comprese la portata, non la riteneva opportuna. Lo stesso giornalista dichiarò in seguito che tra lui e il Cavaliere (proprietario de Il Giornale, di cui Montanelli era “padrone”) vi era stata una “separazione consensuale”. Come aveva fatto per tutta la vita, anche in quell’occasione fu molto esplicito nel suo giudizio: “Ho già conosciuto un uomo della Provvidenza e mi era bastato”.
Nel 2001 – poco prima delle elezioni politiche – usò parole altrettanto dure: “Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, al Quirinale, al Vaticano, dove vuole. Soltanto dopo saremo immuni.”
Potremmo pensare che Montanelli banalmente sbagliasse e che lui fosse un liberale novecentesco incapace di concepire (e di concepirsi in) in partito di maggioranza e di massa. Potremmo anche dire che non si può interpretare la Seconda Repubblica con gli occhi del Novecento, quel secolo breve che va dal primo dopoguerra alla caduta del Muro di Berlino. Eppure sappiamo che i giudizi di Indro Montanelli erano intrisi di quella sana e autentica diffidenza liberale e conservatrice per il potere “salvifico”, per l’uomo del destino, per le venature populiste di una politica totalmente disintermediata.
Oggi, a cent’anni dalla nascita del grande Indro, non possiamo non fare i conti con lui. Nei suoi scritti c’è un pezzo importante del sostrato culturale del centrodestra, ma quei giudizi pesano come un macigno.
Per includerlo nel pantheon del grande partito liberale e moderato, che il Pdl vuol essere per i prossimi decenni, dobbiamo fare i conti con Montanelli.

Carmine
04-05-09, 11:35
INSERITO IN | Economia e mercato
Malpensa, tra liberalizzazioni e accordi bilaterali
Inserito il 28 aprile 2009
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Tags: Alitalia, De Mattia, Malpensa

- L’aeroporto di Malpensa, dopo la gravissima crisi seguita al progressivo abbandono di Alitalia dal marzo 2008, si sta lentamente riprendendo. Lufthansa, attraverso il nuovo brand Lufthansa Italia, ha intenzione di far rientrare Malpensa nel suo circuito multi-hub. Da fine febbraio ha aperto una decina di rotte per destinazioni italiane (Roma Fiumicino, Bari, Napoli) e europee (Bruxelles, Lisbona, Londra, Budapest, Bucarest, Parigi, Madrid, Barcellona). E’ ormai chiaro che accrescerà il numero delle città servite anche nei prossimi mesi, sia in Italia che in Europa, con l’obiettivo a lungo termine di ampliare il network dall’aeroporto varesino anche a destinazioni extraeuropee.
Proprio queste sono oggi le rotte maggiormente scoperte, tenuto conto che, per esempio, Alitalia opera da Malpensa solo su tre rotte intercontinentali.
L’obiettivo di Sea, della Regione Lombardia e del Comune di Milano è proprio quello di ripristinare un discreto numero di rotte a lungo raggio.
Come cercare di raggiungere questo scopo?
La soluzione ideale sarebbe quella di una liberalizzazione completa delle rotte extraeuropee. In questo modo, attuando il regime di open skies, qualunque compagnia aerea potrebbe ottenere i diritti per volare su Malpensa e verso qualsiasi destinazione. Già è cosi all’interno dei confini dell’Unione Europea e da poco anche verso gli Stati Uniti: ciò comporta che una compagnia disponga di una maggiore autonomia operativa sui voli, non essendo subordinata ad alcuna autorizzazione preliminare.
Grazie alla liberalizzazione completa dei voli per le città americane queste ultime saranno sicuramente coperte nei prossimi mesi, nonostante la forte crisi economica che limita gli investimenti delle compagnie aeree.
Ma sono il Sud-America, l’Estremo Oriente e l’India le zone che maggiormente evidenziano la crisi dell’aeroporto lombardo. Moltissimi stati non sono raggiungibili direttamente, con inconvenienti che chiunque e soprattutto la clientela business vorrebbe evitare.
Quando politici e alcuni esperti del settore dicono che Malpensa può essere salvata solo con una liberalizzazione completa delle rotte prefigurano una soluzione che risulta però oggettivamente alquanto utopistica.
Una liberalizzazione delle rotte tra due paesi può essere attuata solo attraverso un cosiddetto “bilaterale”, cioè un accordo tra due paesi sui diritti di volo e atterraggio per le diverse compagnie nazionali sui rispettivi aeroporti. Ma ottenere un risultato del genere non è così facile, perché sono moltissimi i paesi che non hanno alcuna intenzione di liberalizzare le rotte per non penalizzare le proprie compagnie di bandiera, che oggettivamente verrebbero danneggiate da una situazione di libera concorrenza.
Per questo motivo anche se il governo italiano proponesse una soluzione del genere ad altri paesi, con forti compagnie di bandiera, ne riceverebbe indietro, quasi sicuramente, un rifiuto.
Inoltre in una strategia di “ritorno all’hub” avere numerose compagnie in lotta solo su determinate rotte potrebbe compromettere la possibilità di costruire uno schema di feeder dagli aeroporti minori per i transiti su Malpensa.
Quindi cosa deve fare il Governo? L’emendamento della Lega per l’apertura immediata dei bilaterali non serve e non è servito a nulla, visto che questi potevano già essere discussi prima e che per un accordo ci vuole molto tempo (anche due anni, in alcuni casi).
Molto più utile la deroga prolungata a minimo 3 stagioni IATA (International Air Transport Association) che corrispondono ad almeno 18 mesi, per chi faccia richiesta di operare su una rotta. Prima nessuna compagnia internazionale si prendeva il rischio di servire una destinazione per il timore che, dopo la deroga (che era di una sola stagione IATA), il diritto di volo non fosse confermato.
Ora qualunque compagnia che chieda di operare su una determinata rotta, nel caso in cui i bilaterali lo consentano, ottiene immediatamente questa possibilità che dura a lungo nel tempo.
Inoltre, sarebbe già un passo avanti concedere maggiori frequenze, sempre dove sia permesso dal bilaterale, visto che molte rotte soffrono di sottocapacità per carenza di voli.
In ogni caso è il ministro degli Esteri, in accordo con il ministro delle Infrastrutture, ad avere il compito più importante.
Fino al 2008 si è sempre cercato di convogliare la maggior parte dei vettori stranieri su Roma, sia per garantire più accessibilità alla capitale sia per salvaguardare una forma di monopolio per Alitalia sul suo secondo hub di Milano Malpensa: ora i tempi sono cambiati ed è il momento di rivedere la maggior parte di questi bilaterali.
Alitalia non ha più un hub a Malpensa, la situazione è completamente cambiata e il principale aeroporto milanese non può svilupparsi su determinate rotte a causa delle condizioni stabilite nei precedenti bilaterali.
Molte compagnie hanno fatto richiesta per volare su Malpensa, ma devono attendere la modifica dei bilaterali, che come già detto favoriscono Fiumicino e Alitalia.
Le difficoltà negli aggiornamenti dei bilaterali tra l’Italia e la maggior parte dei paesi extraeuropei non risiede solo nei lunghi tempi tecnici, ma anche nel fatto che, a seconda degli stati coinvolti, mutano i termini dell’accordo.
Oltre ai problemi che riguardano Malpensa, per quanto attiene al “sistema Milano” dovrà assolutamente essere ripreso in considerazione lo scandaloso monopolio sulla rotta Milano Linate-Roma Fiumicino, la più redditizia d’Europa. A ciò si aggiunge che anche su molte altre tratte nazionali, tipo la Roma-Palermo, c’è un sostanziale monopolio (e in questi casi non c’è la concorrenza del treno) con Alitalia/Air One che controlla l’80% dell’offerta. Insomma, Malpensa a parte, ci troviamo di fronte a una pericolosa assenza di concorrenza anche su molte tratte nazionali.

Carmine
04-05-09, 11:36
INSERITO IN | Economia e mercato
Quanti sono i poveri? Anche questo è un problema
Inserito il 29 aprile 2009
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Tags: Cazzola, povertà, social card, welfare

- A stare ai dati dell’Agenzia delle Entrate e alle indagini sulla povertà dell’Istat e degli Istituti di ricerca le persone non abbienti, in Italia, sono milioni. E tante famiglie – in numero sempre crescente – non arriverebbero alla fine del mese (usiamo il condizionale perché di tali situazioni non esistono statistiche ufficiali). Il fatto è che, quando li si vanno a cercare, i poveri non si trovano o risultano essere sempre in numero minore di quelli previsti.
Sono stati resi noti, in questi giorni, da parte del coordinatore nazionale dei Centri di assistenza fiscale Valeriano Canepari, i dati (alcuni effettivi, altri stimati in modo serio) relativi ai bonus famiglia e alla social card , due provvedimenti “inclusivi” disposti recentemente dal Governo Berlusconi. Cominciamo dal bonus famiglia, prendendo a riferimento i dati “gestiti” dal sistema dei Caaf , dall’Inps e dall’Inpdap (escludendo quindi le pratiche svolte dai consulenti, dai liberi professionisti e in generale individualmente dai singoli interessati).
Sono 1,7-1,8 milioni le domande di famiglie aventi diritto trasmesse ai due maggiori enti previdenziali, a cui vanno aggiunte altre 400mila domande girate dai Caaf all’Agenzia delle entrate. Sono 350mila circa quelle che i Centri hanno trasmesso ai sostituti di imposta privati o pubblici (aziende e pubbliche amministrazioni). Fin qui si è trattato delle domande presentate entro il 28 febbraio con riferimento ai redditi del 2007. Si calcola che dopo quella data (e relativamente ai redditi del 2008) vi saranno altre 350-400mila domande. Si arriva così, all’incirca, a quota tre milioni. Aggiungendo a tali casi, “gestiti” dai Caaf e dagli enti previdenziali, quelli relativi alle altre possibili modalità citate, gli esperti stimano che in tutto si arriverà a quattro milioni di famiglie titolari del bonus. Esattamente la metà di quelle previste. Va sottolineato che pure un risultato siffatto è tutt’altro che disprezzabile, ma ancora una volta le previsioni si sono rivelate sbagliate per eccesso.
Anche per quanto riguarda la “social card” gli utenti – si stima – finiranno per essere 600mila rispetto ai prefigurati 1,2 milioni .Non è la prima volta che le misure a favore dei poveri vengono ridimensionate a confronto con la realtà. Quando nel 2001, l’allora Governo Berlusconi approvò l’aumento ad un milione di lire mensili per le pensioni minime, nonostante la nomina di un commissario ad acta allo scopo di rendere più sollecite le erogazioni, furono risparmiati, alla fine, 600 miliardi di vecchie lire subito stornati per fare fronte ad un accumulo di prepensionamenti da esposizione ad amianto. Lo stesso capitò al centro sinistra quando volle aiutare i c.d. incapienti (coloro che non pagano le tasse perché privi di reddito) con un modesto riconoscimento monetario.
E’ credibile che in tutti questi casi non siano stati scelti criteri adeguati nell’individuazione dei soggetti da tutelare. E’ altresì plausibile che anche in tali circostanze emergano dei divari tra le condizioni reali e quelle conosciute dal fisco (per ottenere alcune di queste prestazioni assistenziali è richiesta la certificazione Isee, che è assai più precisa delle denunce dei redditi). Ma forse è vero anche che vi sono meno poveri di quelli che – con un po’ di autolesionismo – risultano da statistiche troppo spesso asservite alla lotta politica.

Carmine
04-05-09, 11:37
Economia Usa, barlumi ed ombre
Inserito il 29 aprile 2009
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Tags: Congiuntura, Stati Uniti

-

La prima stima del Pil statunitense del primo trimestre (meno 6,1 per cento annualizzato, contro attese per un meno 4,6 per cento) è stata impattata “negativamente” (ma solo come segno, come vedremo) dal decumulo record delle scorte. Il calo, pari a ben 104 miliardi di dollari su base annualizzata, ha sottratto ben 2,79 punti percentuali al dato. Come già previsto, le aziende hanno tagliato molto aggressivamente il magazzino, e ciò potrà riflettersi positivamente sui livelli di produzione nel secondo trimestre.

Le aziende hanno anche pestato con violenza il freno degli investimenti fissi: ben 6,04 punti percentuali tolti alla crescita, di cui il 2,55 per cento da software ed attrezzature, 2,13 per cento dalla edilizia non residenziale, che si sta rapidamente inabissando, e 1,36 per cento dall’immobiliare residenziale. Quest’ultimo potrebbe raggiungere la stabilizzazione nel secondo trimestre, a giudicare dal rapporto prezzo/affitti, che sta progressivamente rientrando in media storica di lungo periodo.

Il commercio estero contribuisce per circa 2 punti percentuali alla crescita, ma è un sorpasso in discesa: l’export crolla del 30 per cento annualizzato, ma l’import del 34 per cento. Il settore pubblico ha sottratto alla crescita lo 0,81 per cento, in larga misura per il forte calo delle commesse della Difesa ma in misura significativa (mezzo punto totale) anche per il calo degli investimenti pubblici degli stati, che sono alle prese con gravissimi buchi di bilancio, che assorbiranno parte non marginale dello stimolo federale. Inopinatamente, i consumi personali hanno contribuito positivamente, per un punto percentuale e mezzo, alla crescita.

Che dire? Qualche tentativo di stabilizzazione, ma ancora aree di fortissima sofferenza nel commercio estero, mentre l’eroico consumatore americano è riuscito a dare segni di vita, malgrado il rimbalzo nel tasso di risparmio. Per il secondo trimestre, con questo passo di distruzione di occupazione, è però piuttosto difficile immaginare la prosecuzione di questo inatteso sviluppo positivo.

Con questo dato di Pil è stata eguagliata la durata delle due più lunghe recessioni del Dopoguerra (1974-75 e 1981-82). Per trovare una simile contrazione occorre risalire, indovinate?, al 1929. Quello che è certo è che, con questi dati, chiunque pensi che la fine del tunnel è prossima, mostra di avere assai poca cognizione di come funziona l’economia.

Carmine
04-05-09, 11:37
INSERITO IN | Partiti e Stato
Il Pdl sia una forza flessibile e non tema il cambiamento
Inserito il 30 aprile 2009
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Tags: centrodestra, Lega Nord, PdL, riforme

- Il congresso del Pdl ha sancito ufficialmente la nascita di un nuovo soggetto politico che unisce, oltre agli altri minori, due grandi partiti dalle anime e dalle storie differenti: Forza Italia e Alleanza Nazionale.
Forza Italia si è sviluppata fin dalla sua nascita come un movimento-partito di tipo “carismatico”, che ha unito la tradizione e i valori delle storiche aree politico-culturali del liberalismo, del riformismo e del cattolicesimo liberale con le sensibilità e la visione di un nuovo e moderno liberalismo popolare.
L’entrata di Forza Italia nel PPE ha rappresentato il suggello di questo percorso entusiasmante e ricco di nuove opportunità.
Alleanza Nazionale è stata il terminale di un grande e coraggioso percorso politico-culturale che, attraverso Fiuggi, ha portato nell’alveo consolidato delle grandi democrazie occidentali il Movimento Sociale Italiano e la destra nazionale.
Storie, tradizioni diverse, dunque, che però possono rappresentare un’importante opportunità di crescita e di confronto, connotati imprescindibili per affrontare le innumerevoli sfide che si presentano all’orizzonte.
Innanzitutto dobbiamo fronteggiare nel miglior modo possibile la crisi economica che sta affliggendo il nostro Paese e il mondo intero, non dimenticando i propositi e gli impegni assunti con i nostri elettori che chiedono fermamente riforme concrete e indispensabili, per il futuro del nostro sistema Paese.
Questo passaggio storico, intendo la nascita del PDL, è importante non solo per la congiuntura economica, ma anche per il rinnovamento che il nostro scacchiere politico sta vivendo con il passaggio verso un bipolarismo sempre più definito.
Il Pdl ha in sé le potenzialità per essere un progetto di grande respiro a condizione di essere realmente un partito pluralista, dove anche le posizioni minoritarie dovranno trovare voce e considerazione. Ognuno di noi, con la sua storia ed esperienza, dovrà e potrà essere parte fondamentale e fonte di una discussione proficua e costruttiva. Il dibattito interno ci permetterà di crescere, innovare e migliorare la nostra attività politica costituendo così una solida base per il futuro, senza dimenticare, però, le nostre origini storiche e culturali e rispondendo così appieno alle esigenze della società contemporanea.
Il nostro percorso dovrà portarci ad esempio ad essere anche autentici portavoce di tutte quelle battaglie politiche, che troppo spesso vengono lasciate in mano alla Lega Nord. Dovremo farci carico di assumere concrete iniziative politiche che evitino di lasciare al Carroccio il ruolo di paladino di temi, che in realtà rappresentano anche l’impegno del Pdl, come la sicurezza, la meritocrazia e la equa distribuzione delle risorse fra i vari territori.
Pluralismo, confronto, democrazia e libertà: questi devono essere i cardini della nostra politica, gli elementi che ci permetteranno di mantenere viva l’attività del partito. Il Pdl, per essere fonte di idee e avere capacità di sviluppo di esse, deve essere in continuo fermento: il movimento e il dinamismo dei partecipanti saranno le caratteristiche vincenti in un’epoca in cui la verifica dei risultati in tutti i campi, anche e soprattutto in politica, non lascia spazio a rendite di posizione.
Il Pdl dovrà avere, come base, la forza delle idee unita alla capacità di adattare rapidamente il proprio lavoro alle esigenze del momento: la flessibilità sarà un elemento sempre più determinante per far fronte alle dinamiche mutevoli del nostro tempo.
Libertiamo − credo − sarà uno strumento utile per andare nella direzione indicata. Oggi spesso sono cambiati i luoghi del confronto − e questo magazine ne è un esempio − ma non sono cambiati, e non cambiano, lo spirito e l’impegno di quanti pensano e sperano che la politica sia una cosa seria, fatta anche di fatica vera, di rapporti autentici, senza scorciatoie mediatiche di molta apparenza e di poca sostanza.

Carmine
04-05-09, 11:38
INSERITO IN | Il mondo e noi
Ci tocca sdoganare l’ultimo dittatore d’Europa?
Inserito il 01 maggio 2009
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Tags: Bielorussia, Lukashenka, Magni, Russia

- Adesso ci tocca anche sdoganare Alexander Lukashenka? “L’ultimo dittatore d’Europa” (così lo aveva definito Condoleezza Rice, segretario di Stato della seconda amministrazione Bush) è ora libero di viaggiare in Europa occidentale. E l’Italia ha avuto “l’onore” in questa settimana di essere stata la sua prima meta. Le sanzioni europee, che gli negavano in visto di ingresso nei Paesi dell’Ue, sono infatti state “congelate”, perché gli osservatori dell’Ue e dell’Osce hanno notato dei sensibili “miglioramenti” nella situazione dei diritti umani in Bielorussia. Il tutto va letto nel quadro della distensione tra l’Occidente e la Russia, del pulsante “reset” simbolicamente premuto dal segretario di Stato Hillary Clinton per scordare il passato di Bush e rilanciare buoni rapporti fra le due grandi potenze. La Bielorussia di Lukashenka è tanto alleata della Russia da essere considerata alla stregua di un suo satellite. Il suo sdoganamento fa parte di questo gioco.
Nel 2006 Lukashenka (al potere dal 1994) represse con metodi forti una protesta studentesca contro la sua rielezione. Sempre nel 2006, una bambina di nome Maria, adottata da una coppia ligure, è stata “restituita” a un orfanotrofio bielorusso dopo una dura battaglia diplomatica. Durante la quale il regime di Minsk rispolverò il peggio della retorica nazional-bolscevica, stabilendo, di fatto, il principio secondo cui i cittadini sono di proprietà dello Stato, chi lascia la patria è un traditore e chi aiuta a scappare un bielorusso è un nemico. Adesso, questo ameno regime che è sempre stato descritto dai media come un inferno sta per essere sdoganato, moralmente e politicamente. Lukashenka non è più “dittatore”, ma “presidente”. E sta diventando un buon “amico”. Viene ricevuto dal Papa, a cui spiega che le relazioni tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa sono ottimi per merito suo. Viene invitato a cena da Silvio Berlusconi, a cui fa i complimenti per aver mobilitato l’esercito per risolvere problemi interni: a Napoli per la spazzatura e in Abruzzo per il terremoto.
Ma Lukashenka merita di essere sdoganato? A chi ascolta le sue prediche sulla buona politica interreligiosa risponde un oppositore bielorusso, Valerj Bujval, membro di spicco del Partito Conservatore Cristiano: “I cattolici non possono costruire chiese e restano molte barriere politiche per chi vuole professare la sua fede, cioè il 20-25% della popolazione” – ci spiega – “Il cattolicesimo da noi esiste da molti secoli. E Lukashenka non ha il diritto di parlare nel nome di tutte le chiese: più volte si è definito un ateo ortodosso, una contraddizione che fa capire molte cose e che da noi è ancora oggetto di scherno. La realtà (che Lukashenka non dirà mai) è che la Chiesa ortodossa è di stato. Noi sappiamo che non è una vera istituzione ecclesiastica, ma un mero strumento di potere, non tanto usato dalle autorità di Minsk quanto da Mosca. E’ uno strumento dell’imperialismo russo. Sappiamo che tanti vescovi di questa chiesa, in passato erano ufficiali del Kgb sovietico. Questa chiesa russa non rappresenta per noi alcuna autorità morale e religiosa. Non si può parlare di buone o cattive relazioni fra religioni nel nostro Paese, come ha fatto Lukashenka in Vaticano. Si può parlare al massimo di relazioni fra il Cremlino e i cattolici. E la “Chiesa” di Mosca è nemica di ogni attività cattolica in Russia, così come da noi”.
Non ci sono nemmeno troppe speranze per un rinnovamento democratico. Con molti dissidenti ancora in galera, o tenuti sotto stretta osservazione (come lo stesso Bujval), non ci sono nemmeno troppe speranze per un cambiamento democratico: “Noi siamo molto scettici” – dice Bujval – “quando sentiamo parlare Minsk di cambiamenti e riforme. Lukashenka lo conosciamo bene: tutte le sue promesse non sono state sincere. Noi lo abbiamo visto in tutti questi quindici anni”. La repressione, infatti, è ancora capillare e segue uno schema ideologico preciso: “La televisione e la stampa sono sotto lo stretto controllo del Comitato per la Sicurezza Statale, che da noi si chiama ancora Kgb. Bisogna sottolineare il fatto che la stessa lingua bielorussa è censurata. E’ esclusa al 90% dall’informazione: il resto è tutto in russo. Siamo ormai una provincia russa, anche in questo campo”.
Ma se il regime di Minsk è solo un avamposto provinciale della Russia e al popolo locale viene negata persino la sua stessa cultura, almeno economicamente ci conviene riallacciare i rapporti con la Bielorussia? Secondo Bujval, quel Paese è ormai ridotto a reliquia del sistema industriale sovietico, una realtà fuori dal tempo che rischia di essere spazzata via dalla crisi economica: “Nelle ultime settimane, gli operai e gli ingegneri prendono fino al 50% in meno dei loro stipendi mensili. Abbiamo centinaia di migliaia di disoccupati. Fino a gennaio, un milione e 200mila operai lavoravano in Russia, perché qui non avevano nulla. Ma quando la crisi ha iniziato a farsi sentire anche in Russia, sono tornati a lavorare qui, per due o tre giorni alla settimana, in fabbriche obsolete, la cui produzione non è venduta da nessuna parte. La situazione è già catastrofica e nei prossimi mesi ci aspettiamo ripercussioni su tutta la società. Il regime non fa nulla per risolvere questo problema: i dirigenti sperano solo nell’aumento dei prezzi delle materie prime. Ma non è un buon modo per uscire dalla crisi, solo un nuovo espediente per rubare soldi pubblici, come hanno sempre fatto”.

Carmine
04-05-09, 11:38
Dopo un 25 aprile speciale, un Primo maggio banale
Inserito il 04 maggio 2009
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Tags: articolo 18, lavoro, Primo maggio, welfare

- Si poteva sperare nel bis, dopo un 25 aprile in cui il Cavaliere era partito cacciato per ritrovarsi cacciatore di una retorica “liberazionista” tanto stolida da essere spiazzata dalla semplice riaffermazione del nesso inscindibile tra la Liberazione e la libertà, tra l’anti-fascismo e l’anti-totalitarismo, tra il 25 aprile 1945 e il 18 aprile 1948.
Invece ad un 25 aprile speciale è seguito un Primo maggio banale. Tutti a suonare la stessa musica, tutti a cantare la stessa canzone – e non parliamo, ovviamente, di Vasco Rossi. Non che non fosse sacrosanto il richiamo alla sicurezza sul lavoro, che ha unito i sentimenti di Piazza San Giovanni alle parole pronunciate dal Capo dello Stato e dai vertici del sindacato. Non che non fosse obbligato il richiamo all’impegno per la ricostruzione economica e produttiva di una ragione, come l’Abruzzo, segnata in profondità dalle ferite del terremoto. Non che non fosse utile (l’hanno fatto in molti nella maggioranza e a ragione) ricordare che la festa del lavoro non è solo la festa del lavoro dipendente, visto che in Italia gli autonomi sono ben un quarto della forza lavoro occupata. Però questi importanti richiami non hanno centrato il cuore della “questione lavoro” né indicato la rotta delle riforme necessarie. Anzi, non hanno nemmeno alluso alla necessità delle riforme. E parlare di cose giuste senza parlare, o meglio, per non parlare di altre che lo sono altrettanto (anche se non in modo così incontestato e popolare) rende meno credibili anche le parole inappuntabili che i diversi “celebranti” del Primo maggio hanno scelto di pronunciare.
Agli occhi di chi non pensa che la crisi globale sia un nuovo tappeto sotto cui nascondere la vecchia polvere, la “questione lavoro” – nei suoi caratteri di fondo e nelle sue tendenze consolidate – è nel nostro paese tale e quale a quella che avevamo dinnanzi il Primo maggio 2008, quando le banche sembravano ricche, il greggio pronto a sfondare il tetto dei 200 dollari al barile e Robin Hood affilava le frecce contro banchieri e petrolieri.
Ovviamente, la crisi ha imposto misure eccezionali, dettate dall’emergenza (il bonus famiglie, un uso più esteso degli ammortizzatori sociali…). Come ha però giustamente sottolineato Benedetto Della Vedova, quando si tornerà “a regime” bisognerà cambiare quei caratteri di fondo del nostro sistema sociale, che, anche al di fuori e al di là dell’emergenza economica, rappresentano di per sé una vera e propria ragione di emergenza politica.
Questa emergenza non discende da una spontanea evoluzione del sistema produttivo e dell’organizzazione del lavoro, ma da un insieme di scelte normative, riforme incomplete e debolezze politiche.
Quando dalla prima metà degli anni ‘90 ci si è resi conto che le ragioni della flessibilità non trovavano solo riscontro negli interessi dei “padroni” ma in quelli più complessivi del sistema economico, si è progressivamente stratificata su di un sistema irrigidito una disciplina di segno quasi completamente opposto. Non è mancato allora chi (in nome della flessibilità e non contro di essa) sostenne che, perché il mercato del lavoro rimanesse concorrenziale e le misure di protezione sociale eque, la riforma avrebbe dovuto essere organica e inclusiva, e quindi comportare il superamento dell’art.18 e di un welfare sostanzialmente “cassintegrazionista”. Non ci voleva la palla di vetro per immaginare che una flessibilità, che introducesse nuovi e necessari istituti contrattuali attraverso dosi massicce di discriminazione normativa, avrebbe comportato una segmentazione inefficiente del mercato del lavoro e una “dis-integrazione” sociale del mondo del lavoro, con ricadute pesanti sul piano della rappresentanza e della contrattazione.
Eppure quello che accadde è che tutte le meritorie riforme realizzate (dal Pacchetto Treu alla Legge Biagi) si fermarono dinanzi al santuario dell’art. 18 e delle sue pertinenze welfaristiche. Non venne quindi riformato il mercato del lavoro, ma istituito una sorta di mercato parallelo, giustapposto a quello dominato dagli interessi degli insiders, dal controllo del sindacato e dalla retorica del lavoro stabile. Questo mercato parallelo, collegato a quello del contratto standard da occasionali e sempre più instabili “passerelle”, ha avuto il merito indubbio di restituire opportunità a soggetti che, esclusi dal sistema delle garanzie, avrebbero rischiato di rimanere esclusi dal mercato del lavoro tout court. Se in Italia è cresciuto il tasso di attività e di occupazione ciò è dipeso anche dalla piena legalizzazione del lavoro atipico, oltre che (se la Lega consente) dalla progressiva integrazione della forza lavoro straniera . Ma su questa parte del mercato del lavoro si è scaricata tutta l’esigenza di flessibilità, di produttività e innovazione del sistema economico. E il fatto che le riforme abbiano riguardato solo la flessibilità in entrata e non quella in uscita ha posto una barriera oggettiva all’ingresso dei lavoratori flessibili nel perimetro del cosiddetto lavoro stabile.
A distanza di più di un decennio, un mercato del lavoro e un welfare duale stanno di fatto imponendo, dal punto di vista giuridico, due diverse forme di cittadinanza. Le disuguaglianze in termini di reddito, di tutele, di prospettive e di sicurezza che queste due distinte e sempre più distanti “Italie del lavoro” manifestano, non derivano affatto dagli esiti di una competizione leale, capace di premiare il merito, ma da diverse protezioni normative, che impediscono ai capaci e meritevoli di competere ad armi pari, e con uguali possibilità di successo, su di un mercato del lavoro aperto e concorrenziale. Queste “due Italie” non costituiscono affatto un unico popolo, capace di unirsi a quello della borghesia imprenditoriale e produttiva in un blocco sociale interclassista, come vagheggia il Ministro Sacconi. Costituiscono due mondi separati, uniti al più da sentimenti di reciproca rivalsa, sfiducia e timore.
Il processo riformatore che avrebbe dovuto impedire che la flessibilità sfociasse in una frattura anche morale della società italiana non si è arrestato per effetto dei colpi che un terrorismo macabramente “conservatore” ha inferto ai giuslavoristi colpevoli di avere compreso, e di avere detto a chiare lettere, che per migliorare il mercato del lavoro italiano (sia sul lato dell’offerta, sia su quello della domanda) se ne sarebbero dovuti sfidare i tabù e modificare le regole generali di funzionamento. Sì è fermato perché in Italia continua a godere di un formidabile successo di pubblico e di critica l’idea secondo cui – per così dire - la politica si fa per cassa (su base annuale) e non per competenza (su base pluriennale) e perciò ci si può tutti, allegramente, continuare ad illudere che una “non-riforma” che costa politicamente 1000 e di cui si possono rateizzare o rinviare sine die i pagamenti, è molto più conveniente di una riforma costa 100, ma va pagata subito.
Ecco, se qualcuno, da qualche palco ufficiale del Primo maggio avesse anche detto che comunque 1000 costa più di 100 e che a far finta di niente può costare ancora più caro, tutto sarebbe stato più utile e forse anche più divertente.
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Inserito da:

Carmelo Palma - che ha inserito 43 articoli in Libertiamo.it.

40 anni, torinese, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo.

Carmine
04-05-09, 11:39
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Carmine
04-05-09, 11:40
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Carmine
12-05-09, 15:51
Meglio un Pdl con Fini. Discutendo con Pansa.
Inserito il 05 maggio 2009
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Tags: articoli, Della Vedova, Fini, PdL

Di Benedetto Della Vedova da Il Riformista del 5 Maggio 2009 -

Caro direttore, nel Bestiario di domenica scorsa Giampaolo Pansa chiedeva a Fini di levare il disturbo e di andarsene per la sua strada. I suoi distinguo, i suoi “sparigli”, la sua ostentata competizione sul piano delle idee e delle proposte politiche lo renderebbero incompatibile con il progetto berlusconiano.
Non mi importa prendere le parti del Presidente della Camera, che si difende egregiamente da sé, ma mi interessa discutere il ragionamento di Pansa in termini generali, a partire dall’idea che del funzionamento di un grande partito sembra avere un grande frequentatore ed esperto degli “zoo” della politica. Per Pansa la Dc è fallita perché aveva troppi galli nel pollaio e tutti volevano cantare sul proprio spartito, e il Pdl rischia di fare altrettanto.
Sul rapporto tra partito e leadership, tra progetto politico e “catena di comando”, tra innovazione e continuità culturale si gioca, ovunque nel mondo, il successo o il fallimento dei grandi partiti a vocazione maggioritaria. Pur in presenza di sistema elettorali e istituzionali molto diversi, tutti i partiti che si contendono il governo delle maggiori democrazie avanzate (secondo una logica sostanzialmente bipartitica, oltre che bipolare) non concepiscono e costruiscono la propria unità interna in termini statici, ma dinamici. Il “partito” non coincide con la “linea del partito” o con una massa di manovra al servizio di un unico disegno politico, ma con un “sistema di produzione” di idee e di proposte di governo: che la discussione sia libera non è solo giusto, ma necessario, non solo per ragioni morali, ma soprattutto per ragioni di efficienza. Con l’ipse dixit non si sono mai prodotte nuove idee. Un partito che voglia durare nei decenni sa che dovrà nel tempo anche mutare di linea, come accaduto ai conservatori britannici o ai gollisti francesi: per questo la leale competizione interna sulle idee non è un veleno, ma un elisir di lunga vita.
Sono ben lungi dall’avere una visione irenistica della vita interna ai partiti. So bene che tutti i confronti si giocano (anche) sul piano del potere e degli scontri di potere. Ma questo aspetto, che pure definisce in modo robusto i rapporti di forza, non esaurisce la dialettica politica di un partito di governo.
Se vogliamo usare la Dc come termine di paragone, a condannare la Balena Bianca all’estinzione (accanto a fatti storicamente più decisivi, come la fine dell’equilibrio di Yalta e la stagione di Mani Pulite) non è stata la capacità di far convivere in un ambizioso disegno interclassista diversi interessi reali e differenti constituency culturali e sociali, ma la progressiva “spoliticizzazione” dello scontro politico interno. Mi pare che Berlusconi e Fini, in modo convergente e per quanto posso capire anche concordato, stiano lavorando perché la vita politica del partito non subisca derive correntizie. Detto questo, non mi pare che un partito del 40 per cento, che voglia continuare ad assomigliare al proprio elettorato, possa essere un luogo in cui tutti passano il tempo a concordare su tutto e a darsi reciprocamente ragione.
Francamente non capisco la ricetta che Pansa propone per riportare ordine nel Pdl: quello di una bella scissione “finiana”. Ciò vale a dire che, per non fare la fine della Dc, il Pdl dovrebbe fare la fine del Pci, attingendo al repertorio classico della sinistra italiana. Non mi pare francamente il massimo. Ci sono esempi migliori, in Europa e nel mondo avanzato, a cui varrebbe la pena ispirarsi.
La svolta del predellino ha fatto paradossalmente del Pdl un “partito normale”. Adesso tutti, all’interno e all’esterno, devono abituarsi a questa normalità. Che è una bella novità, per la politica italiana.

Carmine
12-05-09, 15:52
Privacy: Italia in ritardo, manca ancora regolamentazione su dati giudiziari e di polizia
Inserito il 05 maggio 2009
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Tags: Alfano, IIP, Maroni, privacy

L’Istituto Italiano per la Privacy, con una dichiarazione del suo direttore Diego Fulco, denuncia i ritardi del Governo nell’implementazione normativa del Codice Privacy. “Il Parlamento vota l’adesione al Trattato di Prum, per la creazione e condivisione internazionale della banca dati DNA criminale, mentre procede la riforma Alfano in materia di intercettazioni: ma in Italia mancano ancora, da anni, i decreti da inserire nell’allegato C al Codice Privacy contenenti le regole di corretto trattamento dei dati giudiziari e di polizia da parte degli uffici pubblici. Il decreto Alfano ridurrà la quantità di intercettazioni, ma non i rischi di conservazione e circolazione impropria, o di alterazione dei dati nei procedimenti penali. Il nostro Garante è stato appena confermato presidente del gruppo di lavoro dei Garanti europei sulla cooperazione giudiziaria e di polizia. Sarebbe un vero peccato se proprio l’Italia lasciasse cadere nel dimenticatoio una disciplina che serve a tutti i cittadini: quella dell’Allegato C al Codice Privacy, previsto dalla legge ma finora mai emanato.
Per tutelare la riservatezza, l’integrità e la disponibilità dei dati, il Governo deve recuperare un ritardo di 5 anni. Per legge - ricorda Fulco - entro il 30 giugno 2004 il Ministero della Giustizia avrebbe dovuto varare regole sui trattamenti non occasionali di dati personali da parte degli uffici giudiziari, realizzati con banche dati elettroniche. Vale a dire: buone pratiche di archiviazione elettronica e gestione dei dati relativi a procedimenti, metodologie per impedire che le informazioni siano manomettibili o abbiano una circolazione non autorizzata. Il regolamento era destinato a diventare l’Allegato C al codice privacy, insieme ad un altro regolamento, del Ministero degli Interni, sui trattamenti non occasionali svolti dalle Forze di Polizia anch’esso “non pervenuto”.
Come IIP - conclude Fulco - chiediamo al Ministro Alfano e al Ministro Maroni di scrivere questa disciplina. Le intercettazioni telefoniche e gli schedari di polizia esistevano già quando i computer erano giganteschi cassettoni. La novità di oggi è l’uso corrente dell’informatica come strumento di consultazione e di conservazione dei dati. Se vogliamo garanzie nel rapporto fra cittadino e Stato nell’era della tecnologia, lo Stato deve darsi regole su questi aspetti.”

Carmine
12-05-09, 15:52
A Fini danno torto anche quando gli danno ragione.
Inserito il 05 maggio 2009
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Tags: Fini, immigrazione, Palma, sicurezza

A Fini si rimproverano i peggiori torti proprio quando si è costretti a dargli ragione. Dopo che la maggioranza ha accolto le riserve sui cosiddetti “presidi-spia” avanzate dal Presidente della Camera, si può facilmente prevedere che, in tanti settori del Pdl, per non dire della Lega, i sentimenti prevalenti nei suoi confronti non saranno di riconoscenza.
All’insofferenza per i ripetuti rilievi di Fini sui temi della sicurezza e dell’immigrazione ha dato esplicitamente voce l’Occidentale (con un editoriale del suo direttore, Giancarlo Loquenzi), accusando il Presidente della Camera di “bordeggiare” tatticamente attorno agli aspetti più controversi del disegno di legge in discussione, senza metterne in discussione il presupposto, cioè il “reato di immigrazione clandestina”. Insomma, accanto a chi accusa Fini di usare spregiudicatamente la carica di Presidente della Camera per sabotare le scelte del Governo, c’è anche chi sfida Fini ad uscire allo scoperto e a contestarle apertamente, dallo scranno più alto di Montecitorio.
Noi al contrario pensiamo che la posizione di Fini sia coerente dal punto di vista istituzionale e preziosa dal punto di vista politico. E’ bene che, mentre è in corso la discussione parlamentare di un provvedimento delicato come quello in tema di sicurezza, Fini si “limiti” ad evidenziare le conseguenze giuridico-costituzionali delle scelte normative, senza sindacarne, da Presidente della Camera, il complessivo contenuto politico. Con un altro ruolo, ha avuto e avrà modo di intervenire ampiamente nel dibattito interno al Pdl. Ma siamo sicuri che saprà farlo preservando la natura della propria funzione istituzionale.
Dal punto di vista politico, è inoltre molto utile che Fini insista, malgrado l’irritazione di molti, nei suoi moniti. Le leggi in tema di sicurezza non sono “messaggi” lanciati all’opinione pubblica e non possono essere degradate a strumenti di marketing politico. Se una legge, per essere “dura”, diventa inapplicabile; se una norma, per essere “esemplare”, comporta conseguenze opposte a quelle che si prefigge; se una misura “di ordine” precipita interi pezzi dell’ordinamento giuridico nel più inestricabile disordine normativo…. Ecco, se tutto questo avviene, o rischia di avvenire, è bene che il Presidente della Camera lo dica con chiarezza. Non ci pare che così Fini spinga il Pdl verso la frontiera del buonismo o del politicamente corretto, ma che richiami giustamente il legislatore ad un principio di responsabilità.

Carmine
12-05-09, 15:53
Grazie, signora… chi?
Inserito il 06 maggio 2009
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Tags: politica, riforme, Thatcher

- Il 3 maggio del 1979 la Gran Bretagna era ignara che stava dando il suo più grande contributo alla storia della seconda metà del XX secolo, andando a votare per terminare la terribile fase di governo laburista che aveva visto “l’inverno del malcontento” in cui gli scioperi erano arrivati ad impedire di far seppellire i morti – amara realtà ma anche perfetta metafora di un andazzo ideologicamente perdente che sembrava impossibile da superare. Nel maggio del 1979 non c’erano paesi occidentali di una certa importanza che avessero un primo ministro, un presidente, un cancelliere di sesso femminile: e certo, nessuno avrebbe scommesso che fosse il tradizionalissimo Tory party della tradizionalissima Gran Bretagna a rompere questa consuetudine. Ancora nella riforma del 1974, nello statuto dei conservatori al leader si faceva esplicitamente riferimento con il pronome maschile: l’anno successivo Margaret Roberts coniugata in Thatcher, da Grantham, figlia del droghiere del paese, prendeva la guida del partito più rigidamente maschilista dell’occidente ed iniziava a rivoltarlo dalla testa ai piedi.

Qui in Italia il Thatcherismo non ha mai avuto una corretta divulgazione. La sinistra lo dipingeva come il peggiore dei mali, e continuò a farlo per tutti gli anni ’80 con vigore direttamente proporzionale ai miglioramenti dell’economia inglese. Ma se il PCI era terrorizzato dalla cura Thatcher, altrettanto si poteva dire di quei partiti che, mutatis mutandis, avrebbero potuto o dovuto – per affinità politica - analizzarlo, adottarlo e divulgarlo. Senza un corretto bipolarismo destra-sinistra, in Italia si scelse scientificamente di non parlare di Thatcherismo se non per denigrarlo, con la felice ma isolata eccezione del Giornale di Montanelli. Parlare di braccio di ferro contro i sindacati, rigore economico realmente messo in atto, decisionismo, privatizzazioni, monetarismo, maggiore potere al capo del governo significava spaventare uno status quo comodo e apparentemente immodificabile. La DC era un contenitore abituato al compromesso sempre e comunque in cui conviveva di tutto, e nel quale nessuna politica di rottura era possibile. Il PLI era un piccolo partito atterrito da ciò che accadeva ai cugini liberali inglesi, sparutamente rappresentati in Parlamento (in seguito al sistema uninominale inglese) nonostante una rappresentanza dignitosa nel paese. Il PSI di Craxi sembrò adottare in parte alcune caratteristiche: il decisionismo, teoricamente rappresentato dal decreto di San Valentino sulla scala mobile, che alla fine fu tutto fumo e niente arrosto; la personalizzazione politica, che però fu coniugata con molto meno carisma e molta più arroganza; il maggiore potere che all’esecutivo, che sarebbe giunto dalla riforma presidenziale di Amato poi ritirata quando si trattò di vederne le carte. La stampa si accodava al terrorismo psicologico – oggi si direbbe character assassination – che a Margaret Thatcher destinavano i partiti “moderati” italiani: in questo panorama usciva dal coro Montanelli ed il suo Giornale, che descriveva puntualmente e onestamente il fenomeno Thatcherismo nelle sue diverse componenti, tra le quali spiccava per importanza la fase economica in grande crescita e descritta con eccellenza dal capofila dei (pochissimi) monetaristi italiani, Antonio Martino.

Margaret Thatcher ha cambiato la storia. Lo ha fatto in Gran Bretagna, dove il Labour, si è risollevato solo dopo 18 anni, quando Blair ha conquistato il governo di Sua Maestà senza denegare una sola delle principali innovazioni della lady di ferro e anzi candidandosi chiaramente come un suo continuatore. Lo ha fatto in Europa, dove all’euroscetticismo della lady di ferro sembrano oggi dare ragione i numerosi problemi di coesione interna che il nostro continente si trova ad affrontare. Lo ha fatto nel mondo, insieme a Ronald Reagan, vincendo la guerra fredda, introducendo politiche economiche che hanno portato l’Occidente a crescere per 25 anni e più, riequilibrando la politica industriale a favore di più privato e meno pubblico. Lo ha fatto rompendo gli schemi, semplice figlia di un droghiere, donna, capace di capire l’importanza di personalizzare la politica; di preparare, accettare e stravincere un braccio di ferro durato un anno contro un sindacalista come Arthur Scargill (interrogato su quando un pozzo di carbone fosse così antieconomico da farne risultare opportuna la chiusura, questi rispose che per quanto lo riguardava la perdita non avrebbe dovuto avere mai fine).

L’Italia non ha mai conosciuto il vero Thatcherismo, perché le è stato descritto male ed in malafede, con l’eccezione montanelliana. E’ anche per questo che le innovazioni apportate in Gran Bretagna da Margaret Thatcher dal 1979 al 1990 sono state e sono tuttora digerite parzialmente ed adottate male, lasciando l’Italia in posizioni imbarazzanti nelle classifiche di merito, libertà economica, concorrenza ed efficienza. Il sistema elettorale che ha permesso a Margaret Thatcher di portare a termine il suo programma è stato combattuto nonostante fosse stato scelto nel referendum del 1993 dai cittadini italiani stanchi di governi dalla durata media di 9 mesi. L’esecutivo è oggi più forte solo grazie a consuetudini ed ingegni istituzionali ai limiti del legittimo che fanno storcere il naso ai più fedeli interpreti di una Costituzione che rimane fortemente squilibrata dalla parte del legislativo a danno del reale potere dell’esecutivo. Le privatizzazioni sono state fatte tardi e male, e lo Stato – sia a livello nazionale che a livello locale – è ancora protagonista di troppa parte dell’offerta di prodotti e servizi, senza che la politica abbia rinunciato alla longa manus che le permette di controllare settori dell’economia del paese che dovrebbero essere lasciati alla concorrenza ed ai privati. I sindacati, che pur indeboliti possono contare su ingiustificate risorse e privilegi, continuano ad avere un ruolo sperequato rispetto alla loro reale rappresentatività, senza democrazia interna e lasciando totalmente al proprio destino una fetta importante dei giovani ancora inoccupati di questo paese. La personalizzazione della politica sembra rischiare di aver preso a volte una deriva demagogica e populista che va nella direzione opposta al messaggio della lady di ferro, che qui in Italia sarebbe probabilmente meglio tradotta in un omino di burro. Più in generale, sembra evidente che laddove la Thatcher ha cambiato ed educato una parte maggioritaria dei suoi concittadini, qui in Italia si è spesso pensato più ad assecondare e a sublimare pigrizie e diritti tanto acquisiti quanto ingiustificati, antistorici e dannosi. A noi che ne abbiamo studiato ed apprezzato la parabola politica ed il contributo ideologico, comunque resta solo da dire sinceramente grazie davvero, Signora Thatcher.

Carmine
12-05-09, 15:53
Moltiplicando i poveri, l’Istat incentiva politiche assistenziali
Inserito il 07 maggio 2009
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Tags: economia, Istat, povertà

- L’Istituto pubblico di statistica calcola ogni anno il numero dei poveri. Da quest’anno, però, è stata rivoluzionata la metodologia della ricerca, la qual cosa ha molte ripercussioni sulla realtà della “fotografia” e indirettamente sulle pressioni che verranno esercitate sulla classe politica.

Si passa dal criterio di “sopravvivenza” a quello di “minimo accettabile”. Come a dire, si calcolano non solo i poveri ma anche coloro che non stanno molto bene. Ci passa tutta la differenza del mondo: in questo modo, è evidente, il numero delle persone che rientrano nella categoria si moltiplica inesorabilmente. E l’Italia finisce per apparire subito un Paese più povero. Anche grazie all’inclusione nel paniere dei poveri assoluti di beni come tovaglioli, piatti, bicchieri di carta, giornali, riviste, fumetti, libri non scolastici (snobbando allora il cinema, i videogiochi, la musica), telefono cellulare e le rispettive ricariche, Totocalcio, lotto e altri concorsi.

Ci sono degli errori fondamentali di metodologia della ricerca. Il concetto di “accettabile” è evidentemente una questione soggettiva del diretto interessato: anche quando è l’opinione pubblica a guardare ai meno fortunati, subito essa si divide nel segreto delle menti in quello che secondo ognuno di noi è accettabile o meno. Uno di quei termini che hanno certo un forte impatto emotivo, ma che razionalmente ognuno riempie di significati propri e quindi relativi. È infatti un concetto relativo anche all’epoca e al luogo in cui viviamo. Nell’Italia della ricostruzione era accettabile il lavoro minorile che oggi fa stringere il cuore a tutti; fuori dal ricco occidente ancora oggi gli standard di vita sono così più bassi dei nostri che risultano accettabili delle condizioni per noi disumane.

Eppure il nuovo indice viene chiamato “indice di povertà assoluta”. Si può immaginare cosa invece quell’assoluta faccia pensare alla gente! Ne viene che l’allarme sociale crescerà e anche se l’ente di statistica ha già specificato che da ora in poi una comparazione con gli anni precedenti non avrà più alcun senso, ci si può scommettere che questo verrà puntualmente fatto. E si griderà al dilagare della povertà. I politici saranno investiti di maggiori responsabilità e richieste. E tutto fa pensare che alla strada della liberazione della crescita e della mobilità sociale si preferirà quella dell’assistenzialismo, quella già battuta da secoli, quella da decenni attuata infruttuosamente nei confronti del Mezzogiorno.

Ecco infine il più evidente paradosso: “nel caso in cui il canone di affitto pagato dalla famiglia sia inferiore a quello di mercato, questo viene sostituito dal prezzo di mercato stesso,”. Ebbene, anche quando i sussidi vengono erogati, l’Istat ne azzera l’effetto. Oltretutto, questa idea keynesiana e neoclassica dell’esistenza di un qualche prezzo di mercato trovato astrattamente e staticamente è irreale, poiché nessuno può sapere a quale prezzo sarebbe venduta un certo bene, se non nel momento stesso in cui la compravendita stessa avviene. Il prezzo di mercato non esiste, esistono tanti diversi prezzi di mercato.

Sì, tutto questo farà aumentare la giustificazione dell’intervento pubblico (e della sopravvivenza dei tecnici dell’Istat, dovremmo aggiungere). Ecco cosa succede quando l’analisi scientifica al servizio del pubblico si mischia con valutazioni emotive e profondamente ideologiche. Se fino ad oggi l’assistenzialismo ha di fatto frenato la crescita dei poveri (nella soglia della sopravvivenza), ora terrà a fondo anche quella di chi sta leggermente meglio (nella soglia del minimo inaccettabile).

Carmine
12-05-09, 15:53
Contro il referendum e il bipolarismo, le manovre dei ‘tedeschi all’italiana’
Inserito il 07 maggio 2009
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Tags: bipolarismo, Casini, centrismo, D'Alema, Lega, Letta, referendum, Rutelli, Ventura

- Uno spettro si aggira per l’Italia, il “centrismo”. Sartori ci ha insegnato che una cosa è il “centro” inteso come spazio politico abitato dagli elettori, solitamente quelli più mobili e quindi oggetto della competizione tra i partiti in un sistema bipolare, un’altra è il centro “occupato” da uno o più partiti in un sistema a tre poli (destra, centro, sinistra). Il sistema tripolare ha contraddistinto la cosiddetta Prima Repubblica, costituendone il limite maggiore: immobilismo e impossibilità dell’alternanza. Quel modello non è certo ripetibile, sono cambiate le condizioni storiche (il partito di centro pro-sistema, contro le ali anti-sistema) e non è più immaginabile una forza di centro di proporzioni simili a quelle della scomparsa Democrazia Cristiana. Eppure, il tripolarismo, in una versione aggiornata, anche se dalla fisionomia poco chiara, sembra costituire ancora oggi, dopo quindici anni di funzionamento bipolare del nostro sistema politico, un’attrazione per chi cerca un proprio posto al sole. Si pensi alla bizzarra tripartizione dell’elettorato italiano proposta da Enrico Letta (“progressisti”, “moderati” e “populisti”), che giustificherebbe la ricostituzione di un centro. Una lettura – di comodo – che si sposa con quella di Pierferdinando Casini che, come osservava il ministro Bondi alcune settimane fa sulla Stampa, vagheggia anch’egli un abbandono del bipolarismo da lui definito “populista”, perché fondato su “contenitori leaderisti e populisti”. In entrambi i casi è evidente l’insofferenza verso un modello di democrazia dell’alternanza e “presidenzializzata”, che, attribuendo la scelta degli esecutivi ai cittadini, priva le oligarchie partitiche del potere di fare e disfare i governi a proprio piacimento e che si è ormai affermato in grandi paesi come la Spagna, la Francia, il Regno Unito, senza per questo dare spazio a degenerazioni del sistema democratico.
Queste “nostalgie” centriste trovano oggi uno spazio nel dibattito pubblico grazie alle diverse manovre che ruotano attorno alla vicenda referendaria e grazie anche alla gravissima crisi in cui versa il Partito democratico, squassato dalla lotta intestina tra le sue diverse componenti. Il referendum continua a fare paura, nonostante il ricatto della Lega nei confronti del Governo abbia posto una forte ipoteca sul suo successo con la convocazione della consultazione referendaria non il giorno delle elezioni europee, il 7 giugno, come avrebbe voluto il buon senso, ma il 21 giugno, primo giorno d’estate.
Accanto alla strategia volta a scoraggiare la partecipazione al voto, se ne è ormai delineata una seconda, confusa ma decisa a vanificare l’eventuale risultato positivo del referendum; l’una e l’altra costituiscono tentativi di impedire che attraverso il ricorso al voto popolare l’attuale bipolarismo, ormai “zoppo” a causa dello stato del Pd, possa essere rivitalizzato – e difeso dalle ambizioni dei “nanetti”, riprendendo sempre Sartori –, consolidato e avviato verso il bipartitismo. La seconda strategia consiste nel ricercare un accordo tra quanti temono la semplificazione del gioco politico – che andrebbe a danno non solo dei partiti più piccoli, ma anche delle ambizioni personali dei tanti che si muovono nell’ambito del Pd, contestano l’attuale (incerta) leadership e non hanno mai sposato il progetto del partito a vocazione maggioritaria – su una nuova legge elettorale, difficilmente prima del 21 giugno, più probabilmente dopo, in caso di vittoria dei referendari. A onor del vero, anche Giovanni Guzzetta e Mario Segni hanno ventilato l’ipotesi di una nuova legge approvata dal Parlamento (pur mostrandosi scettici su questa possibilità), ma “all’insegna del maggioritario e nel rispetto dei quesiti referendari”. Non è il caso dei protagonisti di questa seconda strategia, animata ancora una volta dalla Lega che, su mandato del suo leader Umberto Bossi sta lavorando ad un progetto di legge elettorale, a quanto pare prossimo al cosiddetto modello tedesco. Sull’ipotesi del modello tedesco converge anche Massimo D’Alema, che a sorpresa ha dichiarato di votare “sì” al referendum, ma naturalmente solo nella prospettiva di trovare un accordo per un sistema proporzionale che gli consenta di diventare protagonista in un centrosinistra “di coalizione” e affossare definitivamente il progetto di un grande partito di governo; l’ipotesi attrae anche Rutelli e i rutelliani, alla ricerca anche loro di una fetta di potere e di un riequilibrio a favore della loro componente grazie ad un accordo con l’Udc e, ovviamente, Letta e il leader dell’Unione di Centro Casini, che se oggi combatte frontalmente il referendum agitando lo spauracchio di un Paese consegnato “totalmente a Berlusconi” e sostiene di ritenere una nuova legge dopo il 21 giugno un’illusione, crediamo che ben volentieri si siederebbe al momento opportuno al tavolo dei proporzionalisti “alla tedesca”.
Insomma, una Lega che non vuole perdere il proprio potere di veto a danno di un partito che ha quattro volte i suoi voti, nostalgici del centrismo che sognano di decidere dei governi pur rappresentando un’esigua fetta di elettori, leaderini del centrosinistra in cerca di una gloria che temono di non trovare in un partito della sinistra moderno e di governo, pro o contro il referendum, appaiono tutti uniti per realizzare una politica delle mani libere (dalla volontà degli elettori) e ricondurre all’interno delle oligarchie dei vari partiti “la palla” della politica italiana. Sarebbe un ben misero epilogo per l’estenuante quindicennio della transizione italiana.
« Moltiplicando i poveri, l’Istat incentiva politiche assistenziali
Ma sui metrò milanesi la Lega dove farebbe sedere Balotelli? »

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Sofia Ventura - che ha inserito 7 articoli in Libertiamo.it.

Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.

Carmine
12-05-09, 15:54
Ma sui metrò milanesi la Lega dove farebbe sedere Balotelli?
Inserito il 07 maggio 2009
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Tags: Balotelli, immigrazione, Lega, metro, Milano, Palma

Se Franceschini continua a blaterare sul pericolo di “leggi razziali” nella Lega si trova sempre qualcuno pronto a blaterare per dargli ragione: cosa difficile, ma non impossibile. La proposta dell’on. Salvini di riservare posti a sedere o vagoni sui metrò di Milano ai “milanesi” (e non agli stranieri) sembra concordata con l’ufficio stampa del segretario del Pd. Ma purtroppo non è così.
Il rischio “razzismo” rimane lontano. Questi leghisti non vogliono fortunatamente fare le cose che dicono. Fanno marketing, mica politica.
Queste uscite sono qualcosa di simile agli spaghetti che Achille Lauro regalava ai suoi elettori. Un pacco di pasta fa sempre comodo a chi ha fame. Un po’ di pregiudizio fa sempre piacere a chi ha paura dello “straniero”. In cambio di un voto, questo e altro. Che questo commercio degradi la politica e corrompa insieme gli elettori e i partiti, al Carroccio non importa assolutamente nulla. E di questo disinteresse nel Pdl qualcuno dovrebbe iniziare a interessarsi, prima che sia troppo tardi.
Rimane un dubbio: se passasse questa geniale proposta, sui metrò di Milano dove farebbero sedere Mario Balotelli?
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Immigrazione: Della Vedova, No apartheid sul metrò »

Inserito da:

Carmelo Palma - che ha inserito 46 articoli in Libertiamo.it.

40 anni, torinese, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo.

Carmine
12-05-09, 15:54
Immigrazione: Della Vedova, No apartheid sul metrò
Inserito il 07 maggio 2009
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Tags: Della Vedova, immigrazione, Lega

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl

“Se li vede, Salvini, i controllori che chiedono ai cittadini di Lugano o di New York di accomodarsi sulle carrozze di serie “B” perché quelle di serie “A” sono riservate a noi meneghini? Oppure la misura dovrebbe valere solo per i neri o i gialli o i sudamericani?
Ci sarebbe solo da ridire di questa boutade propagandistica, ma non è il caso.
Se questa dell’apartheid sul metrò è l’avvio della campagna elettorale leghista, bisognerà rispondere con forza che il centrodestra non ha alcuna intenzione di precipitare il paese in una spirale di paura e di discriminazione nei confronti degli stranieri. Ordine, sicurezza e legalità sono il nostro obiettivo di forza di governo di un paese europeo, da raggiungere però con l’impegno, il buon senso e il rispetto dei diritti umani, non con le provocazioni volgari.”

Roma, 7 maggio 2009

Carmine
12-05-09, 15:55
Dispersione scolastica e fallimenti di vita
Inserito il 08 maggio 2009
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Tags: lavoro, riforme, scuola

- Uno dei problemi che affliggono il nostro sistema scolastico è l’elevato numero di studenti che vi entrano e non ne escono con un titolo. La chiamano “dispersione scolastica” con un’espressione che tradisce puro statalismo. Dovrebbero chiamarla “dispersione studentesca”, ribaltando sia punto di vista che sistema di valori. Il problema non può e non deve essere l’assenza di studenti dal sistema della Scuola, ma l’assenza di una scuola per quegli studenti. Potrebbe sembrare un gioco di parole, non lo è: per anni il sistema dell’istruzione e formazione si è incentrato sulla funzionalizzazione degli studenti allo Stato. La scuola non serviva per le persone che la frequentavano, ma per lo Stato che di quelle persone si sarebbe dovuto servire. Di questo nel linguaggio è rimasta traccia con la curiosa inversione di punti di vista tipica di espressioni come “dispersione scolastica”. Comunque lo si voglia chiamare, il fenomeno è endemico e massiccio. I dati più recenti, pubblicati da Tuttoscuola, parlano di un’incidenza intorno al 30 per cento, che in concreto vuol dire trenta dispersi su cento studenti, trenta persone che entrano nel sistema e non ne escono come si dovrebbe: con un titolo di studio, ma prima e soprattutto con delle competenze. Ammettendo che un certo numero di persone escano dal sistema, appena scaduto l’obbligo, solo a causa della discutibile scelta di rendere obbligatoria l’istruzione fino ad una certa età, da loro ritenuta magari inutile, rimane che la grande parte di questi trenta studenti è costituita da fallimenti. Fallimenti del sistema educativo, fallimenti di una scuola incapace di seguire la domanda (perché figlia di una pianificazione e non di un mercato) che spinge i giovani a scappare, a battere altri sentieri per la loro crescita. Chi per la sua vita ha un determinato progetto, o vuole investigare precise possibilità e non altre, molto spesso non è disposto a sentirsi dire “devi studiare queste materie per queste ore, con questi professori” mentre magari vorrebbe farne altre e per questo rifiuta la scelta precostituita che gli viene offerta. Manca una flessibilità significativa del sistema. La legge 53 ha iniziato a introdurla ma solo in modo molto contenuto. Nel campo dei politici conservatori, che sulla scuola stanno soprattutto a sinistra, si continua a voler costruire la scuola dall’alto, dalle idee astratte di pianificatori riuniti in stanzette, siano esse facoltà universitarie o peggio sedi di partito. Insigni accademici hanno ripetuto per decenni ed ancora ripetono che l’una o l’altra materia secondo loro sarebbe una ginnastica mentale per tutti, indipendentemente dalla sua utilità concreta per trovare un lavoro o accedere a settori specialistici, e su questa base cercano –tramite i loro referenti politici- di imporla a tutti. Chi non è d’accordo può solo disperdersi. Se le imprese chiedono più matematica, e non lo fanno a parole ma con l’assunzione degli stranieri che la conoscono, allora vuol dire che, per coloro i quali vogliono un lavoro in esse, servono meno latino, filosofia, musica etc. e chi non arriva a capirlo è senza mezzi termini fuori dal mondo. La scelta assurda di voler costruire una società diversa, magari più umanistica e meno scientifica, e di imporre alla gente di formarsi per le esigenze ipotetiche di essa e non per il reale mercato del lavoro, trasforma molti fallimenti scolastici in fallimenti di vita. La reazione del sistema è immediata: la gente lascia, va a lavorare con meno referenze e più giovane, pur di non acquisire titoli inutili che valgono meno degli anni persi per ottenerli. Nonostante questo disastro conclamato dai numeri, ancora non viene riconosciuta ai ragazzi, ai docenti, al mercato, la possibilità di influenzare il quadro orario in misura minimamente sufficiente a personalizzare la scuola superando le imposizioni statali. Così la scuola italiana diventa lo sbarco ad Okinawa, dieci partono, tre non arriveranno mai. E’ necessario cambiare. Molti di coloro che lasciano il sistema non appena cessa di essere obbligatorio frequentare, lo fanno perché non lo percepiscono utile per il loro personale progetto di vita.
L’unico modo per superare il problema è permettere agli utenti di scegliere il loro servizio educativo, su misura e personalizzato, fermi certi canoni di orario minimo in materie ritenute fondamentali. E’ in questo che consiste la flessibilità, cioè nell’ammettere che i progetti di vita delle persone siano diversi fra di loro e sia necessario offrire per ognuno proprio ciò di cui egli manifesta l’esigenza, ed il rifiuto di modelli Napoleonici, Gentiliani o Socialisti, tutti orientati al dare agli studenti solo una scelta egualitaria ed obbligatoria. Le materie insegnate a scuola dovrebbero essere liberalizzate, divenire teatro di una concorrenza fra pubblico e privato ed anche fra diverse istituzioni scolastiche pubbliche, per sviluppare un sistema educativo finalmente capace di seguire la domanda. E’ necessario spingersi avanti su di un cammino che riporti il sistema educativo italiano in alto nelle classifiche internazionali e smetta di produrre ragazzi “Missed in Action”, frustrati da un fallimento e spesso anche rallentati nel loro percorso di vita da uno sforzo che sottrae loro tempo per il lavoro.
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Giovanni Basini - che ha inserito 1 articoli in Libertiamo.it.

Nato a Roma nel 1987, ha frequentato sia scuole private cattoliche che statali, studia giurisprudenza all’Università la Sapienza di Roma, è un liberale liberista. E’ Presidente di Alternativa Studentesca, associazione vicina ai Giovani del PDL, membro del Forum delle Associazioni Studentesche Maggiormente Rappresentative presso il MIUR. Ha ricoperto incarichi locali e nazionali nei Giovani per la Libertà-FI, oggi Giovani del PDL. Collabora con Ragionpolitica.it.

Carmine
12-05-09, 15:56
Fede e politica: contro la “teologia della restaurazione” - AUDIO
Inserito il 08 maggio 2009
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Tags: Della Vedova, laicità, Martini, Ratzinger

Intervento di Benedetto Della Vedova al convegno: “Il PdL e la laicità: il perimetro del partito, lo spazio del dialogo” (Roma, 9 aprile 2009) -

Premessa

Continua a stupirmi il fatto di essere annoverato, nella semplificazione giornalistica, tra gli esponenti “laici”..o “laicisti”…o anticlericali… del centrodestra.
Sul piano personale la mia formazione e la mia storia sono altre. Sul piano politico, poi, nella mia felice esperienza radicale sono sempre stato in dissenso con l’impostazione anticlericale che portava qualche dirigente a gridare all’intervento “a gamba tesa” ogni volta che il Cardinale Ruini interveniva nella discussione pubblica. Anche perché io trovavo quegli interventi in prima persona, pubblici e quindi esposti a pubbliche critiche nell’agorà politica, un dato di modernizzazione laica della politica italiana. Il problema, casomai, lo vedevo nelle risposte della politica.
Così è: il destino di noi moderati è evidentemente quello di essere minoritari nel tempo in cui prevalgono i massimalismi. Minoritari nella politica, non così, credo, nella società. E di essere continuamente scavalcati, ora di qua ora di là; non di rado dalle medesime persone.

Lo spazio del dialogo

Affronto questo punto prima di parlare del partito. Il “dialogo” tra credenti e non credenti è una costante della modernità nell’occidente libero. Da secoli, ormai, credenti e non credenti si confrontano e si contaminano in ogni contesto, a partire dalla famiglia, e vivono in pace cooperando.
Qui non siamo chiamati a discutere di religione o di spiritualità, però, ma di politica e di potere. E quindi di “dialogo” tra Chiesa/Chiese e istituzioni e tra cattolici e non cattolici all’interno dei partiti e del Parlamento.

Sul punto rileva il ruolo che la Chiesa si vuole dare. Premesso, come scriveva Gomez Davila che cito riprendendolo da Giovanni Reale, che “Ciò che si pensa contro la Chiesa , se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse”, non è certo mia intenzione discutere o confutare l’attuale impostazione dottrinaria della gerarchia cattolica.

Ciò nondimeno, risulta evidente che una Chiesa che accentua il carattere di sola e infallibile interprete del bene comune di tutti e di ciascuno, si considererà investita di un ruolo di magistero erga omnes da far valere anche per via legislativa, così assai restringendo la possibilità del “dialogo”. Se invece, come mi sembra di intravedere, ad esempio, nella visione del card. Martini, si sente Chiesa missionaria anche in occidente in ragione del suo evidente esser minoritaria nella società, cioè Chiesa che vuole convincere attraverso la testimonianza piuttosto che volersi imporre attraverso la legge degli uomini, le porte del “dialogo” si aprono.

Da ciò, infatti, discendono posizioni diverse su tanti temi centrali nell’attuale confronto tra Chiesa e politica, tra cattolici e non cattolici: sul fine vita, sulla famiglia, sull’omosessualità o sull’uso dei preservativi, le posizioni di Martini aprono al dialogo, quelle di Ratzinger, di tutta evidenza, no. Se sul caso Eluana la Chiesa dei Cardinali Ruini e Barragan parla di “assassinio” – e quindi, aggiungo io, considera chi quella fine ha deciso e chiesto, cioè il padre, un assassino, perché ogni altro sofisma è del demonio – e su questo anatema chiama a raccolta i politici cattolici il dialogo con chi pensa cose diverse è impossibile, o no? Se la Chiesa si interroga, come ha fatto Martini o come ha scritto la Conferenza Episcopale tedesca (per altro, a mio avviso, in continuità con Paolo VI), sulla distinzione tra vita biologica e dignità della vita alla luce dei progressi della tecnologia medica, il dialogo è obbligato; o no?

Viceversa, se qualcuno volesse ricondurre l’esperienza religiosa, e quella cristiana in particolare, nel recinto privato di una superstizione passatista, anziché vederla come una espressione alta della storia dell’umanità e della civiltà occidentale, e un connotato insopprimibile della nostra società libera, si porrebbe su un piano antistorico e a suo modo talebano. Non è il mio caso.

Non porta acqua al mulino del dialogo, a mio avviso, neppure l’identità, che gode di ottima stampa in questi tempi tanto tra le gerarchie quanto tra gli atei devoti, fra dottrina cristiana e diritto naturale. Secondo questa visione, al di là della rivelazione e dell’incarnazione, la morale cristiana rispecchierebbe i precetti del diritto naturale e quindi il confronto tra credenti e non credenti si dovrebbe fondare sull’assunto che i credenti sono comunque i depositari del vero senso della vita libera e della società ordinata e quindi, per dirla con Papa Ratzinger, tutti siamo chiamati a vivere “veluti si Deus daretur”, come se Dio esistesse. Il Dio della Chiesa di Roma. Il “dialogo”, in questo caso, appare superfluo e ogni ragionamento risulta apodittico.

Ma come insegnava Sergio Quinzio (teologo forse un po’ irregolare, ma certamente lontano da ogni politicismo e da ogni idea di trionfo mondano della verità cristiana) il vero rischio per la fede cristiana (e io aggiungerei, per la politica laica) è il far coincidere il cristianesimo - come fede - con la cristianità - come cultura ufficiale: il che avviene quando si chiede alla religione cristiana di divenire una forma di ideologia politica (poco importa se all’insegna dell’innovazione o della conservazione, della rivoluzione o della reazione) e non una scommessa e una testimonianza personale e collettiva animata da una fede che non è, per l’essenziale, un fatto culturale. Quinzio giudicava inadeguata tanto la concezione “passatista” della cristianità, all’insegna del tradizionalismo antimoderno, quanto quella “progressista”, all’insegna dello storicismo messianico. Io, in una chiave politica, la penso esattamente nello stesso modo. Si corrono pesanti pericoli sia quando la religione diviene la coperta ideologica della “teologia della liberazione” (asservita al marxismo), sia quando diviene la coperta ideologica della “teologia della restaurazione” (asservita all’antiliberalismo).

Per un lungo periodo, nella storia italiana, se mi si consentono questi riferimenti “topografici”, si rifiutava da destra l’idea che il cristianesimo potesse essere degradato ad una sorta di religione civile e di ideale sociale. Il cristianesimo non poteva essere trasformato solo in una forma di militanza ispirata ai principi della bontà, della solidarietà e dell’amore del prossimo.
Ora da destra non si può imporre questa stessa logica, sia pure con diversi contenuti. Il cristianesimo non dovrebbe essere imposto come un principio di ordine e di organizzazione sociale, ma accettato (da chi lo accetta) come fonte di salvezza.

Tornando al dialogo, non si può tralasciare il fatto che su molti dei punti oggi più controversi e politicamente sensibili nel nostro paese (sessualità, famiglia, embrioni e fine vita), all’interno dello stesso mondo cristiano, esistono declinazioni assai differenti, molte delle quali, a differenza di quella cattolica, non determinano scontri accesi tra credenti e non credenti, e non contrappongono in modo così netto l’evoluzione dei costumi sociali e l’innovazione scientifica da una parte e la morale cristiana dall’altra.

Vi sono poi temi più, diciamo così, “sociali” come l’immigrazione. O la povertà. O magari la guerra. Su questi temi sembra che la Chiesa predichi ma non pretenda; i richiami hanno il tono della profezia, mai quello diretto e perentorio che conosciamo su altro. Vi sono reprimende, ma mai minacce di rottura. La Chiesa più vocale su queste questioni sembra una Chiesa più distante da Roma, forse meno dentro i meccanismi del potere. Ecco, a proposito di dialogo: sulla guerra o sull’immigrazione la politica del centrodestra riacquista nei fatti quell’autonomia dalle gerarchie che in altri campi non ha, non vuole, o non riesce ad avere. E che io invece vorrei avesse sempre; per dire laicamente dei sì, ma anche dei no.

Continuo a pensare che molte energie oggi impegnate in un confronto aspro sui temi della morale pocanzi richiamati, potrebbero essere da tutti, credenti o no, assai proficuamente impegnate nel rinsaldare un’etica civile – pagare le tasse giuste, garantire un vero e umano accesso generalizzato alle cure mediche, rispettare il codice della strada, rispettare le cose pubbliche, tutelare l’ambiente, combattere il clientelismo….- che forse proprio perché non controversa sembra non appassionare i più, di qua o di là del Tevere.

Il perimetro del partito

Se in queste considerazioni, ed in altre che ho tralasciato per brevità, sta la questione del “dialogo” tra laici e cattolici (espressione che non amo) veniamo ora al partito.
Il perimetro del nuovo PdL non può e non deve essere racchiuso dal triangolo Dio-patria-famiglia come molti e autorevoli esponenti, tra cui pochi giorni fa il Ministro Sacconi, hanno auspicato. Mi sembra che questa impostazione, almeno sul piano politico, risponda ad una visone strategica sbagliata e comunque superata, ancora ferma all’undici settembre 2001. Allora sembrava, in particolare a destra, che il futuro dell’occidente non dovesse più passare prioritariamente per la libertà, la tolleranza e l’inclusione, quanto per la riscoperta e la difesa di una granitica identità valoriale, quella cristiana. Per convinzione o per opportunismo, tutti sembravano doversi riconoscere in questo “ubi consistam” onde rinsaldare le fila contro il comune nemico islamista. Con una variante: siccome il nemico era “esterno” si era pensato che la politica dovesse ritrovarsi in grandi coalizioni per le cose del governo lasciando la dialettica politica ai valori e alla morale, in una sorta di bipolarismo etico. Osservanti dell’ortodossia del magistero morale della Chiesa da una parte e “laicisti” dall’altra. Se non addirittura un “partito della vita da una parte” e, immagino, un fantomatico “partito della morte dall’altra”.

Il mondo (non solo con Obama) è andato in un’altra direzione: destra e sinistra si sfidano aspramente per il Governo e convergono sempre più sulle questioni eticamente sensibili, in sintonia con la società e i suoi mutamenti. In Italia non ci sono alle viste grandi coalizioni; sul resto siamo alla paralisi bilaterale.

Si è ripetuto che “il perimetro” del PdL è quello del PPE. Bene, io ci sto. In molti avranno come me notato che al Congresso fondativo del Pdl nei loro discorsi i leader del PPE (Martens e Lopez) che sono intervenuti hanno parlato a lungo di tasse, di sussidiarietà, di piccole e medie imprese ma si sono ben tenuti alla larga dai temi “eticamente sensibili” sui quali secondo molti si dovrebbe giocare l’identità del PdL. Salvo qualche considerazione sul ruolo della famiglia trasversalmente condivisibile, infatti, nessuna menzione per la guerra santa contro le coppie di fatto che tanto piace a molti di noi o per quella, altrettanto popolare, contro non meglio precisate derive eutanasiche insite in una legge sul testamento biologico rispettosa della libertà di scelta delle persone.

Senza citare i repubblicani americani, che dovendo sottrarsi al destino di un partito marginale e rurale affidano la carica di chairman del Republican National Committee a Michael Steele, pro-gay e pro-choice, e senza neppure prendere ad esempio i nuovi conservatori di David Cameron e le loro venature libertarie (né gli uni né gli altri fanno infatti parte dei popolari europei), basta stare sul continente per vedere che le politiche dei grandi partiti del PPE sfiorano, usando le categorie nostrane, il relativismo laicista. Non solo quelle del gollista Sarkozy, ma anche quelle dei democristiani Rajoy e Merkel. Ad esempio, sulle coppie di fatto omosessuali la mia posizione coincide con quella del leader del Partido Popular Mariano Rajoy, che alla domanda “cosa farebbe se vincesse le elezioni sui matrimoni gay?”, rispose: “Cambierei il nome”. Il Ppe spagnolo, non quello olandese.

Non voglio fare qui l’arringa difensiva delle mie posizioni su coppie di fatto, fecondazione assistita o fine vita: mi limito a segnalare che se sono in forte minoranza nel PdL sarei in una comoda maggioranza, seppur magari a geometria variabile, nel centrodestra francese, spagnolo o tedesco.

E questo, se oggi può sembrare un problema mio, domani sarà un problema del PdL. Scommettere su un PdL del 40% o più di ispirazione ratzingeriana significa scommettere che la società e gli elettori italiani si stiano velocemente allontanando dall’Europa. A qualcuno potrà dispiacere, ma non è così!

Il partito che dice come un sol uomo “vade retro” alle coppie di fatto in nome della famiglia e parla di omicidio per Eluana non assomiglia ai propri elettori, che rappresentano un elettorato composito e fondato su un pluralismo etico che non ha alcun senso – né politico né elettorale- cercare di cancellare. E non assomiglia nemmeno ai suoi eletti.

Tutte, dico tutte, le indagine demoscopiche, mostrano che sui temi eticamente sensibili gli elettorati del PdL e del PD si dividono allo stesso modo: semplicemente il nostro elettorato è un po’ più “conservatore” e quello del PD è un po’ più “progressista”, tutto qui. E che il voto cattolico si distribuisce tra i partiti in modo pochissimo difforme da quello di tutto l’elettorato. Facciamo finta di nulla? Avanziamo come treni sul fronte confessionale finché troveremo qualcuno che è più confessionale di noi e ci spiazzerà? Oppure ci concentriamo sul governo dell’economia, della giustizia, dell’immigrazione, della pubblica amministrazione, delle catastrofi naturali, dell’ambiente, della sicurezza, il tutto in una chiave di libertà, responsabilità, ordine e sussidiarietà, riconducendo i temi etici al metodo del pragmatismo euristico piuttosto che dello scontro ideologico?

Sul testamento biologico abbiamo scritto una legge tanto massimalista sul piano politico (rispetto alle posizioni del centrodestra di tre anni fa o dei democristiani tedeschi oggi) quanto fragile dal punto di vista giuridico. Io credo che abbia ragione Fini: in quella Legge vi è il rischio di un’inedita versione democratica dello stato etico, uno Stato che impugna la spada della legislazione per dividere bene e male, imponendo a tutti la visione etica di alcuni. Una legge, nei fatti, contro il testamento biologico.
Su questo io credo che dobbiamo aprire quel confronto aperto che è mancato in questi mesi. Dobbiamo fermarci e ripartire da zero.

A volte ho l’impressione che dietro lo scudo dello straordinario consenso elettorale tributato a Berlusconi - straordinario quantitativamente perché trasversale qualitativamente - si cerchi di costruire un partito “monoetico”, antistorico e destinato nel tempo a infrangersi contro la realtà dell’Italia che cambia.

Deve essere chiaro che nessuno nel pieno delle proprie facoltà intellettive potrebbe auspicare un PdL “contro” la Chiesa. Ma credo che neppure sia possibile pensare che in Italia un partito del 40% possa essere o dare l’impressione di voler essere il partito “della” Chiesa. Tantomeno di una Chiesa come quella di oggi, che sceglie, probabilmente con buone ragioni rispetto alla sua storia millenaria, di essere dottrinaria e divisiva come mai negli ultimi decenni.

In conclusione, penso che il perimetro del PdL debba essere ampio e sfrangiato sulle questioni etiche, aperto ad una sana competizione di idee e sempre in presa diretta con il suo elettorato. E’ il perimetro di una grande partito del PPE, al cui interno, per capirci, ci stanno le coppie di fatto etero ed omosessuali e ci sta un fine vita scelto dalle persone e dalle famiglie e non regolato in modo casuistico e proibizionista dallo Stato. Un perimetro dentro il quale non “possono”, ma “debbono” starci credenti, non credenti e centinaia di migliaia e in prospettiva milioni di credenti in altre religioni che non quella cristiana; italiani figli di italiani e figli di immigrati.

Un perimetro che non può essere il triangolo Dio-patria-famiglia: indipendentemente dal fatto che questo richiamo sia una cosa vecchia o nuova, è una cosa sbagliata e troppo angusta per il grande Popolo della Libertà di cui abbiamo l’onore di essere i rappresentanti; e al quale abbiamo tutti la responsabilità di contribuire a dare un futuro solido e duraturo.

Fonte Radioradicale.it Licenza 2.5 Ita
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Il libro imbiancato »

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Benedetto Della Vedova - che ha inserito 685 articoli in Libertiamo.it.

Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.

Carmine
12-05-09, 15:57
Il libro imbiancato
Inserito il 08 maggio 2009
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Tags: Libro Bianco welfare, quoziente familiare, Sacconi, Seminerio, welfare

- da phastidio.net - Presentato dal ministro per il Welfare, Maurizio Sacconi, il “Libro Bianco sul futuro del modello sociale“, elaborazione dal titolo impegnativo e dalla rimarchevole astrattezza, privo di indicazioni operative traducibili in policies. Voluto o meno che fosse il risultato, vale la pena scorrere alcune parti qualificanti dell’opera. Cardine del welfare (come potrebbe essere diversamente?) è la fiscalità. E la fiscalità deve premiare la famiglia. Il sostegno alle famiglie dovrà tener conto della composizione del nucleo familiare. Dato che l’opera è una raccolta di principi, questo potrebbe apparire come un lip service a buon mercato al concetto di quoziente familiare, ma non vorremmo presumere troppo. Per ora, basti segnalare che il governo parla di promozione di un “patto intergenerazionale”. Che suona bene, qualunque cosa significhi.

Nelle famiglie dove vivono anziani e minori - si afferma - “vanno garantite opportune agevolazioni fiscali o anche trasferimenti monetari e in natura, sia pure con un attento controllo delle condizioni di accesso”. Possibile anche ”il cumulo di crediti per prestazioni sociali” e contratti e orari di lavoro flessibili per donne e uomini con a carico anziani non autosufficienti o familiari malati. Prevista anche la promozione e la diversificazione dell’offerta di (indovinate?) “nidi e micro-nidi presso i luoghi di lavoro o le famiglie”. Potevano mancare i nidi, evergreen del libro dei sogni di una classe politica parolaia in un paese in crisi fiscale conclamata? No, che non potevano.

Riguardo la famiglia, sappiate che è quella riconosciuta dalla Costituzione, quella fondata sul matrimonio. La famiglia “genera un valore sociale aggiunto” ed è un “attore sociale”. Poi, il giorno che anche in questo paese si capirà che il concetto di famiglia può e deve ricomprendere anche le coppie gay, avremo un Libro un po’ più colorato. Sulla maternità, abbiamo lo scoop:

“Si pone un problema inedito di libertà femminile che riguarda la possibilità di procreare e non essere pesantemente penalizzate”.

Si, decisamente un problema inedito. Riguardo disabili e anziani, altra grande categoria di soggetti sistematicamente presi per i fondelli in tutti i libri, bianchi e policromi, editati in questo paese negli ultimi lustri, obiettivo è l’inclusione e non solo integrazione del reddito che pure resta una ”necessità imprescindibile”. Beh si, se non si riesce a mangiare, l’inclusione è un obiettivo un filino troppo ambizioso. Ma serve (ça va sans dire) anche una rete di servizi adeguati e servizi domiciliari. Dei 2,5 milioni di disabili in Italia, ben 900 mila sono di fatto confinati a casa per via delle barriere architettoniche. Il libro bianco ipotizza la costituzione di un apposito strumento finanziario dedicato alle persone non autosufficienti che si combini con risorse pubbliche e private, prevedendo forme specifiche di assicurazioni private. Un po’ criptico, ma meglio che nulla.

Per l’anziano va privilegiato il suo ruolo attivo. “La permanenza nel mercato del lavoro rappresenta la strategia centrale per combattere il disagio sociale ed economico”; si può ricorrere a contratti a tempo parziale, lavoro ripartito, buoni lavoro per prestazioni accessorie. Si certo, ma basterebbe anche aumentare i coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita pensionistica per quanti decidano di continuare a lavorare dopo il raggiungimento dell’età pensionabile. O eliminare le pensioni di anzianità. Ma discutere coi sindacati è molto più faticoso che scrivere libri bianchi. Prevista anche, per gli anziani, la diffusione dell’assegno di cura a sostegno del lavoro delle famiglie e ‘buoni lavoro’ attraverso cui erogare servizi personalizzati e di qualità. Again, dove sono i soldi?

Si ha nel complesso l’impressione che questo libro bianco assomigli molto agli studi Nomisma sull’alta velocità ferroviaria, quella che doveva servire “ad arrivare a destinazione più rapidamente”, esimio De Lapalisse. Ma è evidente che, quando non ci sono risorse, è meglio concentrarsi sui grandi principi e intonare “L’anno che verrà” di Lucio Dalla. Anche perché Sacconi ha ribadito che, anche dopo che la ripresa economica si sarà manifestata (e quindi il nostro paese tornerà alla sua abituale crescita zero), non si dovrà parlare di riforma delle pensioni, malgrado l’anelito ad “attivare” i nostri gioiosi anziani, né discutere di articolo 18, ma occorrerà “rafforzare le tutele” prima ancora che parlare di riforme. Reperendo le risorse necessarie attraverso l’attribuzione di corso legale alle banconote del Monopoli, immaginiamo.

Per quelli tra voi che sono più interessati alla miserrima quotidianità, vi omaggiamo dell’interpretazione autentica dell’Agenzia delle Entrate sui criteri di erogazione del famigerato “bonus famiglia” ai soggetti disabili:

- non spetta l’erogazione del bonus ai nuclei familiari composti da sole persone titolari di sole prestazioni assistenziali esenti da IRPEF; questo significa, ad esempio, che l’anziano o il disabile che vive da solo ed è titolare solo di pensione di invalidità e indennità di accompagnamento o di assegno sociale non ha diritto al bonus;
- nel caso un disabile viva da solo, ha diritto al bonus nel caso il suo reddito non superi i 15.000 euro annui. In questo caso ha diritto ad un bonus di 200 euro. Il Ministero precisa che il bonus di 1000 euro (con redditi fino a 35000 euro) spetta solo nel caso un componente del nucleo familiare, ad esclusione del richiedente, sia una persona con disabilità.

Che tradotto vuol dire: se siete un disabile non autosufficiente (così come definito dalla legge 104 del 1990), e spendete (o meglio, lo fanno i vostri familiari) cifre esorbitanti per dotarvi di un’assistenza di badanti nell’arco delle 24 ore per continuare a vivere a casa vostra, ma siete soli nel vostro nucleo familiare, magari perché il vostro coniuge ha avuto la pessima idea di morire, ed avete un reddito che supera (anche di un euro) la soglia dei 15.000 euro annui appartenete, anche per evidenza empirica, all’upper class italiana, e siete quindi del tutto ineleggibili per l’accesso al generoso welfare italiano.

Ora possiamo tornare a parlare di macrosistemi e di micronidi. Fino al prossimo Libro Bianco. Vado pazzo per il riformismo forte.

Carmine
12-05-09, 15:57
Il parchimetro e l’effetto Sassoli, caro Direttore
Inserito il 09 maggio 2009
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Tags: elezioni, Falasca, Palma, PD, Sassoli, veline

Egregio Direttore Palma,
Le vorrei raccontare - Lei permettendo - un fatto assai curioso capitatomi ieri sera a Roma.
In compagnia di alcuni amici mi dirigevo verso un ristorante in centro. Parcheggiata l’automobile, siamo andati verso il parchimetro per acquistare il biglietto per la sosta. Armeggiando tra gli spiccioli, non ho potuto evitare di ascoltare la conversazione tra tre giovani alle nostre spalle, due ragazze e un ragazzo.
“Ma cè vai a votà?” dice una di loro.
E l’amica: “Nun ce volevo annà, però ce vado pè votà Sassoli”.
“Ah sì - replica la prima - quello der TG, è bravo eh… me sa che lo voto pure io”.

Non ho resistito, caro Direttore. Lei lo avrebbe fatto, lo so, da sobrio torinese qual è, ma io sono nato dove il sole batte a mezzogiorno.
“Scusami, posso chiederti perchè voterai David Sassoli?” ho chiesto alla giovane che Sassoli sta per strappare al non voto.
“Perchè sì, mi piace, ho fiducia…”
“Se non si fosse candidato lui, non avresti votato?”
“No… io sono di sinistra, l’anno scorso ho votato PD ma quest’anno non avrei proprio votato…”
Ho rilanciato: “Non pensi che Sassoli ti piaccia come giornalista e che, invece, possa tradire le tue aspettative ora che s’impegna in politica?”.
Intendiamoci, Direttore: non so davvero cosa farà Sassoli se verrà eletto (ma diamolo per certo) al Parlamento Europeo, magari scopriremo che è un ottimo politico e che ci rappresenterà al meglio. La mia era una provocazione, volevo comprendere il processo mentale che ha portato quella ragazza a tale netta intenzione di voto.
“Ma lui da giovane faceva politica… l’ha detto… era da sempre la sua passione…”.
E l’amica: “E poi, ce stanno tanti volti noti che si buttano in politica, mejo lui che faceva il giornalista e gli piace pè davero la politica che quelle che facevano le tr…”.

Con immutata stima,
Piercamillo Falasca

Carmine
12-05-09, 15:58
Sassoli e le veline: omnia munda mundis
Inserito il 10 maggio 2009
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Tags: Falasca, Palma, Sassoli, veline, Ventura

Caro Falasca,
mi chiede di commentare il suo dialogo al parchimetro con le giovani elettrici di David Sassoli e io sono in imbarazzo. Già siamo sospettati di intelligenza col nemico, dopo che la “nostra” Sofia Ventura ha pronunciato il suo solido j’accuse sulla “velinizzazione” della politica (e delle donne in politica) ed è stata iscritta d’ufficio tra le responsabili o le sobillatrici del divorzio del premier. Già abbiamo i nostri problemi a spiegare che non siamo interessati a scrivere né un capitolo, nè un paragrafo, anzi, neppure una riga, di quella “autobiografia della nazione”, a metà tra moralismo e immoralismo, che molti vorrebbero vergare, e magari declamare nelle piazze - gli uni contro gli altri armati - sulle vicissitudini della coppia Berlusconi/Lario. Già stiamo messi così, insomma, e Lei mi chiede di parlare di Sassoli e delle veline. Insomma, Lei vuole provocare. Ma io non mi sottraggo e le rispondo: “Omnia munda mundis”. A citare San Paolo si va sul sicuro, sia con i “cardinali” del Pdl sia con quel vecchio democristiano di Sassoli.
A presto
Carmelo Palma
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Carmelo Palma - che ha inserito 46 articoli in Libertiamo.it.

40 anni, torinese, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo.

Carmine
12-05-09, 15:58
P.A.: Della Vedova, bene Brunetta, superare concertazione
Inserito il 10 maggio 2009
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Tags: Brunetta, Della Vedova, riforme, sindacati

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl:

“Secondo Raffaele Bonanni, il decreto Brunetta sulla riforma della PA rappresenterebbe un ritorno al primato della politica sulla contrattazione. Sbaglia: si tratta del superamento della concertazione, uno strumento inefficace e ormai anacronistico.

Per Bonanni, e non solo per lui, appare scontato che i sindacati debbano non solo essere ascoltati ed esercitare un legittimo potere di pressione, ma addirittura esprimere un consenso vincolante sulle riforme stesse. Il dialogo con le parti sociali è fondamentale, ma la ricerca del consenso sindacale non può trasformarsi per il Governo in un impedimento alle riforme stesse.

La via indicata da Brunetta – dialogo ma poi il Governo decide – è auspicabile tanto per la PA quanto per le altre grandi questioni che attendono il governo nei prossimi mesi: le pensioni, il mercato del lavoro, la scuola. Su questi temi, l’obiettivo strategico non può essere quelli di fare riforme che vedono tutto o anche solo una parte del sindacato consenziente, ma quello di superare l’immobilismo e fare buone riforme.”

Carmine
12-05-09, 15:59
Immigrazione: Cazzola (Pdl), Italia già multietnica
Inserito il 10 maggio 2009
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Tags: Cazzola, Ibrahimovic, immigrazione

“Basta osservare quanto è avvenuto nella struttura sociale dei Paesi che prima di noi hanno affrontato il problema epocale dell’immigrazione per rendersi conto che l’Italia è già oggi ed è destinata a divenire sempre più un Paese multietnico, multirazziale e perciò anche multiculturale”. Sono le parole di Giuliano Cazzola, deputato del Pdl e vice presidente della Commissione Lavoro della Camera. Per Cazzola si tratta di “processi difficili ma inevitabili”, che “la politica deve gestire i problemi con rigore e fermezza, aiutando l’opinione pubblica e le comunità amministrate “ad essere razionali. Non è un caso che Ibrahimovic sia uno svedese. Tra qualche decennio anche il sindaco di Varese porterà un cognome arabo o rumeno come tanti immigrati di seconda o di terza generazione, divenuti cittadini italiani”.

Carmine
12-05-09, 15:59
Un candido viaggio nei palazzi della politica
Inserito il 11 maggio 2009
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Tags: Menegon, recensione, Tivelli

- Cosa direbbe il celebre Candide di Voltaire della politica dei giorni nostri? Questa, si può dire, è la domanda che si pone e a cui vuol dare una risposta Luigi Tivelli nel suo ultimo libro “Candide. Un candido nel palazzo”, dall’intrigante sottotitolo “Viaggio sospetto nel cuore della politica”. Il 14 maggio prossimo alle 18, presso la sede capitolina di Rubbettino (Lungotevere Raffaele Sanzio, 9), i tic, i vizi e le virtù della politica italiana descritte nell’agile volumetto saranno oggetto di un dibattito tra l’autore, il giornalista Stefano Folli e gli onorevoli Benedetto Della Vedova e Pino Pisicchio.
Ma chi è il Candide del buon Tivelli che ci racconta così da vicino, eppur distaccato, vizi (tanti) e virtù (alcune) del quotidiano governare e politicare? Si volesse da credito all’autore, trattasi di un servitore dello Stato che ha deciso di fargli dono delle personali e quotidiane osservazioni sopra i fatti di attualità politica del paese.
L’ingegnoso artificio non è stato utilizzato grossolanamente da Tivelli per svelare i gossip e gli strani intrighi dei personaggi del nostro tempo, argomenti tristemente di moda. Il viaggio che ci propone conduce lungo libere riflessioni che, pur radicate nell’attualità della Seconda Repubblica e della presente legislatura, si agganciano a principi e auspici sostenuti con voluto candore. Il saggio può leggersi come un tentativo di contrapporre la politica dei contenuti, delle questioni che giorno per giorno toccano i problemi della gente, alla metapolitica, che autoreferenzialmente parla di sé, dilungandosi in sterili polemiche su questa o quella dichiarazione, tenendosi lontana dalla vita reale.
Il percorso di questo viaggio tra i temi e i fatti degli ultimi anni e degli ultimi mesi in particolare, a dispetto dello scandirsi dei capitoli, non ha sempre un andamento lineare. Certe questioni, evidentemente più avvertiti da Tiv.. pardon, dal nostro candido alto funzionario, tornano a più riprese, rispecchiando in ciò anche un effettivo ciclico concatenarsi delle questioni politiche a cui un approccio più rigoroso e scientifico non saprebbe dar conto.
Sull’antipolitica e la retorica castale l’autore insiste in modo particolare. Candide lamenta il fatto che molti opinion leader, puntando il dito su alcuni vizi della politica, riscontrabili soprattutto presso le massime istituzioni, trascurano un più ampio malessere che permea ogni livello di governo. In sintesi, prevale nel Candido l’idea che anziché avvicinarsi alla società castale indiana, la società politica italiana pare fedele alla tradizione feudale; infatti, partitocrazia e lottizzazioni fanno premio sul merito e gravano sul cittadino-contribuente presso le istituzioni centrali ma più ancora tra le 20 regioni, le 100 province, i quasi 10 mila comuni italiani e i tanti enti da questi controllati.
Un altro filo della trama del libro è il massimo quesito della scienza politica: chi decide? Molte sono le riflessioni sull’insano rapporto tra media e politica, intreccio capace spesso di decidere l’agenda ma anche, con il reciproco condizionarsi, di distogliere gli occhi dei governanti dai governati. Libero da ogni vincolo d’appartenza, Candide dice la sua sull’immobilismo del Governo Prodi, così come sul decisionismo di Berlusconi, sano finché non degenera in una monocrazia (o una diarchia Ministero dell’economia – Presidenza del Consiglio) che rende effimere le altre istituzioni.
Ma sono molti i temi su cui si sofferma con un puntuale confronto tra il reale e l’ideale: i rapporti tra maggioranza e opposizione, la giustizia, la spesa pubblica, le pensioni e i giovani.
Commentando la crisi economica ricorda con toni nostalgici Einaudi, che avrebbe probabilmente esortato a “non buttar via, insieme all’acqua sporca della crisi economica, il bambino del liberismo e avrebbe tenuta alta la guardia sul fatto che, nonostante i rigurgiti di dirigismo di Stato, qua e là sgorganti, è proprio l’assenza di serie liberalizzazioni uno dei fattori cruciali che pesano sull’economia italiana”.
Il libro nelle sue 94 pagine rievoca, nella forma breve ed essenziale così come nei contenuti, i pamphlets del secolo dei lumi. E i toni illuministici si ravvisano quando le idee di libertà vengono pragmaticamente ma con coerenza impiegate e calate nelle questioni concrete che investono l’attualità politica ed economica.
Se tanto ci dà tanto, quindi, il dibattito di giovedì prossimo dovrebbe assumere i toni aperti e franchi dei salotti illuministi e consentire lo scambio di idee sul merito delle tante questioni affrontate nel libro. Magari, a margine, ci sarà anche modo di ricordare che proprio il 14 maggio di 222 anni fa, uomini saggi e intrisi della cultura illuministica iniziarono a riunirsi per scrivere una delle migliori carte fondamentali della storia politica e istituzionale, la Costituzione degli Stati Uniti d’America.

Un Candido nel Palazzo. Viaggio segreto nel cuore della politica (a cura di Luigi Tivelli), Rubbettino, 2008, 8 euro.

Carmine
12-05-09, 16:00
M.O.: Berlusconi, auspicabile soluzione 2 stati 2 popoli
Inserito il 12 maggio 2009
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Tags: Berlusconi, Egitto, Israele, Lieberman, Medio Oriente

Nel corso della sua conversazione con i giornalisti a Sharm el Sheik, alla vigila del vertice italo-egiziano, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha ribadito la posizione del governo italiano per il Medio Oriente: 2 stati per 2 popoli.“E’ una prospettiva - ha detto Berlusconi - che tutti auspichiamo”, sebbene la consideri al momento “molto difficile”. Dall’incontro con il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, il premier italiano ha tratto segnali positivi. Agli occhi di Berlusconi il ministro israeliano è parso “molto ben disposto. Certo, c’e’ bisogno d’altra parte di qualcuno che sia in grado di sottoscrivere gli accordi”.

Carmine
12-05-09, 16:00
M.O.: Berlusconi, auspicabile soluzione 2 stati 2 popoli
Inserito il 12 maggio 2009
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Tags: Berlusconi, Egitto, Israele, Lieberman, Medio Oriente

Nel corso della sua conversazione con i giornalisti a Sharm el Sheik, alla vigila del vertice italo-egiziano, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha ribadito la posizione del governo italiano per il Medio Oriente: 2 stati per 2 popoli.“E’ una prospettiva - ha detto Berlusconi - che tutti auspichiamo”, sebbene la consideri al momento “molto difficile”. Dall’incontro con il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, il premier italiano ha tratto segnali positivi. Agli occhi di Berlusconi il ministro israeliano è parso “molto ben disposto. Certo, c’e’ bisogno d’altra parte di qualcuno che sia in grado di sottoscrivere gli accordi”.

Carmine
23-05-09, 16:53
INSERITO IN | Capitale umano, Comunicati, Economia e mercato
Aiutare i più giovani? Liberalizzando le professioni
Inserito il 19 maggio 2009
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Tags: articoli, Bolognini, liberalizzazioni, professioni

Lo sostiene Luca Bolognini, portavoce nazionale di Coalizione Generazionale Under 35, su Affaritaliani.it.
“Difendo una linea tesa a “slegare” il lavoro autonomo da catene arrugginite, sulla quale rifletto da anni e mi sono confrontato con professionisti di ogni età e provenienza (anche stranieri, certo, e naturalmente non tutti d’accordo con me), arrivando a maturare una precisa convinzione a favore del libero mercato professionale e una discreta fiducia nella capacità delle persone – addette ai lavori e non – di comprenderne a fondo il perché”.“Non do retta - scrive Bolognini - a chi sostiene che la chiusura e la limitazione dell’accesso alle professioni garantirebbero un migliore mercato ai più giovani. Circola infatti questa “favola” negli ambienti di chi difende tentativi di conservazione o, dal mio punto di vista, peggio, di riforma in senso contrario (escludente) delle professioni.”

“Con l’iniziativa “Liberiamo il Lavoro” - continua ancora l’autore dell’articolo, riferendosi alla campagna lanciata dal gruppo Facebook “Io non voglio il posto fisso, voglio guadagnare” - abbiamo disegnato e presto presenteremo in Parlamento, grazie all’apporto di alcuni Deputati “illuminati”, un testo di riforma - in senso liberale – il più possibile strutturale (e tuttavia chirurgica) delle professioni in Italia, dedicando una particolare attenzione a farmacisti, notai, avvocati e commercialisti. Il ddl, intervenendo con emendamenti e integrazioni delle leggi vigenti (es. Decreto Bersani II, Finanziaria 2008, ecc.) conterrà abrogazioni di oneri a carico dei cittadini e significative innovazioni mirate a rivedere radicalmente il sistema delle professioni in Italia. Il bello è che non siamo soli nella battagli né “vox clamantis in deserto”: l’Autorità Antitrust si è più volte schierata a favore di una riforma che liberi le professioni”.

Nel suo intervento Bolognini elenca le misure contenute nel progetto legislativo: “l’abolizione del valore legale del titolo di studio, la cancellazione dei limiti agli accessi a vari Ordini e degli impedimenti all’attività imprenditoriale da parte dei professionisti (società di capitali, minimi e massimi tariffari, pubblicità, esclusività delle partecipazioni sociali, rappresentanza in giudizio, incompatibilità tra esercizio del commercio ed esercizio delle professioni, nonché tra queste ultime e l’esercizio della professione di giornalista), l’assegnazione agli uffici pubblici di numerose funzioni finora riservate ai notai, l’apertura del mercato farmaceutico, l’eliminazione del regime dei minimi contributivi previdenziali per i professionisti (problema assai sentito dalle nuove generazioni). Il ddl introduce inoltre un’agevolazione per i lavoratori autonomi più giovani, e prevede un’imposta sostitutiva dell’imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali pari al dieci per cento per chi rispetti i requisiti del regime dei minimi e abbia meno di 35 anni d’età.”

“Insomma, faremo la nostra parte - conclude l’esponente di Coalizione Generazionale - per non lasciare l’iniziativa legislativa solo nelle mani di chi difende l’ulteriore chiusura del mercato (…) e di chi spera d’arginare il mare della globalizzazione dei servizi con misure anacronistiche, corporative, di certo in buona fede ma del tutto inadeguate. Io penso a chi oggi ha meno di quarant’anni, pochi soldi e molte competenze, il mondo in casa, le nuove tecnologie nel sangue e non può né vuole permettersi velleità “signorili” tipiche di secoli andati”.

Carmine
23-05-09, 16:54
Dobbiamo proprio litigare sulla laicità? Facciamolo almeno in modo onesto
Inserito il 20 maggio 2009
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Tags: Chiesa, Fini, laicità, Palma

- Il dibattito sui temi bio-politici è diventato così insopportabilmente curiale che è ormai impossibile, per chiunque voglia mettervi becco, evitare di finire nel tritacarne degli equivoci e dei processi alle intenzioni. Più uno parla chiaro, più è sospettato di manovre oscure. Più cerca di ritrovare il bandolo di un discorso condiviso o, almeno, di un alfabeto comune, più finisce accusato di intollerabili sedizioni.
Ormai anche affermare la distinzione scolastica tra “precetto religioso” e “legge civile” appare agli occhi dei sacerdoti della nuova correttezza bio-politica un esercizio di arroganza giacobina e di militanza anti-cattolica.
Gianfranco Fini ha l’altro ieri dovuto incassare accuse vibrate per avere sostenuto una tesi da corso-base di educazione civica. Se avesse ribadito il principio della libertà religiosa, secondo questa logica, avrebbe anche potuto incassare un’accusa di complicità con il terrorismo jihadista. Tanto non conta quanto uno dice, ma cosa gli si può fare dire, suffragando il sospetto che lo pensi, senza che peraltro l’abbia detto e neppure pensato.
Vogliamo per forza litigare? Va bene: litighiamo. Ma facciamolo in modo onesto. Se dobbiamo combattere questa anacronistica guerra ideologica in nome della vera laicità, rispettiamo almeno le parti in commedia. E ognuno interpreti la sua, non quella dell’altro.
Ergo, chi teorizza un robusto interventismo legislativo in materia bio-etica per arginare la “dittatura del desiderio” dovrebbe almeno svestire i panni del liberale “anti-costruttivista”. Chi ritiene che − dopo decenni di deriva relativista − vada dichiarata la fine della ricreazione, e ristabilita una reale corrispondenza tra l’ordine morale “naturale” e l’ordine giuridico, non faccia il pesce in barile, vestendo la divisa del liberale classico. Chi pensa che, nella sostanza, avesse ragione Del Noce nel sostenere che la “perversione permissivista” della modernità borghese costituisse una vera minaccia antropologica, non finga di servire la causa dalla trincea più avanzata del liberalismo. Chi valuta che l’evoluzione spontanea dei costumi, dei modelli di relazione sociale e delle condotte individuali debba trovare argine in una ragione normativa ispirata ad un’idea più sostanziale di giustizia e, perfino, di verità, eviti almeno di ribaltare sugli altri l’accusa di “cripto-marxismo”. Chi ritiene che ad usare la sola bussola della “libertà negativa”, sui temi della vita e della morte, della salute e della malattia, dell’amore e della famiglia, il legislatore si perderebbe nel deserto dell’indifferentismo morale, eviti di festeggiare il risveglio del liberalismo dal suo secolare sonno dogmatico.
Insomma: se davvero dobbiamo “giocare a Porta Pia”, che almeno gli zuavi pontifici non si travestano da bersaglieri.
« Mills: Berlusconi contrattacca, il giudice non era terzo e imparziale
Salari: male non è peggio, ma è sempre male »

Inserito da:

Carmelo Palma - che ha inserito 48 articoli in Libertiamo.it.

40 anni, torinese, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo.

Carmine
23-05-09, 16:54
Salari: male non è peggio, ma è sempre male
Inserito il 20 maggio 2009
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Tags: donne, Falasca, immigrati, Ocse, salari, sindacati, tasse

- Dibattito surreale. Come ogni anno, la pubblicazione del rapporto Ocse Taxing Wages scatena il dibattito sui bassi salari degli italiani. Tempistica e dinamica sono sempre le stesse, l’opposizione attacca la maggioranza, il governo in carica accusa quelli precedenti e promette grandi azioni per il futuro, i sindacati sciorinano cifre che testimonierebbero l’esproprio consumato ai danni dei lavoratori.
Il tutto frullato nella quotidianità, come se i dati del rapporto fossero la conseguenza di quanto ha deliberato l’ultimo Consiglio dei Ministri e non siano, come sono, relativi all’anno precedente (il rapporto del 2009 si riferisce al 2007/2008, quello del 2008 al 2006/2007 e così via).
Un dibattito surreale e surrealmente uguale a sé stesso, anno dopo anno, per colpa di una stampa approssimativa e di una politica evanescente nei fatti e caciarona nei discorsi.

Errore lessicale. Come si legge in questo documentato articolo su DestraLab, c’è anzitutto un errore lessicale. Si dice: “sempre peggio i salari italiani”, ma è sbagliato. In realtà, va male ma non va peggio, anzi nell’ultimo rapporto le cose vanno addirittura un po’ meglio rispetto a quello passato.
Se il salario medio italiano nel periodo 2006/2007 era pari al 75 per cento del valore medio dell’Europa a 15, nel 2007/2008 è salito al 77 per cento. Calcolatrice alla mano, dalle tabelle dell’Ocse notiamo come nell’ultimo anno il costo del lavoro in Italia sia aumentato dell’8,8 per cento, in Germania solo del 3,5, nel Regno Unito dello 0,2, mentre negli Stati Uniti è addirittura calato dello 0,6 per cento (in questi numeri si legge, tra l’altro, la maggiore adattabilità del sistema salariale anglosassone alla contrazione della domanda).
Aumenta il costo del lavoro, ma contestualmente aumenta anche il cuneo fiscale e contributivo, che passa dal 45,9 per cento al 46,5. E così l’aumento dei salari netti è meno robusto di quello del costo del lavoro. Meno robusto ma c’è, come pure ha stimato l’Istat, per il quale i salari del 2008 sono cresciuti del 3,8 per cento rispetto al 2007, più dei prezzi al consumo.
Insomma, le cose non vanno “peggio”, vanno male come sempre.

Proposta leghista. All’Ocse, ma anche all’Eurostat, all’Istat ed altri istituti di ricerca e statistica, il governo dovrebbe chiedere che l’Italia non sia più considerata come un unico Paese, ma come due distinte entità. Sui confini ai fini statistici dell’una o dell’altra entità potremmo accordarci, ma le differenze tra Nord e Sud sono troppo marcate e profonde perché la media italiana possa avere un valore davvero descrittivo della realtà. Venuta meno la finzione statistica, probabilmente avremmo più chance di far cadere la perniciosa finzione giuridica del contratto collettivo nazionale. Da questo punto di vista, il recente accordo sulla contrattazione va nella giusta direzione, seppure in modo ancora timido.
Insomma, anziché appaltare alla Lega l’agenda politica sull’immigrazione, sarebbe meglio seguire Bossi sul tema della differenziazione salariale per territori.

Donne e immigrati. In un brillante lavoro di Valentina Adorno, Andrea Ichino e Giovanni Pica, scopriamo che l’andamento del salario reale medio è fortemente condizionato dai cambiamenti che avvengono nella composizione della forza lavoro: negli ultimi venti anni, l’aumento dell’occupazione femminile e l’ingresso nel mercato del lavoro italiano di centinaia di migliaia e poi di milioni di lavoratori stranieri poco qualificati hanno avuto un effetto calmierante sui salari.
Più che stracciarsi le veste per i dati sul salario medio, faremmo bene ad analizzare queste diverse componenti. Per le donne, pesa il maggior ricorso al part-time, amplificato in Italia dalla carenza di servizi per la maternità e l’infanzia. Rispetto agli immigrati, va sottolineata l’assenza di una politica dell’immigrazione capace di attrarre nel nostro Paese lavoratori qualificati. “Più che le leggi Treu e Biagi – scrivono Adorno, Ichino e Pica – potrebbero essere le leggi Martelli, Turco-Napolitano e Bossi-Fini ad aver influenzato maggiormente l’andamento della retribuzione media, attraverso il loro effetto sulla composizione dei flussi migratori e sul potere di negoziazione degli stranieri”.

Banalità. E’ inutile andare a caccia degli untori: i salari italiani sono bassi perché la produttività è bassa. Fieramente impegnati ad elogiare il sano capitalismo bancario italiano, sparagnino e solido, alcuni si sono dimenticati che l’altra faccia della medaglia – negli ultimi dieci anni – è stata la crescita zero. Passata la crisi, è assai probabile che l’Italia riprenderà la sua marcia da tartaruga in un mondo che tornerà a crescere e a far salire i salari. Le soluzioni per evitare la deriva? Sempre, sempre, sempre le stesse. Riduzione delle tasse sul reddito, liberalizzazioni, investimenti in ricerca, contrattazione aziendale, welfare-to-work. Non cambia mai nulla, perché dovrebbero cambiare le soluzioni?
« Dobbiamo proprio litigare sulla laicità? Facciamolo almeno in modo onesto
Mills, giustizia e dintorni: conversazione con Filippo Facci »

Inserito da:

Piercamillo Falasca - che ha inserito 33 articoli in Libertiamo.it.

Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo.

Carmine
23-05-09, 16:55
INSERITO IN | Comunicati
Iran: Della Vedova, Bene Frattini, a queste condizioni no al dialogo
Inserito il 20 maggio 2009
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Tags: Della Vedova, Frattini, iran, Onu

“Con la decisione di annullare l’incontro programmato con il presidente iraniano - dichiara Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl e presidente di Libertiamo - mi pare che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, abbia espresso con fermezza la contrarietà dell’Italia alla politica aggressiva e provocatoria messa in campo dal governo di Ahmadinejad.”Per Della Vedova, “Frattini ha evitato per l’Italia una dannosa strumentalizzazione, quale sarebbe stato un incontro diplomatico nella città – Semnan – in cui stamattina è stato testato un missile che potrebbe colpire Israele. L’Iran non potrà essere considerato un interlocutore credibile e un attore importante per la stabilizzazione dell’area, finché non abbandonerà ogni forma di provocazione e di minaccia nei confronti di Israele e dell’Occidente”.

“A chi si preoccupa - conclude Della Vedova, riferendosi alle dichiarazioni dell’esponente del Pd, Mario Barbi - che l’eventuale conseguenza della scelta di Frattini possa essere la mancata partecipazione dell’Iran al G8 dei ministri degli Esteri di giugno, andrebbe ricordato lo show anti-semita che Ahmadinejad ha messo in atto lo scorso mese a Ginevra, in occasione del vertice Onu. A queste condizioni, è meglio non dialogare con l’Iran”.

Carmine
23-05-09, 16:55
Senza paura. Sui referendum il Pdl dica Sì
Inserito il 20 maggio 2009
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Tags: Fare Futuro, Libertiamo, PdL, referendum

Il “semi-bipartitismo” italiano si è costruito per via del tutto politica, malgrado e non grazie alle regole dell’attuale legge elettorale. Le scelte compiute da Pdl e Pd nel 2008 hanno infatti eccezionalmente consentito di giocare la partita del voto secondo regole diverse e migliori di quelle che, in teoria, l’attuale legge avrebbe offerto ai partiti e agli elettori.
I referendum elettorali che si terranno il prossimo 21 giugno rendono possibile consolidare dal punto di vista normativo una dinamica politica bipolare e, in prospettiva, bipartitica, che gli elettori hanno dimostrato di apprezzare, ma che è oggettivamente minacciata da norme elettorali che non ne impediscono, ma al contrario ne favoriscono il “sabotaggio”.
Per il Pdl il sì ai referendum dovrebbe essere una scelta naturale, inscritta nello stesso processo che ha portato alla costituzione di un grande partito a vocazione maggioritaria e coerente con l’ambizione di realizzare un compiuto disegno di riforma delle istituzioni e della Costituzione.
Le democrazie moderne, in tutti i paesi avanzati, si reggono su grandi partiti, su sistemi politici competitivi e su un assetto istituzionale efficiente. Si tratta di condizioni indispensabili per l’esercizio di un’effettiva responsabilità di governo e d’opposizione. A servire questi obiettivi di modernizzazione politica non può quindi essere una legge elettorale, come quella attuale, che consente la formazione di coalizioni omnibus, favorisce la frammentazione e non l’aggregazione partitica, e assicura l’accesso alla rappresentanza parlamentare anche a formazioni che raccolgano meno dell’1% dei voti.
L’approvazione dei referendum elettorali non impedirebbe, in seguito, l’adozione di misure utili a razionalizzarne l’esito, senza contraddirne il significato. La vanificazione dei referendum, al contrario, pregiudicherebbe per molto tempo la possibilità di riformare la legge elettorale.
Se la vittoria dei sì stabilizzerebbe il quadro politico, in molti pensano che rischierebbe però di destabilizzare la compagine di maggioranza. Sono chiare le ragioni e i timori della Lega e altrettanto evidente è il rischio che la minaccia di una possibile crisi di governo porti il Pdl ad allinearsi, implicitamente o esplicitamente, alla strategia astensionista. Siamo però fiduciosi, dopo l’annuncio del voto favorevole da parte del Presidente del Consiglio, che la risposta del Pdl possa essere diversa e rilanci nei confronti della Lega una vera sfida politica: non per far saltare l’accordo di coalizione, ma per assicurarne un’evoluzione coerente con le esigenze di modernizzazione del nostro sistema elettorale.
Non mancano soluzioni che permetterebbero, anche dopo la vittoria dei sì, di consolidare in modo stabile l’alleanza fra Lega e Pdl, senza rischiare che le spinte centrifughe dovute alla legge elettorale nel medio periodo abbiano la meglio sulle ragioni politiche, sociali, culturali ed economiche che, da quasi un decennio, hanno portato ad una alleanza organica tra Lega e Pdl. Un accordo è possibile, se entrambi gli interlocutori si dimostreranno disponibili a cercarlo.
Per queste ragioni, riteniamo che il Pdl dovrebbe profondere un deciso impegno a favore del sì ai prossimi referendum elettorali. Ciò, con ogni evidenza, non metterebbe in discussione né pregiudicherebbe per gli elettori e i dirigenti del Pdl la libertà di fare una scelta diversa e altrettanto legittima. Ma non pensiamo che il più grande partito italiano possa sottrarsi alla responsabilità di dare un’indicazione esplicita su referendum, la cui approvazione offrirebbe un contributo decisivo alla realizzazione del progetto politico che esso propone al Paese.

Questo intervento è pubblicato in contemporanea su Ffwebmagazine e Libertiamo.it, in vista dell’incontro organizzato dai due periodici per sabato 23 maggio 2009 a Roma, alle ore 10.30, presso la sala conferenze dell’Opinione di via del Corso 117. Interverranno: Adolfo Urso, Benedetto Della Vedova, Antonio Martino e Giovanni Guzzetta. Modera: Arturo Diaconale, direttore de l’Opinione.20 maggio 2009

Carmine
23-05-09, 16:56
La famiglia e l’art. 29 della Costituzione: alcune riflessioni
Inserito il 21 maggio 2009
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Tags: coppie di fatto, diritti civili, famiglia, riforme

- L’articolo 29 della Costituzione dice che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Occorre distinguere due problemi che vengono talvolta confusi e cioé se l’art. 29 tuteli soltanto la famiglia fondata sul matrimonio tra persone di sesso diverso e se lo stesso articolo si opponga alla tutela di famiglie fondate su una unione diversa dal matrimonio.

Quanto al primo problema, una prima osservazione, che si riferisce al puro testo della norma, è che quest’ultima non limita l’istituto del matrimonio a persone di sesso diverso. In questo senso, i nostri costituenti, già nel 1945, si sono comportati in modo molto diverso dai costituenti di altri paesi affini al nostro che invece specificavano espressamente che i coniugi dovessero essere di sesso diverso (e che per questo, in anni più recenti, si sono trovati di fronte a difficoltà maggiori di quanto non presenti il nostro testo costituzionale). Naturalmente, sarebbe inutile sostenere che i padri fondatori della nostra costituzione avessero in mente l’eventualità di estendere il matrimonio anche a persone dello stesso sesso o all’eventualità che in un futuro si sarebbe posto al legislatore ordinario questo problema. Essi, semplicemente, non hanno specificato l’esigenza della diversità di sesso perché per essi era naturale che il matrimonio fosse possibile soltanto tra persone di sesso diverso.

Ci si deve chiedere però se questo riferimento all’intenzione (supposta) del legislatore costituente chiuda il discorso. Il problema è come si deve interpretare una disposizione in sé neutra, scritta in anni molto diversi dai nostri, in presenza di un contesto sociale di riferimento che certamente ha poco a che fare con quello dell’Italia di oggi. Questo problema interpretativo, come tutti sanno, si accentra soprattutto sul termine naturale che compare nell’articolo della costituzione dato che tale termine costituisce di fatto l’unico limite che la norma pone al riconoscimento costituzionale della famiglia come società fondata sul matrimonio. A questo proposito, va da sé che non può essere attribuito al termine naturale ciò che viene ritenuto tale da una particolare concezione ideologica, religiosa o altro. L’uso di un tale criterio interpretativo sarebbe aberrante in uno Stato che si è fondato costituzionalmente in contrapposizione (e superamento) del modello dello Stato etico, quale che sia questa etica. Vero è che molte concezioni asseriscono che la loro è l’unica veramente naturale. Questa appropriazione, tuttavia, oltre che essere discutibile, deve trovare riscontro nei fatti ovvero deve uscire dal campo delle affermazioni soggettive per entrare nella dimensione del dato oggettivo. Altri asseriscono che il termine naturale non può che riferirsi alla famiglia come tradizionalmente intesa perché questa tradizione segna l’identità tipica della società italiana. E siccome questa tradizione da un punto di vista storico-religioso ammette soltanto la famiglia eterosessuale, l’art. 29 deve essere interpretato di conseguenza. Questo argomento, oltre che un po’ specioso, sorprende alquanto. In effetti, appare ben strano che una norma debba essere interpretata oggi alla luce del suo significato storico. Di solito, accade il contrario e cioè che una norma, storicamente datata, debba essere interpretata alla luce dei bisogni e dei dati del presente ovvero, come si dice, in senso storico (sì, ma) -evolutivo.

In realtà, tutti sono d’accordo nel ritenere che naturale vada inteso come dato pregiuridico, che il diritto positivo si limita appunto a riconoscere. La famiglia è un dato sociologico, che la costituzione non crea ma si limita a tutelare. Una società complessa e articolata può presentare però diversi modelli di famiglia, come quella eterosessuale o quella omosessuale. Possono tutti aspirare al riconoscimento di cui all’art. 29? Come si fa a scegliere il modello costituzionalmente rilevante? Evidentemente, il riferimento al concetto di naturale non basta in una società che può presentare tanti modelli naturali l’uno a fianco dell’altro. Occorre appunto un criterio oggettivo che porti a selezionare quello rilevante e a scartare quello che non lo è o addirittura a censurare un modello che, benché naturale, possa essere avvertito come negativo. Questo criterio non può stare se non dentro la costituzione stessa, nei principi che la fondano.

La costituzione italiana del dopoguerra non è eticamente orientata, ma nondimeno si fonda su dei valori. Non potrebbe esistere altrimenti. Dopo tante esperienze del passato, il valore fondante è il rispetto della dignità della persona, il rispetto della dignità di ciascuna persona, sia presa in sé come valore assoluto, sia presa in rapporto agli altri, con i quali essa convive e si confronta. La cosa che dunque ci dobbiamo chiedere è se sia conforme alla dignità della persona privare qualcuno della dignità di fondare una famiglia in ragione di un criterio come quello dell’orientamento sessuale, di un criterio, cioè, che, come quello della razza, della nazionalità, dell’origine etnica, ecc., non fa parte delle scelte individuali, ma è dato, inerente, connaturato, naturale. E’ una tale operazione sostenibile alla luce dell’obiettività della nostra costituzione? Società vicine alla nostra per valori fondanti si sono già imbattute in questo problema. Società di common law in cui i giudici (supremi) assumono tradizionalmente ruoli più rilevanti dei nostri hanno superato il concetto tradizionale di famiglia dando applicazione diretta al principio di pari dignità iscritto nella costituzione (Canada, Sudafrica, ecc.). Nei nostri paesi di civil law si aspetta l’intervento del legislatore al quale si chiede di applicare di volta in volta la costituzione alle nuove realtà sociali che sorgono, almeno fino a quando anche il nostro giudice (supremo) non ritenga che, in questa materia come in altre, il principio di pari dignità non possa trovare diretta applicazione.

Veniamo ora al secondo aspetto del problema, ovvero: l’art. 29 si oppone alla tutela di unioni fondate su vincoli diversi dal matrimonio? A questo proposito, i dati normativi potrebbero bastare. Certo, l’art. 29 riconosce solennemente la famiglia fondata sul matrimonio, ma non vieta certamente di riconoscerne altre. Non è una norma limitativa. Dire che la Repubblica riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio non significa dire che la Repubblica riconosce soltanto questa famiglia, anche se significa certo dire che riconosce quest’ultima con una certa enfasi o in modo particolare. Al contrario, la nostra costituzione impone un’ampia tutela delle formazioni sociali. Come è noto, infatti, l’art. 2 afferma che la Repubblica garantisce i diritti dell’uomo sia come singolo “sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. L’esegesi dell’art. 2 sarebbe troppo lunga da fare in questa sede, ma è sufficiente rilevare che l’art. 29 tutela una delle formazioni sociali cui l’art. 2 si riferisce, insieme a altre tutelate espressamente dalla costituzione, e che lo stesso art. 2 è una clausola aperta, che impone al legislatore un’ampia tutela delle formazioni sociali di volta in volta emergenti nella società.

Si potrebbe pertanto dire che non solo la tutela di famiglie diverse da quelle fondate sul matrimonio è legittima, ma, addirittura, ribaltando i termini soliti del dibattito, è in qualche modo costituzionalmente doverosa. Del resto, se la famiglia è un dato pregiuridico, sociologico, che l’art. 29 si è limitato a riconoscere, così come esso si presentava negli anni ‘40, come si può dire che il costituente abbia inteso precludere una volta per tutte che la Repubblica tuteli altre forme di famiglia mano a mano che esse sociologicamente si presentano? L’unico limite è che la famiglia naturale non sia in contrasto con i valori fondanti della costituzione, ma se la famiglia sociologica li riflette, appare contraddittorio rispetto allo stesso senso dell’art. 29, o al senso che questa disposizione ha avuto allora, concludere che la Repubblica non può più riconoscere nuove famiglie. La Corte costituzionale, del resto, non è pervenuta a risultati diversi quando ha osservato che se la famiglia di fatto è già equiparata a quella giuridica nei rapporti verticali (genitori-figli) in quanto la scelta di non sposarsi non può giustificare un trattamento deteriore per i figli, la costituzione non esclude la possibilità di regolare adeguatamente anche le relazioni orizzontali all’interno della stessa famiglia (sent. 166/98).

Il vero problema è se la norma costituzionale imponga comunque di privilegiare la famiglia fondata sul matrimonio. A questo proposito, appare difficile negare che, prevedendo espressamente una norma apposita, il legislatore costituente non abbia inteso riconoscere alla famiglia fondata sul matrimonio un ruolo particolare, per così dire rafforzato. Una tale lettura, del resto, appare del tutto logica. Il riconoscimento di unioni fondate su vincoli diversi dal matrimonio ha senso se i suoi membri sono titolari di diritti e doveri diminuiti rispetto a quelli di cui sono titolari i membri di una famiglia fondata sul matrimonio. In caso contrario, si tratterebbe soltanto di un’operazione simbolica, il cui senso reale potrebbe essere soltanto quello di risparmiare ai futuri membri la solennità che la celebrazione del matrimonio comporta (con tutti gli annessi e connessi). Del resto, se i singoli danno vita a famiglie diverse da quelle fondate dal matrimonio c’è da supporre che lo facciano perché non vogliono le stesse conseguenze o gli stessi effetti che una famiglia fondata sul matrimonio implica, altrimenti darebbero vita a quest’ultima.

Altro è determinare quali sono i diritti/doveri sottratti alla convivenza. Una tale operazione richiede una riflessione sulla causa della famiglia di fatto, sulla ragione (giuridica) cioè che differenzia quest’ultima dalla famiglia fondata sul matrimonio. A questo proposito, la Corte costituzionale, facendosi probabilmente interprete del costituente, ha spesso detto che il favore per l’istituto matrimoniale si giustifica “in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio” (tra le altre, 352/2000, 121/2004). Si può condividere il pensiero della Corte nel senso che proprio la stabilità, la certezza e la corrispettività derivanti dal (contratto di) matrimonio possano giustificare la differenza di statuto, del complesso cioè dei diritti/doveri derivanti dall’uno o dall’altro istituto. Contrariamente a quello che dice la Corte, e a quello che spesso si dice, però, non si tratta di favore né di privilegio o di logica premiale o quant’altro. Si tratta molto più semplicemente di una differenza che si giustifica obiettivamente perché certi elementi sono inerenti al matrimonio e non si ritrovano altrove. Se non ci fosse alla base questa differenza di presupposti, sarebbe difficile giustificare una differenza di effetti o di conseguenze, i quali comunque non possono non essere correlati ai primi.

Un’ultima notazione. La tutela della convivenza, come istituto diverso dal matrimonio, si giustifica e non crea storture generali nell’ordinamento a condizione che il matrimonio sia oggetto di una reinterpretazione costituzionalmente orientata (v. sopra). Un’interpretazione tradizionale del matrimonio e una tutela differenziata della convivenza non eliminerebbero la discriminazione di fondo di cui sono vittima una parte di cittadini di questa Repubblica.
« La Sapienza sapientemente si ridimensiona
Nuntio vobis gaudium magnum »

Inserito da:

Marco Balboni - che ha inserito 1 articoli in Libertiamo.it.

Professore associato presso la Facoltà di Scienze Politiche "R. Ruffilli" dell'Università di Bologna, sede di Forlì, dove insegna Diritto internazionale (laura triennale) e Protezione internazionale dei diritti umani (laurea magistrale). Svolge le sue attività di ricerca presso il Centro interdipartimentale di Ricerca sul Diritto delle Comunità europee, Dipartimento Scienze giuridiche dell'Università di Bologna, in particolare su temi di diritto comunitario (attuazione del diritto comunitario negli ordinamenti degli Stati membri), diritti degli stranieri, diritti umani e giustizia penale internazionale. È avvocato, iscritto all'Ordine degli Avvocati del Foro di Bologna dal 1993.

Carmine
23-05-09, 16:56
La crisi non è una notte oscura in cui tutte le vacche sono nere
Inserito il 21 maggio 2009
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Tags: Cazzola, crisi, economia, Fiat

- Testo dell’intervento pronunciato il 18 maggio 2009 alla Camera dei Deputati da Giuliano Cazzola, per illustrare la mozione 1-00180 (Cicchitto e altri), sulla crisi economica internazionale e sulle misure atte a rilanciare la crescita economica in Italia -

Intervenendo per illustrare la Mozione a firma “Cicchitto ed altri” vorrei innanzi tutto ringraziare l’on. Dario Franceschini le cui mozioni, a cadenza settimanale, sono non solo di stimolo alla maggioranza nel ricercare adeguate risposte, ma al dunque finiscono anche per confermare le nostre convinzioni sulla validità del lavoro che abbiamo svolto.
Viene naturale, infatti, Presidente, alla maggioranza di rispondere alle critiche dell’opposizione ricordando le cose che sono state fatte.
Grazie a questa ricostruzione della linea di condotta del Governo e della maggioranza a cui ci induce lo zelo dell’on. Franceschini, noi riusciamo a superare i dubbi (chi non ne ha, Presidente !) e a convincerci che – pur con tutti i limiti – abbiamo fatto ciò che era possibile e comunque meglio di quanto avrebbe operato, al nostro posto, l’opposizione.
Ma, come insegnano gli antichi maestri, nel confronto politico è sempre bene partire dall’analisi, perché da analisi differenti discendono anche scelte politiche altrettanto differenti. Se poi le analisi sono sbagliate anche le misure adottate risultano inadeguate alla concreta situazione.

Noi non siamo ottimisti faciloni. L’incipit della Mozione Cicchitto non nasconde la gravità della crisi internazionale nè le sue ricadute sull’economia del nostro Paese.
Vengono infatti ricordati i più recenti dati dell’Istat riguardanti l’indice della produzione industriale del mese di marzo 2009 che hanno segnalato una diminuzione del 4,6% rispetto al mese precedente nonché una variazione congiunturale della media degli ultimi tre mesi rispetto a quella dei tre mesi immediatamente precedenti pari a meno 9,8%; dati sicuramente critici che si muovono nel contesto di una secca caduta del Pil, nel primo trimestre dell’anno in corso, riguardante tutta l’Eurozona.
Ma come afferma un grande scrittore italiano è compito della politica saper distinguere nell’Inferno ciò che Inferno non è. E’ nostro dovere, cioè, cogliere i primi segnali, ancora tenui ed incerti, del cambiamento per incoraggiarne il rafforzamento con interventi adeguati, concentrando su di essi le risorse disponibili, anziché restare confinati nella solita rappresentazione di una notte oscura in cui tutte le vacche sono nere.

La principale critica che l’opposizione rivolge da mesi al Governo è quella di aver investito troppo poco per contrastare la crisi. Anche nei giorni scorsi l’on. Bersani ha evocato, al solito, quella manovra da un punto di Pil che, a suo avviso, avrebbe consentito di fronteggiare meglio la crisi.
E’ il consueto invito a fare di più che viene rivolto dall’on.Franceschini ovunque si rechi a fare campagna elettorale. Magari dimenticando di ricordare agli agricoltori della Valle Padana la legge votata dal Parlamento con il contributo delle opposizioni.
Eppure l’opposizione non può non avere presente il quadro preoccupante della finanza pubblica per quanto riguarda sia il debito pubblico, sia il disavanzo previsto per il 2009. Sia, purtroppo, il peso crescente della spesa pubblica sul Pil. E’ un quadro fortemente debilitato in seguito alla crisi finanziaria ed economica che ha inciso sulle entrate fiscali (nonostante i successi nella lotta all’evasione) e che ha richiesto impegni di finanza pubblica superiori – per comprensibili motivi di politiche di sostegno alla famiglie e alle imprese – a quelli che erano prevedibili l’estate scorsa quando il Governo decise di anticipare la manovra di bilancio.
Quale sarebbe adesso la situazione della finanza pubblica se il Governo avesse accolto i suggerimenti di chi proponeva di lasciarsi alle spalle il rigore, i parametri e i saldi ? Per rispondere a questa domanda basta guardarsi attorno in Europa e nel mondo sviluppato e pesare i deficit dei bilanci di altri Paesi, i quali hanno comunque un vantaggio nei nostri confronti: quello di un livello del debito pubblico inferiore e più controllabile del nostro.

A tali considerazioni l’opposizione potrebbe replicare che, se si fossero investite risorse per un punto di Pil, si sarebbe stimolata l’economia e che da queste migliori performance sarebbe derivato anche un quadro meno fosco di finanza pubblica.
Il fatto è che di tutto ciò non esiste prova, anche perché la situazione dei Paesi che hanno varato programmi più “pesanti” (quanto a risorse impiegate) del nostro non se la passano meglio di noi per quanto riguarda sia le performance dell’economia, della produzione industriale, sia i tassi di occupazione e disoccupazione. Quanto alla specificità del settore manifatturiero è veramente singolare che nella mozione del Pd non trovi adeguato spazio il caso Fiat, che è la dimostrazione più evidente delle potenzialità del nostro apparato manifatturiero. Non può essere condannato, infatti, ad un inesorabile declino un sistema produttivo la cui leadership ha la forza e l’audacia di impegnarsi in un’operazione di internazionalizzazione tanto brillante e innovativa.

A qualche cosa sarà pure servito il “pacchetto” sui settori in crisi varate dal Governo se, calcolando l’Unione europea a 27 (compresi i nuovi stati membri), Fiat Group Automobiles ha immatricolato ad aprile 121.671 vetture nuove, segnando un rialzo del 4,7% rispetto ad un anno fa. In Europa occidentale, il solo marchio Fiat ha immatricolato il mese scorso 94.836 unita’, in aumento del 5,7% rispetto ad aprile 2008. Il marchio Lancia scende dell’1,2% (a 10.769 unita’) e Alfa Romeo avanza del 5%, a 10.043 unita’.
Sappiamo bene che l’operazione Fiat-Chrysler-Opel può comportare dei problemi in Italia; problemi di cui il Governo (che fino ad ora ha fatto bene a non intromettersi) è pienamente consapevole e pronto a fare la sua parte come hanno dichiarato i ministri Sacconi e Scajola.
Pensiamo però che sia un errore di prospettiva lamentarsi di una Fiat che può diventare “grande nel mondo” e “piccola in Italia”.
In futuro, le aziende produttrici di automobili, nel mondo, si ridurranno, al massimo, al numero delle dita di una mano. E si aprirà quindi una dura lotta per la sopravvivenza che avrà come condizione necessaria il recupero di competitività.
Ormai non è più soltanto una questione di costi, ma anche di qualità del prodotto. Ed è sulla qualità ecologica del prodotto che la Fiat ha vinto la sfida che gli ha consentito di valicare non solo le Alpi (come diceva l’Avvocato), ma anche l’Oceano.
Non sarà mai possibile infatti avere - in paesi come l’India e la Cina - una diffusione dell’auto paragonabile a quella esistente negli Usa e in Europa senza compiere quel salto tecnologico in grado di rendere compatibile lo sviluppo della motorizzazione e la salvaguardia dell’ambiente.
I (pochi) colossi di un futuro ormai prossimo potranno reggere la sfida ad alcune precise condizioni, la più importante delle quali risiede nella piena valorizzazione della dimensione multinazionale delle imprese.

In sostanza, le grandi holding dell’auto del futuro dovranno avere stabilimenti nelle aree strategiche del mondo, laddove è attesa un’esplosione dei mercati.

Prima ancora che una comprensibile esigenza di disponibilità delle reti commerciali e dei trasporti, resta decisivo un problema di costi concorrenti.
Nell’industria dell’auto il costo del lavoro continua ad avere un rilievo determinante nella battaglia per la competitività sui mercati internazionali. Delocalizzare non significa - necessariamente e sempre - privare del lavoro gli operai italiani o francesi o tedeschi, ma poter applicare ai lavoratori dell’Europa benestante dei contratti di lavoro e dei sistemi di welfare che altrimenti sarebbero insostenibili. In sostanza, possiamo permetterci le nostre condizioni di lavoro e di vita soltanto perché in altre parti del mondo vi sono lavoratori che producono per le nostre imprese a costi più ridotti.
E’ normale che il settore manifatturiero si sposti continuamente alla ricerca di condizioni più vantaggiose nell’utilizzo della forza lavoro.
Tanto più che la manodopera dei paesi in via di sviluppo presenta parecchie convenienze: è giovane, conosce l’inglese, ha voglia di lavorare e, se può farlo in patria senza dover emigrare, è ancora più contenta.

Nei paesi occidentali resteranno le “intelligenze strategiche” dei grandi gruppi. E se così sarà quale migliore ubicazione può trovare un’impresa leader mondiale del settore dell’auto se non a Detroit e nel cuore della Germania ?
Ecco perché è sbagliato lo slogan della manifestazione sindacale di sabato: “Da Nord a Sud la Fiat cresce solo con noi”. Purtroppo o per fortuna, è vero il contrario. Fermo restando che delle soluzioni andranno trovate per gli stabilimenti italiani a rischio, una Fiat che si “chiudesse in casa” sarebbe condannata, in breve, a ripiombare nella situazione pre-fallimentare in cui versava soltanto pochi anni or sono. E’ vero allora che non può esservi una Fiat grande in Italia e piccola nel mondo perché una Fiat prevalentemente italiana non sarebbe competitiva.
Tutti affermiamo che da questa crisi usciremo diversi, poi ci spaventiamo quando siamo messi alla prova da una delle più importanti operazioni di politica industriale di questo scorcio di secolo.

E’ il momento, però, di tornare alle proposte contenute nella Mozione “Cicchitto ed altri” sulle quali il Pdl chiederà l’impegno del Governo. La loro principale caratteristica è quella di muoversi all’interno di un complesso quadro di riferimento normativo già predisposto ed operante grazie all’attività legislativa di questo primo anno di legislatura.

L’impegno del Governo e delle Regioni nel finanziamento della cassa integrazione in deroga (estesa cioè ai settori che ne sono privi, secondo criteri di flessibilità) ha consentito, fino ad ora, di difendere tanto l’occupazione quanto le imprese, che hanno avuto la possibilità di valutare la situazione e considerarne l’evoluzione, prima di procedere a decisioni definitive.

L’estensione, per la prima volta, della cassa integrazione in deroga alle piccole imprese da parte del Governo ha contribuito in modo sostanziale a valorizzare lo sforzo di tenuta dei livelli occupazionali sostenuto dai micro e piccoli imprenditori italiani.

Le misure di deregolazione e di semplificazione adottate dal Governo nel corso del 2008 hanno agevolato l’attività ordinaria delle imprese.

Vi è un contesto più rassicurante per quanto riguarda il credito e la fornitura di energia.

In tale ambito il Governo è invitato a promuovere, unitamente alle istituzioni locali e alle parti sociali delle conferenze di settore e/o di distretto industriale allo scopo di individuare degli specifici “programmi di risanamento e sviluppo” in grado affrontare i nodi della crisi con ogni possibile misura di contenimento e di ripresa. E a recepire integralmente, per primo in Europa, le indicazioni suggerite agli Stati Membri dell’Unione Europea dallo Small Business Act e a realizzare al più presto gli impegni previsti dalla Risoluzione approvata dalla X Commissione.

Il Governo è altresì invitato ad accelerare i pagamenti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese creditrici e a predisporre le misure previste dalla legge per quanto riguarda la certificazione dei crediti suddetti onde consentirne lo sconto da parte degli istituti di credito.

Altre proposte riguardano gli investimenti e le infrastrutture. A questo proposito è nota l’intenzione del Governo di adottare il piano casa come intervento di transizione per mettere in moto il settore delle costruzioni (come è emerso nella riunione degli Stati generali del settore) in attesa degli effetti prodotti dalla grandi opere programmate e prima ancora dalla ricostruzione delle aree terremotate dell’Abruzzo.

Di questo piano – tuttora oggetto di confronto con le Regioni – si è detto di tutto. Fino a prendere atto – almeno ce l’auguriamo – delle stime del Cresme: se arriverà al traguardo il piano stimolerà investimenti aggiuntivi per 42 miliardi tra il 2009 e il 2012 e l’edilizia abitativa crescerà l’anno venuto del 27%.

Concludo, Presidente, rinviando alla lettura della Mozione che ho illustrato. Credo che tra le nostre proposte e quelle della Mozione Franceschini non ci sia una differenza incolmabile e mi auguro che il Governo possa tenerne conto.
« Nuntio vobis gaudium magnum
Pensioni: Brunetta, Entro un anno equiparazione età donne-uomini »

Inserito da:

Giuliano Cazzola - che ha inserito 4 articoli in Libertiamo.it.

Nato a Bologna nel 1941. Laureato in Giurisprudenza, esperto di questioni relative a diritto del lavoro, welfare e previdenza, è stato dirigente generale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Insegna Diritto della Sicurezza Sociale presso l’Università di Bologna. Ha scritto, tra l’altro, per Il Sole 24 Ore, Il Giornale, Quotidiano Nazionale e Avvenire e collaborato con le riviste Economy, Il Mulino e Liberal. E’ deputato del Pdl e vice-presidente della Commissione Lavoro.

Carmine
09-07-09, 11:29
INSERITO IN | Economia e mercato
Ma il sistema fiscale italiano non era progressivo?
Inserito il 03 luglio 2009
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Tags: Fisco, Seminerio

- Analizzando i dati del conto economico trimestrale delle Amministrazioni pubbliche, redatto dall’Istat e pubblicato ieri, un dato colpisce più di altri. Occorre doverosamente premettere, come fa il nostro istituto di statistica, che “la forte variabilità in corso d’anno degli aggregati del conto ed in particolare del saldo (indebitamento netto) che, per gli anni presi in considerazione, assume andamenti diversi nei trimestri in cui vengono adottati i vari provvedimenti di politica economica e le diverse manovre di bilancio“, ed anche che la metodologia di rilevazione è per competenza (e non per cassa), ma il confronto del dato del primo trimestre 2009 sul corrispondente periodo del 2008 consente comunque di limitare in parte le distorsioni.

Dal confronto si evidenzia quindi che, mentre l’incidenza delle spese sul Pil è passata dal 45,6 per cento del primo trimestre 2008 al 49,2 per cento del primo trimestre di quest’anno, quella delle entrate sul Pil è rimasta pressoché inalterata, passando dal 39,8 per cento del primo trimestre 2008 al 39,9 per cento del primo trimestre 2009, con una flessione su base tendenziale del 2,8 per cento, evidentemente in linea con l’andamento del Pil.

Quello che lascia perplessi, in questo dato, è soprattutto l’invarianza dell’incidenza delle entrate sul Pil. Ciò rappresenta un’anomalia perché, in un sistema fiscale progressivo, al ridursi del prodotto interno lordo l’incidenza dell’imposizione fiscale su di esso è attesa ridursi, non restare costante. Pur con tutti i caveat del caso (variazioni della legislazione fiscale), pare che nell’ultimo anno si sia verificato un aumento strisciante della pressione fiscale, con tutto quello che da ciò deriva in termini di azione frenante sulla congiuntura.

Quanto all’espansione della spesa (più 4,6 per cento in termini d’incidenza sul Pil), essa può essere stata determinata dall’operare degli stabilizzatori automatici, oppure da misure di espansione esplicita. Non stiamo affermando che ciò sia un’anomalia: durante una recessione la spesa pubblica tende spontaneamente ad espandersi rispetto al Pil, anche per la presenza di voci di spesa incomprimibili nel breve termine (quella per stipendi e pensioni, ad esempio). Ma certamente l’adozione di misure di razionalizzazione della spesa anziché di mantenimento dell’invarianza delle entrate sul Pil, avrebbe consentito di evitare di controllare l’allargamento del deficit in modo più virtuoso e meno pro-ciclico di quanto stiamo ottenendo.

Per questo, pur mantenendo sospeso il giudizio, perché un singolo dato non fa una tendenza, sarebbe (ed è tuttora) opportuno agire dal versante della spesa, e non da quello delle entrate, se vogliamo evitare di soffocare ulteriormente il già gravemente indebolito potenziale di ripresa del paese, cullandoci in fallaci convincimenti.

Carmine
09-07-09, 11:30
INSERITO IN | Archivio Evidenza, Archivio Multimedia, Biopolitica
Testamento Biologico: la battaglia liberale per l’innovazione – VIDEO
Inserito il 04 luglio 2009
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Tags: Della Vedova, diritti civili, Eluana, laicità, PdL, politica, testamento biologico, Video

- Estratto dell’intervento di Benedetto Della Vedova a Chianciano lo scorso 28 giugno. Le iniziative sul testamento biologico in vista del dibattito alla Camera dei deputati.

“Io credo che la posizione del Pdl sul testamento biologico – dice Della Vedova – sia un grave errore politico ed in prospettiva un errore elettorale. Se vogliamo continuare a essere in presa diretta sulla società – prosegue della Vedova – non possiamo continuare a prendere a calci nel sedere i nostri elettori”.

Segnaliamo su Libertiamo.it le sezioni Multimedia, You Tube, Podcast e la possibilità di scaricare i nostri file da iTunes

Carmine
09-07-09, 11:30
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Carmine
09-07-09, 11:31
Sicurezza: ora regolarizzare i lavoratori clandestini
Inserito il 04 luglio 2009
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Tags: centrodestra, Della Vedova, economia, PdL, politica, sicurezza

- Definitivamente inserito nel nostro ordinamento il reato di clandestinità, si rende necessario passare ad un piano straordinario di regolarizzazione degli extracomunitari che già lavorano stabilmente, ancorché in modo irregolare, nel nostro paese. Pensiamo alle centinaia di migliaia di badanti ma anche a tutti coloro che prestano la propria opera professionale nei vari settori produttivi.

La regolarizzazione – sulla scia di quelle sucessive al varo della Turco-Napolitano e della Bossi-Fini – avrebbe in primo luogo l’effetto di non trasformare il pacchetto sicurezza in una grida manzoniana: dal momento che sarebbe poco credibile trasformare l’esercito di badanti e lavoratori già presenti in Italia in fuorilegge da perseguire penalmente, senza la loro regolarizzazione il reato di clandestinità perderebbe subito di efficacia. Le rassicurazioni sulla non retroattività del reato penale, non sembrano sufficienti a chiarire la situazione, dal momento che la legge parla di “ingresso” ma anche di “soggiorno”.

La regolarizzazione dei lavoratori già presenti sul nostro territorio molti dei quali ne hanno di già fatto richiesta, non sarebbe contraddittoria con il varo di norme più rigorose sull’immigrazione, ma darebbe più credibilità alle nuove norme e garantirebbe di recuperare alla legalità – con i relativi benefici per le entrate fiscali e contributive – centinaia di migliaia di lavoratori di cui famiglie e imprese non potrebbero fare a meno.
« Testamento Biologico: la battaglia liberale per l’innovazione – VIDEO
“I love Radio Rock” di Richard Curtis: una fragile libertà »

Inserito da:

Benedetto Della Vedova - che ha inserito 715 articoli in Libertiamo.it.

Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.

Carmine
09-07-09, 11:31
“I love Radio Rock” di Richard Curtis: una fragile libertà
Inserito il 05 luglio 2009
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Tags: audio, Cercone De Lucia, cinema, radio

- Non sono tanto numerosi i film che raccontano il mondo della radio.
Se ne può citare almeno uno, abbastanza noto, di Oliver Stone, intitolato “Talk radio”, incentrato sui dialoghi sferzanti e a volte anche insultanti, tra il conduttore e gli ascoltatori in una rubrica radiofonica americana. Più recentemente, due film italiani hanno descritto le radio libere degli anni Settanta: “Lavorare con lentezza” di Guido Chiesa, su Radio Alice e sul movimento di contestazione studentesco che si riconosceva in quella emittente; e “Radiofreccia” di Luciano Ligabue.
Ma le ragioni del relativo disinteresse del cinema per questo tema sono evidenti: in una radio, contano soltanto la musica o le parole. Mentre al cinema, di solito, contano di più le immagini. Insomma, da un punto di vista visivo, una trasmissione radiofonica può essere alquanto monotona. Ma ci sono delle eccezioni. Per esempio l’ultimo film di Robert Altman, molto bello, intitolato “Radio America”, raccontava di una trasmissione di varietà radiofonico, che era però registrata su un palcoscenico, ed era quindi a tutti gli effetti uno spettacolo teatrale, divertente e anche sfolgorante.
Tra il film di Altman e quello di cui vado ad occuparmi – “I love Radio Rock” – un film inglese uscito da poco sugli schermi italiani – c’è un elemento in comune.
La rubrica radiofonica di Altman, che esprimeva l’humour e il folklore di una vecchia America country, stava per essere cancellata dai palinsesti. E, dunque, a contrasto con l’allegria del varietà, si respirava nel film un senso di fine, di morte.
“I love Radio Rock” racconta di una radio libera inglese degli anni Sessanta, realmente esistita, ed enormemente popolare in Inghilterra, che il governo vuole mettere fuori legge, ed è quindi sull’orlo della catastrofe.
Il film conta su alcuni spunti visivi e narrativi che scongiurano la possibile monotonia a cui accennavo.
Anzitutto, c’è un elemento scenografico originale: Radio Rock trasmette da una nave – viene detta una “nave pirata” – che vaga nel Mare del Nord.
Trasmette un notiziario, ma soprattutto musica rock, all’epoca bandita, o molto marginale, sulla radio nazionale, la BBC. I conduttori, i dj, e il proprietario della radio – uniti dal culto della nuova musica – ne fanno propri anche i valori culturali, ritenuti trasgressivi dall’establishment dell’epoca. E danno vita, all’interno della nave, a una specie di comunità alternativa, dove è ammesso l’uso della droga, è bandita qualsiasi forma di razzismo, e si pratica il libero amore (sia pure con moderazione, a ben vedere). (E questo è un elemento narrativo che ci fa uscire dagli studi radiofonici, dove d’altra parte si dà conto della vita a bordo).
Ma l’azione si sposta poi anche a Londra dove alcuni deputati, spaventati dal successo della radio e dalla cultura libertaria che attraverso i suoi microfoni potrebbe diffondersi nel paese, varano una legge ad hoc, che attraverso un pretesto, è mirata proprio a chiuderla.
Non rivelerò come le cose vanno a finire. Dirò soltanto che Radio Rock è allo stesso tempo vinta e vincitrice. E che ci sarà una spettacolare mobilitazione dei suoi ascoltatori per salvarla.
Il film, diretto da Richard Curtis, non va sempre per il sottile.
L’ambiente gelido e velenoso dei deputati conservatori è nettamente contrapposto all’ambiente caldo e solidale all’interno della nave.
Qui, in particolare, l’uso del grottesco è a volte incontrollato, come quello di situazioni spinte intenzionalmente al paradosso. Insomma il film cade, o, a seconda dei gusti, si spinge, in quel genere di comicità cosiddetta “demenziale” (definizione che non comporta di per sé un giudizio di valore).
Tuttavia, a momenti, nei rapporti fra gli animatori della radio – e in particolare fra loro e un ragazzo che per qualche tempo si trasferisce sulla nave – il film presenta alcune note più fini, psicologicamente più vere.
Questi “libertari” non hanno l’aria di essere tali in assoluto e come per natura. (Sarebbe questa una caratterizzazione convenzionale, un clichè). Si sente invece che appartengono a un’epoca e a una nazione, ancora conservatrici e repressive; che la ricerca di una maggiore libertà – anche se conclamata in forme spettacolari – è invece, interiormente, timida e incerta; che l’utilità di formare una comunità è anche quella di incoraggiarsi e di imitarsi a vicenda.
Insomma, il film suggerisce molto bene che il mondo di Radio Rock ha in sé qualcosa di fragile; come sono forse fragili tutti i movimenti di innovazione e di ribellione al momento del loro germoglio.

Carmine
09-07-09, 11:32
Regolarizzare chi lavora non è contro la legge sulla sicurezza – AUDIO
Inserito il 05 luglio 2009
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Tags: clandestini, Della Vedova, extracomunitari, regolarizzazione, sicurezza

- Nell’approvare la legge sulla sicurezza, da parte del Governo e della stessa forza politica, la Lega, che più ha insistito per il varo della misura sul reato di clandestinità, si è ripetutamente assicurato che l’obiettivo della legge era quello di stroncare la criminalità straniera e interrompere il “traffico” di clandestini verso il territorio italiano, non quella di punire e di perseguire gli stranieri che sono stabilmente inseriti nel mercato del lavoro italiano.
Poiché la legge approvata punisce però non solo l’ingresso ma anche il soggiorno irregolare degli stranieri extracomunitari, in assenza di altre misure, le centinaia di migliaia di irregolari che lavorano (in alcuni casi, da parecchi anni) stabilmente nelle imprese e nelle famiglie italiane diverrebbero, per legge, criminali. Sostenere che la legge non è retroattiva non “salva” nessuno di loro, perché, successivamente all’entrata in vigore della legge, essi rimanendo in Italia continuerebbero a compiere ogni giorno il reato di “soggiorno” clandestino.
La regolarizzazione dei lavoratori stranieri irregolari (in parte consistente già perfino censiti dal Ministero dell’Interno) si impone dunque come un complemento necessario della legge sulla sicurezza, se si vuole che essa adempia davvero alle finalità dichiarate dall’esecutivo.

Carmine
09-07-09, 11:33
http://www.radioradicale.it/scheda/283010/intervista-a-benedetto-della-vedova-sulla-regolarizzazione-di-oltre-cinquecentomila-tra-colf-e-badanti-che

Carmine
09-07-09, 11:33
Etica pubblica: al centro la persona e al margine la libertà?
Inserito il 06 luglio 2009
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Tags: Biopolitica, Chiesa, Fondazione Craxi, valori, Ventura

- Al convegno dal titolo « La persona prima di tutto », organizzato dalla Fondazione Craxi e dalla Fondazione Nuova Italia, in cui abbiamo visto schierata una parte importante dello stato maggiore del Pdl, i relatori hanno discusso parlando molto di « persona » (ma mai di « individuo ») e tra le altre cose si sono preoccupati di spiegarci come, per costruire il futuro del nostro paese, dobbiamo serenamente rinunciare a parte importante della nostra libertà in nome del diritto naturale, delle leggi di natura, della tradizione.

La modernità dovremmo affrontarla ancorandoci prima di tutto ad una « tradizione » presentata come monolitica, immutabile e autoevidente. E perché mai dovremmo procedere in siffatto modo? Perché per garantire una società che ponga al centro delle proprie preoccupazioni la persona, dobbiamo rifuggire la presunzione fatale di voler precostituire il futuro, come vorrebbero – ci hanno spiegato – i nuovi adepti dello scientismo e del costruttivismo. Il futuro deve invece essere aperto, schiudersi continuamente all’ « incertezza » e alla « meraviglia ». Si ritiene evidentemente che sostenere la ricerca scientifica e lasciarla libera di procedere, nella speranza che le sue applicazioni, come già è accaduto e accade, ci rendano meno schiavi del caso e quando attaccati dalla malattia o da accidenti della vita ci diano la speranza di passare qualche tempo in più su questa terra o di passarlo nel migliore possibile dei modi, sia una presunzione fatale. Si ritiene che altrettanto colpevole sia il desiderio di dare alla luce un figlio sano e di ricorrere a tal fine alla scienza medica, richiamando con la voce alta e il dito puntato i fantasmi della selezione della specie e dell’eugenetica. Si ritiene che ogni uomo non abbia la libertà di decidere, per sé, non per altri, se vuole o meno che la propria vita biologica prosegua indefinitamente anche quando la coscienza lo ha abbandonato per sempre. « L’incertezza » e la « meraviglia » del futuro richiamano una concezione pre-moderna dell’uomo, che non si pone al centro dell’universo e non cerca di trasformare il mondo che lo circonda ma si lascia andare al fato, alla provvidenza ; ma non è così che è emersa la libertà dell’uomo occidentale.

La tradizione, si diceva. Quella che oggi ci viene proposta dai nuovi interpreti della libertà « correttamente intesa » di fatto è coincidente con quella cattolica, anzi, con quella interpretata dalle gerarchie cattoliche. Naturalmente ciò viene negato, con il ricorso all’artificio retorico delle « leggi di natura ». Leggi che esprimerebbero una Verità proposta come autoevidente e alla quale tutti dovrebbero dunque conformarsi.

Tradizione e leggi di natura costituirebbero dunque il serbatoio dal quale dedurre in modo automatico i valori per la nostra società. Ma ben sappiamo che la tradizione è un oggetto multiforme e in divenire e che, proprio per la sua essenza, non può essere congelata una volta per tutte. Sappiamo anche che l’idea di « natura » è inevitabilmente soggetta a interpretazioni molteplici e attraverso il ricorso ad essa è possibile sia legittimare i diritti e le libertà individuali contro il potere (« gli uomini nascono e dimorano liberi e uguali nei diritti » si legge nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789), sia conculcarli (Filmer, contro il quale polemizzava John Locke, non sosteneva forse il potere « naturale » e paterno dei re e che fosse « contro natura » il governo del popolo ?) .

Ciò che emerge dalle parole e dai comportamenti di parte della classe dirigente del Pdl, è dunque il tentativo di mettere in discussione il pluralismo proprio della tradizione liberale e il libero dispiegarsi della dialettica tra valori che inevitabilmente accompagna le nostre società, relegando tutto ciò alla categoria di « relativismo nichilista » – quando invece costituisce l’alimento indispensabile del nostro vivere civile – e contrapponendogli Verità assolute che in realtà non possono che essere tali solo per alcuni.

A ciò si aggiunge il paradosso che gli « avversari » vengono accusati di volere trasformare in diritto positivo i loro « desideri » e di volere così uno Stato invadente, quando assistiamo invece proprio al tentativo (con la legge 40 andato in porto e in atto con il disegno di legge sul testamento biologico) di utilizzare lo Stato e le sue leggi per imporre a tutti un’etica condivisa da pochi. Si sta perdendo completamento di vista il senso di ciò che è la liberal-democrazia, un regime che poggia su di un minimo comun denominatore di valori condivisi dalla quasi totalità dei suoi membri, ma che affronta le nuove sfide attraverso un confronto continuo, reso possibile dall’espressione della pluralità di posizioni, e non ricorrendo a dogmi prestabiliti.

Riferendosi alla legge sul testamento biologico, Gianfranco Fini aveva fatto riferimento al pericolo di uno Stato etico. Per questo è stato criticato da chi ha osservato che in realtà lo Stato etico è quello Stato che pone se stesso come fonte dell’etica. E’ vero, l’espressione utilizzata da Fini non era corretta. Oggi siamo di fronte al tentativo non di creare uno Stato etico, ma di fare dello Stato lo strumento di un’etica che i pochi vogliono imporre ai molti. Siamo di fronte ad una pericolosa negazione del liberalismo e che tutto ciò possa avvenire per mano di un partito che avrebbe dovuto essere un partito liberale di massa è tragico e paradossale.

Carmine
09-07-09, 11:34
Una Cina meno libera è più pericolosa, anche sul piano economico
Inserito il 06 luglio 2009
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Tags: Cina, Della Vedova, diritti umani, Hu Jintao

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl

- I disordini scoppiati nello Xinjiang, che hanno portato all’ennesima repressione a danno della minoranza musulmana degli uiguri, hanno coinciso con la visita in Italia di Hu Jintao e hanno suscitato, immediatamente, parole di monito accorte, ma inequivocabili da parte del Presidente della Repubblica. La repressione dei buddisti tibetani e dei musulmani uiguri non è solo una questione interna alla Cina, ma una cartina di tornasole eloquente della natura politica di un regime decisivo per l’equilibrio delle relazioni globali.
Continuo a ritenere che l’evoluzione economica della Cina sia un formidabile occasione di crescita per l’intera economia mondiale, consentendo l’apertura di un mercato sterminato e l’utilizzo di un importante polmone finanziario. Quello “protezionista” è il piano su cui l’Italia ha più da perdere nel rapporto con il gigante cinese.
Anche dal punto di vista economico della Cina dobbiamo temere, oggi più che mai, solo i ritardi nel processo di democratizzazione: in primo luogo, perché l’assenza di libertà civile e sindacale abbassa artificiosamente il costo del lavoro e altera le condizioni di concorrenza; in secondo luogo perché l’opacità del regime e l’assenza di condizioni di trasparenza e di libera informazione rendono la Cina un partner meno affidabile per ogni accordo sul piano economico-commerciale; in terzo luogo perché, in presenza di un controllo pervasivo e discrezionale del governo su tutte le attività economiche, l’assenza di istituzioni di mercato e di regole poste a garanzia della libertà contrattuale e della libertà di iniziativa degli investitori costituisce un rischio per quanti scelgono di avventurarsi sul promettente, ma complicato, mercato cinese.

Carmine
09-07-09, 11:34
INSERITO IN | Il mondo e noi
Gli Uiguri, i “terroristi” che Pechino combatte
Inserito il 07 luglio 2009
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Tags: Cina, diritti umani, east turkestan, esteri, uiguri

- Secondo il governo cinese, sono pericolosi terroristi islamici.
Ma chi sono davvero questi Uiguri, balzati improvvisamente agli onori della cronaca per i tristi fatti di ieri?
Gli Uiguri, una delle 56 etnie (grazie al commentatore che ha fatto notare l’errore “minoranze etniche”, NdA) riconosciute in Cina, sono di religione musulmana e di lingua turca e vivono soprattutto nella regione dello Xinjang, dove, a differenza che nel resto del Paese, rappresentano la maggioranza della popolazione. Fra il 1930 e il 1949, una parte della regione – che era stata annessa all’impero cinese nel 1884 – conobbe l’effettiva indipendenza col nome di Turkestan Orientale (East Turkestan). Successivamente l’intera zona tornò ad essere cinese, ma sia le spinte indipendentiste sia quelle, più moderate, per una maggiore autonomia sono rimaste sempre presenti, intensificandosi dopo la caduta dell’URSS. A partire dagli anni ‘90, però, il regime di Pechino ha attuato una politica di sviluppo e “sinizzazione” coatta, facendo sì che, nella stessa area, l’etnia Han, maggioritaria in tutta la Cina, passasse dal 6% al 40% della popolazione.
Ciò ha provocato e continua a provocare tra i due gruppi etnici tensioni e scontri sempre più difficili da tenere a freno, tra rivendicazioni autonomistiche da una parte e volontà di assimilazione dall’altra. Volontà, peraltro, tanto più forte in quanto la regione dello Xinjang è di notevole importanza strategica, poiché si trova al confine con Afghanistan, Kirghizistan, Kazakistan e Tagikistan, ed anche per il fatto che proprio qui, nel bacino del Tarim, è situata la principale riserva di idrocarburi del Paese.

Stando così le cose, non si fa fatica a credere che il governo di Pechino neghi ed ostacoli in tutti i modi una maggiore autonomia del popolo uiguro nel rispetto dei diritti umani, obiettivo perseguito dal movimento dissidente democratico e nonviolento guidato dalla leader spirituale Rebiya Kadeer, e tanto più l’indipendenza, perseguita tra gli altri dal Movimento islamico del Turkestan, classificato dall’ONU come “terroristico” e, secondo il regime cinese, strettamente legato ad Al Qaeda.
Certamente la minaccia del terrorismo islamico è seria, e va tenuta sotto controllo in ogni parte del mondo; tuttavia, le notizie che hanno come fonte l’ “ufficio stampa” di un regime non democratico vanno prese con molta cautela, e in questo particolare caso vale forse la pena di tener conto anche del parere di Nicholas Bequelin, di Human Rights Watch, il quale sostiene che i legami di questa organizzazione con Al Qaeda, se pure esistono, sono molto meno forti di quanto Pechino voglia lasciar credere.

Lo stesso utilizzo da parte del regime cinese di una definizione tutto sommato vaga quale “terrorismo” per indicare qualsiasi manifestazione, anche la più innocua, di dissenso o di protesta non aiuta a fare chiarezza, né sui reali obiettivi della variegata e travagliata dissidenza uigura, né su ciò che realmente è avvenuto ieri notte a Urumqi, capoluogo dello Xinjang.
Gli esuli uiguri in contatto coi loro “fratelli” dissidenti in patria sostengono che la polizia ha aperto il fuoco su una manifestazione “pacifica”, mentre il regime afferma che i giovani manifestanti all’improvviso hanno “attaccato dei passanti” e bruciato delle auto.

Di certo si sa solo che ci sono stati circa 160 morti, più di 800 feriti e (ufficialmente) 700 arresti, ma sulla causa scatenante del bagno di sangue le fonti divergono: la versione forse più verosimile è quella secondo cui diverse centinaia di giovani uiguri stavano manifestando pacificamente la loro protesta per l’assassinio di due operai della stessa etnia in una fabbrica di Canton, quando le forze di sicurezza, poiché la manifestazione non era autorizzata, sono intervenute, innescando una strage che, se questa versione diventasse quella ufficiale, risulterebbe la più grave tra quelle perpetrate dal regime cinese dopo Tienanmen.

Continuare ad etichettare tutte le forme di dissidenza uigura come “terroriste”, anche se è funzionale, nella strategia della guerra continua (Orwell!), all’obiettivo di consolidare il potere del regime di Pechino e ritardare il passaggio verso una forma di governo democratica, porterà ad un’intensificazione di tensioni e scontri. E aggraverà una situazione che, ci auguriamo, non potrà essere guardata con indifferenza né dai grandi della Terra, né da chiunque voglia, prima di accettare una versione dei fatti piuttosto che un’altra, informarsi e documentarsi su chi sono veramente questi “terribili” Uiguri.

Cosa che, speriamo, nel suo piccolo, quest’articolo possa aiutare a fare.

(fonti: Wikipedia, ApCom, Il Velino, Repubblica.it, Corriere.it)

Carmine
09-07-09, 11:35
Il Garante Privacy apre alla riforma liberale del direct marketing
Inserito il 07 luglio 2009
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Tags: Bolognini, Della Vedova, opt-out, Pizzetti, privacy

- Qualche giorno fa, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, presieduta da Francesco Pizzetti, ha presentato la Relazione annuale sull’attività dell’Authority.
Tra richiami all’impatto della privacy sulla qualità della democrazia e suggestive riflessioni (non sempre completamente condivisibili) sulla “nudità” dell’umanità rispetto ai social network e sull’opportunità di una WTO delle telecomunicazioni, non sono mancate prese di posizione molto pragmatiche. In particolare, “nella Relazione – riflette Luca Bolognini, presidente dell’Istituto Italiano per la Privacy (IIP) – spicca l’apertura ad una evoluzione della normativa sul direct marketing telefonico e in particolare l’esortazione ad un dialogo leale e positivo tra Garante e operatori, con il richiamo al Parlamento per eventuali nuovi interventi legislativi”.Se pareva scontato che Pizzetti sollecitasse una revisione dell’attuale impianto normativo sulle vendite telefoniche, non era così pacifico che si esprimesse in favore di una riforma sul modello anglosassone dell’opt-out, sulla falsariga di quanto propongono l’IIP e l’Intergruppo parlamentare sulla privacy (presieduto da Benedetto Della Vedova): in soldoni, quegli utenti che non desiderassero ricevere telefonate promozionali e informativi, dovrebbero iscriversi in uno speciale registro (tenuto dal Garante per la privacy, appunto).
Da qualche mese questo è l’oggetto del contendere tra operatori commerciali, consumatori e Autorità, dopo che una misura del famigerato Milleproroghe di fine 2008 aveva di fatto eliminati i vincoli alla possibilità di contattare telefonicamente le famiglie italiane, dall’ora di colazione a quella di cena (e teoricamente anche dopo). Chi gridò al “rischio-giungla” esagerava (in questi mesi, non pare esserci stato un abuso da parte degli operatori commerciali della possibilità offerta dalla norma), ma è certo che la soluzione del Milleproroghe non è sostenibile, merita di essere sostituita da una regolamentazione ragionevole, capace di contemperare gli interessi del mercato con il diritto alla riservatezza degli utenti.
“Non ci piace la norma del Milleproroghe – confidò qualche tempo a Libertiamo.it il responsabile relazioni esterne di una importante compagnia telefonica – ma in questo modo abbiamo aperto una trattativa, abbiamo messo la pistola sul tavolo… il Garante non può non aprire ad una riforma ragionevole”.

Con un intervento un po’ rocambolesco, il Milleproroghe aveva abolito, quanto meno per il 2009, il sistema vigente , quello dell’opt-in (che prevedeva il divieto di chiamare chi non avesse già rilasciato un esplicito consenso ad essere contattato). Se fino alla relazione dell’altro giorno, Pizzetti pareva fare orecchie da mercante rispetto al modello anglosassone, chiedendo il ritorno al meccanismo precedente, lo spiraglio che si è aperto con la Relazione annuale irrobustisce il disegno di legge sull’opt-out che Della Vedova ed altri hanno già depositato alla Camera dei Deputati.
Come ha già scritto il presidente dell’IIP in un articolo per Libertiamo.it, il ddl prevede l’introduzione delle cosiddette “Robinson List” ufficiali, centralizzate e gestite dal Garante. “Altro non sarebbero – scrive Bolognini – che registri di nominativi e numeri, suddivisi per finalità e settori merceologici (non meno di 3 e non più di 10 macro-settori) e organizzati in database accessibili direttamente e automaticamente dai server degli operatori di calling”. In queste liste, qualunque utente potrebbe iscriversi via web o telefonando ad numero verde, rimanendo così inserito per 24 o 36 mesi. L’utente avrebbe così la certezza di non essere più “disturbato” dai call center per un lasso di tempo sufficientemente ampio. Gli stessi call center sarebbero tenuti ad una disciplina molto più severa di quella di cui hanno goduto in passato.
Un merito della Relazione di Pizzetti, non c’è dubbio, è stato quello di aprire un altro fronte importante: quello delle associazioni dei consumatori. Non è passato sotto silenzio l’endorsement dell’opt-out di Federconsumatori: “Guardiamo con interesse – ha dichiarato Sergio Veroli, vicepresidente dell’associazione – ad altri modelli adottatti in Paesi di grande tradizione liberale e di tutela dei diritti civili, basati anche sull’istituzione di in un registro pubblico”.
Veroli tocca infine un punto essenziale: “Ciò scoraggerebbe le campagne aggressive o scorrette e darebbe all’Autorità il ruolo di Garante reale dei cittadini”.
E’ probabile che Pizzetti, dopo tanto titubare, si sia “accorto” che, con il passaggio all’opt-out, al Garante verrebbe attribuito un ruolo nuovo e potenzialmente molto efficace, proprio grazie alla gestione del registro e ai nuovi poteri sanzionatori.

Carmine
09-07-09, 11:36
La politica sugli stranieri è una commedia all’italiana
Inserito il 07 luglio 2009
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Tags: diritti civili, immigrati, immigrazione, politica, sicurezza

- Ci sono pochi temi come le politiche sull’immigrazione che sembrano in grado di descrivere un’alternativa radicale, ideale e reale, tra centro-destra e centro-sinistra. Nei giorni che hanno seguito l’approvazione della legge sulla sicurezza e del robusto pacchetto anti-immigrazione, la retorica securitaria della maggioranza e quella umanitaria dell’opposizione sembravano divise da un oceano di differenze e di diffidenze: insomma, di radicale alterità politica.
Il paradosso è che in realtà vi sono pochi temi come l’immigrazione che da oltre un decennio si sviluppano su di un piano di sostanziale continuità normativa, pure nell’alternanza dei governi di centro-destra e centro-sinistra. Le “rivoluzioni” legislative che di volta in volta la destra ha minacciato contro il “buonismo” della sinistra e la sinistra ha promesso contro il “razzismo” della destra non hanno fatto altro, nella sostanza, che dissimulare l’incapacità di entrambi gli schieramenti di uscire da uno schema consolidato, insieme ingiusto e inefficiente: troppo rigido e “avaro” per adattarsi alla realtà demografica e occupazionale dell’Italia e alle esigenze del suo sistema produttivo; ma perfino troppo “molle” e prodigo di opportunità per gli stranieri agli occhi di un elettorato che identifica, in modo pregiudiziale, negli stranieri un rischio per la sicurezza e la coesione sociale del paese.
Il viaggio in queste somiglianze travestite da differenze, in questa guerra di civiltà che maschera l’inerzia politica, non è esaltante, ma è quanto mai istruttivo. Anche se è un po’ lungo, vale forse la pena di farlo.

La legge sulla sicurezza è stata paragonata da sinistra alle leggi razziali. Ma in concreto, quali modifiche apporta alla normativa esistente? Sulla scorta dell’esempio, non necessariamente commendevole, di altri paesi europei e con conseguenze non precisamente congruenti sul piano costituzionale, istituisce un reato di “clandestinità” la cui sanzione (di fatto: l’espulsione) è identica a quella fino ad oggi prevista per una condotta disciplinata nei termini dell’illecito amministrativo. Che l’espulsione sia la pena irrevocabile del clandestino, in quanto tale condannato senza possibilità di revoca all’irregolarità e non “regolarizzabile” (salvo eccezionale “sanatoria”) secondo le norme ordinarie, non lo ha deciso oggi la Lega, ma oltre 10 anni fa una legge – come usa dire – “avanzata” della sinistra (la legge 6 marzo 1998, n. 40, cosiddetta Turco- Napolitano), che, nell’illusione di mettere ordine in una materia confusa, aveva istituito i tre capisaldi attorno a cui si sarebbe consolidata, per oltre un decennio, la legislazione sul tema.

In primo luogo, il – chiamiamolo così – legame organico tra diritto di soggiorno e contratto di lavoro, che fonda l’intera politica dei flussi, basata su quote nazionali, sulla finzione giuridica di stranieri assunti, formalmente, all’estero da datori di lavoro che in teoria neppure li conoscono; in secondo luogo, l’esclusione di ogni possibilità di regolarizzazione in itinere di clandestini o overstayers (per intendersi: il caso della moldava che entra con un visto turistico o di studio, non “rientra” nel proprio paese alla scadenza del permesso, trova lavoro come badante, ma non può essere regolarmente assunta, perché dovrebbe essere prima regolarmente espulsa); in terzo luogo, l’inasprimento repressivo nei confronti degli irregolari che, per evitare di essere espulsi, non denunciano le proprie generalità, o ne denunciano di false, e dunque possono essere reclusi, con provvedimento amministrativo, nei centri di permanenza temporanea, fino alla loro identificazione e espulsione.

Sul diritto di asilo, la sinistra ha allora taciuto, evitando di dare al paese quella legge organica che da decenni esso aspetta (o che, per meglio dire, aspettano i potenziali “asilanti”). E ha continuato a tacere, quando è tornata, brevemente, al governo.
Il centro-destra, nella XIV legislatura (con la legge 30 luglio 2002, n. 189, cosiddetta Bossi-Fini) e poi nell’attuale, si è obiettivamente limitato a aggravare quantitativamente, ma non qualitativamente, un impianto normativo in parte logicamente repressivo e in parte inutilmente vessatorio. Ha “simbolicamente” reso reato il vecchio illecito amministrativo della clandestinità; ha rafforzato ostruzionisticamente il legame tra diritto di soggiorno e contratto di lavoro operando nell’idraulica dei flussi per restringere l’accesso degli stranieri regolari (e rafforzando, in misura corrispondente, la pressione sul canale clandestino); ha esteso il periodo di detenzione nei Centri di Permanenza Temporanea (CPT), ridenominati Centri di Identificazione e Espulsione (CIE), fino a 180 giorni. Tempo invero abnorme, ma non dettato da una delibera del Terzo Reich, bensì da una Direttiva Europea (art. 15, paragrafo 5, della Direttiva 2008/115/CE).
Molto altro la legge sulla sicurezza sul tema dell’immigrazione non fa né dice: le parti peggiori, più indifendibili e insolenti anche moralmente (le cosiddette norme sui “presidi e medici spia”), sono state neutralizzate, dopo che su di esse si è aperto, soprattutto per merito del Presidente della Camera, uno dei pochi dibattiti veri all’interno della maggioranza di questo inizio di legislatura. Rimane davvero poco altro. Ne abbiamo già parlato, e ci ritorneremo sopra.

Ça va sans dire, sull’asilo politico, tema tornato di moda dopo le polemiche sui respingimenti, anche il centro-destra si è ben guardato di definire una disciplina organica. Ma anche qui, nihil sub sole novi.

Allora, ci vuole – è il caso di dirlo – una bella faccia di bronzo, da sinistra, per infiocchettare oggi l’epopea della “badante negletta”, minacciata nei suoi diritti e nel suo lavoro da una legge razzista, e della “famiglia minacciata”, perché privata della preziosa collaboratrice familiare e addirittura esposta ai rigori della legge per avere scelto di proteggere e di impiegare una dipendente irregolare. Faccia di bronzo – s’intende – non perché non sia effettivamente rischiosa la situazione della famiglia e della sua eventuale collaboratrice, ma perché a queste drammatiche conseguenze non l’espone solo, oggi, la legge “cattiva” del centro-destra, ma l’esponeva anche, un decennio fa, quella “buona” della sinistra (la già citata Turco-Napolitano) che prevedeva non solo la doverosa espulsione della badante irregolare, ma anche un esplicito reato di favoreggiamento e un ancor più chiaro reato di sfruttamento a carico della famiglia, per così dire, connivente (art. 10 comma 5; Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme della presente legge, e’ punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni; art. 20, comma 8: Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, e’ punito con l’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da lire due milioni a lire sei milioni).

Eppure, in questo teatrino della politica che ricorda la commedia all’italiana, i suoi personaggi, le sue ipocrisie e le sue buone coscienze a buon mercato, spiace ammettere che la palma dell’ “albertosordismo” spetta indiscutibilmente agli esponenti del centro-destra, in primis della Lega, che fanno finta di avere approvato una legge diversa da quella che hanno voluto, di leggere in essa qualcosa di diverso da quello che vi hanno scritto, di intendervi un significato diverso da quello che hanno voluto imporre e rivendere immediatamente ad un elettorato impaziente.

Sentire il Ministro dell’interno sostenere che l’art.1 comma 16 lettera a) della legge sulla sicurezza non ancora promulgata, che modifica il testo unico sull’immigrazione e che istituisce il reato di clandestinità “per lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico” non si applicherebbe alle badanti è obiettivamente esilarante. Alle badanti no, ma ai muratori sì e ai nullafacenti di più e ai criminali massimamente? E da dove si deriverebbe questa esimente per le collaboratrici domestiche? E perché le famiglie dovrebbero “stare tranquille”, in assenza di una regolarizzazione che consenta di regolarizzare gli “irregolarizzabili”, solo perché il Ministro dell’interno promette, bontà sua, una applicazione discrezionale e lassista di una normativa stupidamente vessatoria?

Nel dibattito sulla regolarizzazione dei lavoratori stranieri irregolari le reazioni leghiste, anche di parte governativa, hanno raggiunto punte di grottesco.
Il Ministro Calderoli – il principe della severità e dell’intransigenza normativa – ha da par suo sostenuto che le badanti sono in realtà, in larga parte, mignotte assunte con mansioni diverse da quelle che effettivamente svolgono e che comunque, in punto di diritto, la regolarizzazione sarebbe impedita dalla normativa europea. La prima notizia non è suffragata da prove convincenti (il notorio pregiudizio del Ministro è semmai un indizio a discarico delle accusate); la seconda è semplicemente falsa, perché il Patto Europeo sull’immigrazione e l’asilo, stipulato dai Capi di Stato e di Governo dell’U.E il 16 ottobre 2008 (Patto che costituisce peraltro un documento programmatico dei paesi membri, non una “legge europea”, al pari di una direttiva) non impedisce affatto di regolarizzare, per ragioni economiche, e su base individuale, stranieri senza titolo di soggiorno già stabilmente inseriti nel mercato del lavoro del paese membro, ma impedisce sanatorie generalizzate e indiscriminate di immigrati irregolari.

Intanto tra le 500 e le 600 mila persone (in larga parte già censite dal Ministero dell’Interno) e i loro datori di lavoro (le imprese e le famiglie italiane, mica la mafia) aspettano di capire se e quando, dopo avere fatto la faccia brutta, l’esecutivo si metterà di buzzo buono per risolvere la loro situazione. Nel 2002, la Bossi Fini fu accompagnata dalla più enorme sanatoria della storia italiana. A distanza di 7 anni, la situazione si ripropone esattamente negli stessi termini.
Su questo fronte, comunque, ne vedremo ancora delle belle. Ma – temo – non ci divertiremo.

Carmine
09-07-09, 11:37
Su Jacko Giovanardi è noioso e confonde i modelli con i miti
Inserito il 07 luglio 2009
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Tags: Giovanardi, Jackson, Klaus Davi

Abbiamo appena finito di lodare Giovanardi per aver aperto alla regolarizzazione degli stranieri irregolari che lavorano stabilmente nel nostro paese e già ci troviamo a dover polemizzare con lui.
Opportunità politica vorrebbe che non lo facessimo (la regolarizzazione è una importante battaglia di pragmatismo che va vinta), l’istinto libertario ci impone di farlo. Si parla di Michael Jackson.
Giovanardi lo fa a Klauscondicio, la trasmissione Youtube di Klaus Davi, sfoggiando una robusta dose di perbenismo e moralismo a proposito di Jacko: “Vittima dei comportamenti, vittima della droga, vittima di medicinali, vittima di una vita che era diventata miserabile perché non era una vita normale, non era una vita di relazione soddisfacente. Ecco, – continua il sottosegretario alla famiglia – quello che trovo veramente incomprensibile è come tutto questo possa attrarre e diventare un mito agli occhi dei giovani o dei meno giovani, che non si fanno carico di quanto queste stravaganze possano aver inciso negativamente sulla vita della star”.
Ma di che parla Giovanardi? Tolto qualche immancabile (e liberissimo) squilibrato, la stragrande maggioranza degli ammiratori di Michael Jackson apprezzava la sua musica, la sua voce, la carica che sapeva trasmettere, le movenze del suo corpo, la caratteristica sensualità asessuale (o postsessuale).
E’ pacifico che la sua vita personale sia stata difficile (fin dall’infanzia, con quel padre che si è ritrovato) ed eccessiva. Così come è chiaro a tutti come l’abnorme notorietà abbia acuito e reso “patologiche” le stravaganze del personaggio.
Dentro ognuno di noi c’è tanta follia innata e ci sono tante debolezze, cicatrici della nostra infanzia e del nostro percorso di vita. Ci sono persone più forti e persone più deboli, ci sono i casi della vita e c’è l’influenza di chi vive intorno a noi.
Non troveremo mai una relazione scientifica tra talento e follia, o tra talento e debolezza, eppure quante volte abbiamo avuto la netta sensazione che un legame ci deve pur essere!
Nomi a caso: Diego Maradona, Kurt Kobain, Mike Tyson, Paul Gascoigne, George Best, Amy Winehouse, Marco Pantani. Continuate, ne troverete a bizzeffe.
Giovanardi confonde probabilmente il concetto di “modello” con quello di “mito”.
Nessuno si augura che la propria figlia s’impasticchi e s’incammini verso la cirrosi epatica a trent’anni. Un buon padre non lascerebbe suo figlio dormire nel bel lettone di un adulto-bambino come Jacko, per mille ragioni di opportunità e per qualche sano principio precauzionale.
Ma il mito è un’altra cosa, il mito prescinde dalla vita personale del campione e si sostanzia nel mondo fantastico in cui il campione abita: Maradona non esiste fuori dal campo di calcio, vive per l’eternità nel paese di Argentinainghilterradueazero; Pantani pedalerà per sempre sul Mortirolo; Kurt Kobain canterà Smells like teen spirit per l’eternità. E per l’eternità Michael Jackson si muoverà come un robot, chiedendosi amleticamente se black or white…
Che c’entra la loro vita privata con tutto questo? Giovanardi pensa forse che si possa decidere chi può diventare un mito e chi no sulla base di un esame di buona condotta?

Carmine
09-07-09, 11:38
Mais: Zaia sia responsabile, approvi protocolli ogm per ricerca su campo
Inserito il 07 luglio 2009
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Tags: agricoltura, Della Vedova, ogm, zaia

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl:

“Zaia fa bene a preoccuparsi per la diffusione dell’infestazione da diabrotica nelle coltivazioni di mais italiane. Ma il ministro dovrebbe riflettere sulle alternative che la scienza offre per garantire, a parità di sicurezza per l’ambiente e i consumatori, una produzione di mais meno attaccabile dalla diabrotica.
Se Zaia non rallentasse – ormai da mesi – l’iter dei provvedimenti di autorizzazione della sperimentazione in campo aperto degli ogm, in particolare del mais, nel giro di pochi anni l’Italia potrebbe giovarsi, come già accade negli Stati Uniti, di specie di mais sicure e meno attaccabili da agenti infestanti.
Ne avrebbero un beneficio i produttori, i consumatori e lo stesso equilibrio ambientale.
La chiusura ideologica e superstiziosa agli ogm è una della cause dell’emergenza di oggi e rischia di esserlo anche per quelle di domani”.

Carmine
09-07-09, 11:38
Nell’enciclica papale l’apertura agli ogm contro la fame nel mondo
Inserito il 08 luglio 2009
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Tags: enciclica, ogm, papa

Una importante apertura alle biotecnologie in agricoltura arriva da Caritas in veritate, la nuova lettera enciclica di Benedetto XVI: “Il problema dell’insicurezza alimentare va affrontato in una prospettiva di lungo periodo, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo. Tutto ciò va realizzato coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e nelle decisioni relative all’uso della terra coltivabile. In tale prospettiva, potrebbe risultare utile considerare le nuove frontiere che vengono aperte da un corretto impiego delle tecniche di produzione agricola tradizionali e di quelle innovative, supposto che esse siano state dopo adeguata verifica riconosciute opportune, rispettose dell’ambiente e attente alle popolazioni più svantaggiate“.

Carmine
09-07-09, 11:39
Dal caso Madoff la più efficace politica economica anti-crisi
Inserito il 08 luglio 2009
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Tags: giustizia, Madoff, Mercato, USA

- I primi segni giudiziari della crisi economica stanno iniziando ad apparire. E, come per i primi segnali di crollo dei mercati, anche gli esiti dei processi arrivano da oltre oceano. Il caso Madoff rimarrà sicuramente nella storia per le sue stratosferiche dimensioni e il suo pesantissimo effetto domino, in sintonia con la condanna inflitta al colletto bianco di Wall Street: 150 anni di galera per una serie di 11 reati, descritta dallo stesso giudice Denny Chin come un progetto “diabolico e sbalorditivo per durata e dimensioni”. Eppure era lo stesso Bernard Madoff che aveva voluto creare questo progetto in grande: 13.500 investitori, istituzioni finanziarie e amici coinvolti, quasi 1,3 miliardi di dollari racimolati per una frode stimata in circa 65 miliardi di dollari di valore complessivo (stando a quanto stimato dal Daily Telegraph). Una catena di Sant’Antonio, meglio conosciuta come “Schema Ponzi”, dagli effetti devastanti: muovere fondi da un investitore già parte dello schema a uno appena entrato, per far apparire rendimenti anormali e notevolmente superiori rispetto al mercato. Eppure, come tante catene, anche questa ha smesso di funzionare, probabilmente nel momento peggiore, ovvero nel pieno di una crisi finanziaria che stava mettendo in ginocchio l’economia globale. E così, la volontà dei giudici americani è stata quella di dare una punizione esemplare, far capire ai colossi della finanza che non la si fa franca e che ch’imbroglia rischia di morire in cella. Senza alcuna riduzione in giudizio dovuta alla collaborazione dell’imputato, esplicitamente autodichiaratosi colpevole di ognuno dei reati contestatigli.
Dall’altra parte dell’Oceano arriva un forte segnale: la Giustizia può essere vista come un nuovo strumento di “politica economica” di risollevamento dalla crisi, una sorta di via parallela alle politiche monetarie e fiscali già avviate – tra luci ed ombre – dalle più grandi economie mondiali. Uno dei pilastri fondamentali di una ripresa nei mercati è infatti la restaurazione di un certo livello di fiducia da parte degli investitori. E, certamente, mostrare agli investitori che in casi di frode ci si può affidare a una giustizia rapida, severa ed efficace non può che far bene ai mercati e alla loro ripresa.
Lo stesso, probabilmente, non si può dire del contesto italiano, in cui i due più recenti casi di frode, Cirio e Parmalat, sono ancora in balia dei soliti processi decennali e di meno che parziali risarcimenti ai risparmiatori. Mentre per Madoff la condanna arriva infatti dopo solo sei mesi dall’arresto, avvenuto nel dicembre 2008, la condanna nel caso Parmalat è arrivata solo dopo circa 6 anni e ben più leggera del previsto: 10 anni in primo grado. Per di più, dopo anni dall’avvio dei processi e dall’amministrazione controllata, in entrambi gli scandali italiani solo il 35 per cento degli obbligazionisti in media è stato risarcito, soglia notevolmente bassa per invogliare i risparmiatori a tornare a investire sul mercato.
Se l’imposizione di norme e principi etici, mediante l’uso della macchina legislativa, può essere visto come un parziale affondo al liberismo economico e finanziario, certo è che casi di crisi e recessione dei consumi come quello che si sta vivendo non possono che beneficiare dall’applicazione di un sistema giudiziario più snello e severo, che all’occorrenza può trasformarsi in un’abile spinta per gli investitori a tornare a credere che nel mercato chi prova a truffare può non avere poi vita così semplice. La “terza forma” di politica economica per influenzare, direttamente e in maniera abbastanza rapida, la fiducia dei risparmiatori e, indirettamente, durata ed effetti di una crisi dei mercati, potrebbe in fondo essere la più efficace.

Carmine
09-07-09, 11:40
Nucleare: luci ed ombre articolo per articolo
Inserito il 08 luglio 2009
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Tags: Berlusconi, governo, nucleare, Scajola, Stagnaro

- L’Italia torna al nucleare? Dopo tante parole, con l’approvazione del ddl 1441-ter-B da parte della Camera, e in attesa del voto del Senato (il testo depositato in questo ramo del Parlamento si chiama 1195-B) che non dovrebbe portare sorprese, finalmente la strategia del governo inizia ad acquisire contorni chiari.

L’articolo 25 delega l’esecutivo a emanare i decreti per fissare i criteri per la localizzazione di tutti gli impianti necessari a mettere in campo la tecnologia elettronucleare: non solo centrali, dunque, ma anche stazioni di trattamento del combustibile e siti di stoccaggio per le scorie. Entro sei mesi dalla pubblicazione delle legge in Gazzetta Ufficiale, il ministero dello Sviluppo economico dovrà pronunciarsi sulle compensazioni ambientali da attribuire ai siti selezionati e le modalità con cui essi verranno individuati. Il governo potrà, all’occorrenza, dichiarare tali siti “aree di interesse strategico nazionale”, un escamotage per semplificare le procedure amministrative, che non mancherà di sollevare le obiezioni delle regioni e degli enti locali, il cui ruolo sarebbe in tal caso ulteriormente ridimensionato. Viene in ogni caso riconosciuto il “preminente interesse statale” di tutte le opere connesse al rientro nel nucleare, e quindi sarà sufficiente l’autorizzazione unica in luogo della consueta giungla amministrativa. Inoltre, in caso di “mancato raggiungimento delle necessarie intese con i diversi enti locali coinvolti”, viene previsto il “potere sostitutivo” del governo, una sorta di clausola di chiusura per forzare l’esito positivo delle negoziazioni. Dal punto di vista tecnologico, di fatto vengono create le condizioni per non dover intraprendere un iter ad hoc, in quanto “le approvazioni relative ai requisiti e alle specifiche tecniche degli impianti nucleari, già concesse negli ultimi dieci anni dalle Autorità competenti di paesi membri dell’Agenzia per l’energia nucleare dell’Ocse o dalle autorità competenti di paesi con i quali siano definiti accordi bilaterali… siano considerate valide in Italia, previa approvazione dell’Agenzia per la sicurezza nucleare”. Poiché è improbabile che qualcuno scelga proprio l’Italia per sperimentare nuove strumentazioni, questo consente di dribblare una considerevole mole di carta bollata.

Sempre l’articolo 25 assegna ai decreti governativi il compito di individuare “strumenti di copertura finanziaria e assicurativa contro il rischio di prolungamento dei tempi di costruzione per motivi indipendenti dal titolare dell’autorizzazione unica”: questo è un passaggio molto importante e un segno di vera volontà politica e responsabilizzazione della pubblica amministrazione, che in sostanza è chiamata a rispondere delle proprie lungaggini. E’ reso molto più vago rispetto alle prime versioni, e probabilmente non è un male purché non sia il cavallo di Troia di un intervento pubblico in merito, l’aspetto del finanziamento del decommissioning, che in ogni caso viene assegnato alle imprese. E’ confermata la priorità di dispacciamento per l’energia nucleare, che viene in questo senso equiparata alle rinnovabili: un intervento di dubbia utilità.

L’articolo 26 dice anzitutto che le tipologie di impianti realizzabili sul territorio nazionale dovranno essere selezionate con una delibera Cipe. Si tratta di un’idea bislacca, in parte contrastante con la scelta (corretta) di alleggerire gli oneri amministrativi per l’autorizzazione della componentistica. Oltre tutto, le tecnologie attualmente in uso sono di fatto solo due, quella americana e quella francese, e sarebbe curioso voler privare il paese della possibilità di valutare entrambe (che è anche un modo per introdurre competizione in questo settore). Sempre con delibera Cipe, “sono individuati… i criteri e le misure atte a favorire la costituzione di consorzi per la costruzione e l’esercizio” degli impianti: anche qui, perché mai dovrebbe il governo intervenire su una questione che ha a che fare con le scelte industriali delle imprese coinvolte? Oltretutto, la formula consortile è utile, forse indispensabile, ma delicata, alla luce dei profili antitrust che può sollevare: un appesantimento della normativa rischia di creare confusioni utili a nessuno.

L’articolo 29, infine, istituisce l’Agenzia per la sicurezza nucleare, un ente indispensabile a vigilare sul rigoroso rispetto degli standard e dei rischi accettabili. L’Agenzia, che sarà costituita prendendo pezzi dell’Ispra e dell’Enea, le sedi in cui resistono le competenze nucleari della nostra amministrazione pubblica, non godrà però dell’indipendenza necessaria: anzi, il passaggio in merito è stato cancellato con un apposito emendamento. Le conseguenze di tale decisione non possono che essere negative, in termini di credibilità del paese, anche alla luce delle procedure di nomina dei cinque membri del collegio (quattro componenti più il presidente). Essi, infatti, “sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei ministri”. Nello specifico, il presidente è nominato dal premier, mentre due membri a testa sono indicati dai ministri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico. E’ previsto un parere da parte delle Commissioni parlamentari competenti ma non vi è alcun requisito di maggioranza qualificata, rendendo di fatto le nomine puramente politiche. Il bilancio riconosciuto all’Agenzia è, per il momento, ridicolo: 500 mila euro per il 2009 e 1,5 milioni di euro per il 2010 e il 2011. Questo appare incoerente con la volontà di un rapido rilancio dell’atomo.

Ultimo provvedimento inerente al nucleare, anche se non direttamente all’impalcatura normativa del settore, è quello riguardante Sogin, la società di proprietà del Tesoro che si occupa oggi dello smantellamento delle vecchie centrali (articolo 27). Da un lato, viene prevista la possibilità di smembrarne le attività attraverso il “conferimento di beni o rami di azienda… a una o più società, partecipate dallo Stato in misura non inferiore al 20 per cento, operanti nel settore energetico” – anche questa una manovra discutibile, se si tiene conto della importante riorganizzazione che Sogin ha subito. Dall’altro viene previsto il commissariamento del gruppo entro trenta giorni dall’entrata in vigore della legge. Un simile intervento a gamba tesa sull’attuale management, a cui pure viene unanimemente riconosciuto di aver svolto egregiamente il proprio lavoro, lascia cadere un’ombra sulle intenzioni dell’esecutivo. Infatti, una tecnologia capital-intensive come il nucleare ha bisogno di un orizzonte normativo stabile e affidabile. La cosa peggiore che si possa fare, per spaventare gli investitori, è dare la sensazione che il settore sia alla mercé dei capricci e delle vendette degli uomini politici.

Tutti i contenuti del disegno di legge, buoni o cattivi che siano, passano in secondo piano, nel momento in cui si uniscono i puntini di alcune mosse piuttosto disinvolte: i ripetuti (e per ora sventati) attacchi all’indipendenza dell’Autorità per l’energia, la scarsa autonomia dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, e infine il colpo basso a Sogin. Se il buon giorno si vede dal mattino, l’Italia rischia di iniziare la sua marcia di ritorno al nucleare con un passo falso.

Carmine
09-07-09, 11:40
Sicurezza: O si fa finta di non vedere, o si regolarizzano i lavoratori irregolari. Tertium non datur
Inserito il 08 luglio 2009
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Tags: Della Vedova, extracomunitari, Maroni, sicurezza, stranieri

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl

La legge sulla sicurezza deve servire a reprimere la criminalità straniera e ad impedire che l’Italia diventi la piattaforma mediterranea dell’immigrazione irregolare in Europa. Non può né deve servire, secondo gli indirizzi dell’esecutivo, a impedire l’integrazione di chi concorre, lavorando nelle imprese e nelle famiglie italiane, allo sviluppo economico del paese.
Ora che il Ministro dell’Interno ha finalmente ammesso che la legge, così come è stata approvata, rischia di avere come conseguenza la criminalizzazione e potenzialmente l’espulsione di centinaia di migliaia di persone che lavorano stabilmente in Italia, si profila una sola alternativa. O le forze di polizia, l’autorità giudiziaria e gli ispettorati del lavoro fingono di “non vedere” una realtà che coinvolge centinaia di migliaia di persone, disapplicando discrezionalmente le previsioni di legge, oppure le istituzioni politiche, dando prova di realismo, ristabiliscono un minimo di certezza del diritto, consentendo, non in modo indiscriminato, ma caso per caso, la regolarizzazione dei lavoratori stranieri attualmente impiegati nel mercato del lavoro italiano. Tertium, non datur.

Roma, 8 luglio 2009

Carmine
09-07-09, 11:41
Legge sicurezza: Maroni è finalmente sincero, ma non ancora saggio
Inserito il 08 luglio 2009
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Tags: extracomunitari, Maroni, Palma, regolarizzazione, sicurezza

- Il titolare dell’Interno, Maroni, ha finalmente ammesso quanto numerosi esponenti dell’esecutivo e della maggioranza si sono impegnati strenuamente a negare, contro ogni evidenza, per quasi una settimana.
Gli stranieri irregolari che lavorano da anni in Italia, qualunque impiego essi abbiano (senza distinzione tra badanti, camerieri ed edili) se verranno “beccati”, verranno espulsi. L’espulsione è, di fatto, la pena che la legge prevede per il reato che compie lo straniero extracomunitario che “si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico”. In base alla legge appena votata (che non lascia nessun margine di interpretazione), compie un reato anche chi si trattiene irregolarmente in Italia e non solo chi vi entra dopo la promulgazione della legge. Sostenere che la legge non è “retroattiva” è tautologico, ma non istituisce, di per sé, un esimente a beneficio dei clandestini di più lungo corso. Se poi anche si volesse “disapplicare” la norma a loro esclusivo vantaggio (in che modo, di grazia, senza una modifica dell’appena approvato art.10 bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 ), comunque la loro clandestinità continuerebbe a configurare un illecito amministrativo sanzionato, nuovamente, con l’espulsione. E saremmo daccapo. Ma soprattutto, continuerebbe ad essere reato, punito con l’arresto dai tre mesi ad un anno, il comportamento di chi “occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato” (Art. 22, comma 12, del D. Lgs 286/98).
Se Maroni è finalmente sincero, non sembra mostrarsi altrettanto saggio. La sua resistenza alla regolarizzazione dei lavoratori stranieri irregolari stabilmente inseriti nelle famiglie e nelle imprese italiane ha pesantissimi “effetti collaterali”.
Visto che senza sanare la condizione dello straniero irregolare non è possibile regolarizzare il suo contratto di lavoro, in Italia continuerà a funzionare in alcuni settori (nel lavoro domestico, nell’edilizia, in agricoltura e nella ristorazione…) un mercato del lavoro “parallelo” e illegale che inquinerà il funzionamento di quello legale: non solo favorendo fenomeni di sfruttamento e azzerando il potere contrattuale dei lavoratori irregolari, ma tenendo artificiosamente bassi, grazie alla concorrenza delle imprese e delle famiglie che impiegano, a costi inferiori, lavoro irregolare, le retribuzioni e le garanzie normative dei lavoratori regolari. La condizione di irregolarità non nuoce dunque solo agli irregolari, ma anche ai regolari. Al lavoro nero, a bassi salari e a basse garanzie (anche in termini di sicurezza), finiscono così condannati non solo gli extracomunitari senza titolo di soggiorno, ma anche gli stranieri e gli italiani che potrebbero essere giuridicamente contrattualizzati.
La “criminalizzazione” della condizione di irregolarità (e poco importa che sia operata per via penale o amministrativa) rischia quindi di avere effetti criminogeni sul mercato del lavoro, di premiare i comportamenti elusivi e sleali e di impedire per le imprese e le famiglie oneste, che pure lo vorrebbero, qualunque rientro nella legalità.
Ovviamente, si può sostenere che tutto questo sarà risolto facendo piazza pulita degli abusi e procedendo all’espulsione del circa mezzo milione di lavoratori clandestini e all’incriminazione di centinaia di migliaia di datori di lavoro. Ma chi lo sostenesse, obiettivamente, non darebbe prova né di senso della realtà, né di senso del ridicolo.