Metabo
05-05-13, 13:14
Il declino dell'Impero romano (http://www.storiain.net/arret/num96/artic7.asp)
Molti studiosi sono soliti fare coincidere la "fine" dell'Impero Romano d'Occidente con la tremenda sconfitta subita il 9 agosto del 378 a.C. a Adrianopoli dalle legioni dell'imperatore Valente. Un disastro non soltanto militare ma anche politico, le cui premesse vanno ricercate sia nell'inarrestabile processo di indebolimento e disgregazione amministrativa, economica e politico-militare della struttura imperiale che in una serie di gravi errori e imprudenze compiuti dall'imperatore d'Oriente Valente, prima fra tutte quella di avere acconsentito, nel 376, alle popolazioni barbariche dell'area danubiana di entrare e stabilirsi in territorio "romano". L'impossibilità di mantenere in armi un sufficiente numero di legioni destinate a presidiare i limes dell'Impero e la continua pressione esercitata dagli irrequieti popoli d'oltre confine, avevano costretto il coraggioso ma incerto ed insicuro Valente a varare una politica di "assimilazione", nell'illusoria speranza di esorcizzare il pericolo di un moltiplicarsi delle guerre di confine e di annullare nella "civiltà" gli istinti di conquista e di saccheggio insiti nella mentalità dei Goti Tervingi (più tardi noti come Visigoti), la "tribù" forse meglio organizzata e temibile di tutto il variegato mondo barbarico trans danubiano del IV secolo.
Verso il 375 d.C., la forza dei Visigoti poteva essere valutata intorno alle 700/800 mila unità, di cui almeno 200.000 combattenti: una massa cospicua che in altri tempi Roma e le sue legioni avrebbero potuto sicuramente contenere e battere, come del resto era accaduto
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La cavalleria dei Visigoti aveva
una potente forza d'urto (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma961.jpg)
in occasione delle lontane guerre in Gallia, quando le relativamente numerose, ma addestrate, motivate e omogenee forze di Giulio Cesare non avevano riscontrato eccessive preoccupazioni nel distruggere o rintuzzare eserciti barbari numerosi, ma piuttosto disorganizzati e scarsamente colti sotto il profilo tattico e tecnico. Ma la realtà dell'esercito romano della seconda metà del IV secolo non era più quella dei tempi della Repubblica o di Augusto o di Traiano, colui il quale aveva garantito a Roma la massima espansione. Preannunciato dalla morte di Marco Aurelio (ultimo grande difensore dell'Impero), dalle successive guerre civili, carestie e crisi economiche, reso palese dalla grave sconfitta dell'imperatore Decio, e dall'uccisione di quest'ultimo per opera dei Goti; un lento ma inesorabile processo di decadenza aveva minato nel profondo le basi della più potente struttura dell'antichità classica. Dopo i molteplici, lodevoli tentativi di ripresa e riorganizzazione economico-militare condotti da Claudio, Aureliano, Tacito, Probo, Caro, Diocleziano e il trasferimento della capitale da Roma a Bisanzio compiuto dal primo imperatore cristiano Costantino, la situazione era tornata a farsi molto delicata, soprattutto dopo la rapida ascesa in Oriente della potenza persiana. Ed era stato proprio il padre di Valente, Giuliano, ad essere sconfitto e a perdere anche la vita in battaglia contro questo pericoloso avversario asiatico.
Nel 364, ai due figli di Giuliano erano andati in eredità due porzioni dell'Impero paritetiche: quella occidentale a Valentiniano e quella orientale a Valente. Valentiniano, che era un buon generale, aveva dovuto vedersela fino da subito con gli Alemanni e con altre tribù germane che avevano invaso la Gallia forzando la linea del Reno, e che furono respinti soltanto dopo cruente e sanguinose battaglie. Non meno felice era comunque la posizione di Valente che, come si è detto, intorno al 375 cercò di affrontare l'emergenza derivante dalla pressione esercitata dai Goti Tervingi
http://www.storiain.net/arret/num96/roma962.jpg (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma962.jpg)
Una delle famose orde barbare (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma962.jpg)
(Visigoti) lungo la frontiera danubiana. Sul finire di quell'anno sembra che di mezzo milione di Visigoti stanziatisi intorno al delta del Danubio, circa 300.000 iniziassero a risalire il grande fiume alla testa del vecchio capo Atanarico (o Ermanarico) andando ad accamparsi proprio a ridosso del limes, in attesa di ottenere dall'imperatore il permesso di entrare in territorio romano. Proprio nel mentre altri 200.000 barbari innalzavano rapidamente le loro tende in Mesia.
Nella primavera del 376, Valente, che risiedeva ad Antiochia (Siria) per meglio prevenire eventuali attacchi da parte persiana, ricevette un'ambasceria di Fritigerno, capo dei Goti Tervingi, nella quale si chiedeva l'autorizzazione ad insediare nelle terre dell'Impero. In cambio essi si sarebbero sottomessi al governo romano e avrebbero fornito contingenti all'esercito imperiale.
Interpellati dall'imperatore, il prefetto del pretorio Modesto e i due ministri delle Finanze Fortunaziano e Taziano si dichiararono mostrarono favorevoli ad accogliere i Tervingi, in quanto l'immissione di nuove risorse umane - essi pensavano - avrebbe rafforzato l'esercito e il tesoro imperiale. La disponibilità di nuove reclute avrebbe infatti consentito ai proprietari terrieri di sostituire gli effettivi ceduti alle forze armate in cambio di un tributo in oro. Sulla base di queste considerazioni, Valente decise di accogliere la richiesta dei Goti Tervingi, che poche settimane più tardi iniziarono ad attraversare (in armi) il Danubio, venendo ammassati in campi provvisori che ben presto risultarono del tutto insufficienti ad accogliere l'elevata massa di profughi. Incaricati della sistemazione dei Goti erano stati due loschi funzionari, Lupicino e Massimo, che dettero prova di sapere curare soprattutto i propri interessi, vendendo a prezzi altissimi i viveri e il vestiario ai Goti di Fritigerno. Quest'ultimo, dando prova di una certa astuzia, temporeggiò e nel frattempo ordinò ai suoi guerrieri di prepararsi ad attaccare le poche milizie romane presenti intorno agli accampamenti. Dopo avere pazientato per alcuni giorni, Fritigerno scagliò i suoi reparti contro i manipoli agli ordini di Lupicino, annientandoli con facilità e dando inizio al saccheggio della Tracia e della Mesia. Allarmato, l'imperatore Valente cercò di correre ai ripari, inviando il generale Sebastiano a contrastare l'esercito di Fritigerno.
Ma i Goti, che nel frattempo avevano chiamato a raccolta altre tribù barbare tra cui i Greutungi, ebbero la meglio, infliggendo all'esercito di Sebastiano forti ma non irreparabili perdite. La situazione era quindi in bilico e a Valente sarebbe forse bastato arretrare oltre il Danubio, riordinare le fila e attendere i necessari rinforzi richiesti a Graziano, che nel frattempo era succeduto a Valentiniano.
Valente fece infatti accampare l'esercito d'Oriente nei pressi della città fortificata di Adrianopoli e attese l'arrivo delle avanguardie dell'esercito Occidentale agli ordini del generale Ricomere. Dopo la ricongiunzione, quest'ultimo consigliò a Valente, spalleggiato in questo dal generale Vittore, capo della cavalleria d'Oriente, di attendere l'arrivo del grosso delle legioni di Graziano. Dal canto suo, il generale Sebastiano era invece dell'opinione (forse non del tutto errata) di attaccare subito l'esercito di Fritigerno al quale non si erano ancora unite altre forze barbare. Anziché prendere una decisione immediata, Valente iniziò ad imbastire una sorta di dialogo pacificatore con il comandante dei Goti. Fritigerno, che non si aspettava una mossa tanto sciocca, ne approfittò e per guadagnare tempo propose all'imperatore un nuovo, vago trattato di amicizia, dichiarandosi perfino disposto ad accettare una sorta di controllo militare romano sul suo popolo e sulle terre da esso conquistate.
Ma Valente tentennò; non seppe che fare. Il cinquantenne imperatore era sicuramente un bravo soldato, ma non certo uno abile stratega. Egli, inoltre, non possedeva carisma e doti di comando ed era spesso soggetto a scatti d'ira alternati a momenti di abbandono e di disperazione. In sostanza, era l'uomo sbagliato nel momento sbagliato.
Valente non volle attendere l'aiuto dell'Occidente, forse anche perché si sentiva umiliato a dover dipendere dal diciannovenne Graziano (che era suo nipote), nei confronti del quale provava sentimenti contrastanti. Ovviamente, l'appoggio di quest'ultimo sarebbe stato, data la grave situazione, risolutivo, ma Valente voleva forse una vittoria tutta sua, anche perché egli non aveva mai conseguito in 14 anni di regno alcun evidente successo militare degno di nota.
Ma ritorniamo sul campo di battaglia. All'alba del 9 agosto 378, l'astuto Fritigerno chiese a Valente di inviargli alcuni funzionari in ostaggio, quale prova di buona fede nella trattativa in corso. E l'imperatore improvvisamente accettò, dando così modo al capo goto di guadagnare tempo e di farsi raggiungere dalla sua cavalleria (ancora nelle retrovie) e dagli eserciti dei Greutungi, degli Alani e degli Ostrogoti che nel frattempo avevano deciso di approfittare dell'occasione per regolare i conti con Roma e fare bottino. Coraggiosamente, il generale (e conte) Ricomere, si offrì come ostaggio volontario, ma Fritigerno, ormai sufficientemente forte, bruciò i tempi dando inizio alla battaglia.
LA BATTAGLIA
L'esercito romano sul campo di Adranopoli era ben diverso da quelli che in passato avevano conquistato e dominato il mondo antico. A fianco della fanteria legionaria, che
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Soldato romano (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma963.jpg)
occupava, tradizionalmente, la parte centrale dello schieramento, era disposta la variegata e colorata cavalleria "alleata", composta da mercenari germani, unni e perfino arabi. Valente, circondato dai suoi migliori generali e rincuorato dai canti di guerra dei legionari, forse assaporava la sua prima grande vittoria.
Nascosti dietro una fitta muraglia di carri, i Goti - che non potevano ancora contare sull'appoggio delle loro famosa cavalleria - osservavano con apprensione l'imponente dispositivo che lentamente e disciplinatamente aveva assunto l'ordine di combattimento. Tutto era pronto per l'attacco. Tuttavia, Valente sembrava ancora indeciso. Sarebbe bastato un suo cenno per scatenare contro l'accampamento dei Goti le sue truppe; ma queste attesero l'ordine invano. Nella speranza, forse, di addivenire ad un improbabile accordo o in attesa dell'arrivo del giovane Graziano, l'imperatore perse molto, troppo tempo, dando modo ai Goti di prepararsi allo scontro e di mettere finalmente in linea la loro cavalleria. Verso mezzogiorno, il caldo di quella mattina di agosto si fece soffocante a tal punto che molti legionari, reduci da lunghe marce e all'erta fin dall'alba, iniziarono ad essere colti da malore. Lo schieramento romano iniziò ad ondeggiare e l'incertezza, iniziò a serpeggiare tra i reparti.
Una coorte, guidata da un certo Bacurio, si mosse anzitempo e non rispettando gli ordini si lanciò da sola all'attacco del baluardo formato dai carri goti, venendo facilmente respinta. E proprio mentre i romani stavano arretrando, la cavalleria barbara si lanciò al contrattacco, in massa. I generali di Valente cercarono di reagire ordinando alle fanterie di avanzare, ma la manovra non venne effettuata con il necessario coordinamento. L'ala destra si mosse, infatti, con troppa rapidità rispetto a quella sinistra, modificando l'allineamento dell'esercito. Pur riuscendo in taluni punti a raggiungere l'accampamento dei Goti, i legionari vennero caricati dalla cavalleria nemica che, dopo essersi sbarazzata di quella romana formata da Arabi e Unni, puntò al centro dello schieramento di Valente, diffondendo il panico e la confusione tra i legionari appiedati. Ben presto l'esercito imperiale si trovò stretto tra la muraglia dei carri e una torma di migliaia di cavalieri goti. E come se non bastasse anche gli Ostrogoti e gli Alani, guidati dai loro capi Alanteo e Safrace, piombarono anch'essi sul campo in aiuto delle truppe di Fritigerno, rendendo drammatica la situazione dei Romani. Nel tumulto dello scontro anche i quadri andarono rapidamente dissolvendosi, e tutti gli ufficiali, anche i più alti di grado, furono costretti ad impugnare la spada e a buttarsi nella mischia. Cosa che fece anche lo stesso imperatore, affiancato dal fedele generale Sebastiano.
Secondo la leggenda Valente venne ferito da una freccia e trasportato dai suoi in una piccola fattoria dal tetto di paglia che venne circondata ed incendiata dai Goti. Valente, il cui corpo non venne mai ritrovato, sarebbe quindi morto bruciato.
Scomparso l'imperatore, la situazione dell'esercito romano si fece ancora più disperata.
http://www.storiain.net/arret/num96/roma964.jpg (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma964.jpg)
Legionario romano (IV secolo) (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma964.jpg)
Non vi era spazio per manovrare o per cercare una via di fuga. Secondo quanto tramanda lo storico Ammiano Marcellino l'armata romana, ormai costretta in uno spazio molto ridotto, venne bersagliata e decimata da una pioggia di frecce, giavellotti e lance. Ciononostante, i legionari, seppure privi di ordini precisi, continuarono a battersi da leoni, proprio come era accaduto quasi quattro secoli prima agli sfortunati soldati di Varo nella foresta germanica di Teutoburgo. Quella della fanteria romana fu una resistenza strenua, forsennata, ma inutile: troppo alto era ormai il divario di forze. In quest'ultima fase della battaglia tutti fecero il loro dovere, compresi il maggiordomo di corte, il capo supremo delle scuderie e tutto il personale ausiliario non combattente. Consci dell'estrema gravità di una sconfitta che avrebbe compromesso definitivamente il prestigio e la sicurezza dell'Impero, i Romani ritrovarono l'orgoglio dei tempi antichi e gloriosi, immolandosi in un'inutile carneficina. E sul finire del pomeriggio soltanto poche centinaia di superstiti, quasi tutti feriti, guidati dal generale Vittore riuscirono a sganciarsi e a ritirarsi entro le mura della città di Adrianopoli.
Non soddisfatto della vittoria, Fritigerno li inseguì scagliando le proprie truppe contro le alte mura, difese da una piccola guarnigione alla quale si affiancò però l'intera popolazione decisa a vendere cara la pelle. Essendo sprovveduto di macchine d'assedio. Fritigerno fu infine costretto a desistere dal suo proposito e a ritirarsi. Poche ore dopo la fine della battaglia giungevano le prime avanguardie a cavallo dell'armata d'Occidente. Si narra che arrivato sul posto il giovane Graziano poté trattenere a stento la rabbia per l'immane disastro causato dall'inettitudine di Valente. Reputando non saggio affrontare in campo aperto i barbari ormai inebriati dalla vittoria e ben sapendo che il suo era l'unico ed ultimo grosso esercito romano ancora integro, Graziano decise quindi di evitare qualsiasi scontro dall'esito incerto. Un'eventuale distruzione o eccessivo indebolimento della sua armata avrebbe significato la fine dell'impero. Con la battaglia di Adrianopoli terminava non soltanto la tradizionale supremazia delle fanterie romane sugli eserciti barbarici, ma un'epoca.
In seguito i Visigoti avrebbero dilagato per l'intera penisola balcanica e di ciò ne avrebbero approfittato anche tribù ben più selvagge come i Sarmati e i Quadi che irruppero attraverso il Danubio ormai indifeso e sguarnito, facendo scempio di città e campagne.
La gravità della sconfitta fu infatti pari a quella subita per opera di Annibale a Canne nel 216 avanti Cristo; ma con conseguenze di gran lunga più disastrose e irrimediabili. Se all'indomani di Canne, Roma aveva saputo raccogliere le forze per superare brillantemente la crisi, dopo Adrianopoli, l'Impero d'Oriente (nonostante l'ascesa sul trono di un brillante condottiero, Teodosio) non seppe ritrovare le energie per scacciare i barbari con i quali dovette venire a patti, inaugurando una stagione di rapido e penoso declino politico e militare. Nell'ottobre del 382, infatti, dopo altri quattro anni di inutile guerra, i romani furono costretti a stipulare un'umiliante pace con i Goti: trattato che segnò un profondo mutamento negli equilibri strategici dell'Impero. Anziché sancire l'insediamento all'interno dei confini imperiali di un nemico sconfitto o sottomesso come era accaduto in passato, il nuovo trattato era in realtà un accordo fra "eguali contraenti". Sulla piana di Adrianopoli era precipitata l'aquila imperiale. Con la sconfitta e morte di Valente terminava così l'Era dell'antica Urbe e con essa anche il trentunesimo ed ultimo volume della Storia di Roma (aggiornato fino al tragico evento bellico di Adrianopoli) redatto da Marcellino.
Molti studiosi sono soliti fare coincidere la "fine" dell'Impero Romano d'Occidente con la tremenda sconfitta subita il 9 agosto del 378 a.C. a Adrianopoli dalle legioni dell'imperatore Valente. Un disastro non soltanto militare ma anche politico, le cui premesse vanno ricercate sia nell'inarrestabile processo di indebolimento e disgregazione amministrativa, economica e politico-militare della struttura imperiale che in una serie di gravi errori e imprudenze compiuti dall'imperatore d'Oriente Valente, prima fra tutte quella di avere acconsentito, nel 376, alle popolazioni barbariche dell'area danubiana di entrare e stabilirsi in territorio "romano". L'impossibilità di mantenere in armi un sufficiente numero di legioni destinate a presidiare i limes dell'Impero e la continua pressione esercitata dagli irrequieti popoli d'oltre confine, avevano costretto il coraggioso ma incerto ed insicuro Valente a varare una politica di "assimilazione", nell'illusoria speranza di esorcizzare il pericolo di un moltiplicarsi delle guerre di confine e di annullare nella "civiltà" gli istinti di conquista e di saccheggio insiti nella mentalità dei Goti Tervingi (più tardi noti come Visigoti), la "tribù" forse meglio organizzata e temibile di tutto il variegato mondo barbarico trans danubiano del IV secolo.
Verso il 375 d.C., la forza dei Visigoti poteva essere valutata intorno alle 700/800 mila unità, di cui almeno 200.000 combattenti: una massa cospicua che in altri tempi Roma e le sue legioni avrebbero potuto sicuramente contenere e battere, come del resto era accaduto
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La cavalleria dei Visigoti aveva
una potente forza d'urto (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma961.jpg)
in occasione delle lontane guerre in Gallia, quando le relativamente numerose, ma addestrate, motivate e omogenee forze di Giulio Cesare non avevano riscontrato eccessive preoccupazioni nel distruggere o rintuzzare eserciti barbari numerosi, ma piuttosto disorganizzati e scarsamente colti sotto il profilo tattico e tecnico. Ma la realtà dell'esercito romano della seconda metà del IV secolo non era più quella dei tempi della Repubblica o di Augusto o di Traiano, colui il quale aveva garantito a Roma la massima espansione. Preannunciato dalla morte di Marco Aurelio (ultimo grande difensore dell'Impero), dalle successive guerre civili, carestie e crisi economiche, reso palese dalla grave sconfitta dell'imperatore Decio, e dall'uccisione di quest'ultimo per opera dei Goti; un lento ma inesorabile processo di decadenza aveva minato nel profondo le basi della più potente struttura dell'antichità classica. Dopo i molteplici, lodevoli tentativi di ripresa e riorganizzazione economico-militare condotti da Claudio, Aureliano, Tacito, Probo, Caro, Diocleziano e il trasferimento della capitale da Roma a Bisanzio compiuto dal primo imperatore cristiano Costantino, la situazione era tornata a farsi molto delicata, soprattutto dopo la rapida ascesa in Oriente della potenza persiana. Ed era stato proprio il padre di Valente, Giuliano, ad essere sconfitto e a perdere anche la vita in battaglia contro questo pericoloso avversario asiatico.
Nel 364, ai due figli di Giuliano erano andati in eredità due porzioni dell'Impero paritetiche: quella occidentale a Valentiniano e quella orientale a Valente. Valentiniano, che era un buon generale, aveva dovuto vedersela fino da subito con gli Alemanni e con altre tribù germane che avevano invaso la Gallia forzando la linea del Reno, e che furono respinti soltanto dopo cruente e sanguinose battaglie. Non meno felice era comunque la posizione di Valente che, come si è detto, intorno al 375 cercò di affrontare l'emergenza derivante dalla pressione esercitata dai Goti Tervingi
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Una delle famose orde barbare (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma962.jpg)
(Visigoti) lungo la frontiera danubiana. Sul finire di quell'anno sembra che di mezzo milione di Visigoti stanziatisi intorno al delta del Danubio, circa 300.000 iniziassero a risalire il grande fiume alla testa del vecchio capo Atanarico (o Ermanarico) andando ad accamparsi proprio a ridosso del limes, in attesa di ottenere dall'imperatore il permesso di entrare in territorio romano. Proprio nel mentre altri 200.000 barbari innalzavano rapidamente le loro tende in Mesia.
Nella primavera del 376, Valente, che risiedeva ad Antiochia (Siria) per meglio prevenire eventuali attacchi da parte persiana, ricevette un'ambasceria di Fritigerno, capo dei Goti Tervingi, nella quale si chiedeva l'autorizzazione ad insediare nelle terre dell'Impero. In cambio essi si sarebbero sottomessi al governo romano e avrebbero fornito contingenti all'esercito imperiale.
Interpellati dall'imperatore, il prefetto del pretorio Modesto e i due ministri delle Finanze Fortunaziano e Taziano si dichiararono mostrarono favorevoli ad accogliere i Tervingi, in quanto l'immissione di nuove risorse umane - essi pensavano - avrebbe rafforzato l'esercito e il tesoro imperiale. La disponibilità di nuove reclute avrebbe infatti consentito ai proprietari terrieri di sostituire gli effettivi ceduti alle forze armate in cambio di un tributo in oro. Sulla base di queste considerazioni, Valente decise di accogliere la richiesta dei Goti Tervingi, che poche settimane più tardi iniziarono ad attraversare (in armi) il Danubio, venendo ammassati in campi provvisori che ben presto risultarono del tutto insufficienti ad accogliere l'elevata massa di profughi. Incaricati della sistemazione dei Goti erano stati due loschi funzionari, Lupicino e Massimo, che dettero prova di sapere curare soprattutto i propri interessi, vendendo a prezzi altissimi i viveri e il vestiario ai Goti di Fritigerno. Quest'ultimo, dando prova di una certa astuzia, temporeggiò e nel frattempo ordinò ai suoi guerrieri di prepararsi ad attaccare le poche milizie romane presenti intorno agli accampamenti. Dopo avere pazientato per alcuni giorni, Fritigerno scagliò i suoi reparti contro i manipoli agli ordini di Lupicino, annientandoli con facilità e dando inizio al saccheggio della Tracia e della Mesia. Allarmato, l'imperatore Valente cercò di correre ai ripari, inviando il generale Sebastiano a contrastare l'esercito di Fritigerno.
Ma i Goti, che nel frattempo avevano chiamato a raccolta altre tribù barbare tra cui i Greutungi, ebbero la meglio, infliggendo all'esercito di Sebastiano forti ma non irreparabili perdite. La situazione era quindi in bilico e a Valente sarebbe forse bastato arretrare oltre il Danubio, riordinare le fila e attendere i necessari rinforzi richiesti a Graziano, che nel frattempo era succeduto a Valentiniano.
Valente fece infatti accampare l'esercito d'Oriente nei pressi della città fortificata di Adrianopoli e attese l'arrivo delle avanguardie dell'esercito Occidentale agli ordini del generale Ricomere. Dopo la ricongiunzione, quest'ultimo consigliò a Valente, spalleggiato in questo dal generale Vittore, capo della cavalleria d'Oriente, di attendere l'arrivo del grosso delle legioni di Graziano. Dal canto suo, il generale Sebastiano era invece dell'opinione (forse non del tutto errata) di attaccare subito l'esercito di Fritigerno al quale non si erano ancora unite altre forze barbare. Anziché prendere una decisione immediata, Valente iniziò ad imbastire una sorta di dialogo pacificatore con il comandante dei Goti. Fritigerno, che non si aspettava una mossa tanto sciocca, ne approfittò e per guadagnare tempo propose all'imperatore un nuovo, vago trattato di amicizia, dichiarandosi perfino disposto ad accettare una sorta di controllo militare romano sul suo popolo e sulle terre da esso conquistate.
Ma Valente tentennò; non seppe che fare. Il cinquantenne imperatore era sicuramente un bravo soldato, ma non certo uno abile stratega. Egli, inoltre, non possedeva carisma e doti di comando ed era spesso soggetto a scatti d'ira alternati a momenti di abbandono e di disperazione. In sostanza, era l'uomo sbagliato nel momento sbagliato.
Valente non volle attendere l'aiuto dell'Occidente, forse anche perché si sentiva umiliato a dover dipendere dal diciannovenne Graziano (che era suo nipote), nei confronti del quale provava sentimenti contrastanti. Ovviamente, l'appoggio di quest'ultimo sarebbe stato, data la grave situazione, risolutivo, ma Valente voleva forse una vittoria tutta sua, anche perché egli non aveva mai conseguito in 14 anni di regno alcun evidente successo militare degno di nota.
Ma ritorniamo sul campo di battaglia. All'alba del 9 agosto 378, l'astuto Fritigerno chiese a Valente di inviargli alcuni funzionari in ostaggio, quale prova di buona fede nella trattativa in corso. E l'imperatore improvvisamente accettò, dando così modo al capo goto di guadagnare tempo e di farsi raggiungere dalla sua cavalleria (ancora nelle retrovie) e dagli eserciti dei Greutungi, degli Alani e degli Ostrogoti che nel frattempo avevano deciso di approfittare dell'occasione per regolare i conti con Roma e fare bottino. Coraggiosamente, il generale (e conte) Ricomere, si offrì come ostaggio volontario, ma Fritigerno, ormai sufficientemente forte, bruciò i tempi dando inizio alla battaglia.
LA BATTAGLIA
L'esercito romano sul campo di Adranopoli era ben diverso da quelli che in passato avevano conquistato e dominato il mondo antico. A fianco della fanteria legionaria, che
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Soldato romano (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma963.jpg)
occupava, tradizionalmente, la parte centrale dello schieramento, era disposta la variegata e colorata cavalleria "alleata", composta da mercenari germani, unni e perfino arabi. Valente, circondato dai suoi migliori generali e rincuorato dai canti di guerra dei legionari, forse assaporava la sua prima grande vittoria.
Nascosti dietro una fitta muraglia di carri, i Goti - che non potevano ancora contare sull'appoggio delle loro famosa cavalleria - osservavano con apprensione l'imponente dispositivo che lentamente e disciplinatamente aveva assunto l'ordine di combattimento. Tutto era pronto per l'attacco. Tuttavia, Valente sembrava ancora indeciso. Sarebbe bastato un suo cenno per scatenare contro l'accampamento dei Goti le sue truppe; ma queste attesero l'ordine invano. Nella speranza, forse, di addivenire ad un improbabile accordo o in attesa dell'arrivo del giovane Graziano, l'imperatore perse molto, troppo tempo, dando modo ai Goti di prepararsi allo scontro e di mettere finalmente in linea la loro cavalleria. Verso mezzogiorno, il caldo di quella mattina di agosto si fece soffocante a tal punto che molti legionari, reduci da lunghe marce e all'erta fin dall'alba, iniziarono ad essere colti da malore. Lo schieramento romano iniziò ad ondeggiare e l'incertezza, iniziò a serpeggiare tra i reparti.
Una coorte, guidata da un certo Bacurio, si mosse anzitempo e non rispettando gli ordini si lanciò da sola all'attacco del baluardo formato dai carri goti, venendo facilmente respinta. E proprio mentre i romani stavano arretrando, la cavalleria barbara si lanciò al contrattacco, in massa. I generali di Valente cercarono di reagire ordinando alle fanterie di avanzare, ma la manovra non venne effettuata con il necessario coordinamento. L'ala destra si mosse, infatti, con troppa rapidità rispetto a quella sinistra, modificando l'allineamento dell'esercito. Pur riuscendo in taluni punti a raggiungere l'accampamento dei Goti, i legionari vennero caricati dalla cavalleria nemica che, dopo essersi sbarazzata di quella romana formata da Arabi e Unni, puntò al centro dello schieramento di Valente, diffondendo il panico e la confusione tra i legionari appiedati. Ben presto l'esercito imperiale si trovò stretto tra la muraglia dei carri e una torma di migliaia di cavalieri goti. E come se non bastasse anche gli Ostrogoti e gli Alani, guidati dai loro capi Alanteo e Safrace, piombarono anch'essi sul campo in aiuto delle truppe di Fritigerno, rendendo drammatica la situazione dei Romani. Nel tumulto dello scontro anche i quadri andarono rapidamente dissolvendosi, e tutti gli ufficiali, anche i più alti di grado, furono costretti ad impugnare la spada e a buttarsi nella mischia. Cosa che fece anche lo stesso imperatore, affiancato dal fedele generale Sebastiano.
Secondo la leggenda Valente venne ferito da una freccia e trasportato dai suoi in una piccola fattoria dal tetto di paglia che venne circondata ed incendiata dai Goti. Valente, il cui corpo non venne mai ritrovato, sarebbe quindi morto bruciato.
Scomparso l'imperatore, la situazione dell'esercito romano si fece ancora più disperata.
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Legionario romano (IV secolo) (http://www.storiain.net/arret/num96/mostra_immagine.asp?image=big/roma964.jpg)
Non vi era spazio per manovrare o per cercare una via di fuga. Secondo quanto tramanda lo storico Ammiano Marcellino l'armata romana, ormai costretta in uno spazio molto ridotto, venne bersagliata e decimata da una pioggia di frecce, giavellotti e lance. Ciononostante, i legionari, seppure privi di ordini precisi, continuarono a battersi da leoni, proprio come era accaduto quasi quattro secoli prima agli sfortunati soldati di Varo nella foresta germanica di Teutoburgo. Quella della fanteria romana fu una resistenza strenua, forsennata, ma inutile: troppo alto era ormai il divario di forze. In quest'ultima fase della battaglia tutti fecero il loro dovere, compresi il maggiordomo di corte, il capo supremo delle scuderie e tutto il personale ausiliario non combattente. Consci dell'estrema gravità di una sconfitta che avrebbe compromesso definitivamente il prestigio e la sicurezza dell'Impero, i Romani ritrovarono l'orgoglio dei tempi antichi e gloriosi, immolandosi in un'inutile carneficina. E sul finire del pomeriggio soltanto poche centinaia di superstiti, quasi tutti feriti, guidati dal generale Vittore riuscirono a sganciarsi e a ritirarsi entro le mura della città di Adrianopoli.
Non soddisfatto della vittoria, Fritigerno li inseguì scagliando le proprie truppe contro le alte mura, difese da una piccola guarnigione alla quale si affiancò però l'intera popolazione decisa a vendere cara la pelle. Essendo sprovveduto di macchine d'assedio. Fritigerno fu infine costretto a desistere dal suo proposito e a ritirarsi. Poche ore dopo la fine della battaglia giungevano le prime avanguardie a cavallo dell'armata d'Occidente. Si narra che arrivato sul posto il giovane Graziano poté trattenere a stento la rabbia per l'immane disastro causato dall'inettitudine di Valente. Reputando non saggio affrontare in campo aperto i barbari ormai inebriati dalla vittoria e ben sapendo che il suo era l'unico ed ultimo grosso esercito romano ancora integro, Graziano decise quindi di evitare qualsiasi scontro dall'esito incerto. Un'eventuale distruzione o eccessivo indebolimento della sua armata avrebbe significato la fine dell'impero. Con la battaglia di Adrianopoli terminava non soltanto la tradizionale supremazia delle fanterie romane sugli eserciti barbarici, ma un'epoca.
In seguito i Visigoti avrebbero dilagato per l'intera penisola balcanica e di ciò ne avrebbero approfittato anche tribù ben più selvagge come i Sarmati e i Quadi che irruppero attraverso il Danubio ormai indifeso e sguarnito, facendo scempio di città e campagne.
La gravità della sconfitta fu infatti pari a quella subita per opera di Annibale a Canne nel 216 avanti Cristo; ma con conseguenze di gran lunga più disastrose e irrimediabili. Se all'indomani di Canne, Roma aveva saputo raccogliere le forze per superare brillantemente la crisi, dopo Adrianopoli, l'Impero d'Oriente (nonostante l'ascesa sul trono di un brillante condottiero, Teodosio) non seppe ritrovare le energie per scacciare i barbari con i quali dovette venire a patti, inaugurando una stagione di rapido e penoso declino politico e militare. Nell'ottobre del 382, infatti, dopo altri quattro anni di inutile guerra, i romani furono costretti a stipulare un'umiliante pace con i Goti: trattato che segnò un profondo mutamento negli equilibri strategici dell'Impero. Anziché sancire l'insediamento all'interno dei confini imperiali di un nemico sconfitto o sottomesso come era accaduto in passato, il nuovo trattato era in realtà un accordo fra "eguali contraenti". Sulla piana di Adrianopoli era precipitata l'aquila imperiale. Con la sconfitta e morte di Valente terminava così l'Era dell'antica Urbe e con essa anche il trentunesimo ed ultimo volume della Storia di Roma (aggiornato fino al tragico evento bellico di Adrianopoli) redatto da Marcellino.