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Visualizza Versione Completa : dalla crisi del marxismo al marxismo della crisi - per riflettere un pò



Combat
09-04-09, 17:20
Dalla crisi del marxismo a un marxismo della crisi?
Il progetto imperiale statunitense è in visibile riflusso. L’elezione di Barack Obama ne è il
sintomo più vistoso. Ormai solo gli ottusi senza speranza non riescono a capire che quella
attuale è una crisi capitalistica sistemica che, quindi, non lascerà gli assetti geopolitici
come li ha trovati. Ciò che è in crisi non è la finanziarizzazione minata dai titoli tossici,
non è l’economia reale lasciata senza ossigeno creditizio e tradita da finanzieri e manager
attratti dalle chimere della speculazione finanziaria: ciò che è in crisi è il ciclo capitalistico
di accumulazione globalmente egemonizzato e coordinato dagli Stati Uniti, ciclo iniziato
alla fine della II Guerra Mondiale, l’evento che risolse la grande crisi del ’29 e consentì di
riempire il vuoto egemonico mondiale lasciato dal declino dell’impero britannico. Il resto
sono conseguenze, sintomi, fenomeni ed epifenomeni collegati.
L’11/9 e ciò che ne è seguito ha costituito un tentativo degli USA di contrastare il declino
della loro egemonia occupando le aree considerate strategiche per posizione geografica e
per materie prime indispensabili (innanzitutto gli idrocarburi fossili): Medio Oriente e
Asia Centrale. L’Heartland, il Cuore della Terra. Da lì si poteva tenere sotto controllo
quello che sembrava il futuro competitor globale: la Cina. E si potevano tenere a distanza i
suoi possibili alleati più pericolosi, la Russia e l’India.
Era ciò che in un saggio del 2003 avevo chiamato “imperialismo preventivo”.
Un concetto che non ebbe assolutamente seguito nella sinistra no-global, alteromondista,
di classe e con altre qualifiche “antagoniste” e “radicali”; e men che meno in quella
moderata.
In quest’ultima nemmeno ci si accorgeva dei sintomi di una crisi incipiente e quando la
crisi si è conclamata si è voluto vedere lo zampino di oscure forze politiche ed
economiche; per giunta proprio quelle che in rarissimi casi si sottraggono oggettivamente
all’egemonia statunitense di cui la sinistra moderata (con la copertura di quella “radicale”
e con poche eccezioni personali) sono i paladini.
Nella prima, invece, si continuava a immaginare un neocolonialismo rapinoso
rappresentante degli interessi di un Capitale concepito come un Behemoth
sostanzialmente unitario. E’ solo in questa prospettiva che si può infatti sostenere la
trasformazione del comunismo da movimento politico che si inserisce con durezza nelle
contraddizioni intercapitalistiche (si ricordi il treno blindato tedesco con cui Lenin arrivò
in Russia per fare la rivoluzione) in un salmodiante “andare verso gli oppressi” molto
simile all’andare verso il popolo di manzoniana memoria, ovvero un tutto indistinto dove la
lotta di classe, la mensa della Caritas, le rivolte degli indios latinoamericani o dei contadini
asiatici rientrano nello stesso quadro ideale di resistenza. Ma resistenza a cosa? Al
capitalismo neo-liberista, dove l’aggettivo “neo-liberista” nasconde di tutto: dalle
nostalgie keynesiane-assistenzialiste magari sposate con la teoria dei “beni comuni”, allo
statalismo lasalliano confuso allegramente col comunismo marxiano.
Ma, finalmente, ecco la crisi dell’odiato neoliberismo. Esultiamo! I più moderati già
prevedono la rivincita del welfare-developmental state (sempre concepiti come anticamera
del socialismo) e i più audaci addirittura la crisi del capitalismo tout-court, vuoi perché si
è rifatta viva la “caduta tendenziale del saggio di profitto” come “previsto” da Marx, vuoi
perché ormai il capitalismo è “immateriale” e non fa che approfondire l’ineffettualità della
“legge del valore” che dovrebbe stare alla sua base. Oppure perché il capitalismo (neoliberista)
ha polarizzato la popolazione mondiale in un 20% di ricchi e in un 80% di
dannati della terra dimostrando, come già “previsto” da Marx e da Engels, di non essere
in grado nemmeno di mantenere i propri schiavi (ora globalizzati) e in aggiunta - novità
teorica - di devastare le risorse ecologiche. O infine per un mix di queste motivazioni.
Eppure quel concetto di “imperialismo preventivo” non mi era venuto in mente come
arguto gioco di parole, per spiritosa assonanza con le “guerre preventive” di Bush. Era
stato l’esito di una lunga riflessione sulle tesi che alcuni importanti studiosi, specialmente
statunitensi, da tempo proponevano e che io filtravo attraverso la lettura di due marxisti
italiani maudits ed emarginati: Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve. Ma queste tesi
venivano se del caso travisate e più spesso del tutto ignorate, specialmente in un’Italia in
tutt’altre teorie affaccendata.
In particolare facevo riferimento a Giovanni Arrighi che già più di dieci anni fa avvertiva
che eravamo in vista della fase terminale della crisi sistemica del “ciclo statunitense”.
Oggi qualcuno sembra accorgersene (ma non a “sinistra”). Così vediamo che i giornali
della “borghesia” ammettono tranquillamente che “il mondo non sarà più targato Stati
Uniti”. Ma, come al solito, “targa” non riesce a prendere un significato molto diverso da
“griffa”. Si continua a rimanere sul puro piano dell’economia: a destra come a sinistra,
l’unica cosa su cui si conta è che di riffa o di raffa ha da passà 'a nuttata.
La sinistra “antagonista” o “di classe”, come avrebbe detto la prostituta Gail in Sin City,
“è morta ma è troppo stupida per accorgersene”. E così continua a gesticolare, a far finta di
attaccare o di difendersi. I suoi cavalli di battaglia sono la democrazia, la redistribuzione
del reddito e la de-finanziarizzazione dell’economia. In linea di massima potrei essere
d’accordo su tutti e tre gli obiettivi: anche se non sono “comunisti”, sembrerebbero sensati
(ad ogni modo li ho dovuti estrarre dalla polvere confusionaria con cui li ricoprono).
Ma cosa significa tutto ciò nella fase finale - che può protrarsi molto a lungo - di una crisi
sistemica globale e non nella generica lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, dei poveri
contro i ricchi o degli oppressi contro gli oppressori? Forse occorrerebbe prima capire
perché l’economia si è finanziarizzata per poi valutare come e con che forze politiche e
sociali de-finanziarizzarla. Forse bisognerebbe capire quali forze sono in conflitto, quali
stanno vincendo e quali stanno perdendo e, soprattutto, che sviluppi prospettano a livello
di formazione nazionale, europea e poi globale, per decidere quali blocchi sociali e quale
alleanze internazionali favorire.
E, per finire, bisognerebbe capire che se di “fascismo” vogliamo parlare, il punto di
snodo sta proprio qui, non in Berlusconi, Fini o Bossi e nemmeno nei nostalgici di estrema
destra.
L’assetto egemonico planetario nato dalla II Guerra Mondiale è in crisi. L’aspetto
decisivo non è tanto che esso sia nato dalla lotta al nazi-fascismo. Questa lotta ne è stata la
veste ideologica, importante certo (tutta la mia famiglia ne ha preso parte) ma comunque
non quella sistemica, non quella i cui effetti si sono fatti sentire “strutturalmente”. Prova
ne è il rimpianto per un’occasione perduta con cui si è a lungo pensato alla Resistenza.
Prova ne è la continua denuncia del “tradimento” di una Costituzione nella cui parte
programmatica una “rivoluzione promessa” ne ripagava una mancata. Prova ne sono,
infine, i crimini “fascisti” e “contro l’umanità” che si sono perpetrati contro la Serbia e
l’Iraq proprio sotto la bandiera della lotta al fascismo, per la democrazia e per i diritti
umani, onda lunga della lotta contro il “male assoluto”.
Il problema “fascismo” sta dunque altrove. Si situa in quel terreno dove si gioca la
partita della rinascita di una sovranità nazionale, dopo l’internazionalismo globalizzato
“targato USA” e la sudditanza alla finanza e alla politica statunitense portata avanti da
tutti i governi della Seconda Repubblica, con una furfanteria particolare da parte di quelli
di centrosinistra, e dall’Unione Europea nel suo complesso.
Credo che non sorprenda che di fronte a un riflusso dello stato-nazione finora egemone e
l’apertura lenta e, per ora, cauta di una fase policentrica (l’unica che può far sperare in
reali cambiamenti in senso anticapitalistico) gli stati nazionali - dati troppo in fretta per
estinti sia dai teorici di destra della “fine della Storia” sia dai teorici di sinistra dell’
“impero” - giocheranno un ruolo rinnovato. In questo contesto, in questo tipo di crisi, se
non si vuole gridare nel deserto non si può fare politica senza sporcarsi le mani con i
concetti di “nazione” e di “territorio” (David Harvey e Giovanni Arrighi stanno ripetendo
da anni che addirittura non si può parlare di capitalismo senza usare quelle due nozioni; e
Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa aggiungono che senza di essi non si può parlare
nemmeno di anticapitalismo).
Se ciò è vero, come credo che sia vero, allora è evidente il pericolo. Il marxismo ha quasi
sempre lasciato ai suoi avversari questi punti centrali. Un po’ per un legittimo rifiuto del
nazionalismo razzista imperialistico e coloniale, ma più che altro perché scambiando il
modello del “modo di produzione capitalistico” con la complessità del reale, la tradizione
marxista non ha visto altro che l’internazionalismo proletario e la rivoluzione mondiale. Ci
volle il realismo di Lenin - che pure credeva in entrambe le cose - per criticare l’ostilità di
due grandi rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Karl Radek (alias “Parabellum”) all’idea
di “autodeterminazione delle nazioni” e per capire in generale che al di sotto del modello
operava una realtà “difforme e poco armonica”:
«Il manifesto di Zimmerwald, come la maggior parte dei programmi e delle risoluzioni tattiche dei
partiti socialdemocratici, proclama "il diritto delle nazioni all'autodeterminazione". Il compagno
Parabellum (nei nn. 252-253 della Berner Tagwacbt) dichiara "illusoria" la "lotta per l'inesistente
diritto di autodeterminazione" e ad essa contrappone la "lotta rivoluzionaria di massa del
proletariato contro il capitalismo", assicurando, nello stesso tempo che "noi siamo contro le
annessioni" (questa affermazione è ripetuta cinque volte nell'articolo di Parabellum) e contro ogni
specie di violenza ai danni delle nazioni. Gli argomenti di Parabellum si riducono a questo: oggi
tutti i problemi nazionali (Alsazia-Lorena, Armenia, ecc.) sono in sostanza problemi
dell'imperialismo; il capitale ha superato i limiti degli Stati nazionali; non è possibile "girare
all'indietro la ruota della storia" verso l'ideale ormai sorpassato degli Stati nazionali, ecc.»
Dopo una sfilza di critiche a Radek, Lenin aggiunge:
«Gli utopisti piccolo-borghesi, che sognano l'eguaglianza e la pace tra le nazioni in regime
capitalista, hanno ceduto il posto ai socialimperialisti. Parabellum combattendo contro i primi
combatte contro i mulini a vento, e fa, senza volerlo, il giuoco dei secondi.»
Per poi finire:
«Come Marx nel 1869 chiedeva la separazione dell'Irlanda non per il frazionamento, ma per
un'ulteriore libera unione tra l'Irlanda e l'Inghilterra, non per “giustizia verso l'Irlanda" ma in
nome degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato inglese, così anche noi consideriamo
la rinuncia dei socialisti della Russia alla rivendicazione della libertà di autodeterminazione delle
nazioni nel senso da noi indicato, come un aperto tradimento della democrazia,
dell'internazionalismo e del socialismo.»
[Lenin, ottobre 1915]
E per fortuna che ai tempi di Lenin non c’era ancora stato il nazismo, altrimenti sono
pronto a scommettere che i socialdemocratici, la sinistra “di classe” di allora (e
sicuramente lo era molto di più dei nostri attuali “comunisti”), lo avrebbero accusato di
essere un idolatra del Blut und Boden. Perché ci si può girare attorno quanto si vuole, ma il
concetto di “autodeterminazione delle nazioni” immette inevitabilmente in circolo
elementi come “nazione” e “territorio”, “cultura” e “tradizione”. E per non rimanerne
intossicati bisogna affrontarli in un’ottica marxista e leninista rinnovata, ovverosia che
guardi da qui in avanti e non indietro. Non bastano gli scongiuri, non bastano i
“guaritori” che ripetono le litanie della lotta di classe o della ribellione degli oppressi,
agitando amuleti a forma di falce e martello.
Comunque, se vogliamo rimanere puri e incontaminati possiamo farlo. Si sappia però
che abbiamo verosimilmente di fronte due alternative: o rischiamo di consegnare le
prossime mosse a qualcuno che potrebbe congedare nemmeno troppo cortesemente la
destra e la sinistra, magari facendoci persino rimpiangere i tempi in cui questi due
insopportabili schieramenti giocavano a riflettere l’immagine dell’uno in quella dell’altro
(“Tu sei un catto-comunista, toh. E tu sei un clerico-fascista, tié”); oppure rischiamo di
lasciare che questi due orribili schieramenti continuino a spadroneggiare, ora l’uno ora
l’altro o in condominio, protetti dai loro padrini statunitensi.
Se invece vogliamo affrontare seriamente il problema dobbiamo essere consci dei rischi,
delle poste in gioco pratiche e teoriche, delle differenze nette ma anche delle sottili linee
rosse di demarcazione. Inutile nasconderselo: si camminerà su territori che quando va
bene non sono di nessuno, ma spesso sono borderline.
E’ un lavoro necessario per tentare di evitare catastrofi come quelle già viste nella prima
parte del secolo scorso, ma poco piacevole, duro e che espone all’odio di tutto
l’establishment di sinistra: si è fortunati quando si è presi per rinstupiditi o impazziti,
perché a volte si è persino accusati di essere passati “dall’altra parte” o addirittura di aver
fatto un “giro di 180°”. Cioè dall’estrema sinistra all’estrema destra. Personalmente posso
dire che forse sono rinstupidito o impazzito, non posso escluderlo da solo, ma le altre
accuse sono emerite scemenze: sottoporre a critica alcune categorie e previsioni di una
grandiosa e geniale teoria (di cui non ci si vuole affatto sbarazzare) e presidiare i confini di
regni di cui si vuole evitare l’invasione, non significa, come è evidente, servire il
miserevole apparato pseudo-teorico dell’avversario, ma al contrario guardare nella
direzione da cui viene il pericolo reale e non andare invece a combattere i mulini a vento
dalla parte opposta.
Dovrebbe poi essere chiaro che criticare la diagnosi e la terapia di un medico non vuol
dire né censurare le intenzioni del medico né la medicina nel suo complesso. E tanto
meno vuol dire criticare il paziente. E quindi non è accettabile l’accusa di stare
abbandonando le “idealità comuniste”, perché al contrario si vogliono proprio verificare le
ragioni che hanno sostenuto scientificamente e storicamente quelle idealità, per evitare che la
parte ancora vitale di queste ragioni venga lasciata alla rodente critica dei topi assieme alle
scorie e assieme a tutti gli sventolati ideali. Perché è proprio questo ciò che sta accadendo.
Sono scemenze, quindi, a volte sgradevoli, giustificabili solo dal fatto che in un momento
di crisi è più istintivo affidarsi a ogni tipo di fedeltà collaudata che non andare a esplorare
nuovi mondi. Un po’ come in barca a vela durante una tempesta: gli ingenui cercano di
avvicinarsi alla costa, gli esperti cercano di prendere il mare aperto. Anche questo è un
rischio, d’accordo. Ma un tipo di rischio differente: si è sballottati dai flutti, il porto di
salvezza appare lontano, si rischia di non sapere bene dove si sta andando, ma per lo
meno si sa che non si finirà sugli scogli.

da: ripensaremarx.splinder.com
Piotr

bossanovababy
07-09-09, 18:14
Ora che ho riflettutto un pò vorrei sapere semplicemente cosa volete voialtri eurasiatici. E che c'entra la crisi del marxismo. Siete comunisti?

Combat
08-09-09, 11:03
A parte che "eurasiatico" lo sei anche tu, visto che vivi, penso, sopra il nostro stesso continente...

Comunque l'eurasiatismo non è un'ideologia, ha come scopo quello di migliorare i rapporti e la sovranità nel continente, ci possono benissimo essere marxisti eurasiatisti!

Stalinator
08-09-09, 13:47
Io non sono mai stato marxista. Eppure vedo nel Socialismo del'800 (Marx-Engels compresi) un fenomeno di antitesti al Capitalismo: il primo vero moto di rovesciamento del consolidamento liberale avvenuto nel secolo precedente. Tutti gli autori dell'epoca hanno un ruolo fondamentale, salvo dover rendersi conto dell'inattualità o dell'impreparazione di altri piuttosto che dei più attenti. Il Socialismo è un modo di comportarsi e di porsi, di cambiare la società umana, un'etica militare addirittura ma non un dogma di religione. L'Eurasia nella sua molteplice diversità ha contribuito alla costruzione di modelli anche molto diversi ma tutti in qualche maniera accomunati da un sentore di equilibrio sociale e spirituale che il mondo atlantico non conosce, dal momento che non ha radici nè tradizioni.

msdfli
08-09-09, 14:34
Il Socialismo è un modello ideologico che, a seconda dei luoghi, si è poi sviluppato in totalitarismi di segno diverso.
Il Socialismo di Marx è qualcosa di molto affascinante ma ha poco a che vedere con lo Stalinismo o il Maoismo ed ancor meno con l'idea di Eurasia.

L'Idea di Eurasia la intendo come qualcosa di più geopolitico e non di tradizioni comuni, avendo poco da spartire i portoghesi come siberiani.
Poi ognuno del continente Eurasiatico può e potrebbe studiare e approfondire le tradizioni più confacenti.
Già l'Europa potrebbe far coincidere geopolitica e tradizione. Per quello un modello eurasiatico funzionante deve passare prima da un modello europeo organico, non certo come quello proposto dal trattato di lisbona.

Poi che ci possano coerentemente esistere Eurasiatisti intenzionati a sviluppare l'ideologia marxista...nulla vieta

bossanovababy
08-09-09, 18:13
Il Socialismo è un modello ideologico che, a seconda dei luoghi, si è poi sviluppato in totalitarismi di segno diverso.
Il Socialismo di Marx è qualcosa di molto affascinante ma ha poco a che vedere con lo Stalinismo o il Maoismo ed ancor meno con l'idea di Eurasia.

L'Idea di Eurasia la intendo come qualcosa di più geopolitico e non di tradizioni comuni, avendo poco da spartire i portoghesi come siberiani.
Poi ognuno del continente Eurasiatico può e potrebbe studiare e approfondire le tradizioni più confacenti.
Già l'Europa potrebbe far coincidere geopolitica e tradizione. Per quello un modello eurasiatico funzionante deve passare prima da un modello europeo organico, non certo come quello proposto dal trattato di lisbona.

Poi che ci possano coerentemente esistere Eurasiatisti intenzionati a sviluppare l'ideologia marxista...nulla vieta



Quindi vi considerate socialisti sul modello marxista dell'Ottocento se ho ben capito.

Stalinator
08-09-09, 19:09
Quindi vi considerate socialisti sul modello marxista dell'Ottocento se ho ben capito.

se dici a me, ti rispondo di no. Marx non mi ha mai interessato tanto perche rientra in logiche borghesi. Diciamo che agisce in un piano positivista in senso teoretico e progressista-escatologico in senso storicistico, ricadendo in secolarizzazioni di vecchie forme economiche o religiose. Fu però una antitesi al Capitalismo, una negazione dialettica interna al piano dell'economicismo asfittico: in questo ha un proprio peculiare valore di critica e scontro sociale. La sintesi per me sta nel superamento della logica che accomuna ambedue, quella mentalità materialistica, determinista e antropocentrica che contraddistingue il mondo moderno e borghese.

Italicvs
30-03-11, 17:16
se dici a me, ti rispondo di no. Marx non mi ha mai interessato tanto perche rientra in logiche borghesi. Diciamo che agisce in un piano positivista in senso teoretico e progressista-escatologico in senso storicistico, ricadendo in secolarizzazioni di vecchie forme economiche o religiose. Fu però una antitesi al Capitalismo, una negazione dialettica interna al piano dell'economicismo asfittico: in questo ha un proprio peculiare valore di critica e scontro sociale. La sintesi per me sta nel superamento della logica che accomuna ambedue, quella mentalità materialistica, determinista e antropocentrica che contraddistingue il mondo moderno e borghese. Scusa ma tu non sei un marxista-leninista?

Stalinator
31-03-11, 17:25
Scusa ma tu non sei un marxista-leninista?

Sì. Appunto. Non marxista. Marxista-leninista è già un'altra cosa. Nella teoria di Marx ci sono una serie di falle teoriche che vanno indubbiamente sistemate e che, in passato, hanno dato adito anche a dei fraintendimenti storicistici, escatologici non indifferenti.
Se leggessimo Marx alla lettera, la rivoluzione in Russia non sarebbe mai potuta cominciare nel 1917.
Il mio forum M-L nasce da una necessità che è maturata col tempo (del resto questi miei post sono di un anno e mezzo fa) ed è dedicato allo studio dei rapporti tra la teoria marxista e la sua applicazione politica, cioè il Socialismo Reale, cioè quello che è stato nella realtà.

PS: io provengo da una formazione basata molto su Georges Sorel e su Arturo Labriola, dunque per me Marx è stato una ri-scoperta successiva conseguente ai miei studi universitari, ci tengo a precisarlo.

José Frasquelo
01-04-11, 22:32
a quel punto meglio definirsi stalinisti, almeno si fa riferimento a un'esperienza reale...