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Cyrus
11-04-09, 20:41
Pannunzio, Mario
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Pannunzio, Mario (Lucca 1910 - Roma 1968), giornalista italiano, fondatore del settimanale “Il Mondo“ (1949), che diresse fino alla sua chiusura, nel 1966. Formatosi come giornalista collaborando al settimanale “Omnibus” di Leo Longanesi, diresse in seguito il settimanale “Oggi”, chiuso dal regime fascista nel 1941, e il quotidiano “Risorgimento Liberale”, che lasciò per dissidi con il Partito liberale. Nel 1956 abbandonò i liberali da posizioni di sinistra e fu tra i fondatori del Partito radicale, da cui si distaccò nel 1963.

La sua solida esperienza professionale, insieme a una scelta oculata di validi collaboratori e a un’impostazione laica e democratica, fecero del “Mondo” una delle testate più autorevoli e anticonformiste di quegli anni.

Come citare l'articolo:
"Pannunzio, Mario," Microsoft® Encarta® Enciclopedia Online 2009
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Cyrus
11-04-09, 20:42
Mario Pannunzio
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


Mario Pannunzio (Lucca, 5 marzo 1910 – Roma, 1968) è stato un giornalista e politico italiano.


Figlio di un avvocato abruzzese e nobildonna Lucchese nato a Lucca e trasferitosi a Roma, Pannunzio fin da ragazzo si interessò all'attività giornalistica e culturale, e fu uno dei frequentatori del caffè Aragno, un locale di via del Corso (al civico 180) presso il quale si raccoglievano gli intellettuali capitolini degli anni Trenta e che divenne un punto di incontro per la maggior parte degli esponenti della cultura del periodo.

Nel 1933 fondò Oggi[1]., "settimanale di lettere ed arti" (poi "rassegna mensile"), una piccola rivista culturale che dovette chiudere dopo solo qualche numero per motivi di opportunità politica, avendo assunto una linea editoriale sgradita al regime. L'anno seguente, oltre a laurearsi in giurisprudenza, fondò insieme ad Alberto Moravia la rivista La Corrente.

Negli anni successivi diversificò i suoi interessi, sperimentandosi nella sceneggiatura cinematografica e nella pittura (espose anche un ritratto della sorella Sandra alla Quadriennale di arte nazionale di Roma), tornando al giornalismo intorno al 1937, chiamato da Leo Longanesi, insieme ad Arrigo Benedetti, alla redazione de L'Omnibus; per questa testata tenne una rubrica di critica cinematografica fino al 1939, quando le pubblicazioni furono interrotte dalla censura.

Il giornalismo politico [modifica]

Con Benedetti cercò allora di ricostituire un riferimento editoriale per gli intellettuali dissidenti e, riprendendo il nome della sua prima testata, lo chiamò Oggi; stavolta però si trattava di un settimanale prodotto con l'ancora innovativa tecnica del rotocalco. Anche questa testata non ebbe vita lunga e nel 1941 fu chiusa, sempre per motivi politici.

Durante la seconda guerra mondiale, sotto la fondante ispirazione di Benedetto Croce, fu fra i fondatori del Partito Liberale Italiano, insieme a, fra gli altri, Leone Cattani, Franco Libonati, Nicolò Carandini, Manlio Brosio, con i quali fondò Risorgimento liberale, quotidiano politico che diresse sino al 1947 con un'interruzione di pochi mesi per carcerazione alla fine del 1943.

Il Mondo e il giornalismo d'opinione [modifica]

Nel 1948 passò a L'Europeo, diretto da Benedetti, e nel 1949, ancora una volta riesumando un nome editoriale del passato, fondò Il Mondo, settimanale che avrebbe diretto sino alla chiusura (1966).

Il Mondo da subito si distinse, secondo consolidata personale tradizione del suo ideatore, come una rivista idonea a fungere da centro di aggregazione e di trasmissione delle istanze intellettuali del periodo. Numero e qualità dei collaboratori e dei temi affrontati lo resero di fatto un inconsueto soggetto politico che dall'esterno si poneva come interlocutore dei gestori della vita politica, dando peraltro vita in Italia (almeno in una forma che ne consentisse influenza) al "giornalismo d'opinione".

La politica giornalistica [modifica]

Non potendo rimanere compresso e ristretto nei limiti della comunicazione editoriale, l'insieme delle istanze promosse da collaboratori e sostenitori (che in breve furono definiti e cominciarono ad aggregarsi sotto la denominazione di "Amici del Mondo") dovette tradursi in forme aggregative esterne che nei "Convegni del Mondo" ebbero spazio di sviluppo e modo di coinvolgimento della politica e della cultura italiane.

Dai convegni nacque la scissione dal Partito Liberale che avrebbe condotto alla fondazione del nuovo Partito Radicale, cui nel 1955 Pannunzio prese parte insieme a, fra gli altri, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Leo Valiani, Guido Calogero, Giovanni Ferrara, Paolo Ungari, Eugenio Scalfari, Marco Pannella; del comitato esecutivo provvisorio del partito Pannunzio fu anche, insieme a Valiani, uno dei principali esponenti.

Il Mondo avrebbe in seguito sostenuto le prime battaglie dei radicali, ad esempio quella contro i "palazzinari", la speculazione edilizia e gli intrecci fra imprenditoria e politica, in particolare tra il mondo democristiano e la Federconsorzi, corroborato dall'analogo supporto che Benedetti assicurava con il neonato settimanale L'Espresso.

Nel 1968 è stata fondata in suo onore, a Torino, l'associazione culturale Centro Pannunzio.

Cyrus
11-04-09, 20:44
Giornalista e uomo di cultura (Lucca 1910 - Roma 1968). Si trasferì ancora ragazzo a Roma, seguendo il padre, un avvocato abruzzese, costretto dai fascisti ad abbandonare la città toscana. A Roma nel 1933 si laureò in legge, ma fin dagli anni giovanili si interessò all'attività giornalistica e culturale. Nel 1932 fondò una piccola rivista di cultura, "Oggi", che chiuse per ragioni politiche dopo pochissimi numeri; la stessa sorte ebbe "La Corrente", fondata l'anno dopo con Moravia e Delfini. P. collaborò più tardi alla sceneggiatura di alcuni film e si dedicò anche alla pittura, esponendo alla Quadriennale di arte nazionale di Roma. Con Arrigo Benedetti fu successivamente redattore capo del primo rotocalco italiano, il settimanale "Omnibus", fondato e diretto da Leo Longanesi. Anche questo giornale (su cui P. tenne dal 1937 al 1939 la rubrica di critica cinematografica) fu costretto dalla censura fascista a cessare le pubblicazioni. Nel 1939 P., insieme a Benedetti, creò il secondo settimanale a rotocalco del giornalismo italiano, "Oggi", che venne soppresso dal regime nel 1941, poiché aveva raccolto attorno a sé l'ambiente più vivo e dissidente della cultura italiana.
Durante la Resistenza P. fu tra i fondatori del Partito liberale con Nicolò Carandini, Franco Libonati, Leone Cattani, Manlio Brosio ed altri. Insieme ad essi diede vita al quotidiano "Risorgimento liberale" che diresse per tutto il periodo clandestino. Nel dicembre 1943 fu arrestato e rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli da cui uscì nel febbraio dell'anno successivo. Tornò subito al suo posto di lavoro curando, fino alla liberazione di Roma, l'uscita del giornale e l'organizzazione del movimento liberale antifascista. P. continuò a dirigere il quotidiano liberale fino al 1947.
Nel 1948 collaborò a "L'Europeo" di Arrigo Benedetti e nel febbraio 1949 fondò "Il Mondo" settimanale che diresse ininterrottamente fino alla chiusura, avvenuta nel marzo 1966. Su iniziativa di P. attorno al "Mondo" si formò un gruppo di pressione per l'impostazione e il dibattito dei maggiori problemi della società e della politica italiana che organizzò i "Convegni del Mondo".
Uomo di raffinata formazione umanistica, P. fu uno degli esponenti di spicco della cultura crociana su cui innestò la lezione di Gaetano Salvemini e di Luigi Einaudi. In tal modo seppe superare vecchi steccati ideologici, rinvigorendo l'idea liberale con nuovi apporti. Sotto questo punto di vista, si può dire che P. abbia contribuito in modo decisivo a far nascere in Italia una cultura liberal-democratica in un senso completamente nuovo anche rispetto alle esperienze gobettiana e amendoliana del primo dopoguerra. Nei riguardi della cultura marxista e di quella cattolica P. esercitò una funzione critica di stimolo al dibattito e al progressivo superamento delle pregiudiziali ideologiche degli anni cinquanta.
Rispetto all'intellettuale "organico" di matrice gramsciana seppe delineare una figura diversa di uomo di cultura, impegnato sul terreno civile, ma non subordinato a discipline di partito. P. ha partecipato attivamente alla vita politica e ha esercitato anche un magistero importante su molti giovani: "Il Mondo" fu una straordinaria scuola di cultura in cui si formarono alcuni dei migliori intellettuali e giornalisti italiani degli anni successivi alla chiusura del giornale.

Dal "Grande Dizionario Enciclopedico", U.T.E.T.

http://www.centropannunzio.it/centro/f_centro.html

Cyrus
11-04-09, 20:45
"Il Mondo" è stato un settimanale di politica e cultura pubblicato a Roma negli anni 1949-66. Fondatore e direttore ne fu Mario Pannunzio che gli conferì una costante linea di impegno civile e di totale indipendenza rispetto al potere politico ed economico. Redattore capo fu Ennio Flaiano.
"Il Mondo" nacque dall'incontro della cultura crociana con quella salveminiana ed einaudiana ed ebbe tra i suoi collaboratori più importanti Ernesto Rossi, Carlo Antoni, Vittorio De Caprariis, Nicolò Carandini, Luigi Salvatorelli, Ugo La Malfa, Arturo Carlo Jemolo, Giovanni Spadolini, Aldo Garosci, Vittorio Gorresio.
L'obiettivo che il giornale cercò di realizzare fu quello di una terza forza liberale, democratica e laica, capace di inserirsi come alternativa ai due grandi blocchi, nati in Italia dalle elezioni del 1948, quello marxista e quello democristiano. L'impegno anticomunista de "Il Mondo" fu esemplare perché condotto in nome della libertà e non della difesa di privilegi economici precostituiti.
A partire dal 1955 Pannunzio organizzò i "Convegni del Mondo" come risposta laica all'arretratezza settaria dei marxisti e alla crisi del centrismo in Italia. Essi affrontarono temi come la lotta ai monopoli, i problemi della scuola, dell'energia elettrica e del nucleare, dei rapporti tra Stato e Chiesa, dell'economia e della borsa, dell'unificazione europea.
"Il Mondo" ebbe notevole importanza soprattutto sul piano culturale, in quanto fu la prima grande rivista di cultura stampata in rotocalco, rivolta quindi ad un pubblico notevolmente più ampio di quello tradizionale. Oltre a Croce, Salvemini ed Einaudi, collaborarono a "Il Mondo" scrittori come Mann ed Orwell, Moravia e Brancati, Soldati e Flaiano, Tobino e Comisso.
Sul versante non marxista e laico della cultura italiana "Il Mondo" rappresentò l'unica voce importante estranea agli schematismi politici e culturali allora predominanti. Il suo antifascismo fu sempre vivo e costante, la sua laicità mai astiosa, il suo fermo anticomunismo mai preconcetto. Fu accusato di essere élitario, espressione di un'aristocrazia intellettuale refrattaria alle grandi masse. E' tuttavia certo che "Il Mondo" esercitò un'influenza di gran lunga superiore alla sua tiratura.
Edito inizialmente da Gianni Mazzocchi, ebbe negli ultimi dieci anni di vita come editori l'industriale Arrigo Olivetti e l'ambasciatore Nicolò Carandini che parteciparono direttamente alla vicenda politica del giornale. Pannunzio non fu solo il direttore, ma il vero ispiratore del settimanale che curava con attenzione artigianale in tutti i suoi aspetti: leggeva ogni articolo, faceva i titoli e le didascalie, sceglieva le fotografie, impaginava personalmente. Soprattutto suggeriva i temi da trattare ai molti collaboratori, in quanto egli non firmò mai nessun articolo anticipando il ruolo del moderno direttore di giornale. Sotto il profilo grafico il giornale si presentava con una eleganza tutta longanesiana, ma c'erano anche un rigore ed uno stile che superavano il giornalismo di Longanesi, di cui pure Pannunzio aveva subito il fascino.
Sono anche da ricordare le graffianti vignette di Mino Maccari e di Amerigo Bartoli e le fotografie che, insieme ad alcune vivaci rubriche, costituiscono un animato ritratto dell'Italia di quel periodo.

p.f.q.
http://www.centropannunzio.it/mondo/f_mondo.html

Cyrus
11-04-09, 20:47
Ernesto Rossi

Ernesto Rossi fu un uomo difficile, spigoloso, non disposto ai compromessi, anche nei confronti dei suoi stessi amici.

La sua morte per molti significò la fine di un incubo perché le sue implacabili polemiche non risparmiavano nessuno. Altri lo considerarono un ingenuo solo perché era onesto, vedendo in lui un solitario don Chisciotte incapace di fare i conti con la realtà. Anni fa un prete (che suscitò un certo scalpore perché inaugurò il dialogo tra cattolici e massoneria) parlò sprezzantemente di Ernesto Rossi come di un anticlericale "fanatico, cieco, integrale", dimenticando volutamente tutto ciò che egli aveva rappresentato nella storia di questo Paese.

In effetti, il peso politico, il significato culturale e il magistero morale di Rossi ci portano oggi a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle di chi ha ritenuto di poterlo liquidare con poche battute.
Nato a Caserta nel 1897 e morto a Roma nel 1967, Rossi, dopo aver partecipato come volontario all I Guerra Mondiale, conobbe nel 1919 a Firenze l'uomo che decise il suo destino futuro: Gaetano Salvemini. Egli stesso scrisse con estrema modestia di sentirsi in debito nei confronti di Salvemini "di quel poco che (era) riuscito a fare per la giustizia e la libertà".

Oppositore irriducibile del fascismo, fu tra gli animatori più coraggiosi e spericolati di "Giustizia e Libertà". Nel 1930 venne arrestato a Bergamo per la sua attività clandestina e condannato a vent'anni di carcere. Nel suo epistolario intitolato beffardamente "Elogio della galera" ci ha lasciato la testimonianza di cosa significasse per lui "Non mollare" (per dirla con il nome del giornale antifascista fiorentino che egli fondò insieme a Salvemini ed ai Rosselli nel 1925). Visse l'esperienza del carcere con una intransigenza ferrea che gli indurì il carattere, senza privarlo della sua arguzia scanzonata e senza impedirgli di abbandonarsi alla dolcezza dei sentimenti, quando scriveva alla "Pig", il diminutivo di "Pigolina" attribuito, con "catulliana" tenerezza, alla sua Ada.

Successivamente relegato al confino di Ventotene, scrisse nel '41, con Altiero Spinelli, il famoso Manifesto da cui trasse impulso l'idea federalista di un'Europa libera ed unita; due anni dopo a Milano fondò il Mfe.

Sottosegretario nel governo Parri, tra i fondatori del Partito d'Azione prima e del Partito Radicale dopo, collaborò a "Il Mondo" di Pannunzio, di cui fu una delle "colonne". Le sue inchieste appartengono ormai alla storia del giornalismo italiano ed alcuni suoi libri hanno sicuramente lasciato un segno; pensiamo, ad esempio, ai "Padroni del vapore", "Il manganello e l'aspersorio", "Borse e borsaioli", "Settimo: non rubare". Rossi rappresentò nella vita politica italiana l'esempio tipico del ribelle, del "rompiscatole", del "pazzo malinconico", come lo definì Salvemini.

E' impossibile far rivivere il suo gusto per la battuta tagliente, per il paradosso, per la polemica feroce, ma nel contempo sempre lucidissima.

Il momento migliore de "Il Mondo" fu quello rappresentato dalla feconda collaborazione tra Pannunzio e Rossi. Poi il sodalizio disgraziatamente si ruppe e si giunse al distacco traumatico che contrappose i due principali protagonisti di quell'esperienza. Ma al di là delle infuocate polemiche contingenti, Pannunzio riconosceva già nel '62 in una lettera indirizzata ad Alessandro Galante Garrone (che me ne fece dono prezioso): "Continuamente ripenso con nostalgia ai tanti anni in cui abbiamo lavorato insieme come due fratelli". Ed Ernesto Rossi, dal canto suo, scriveva nel 1966: "Da quattro anni non sono più collaboratore del "Mondo" ma il mio dispiacere per la fine del settimanale è profondo e sincero. Non posso non ricordare la libertà assoluta (.) di scrivere su ogni argomento quello che volessi e come lo volessi".

Si trattava di uomini tutti di un pezzo, duri nel mantenere le proprie posizioni fino ad apparire testardi, ma c'era in loro un'onestà intellettuale ed una sensibilità umana che prevalevano anche sui dissensi più aspri.

Nel buio morale dei nostri giorni la lezione scomoda di Ernesto Rossi è una di quelle che non devono andare disperse e vanno anzi ricordate soprattutto ai giovani che appaiono sempre più apatici e indifferenti nei confronti dell'impegno civile, dopo le drammatiche sbornie ideologiche di dieci anni fa. A questo riguardo, va segnalato il fatto incoraggiante che gli studenti dell'Istituto di Bergamo dove Rossi insegnava quando venne arrestato, continuano a ricordarlo con un'attenzione ed una costanza che ci sorprendono, se le si rapporta a certi studiati silenzi, oggi di moda.

Rossi parlava spesso del "cerino acceso della nostra ragione" che rischiara il nostro agire. Egli stesso ci appare oggi una piccola luce che indica la rotta giusta da seguire per non lasciarsi sedurre dalle sirene dei conformismi vecchi e nuovi.

Se Rossi fu un don Chisciotte, lo fu solo perché non dimise mai né le armi né l'armatura.

Pier Franco Quaglieni

Cyrus
11-04-09, 20:49
LA STAMPA 8/2/2008 (7:28) - PERSONAGGIO


Pannunziani immaginari


Il fondatore del "Mondo" moriva 40 anni fa ma la sua lezione non ha avuto veri eredi

MASSIMO TEODORI


E’ mancato un uomo «intransigentemente antifascista in nome dell’intelligenza, intransigentemente anticomunista in nome della libertà, intransigentemente anticlericale in nome della ragione»: così scrissero La Stampa, Le Monde e The Times alla morte di Mario Pannunzio, quarant’anni fa. Si rende necessario oggi, nel momento in cui tanti giornalisti e politici vogliono accreditarsi come eredi del grande laico-liberale, richiamarne alla memoria la singolarità umana ed intellettuale che rende vane tutte le rivendicazioni di continuità con Il Mondo, di cui Pannunzio fu iniziatore, regista e leader carismatico.

Si è soliti qualificare Pannunzio grande direttore, maestro di giornalismo, raffinato uomo di cultura e continuatore dello «stile Longanesi». Attribuzioni tutte che hanno qualcosa di vero, insufficienti però a cogliere il nucleo più profondo ed autentico dell’opera sua, nitidamente iscritta nelle pagine di Risorgimento liberale (1944-47) e del Mondo (1949-66). Il direttore fu a tutto tondo un intellettuale antitotalitario che avvertì il dovere morale di farsi uomo politico per parlare alto e forte, in nome della libertà e della verità, contro gli integralismi e gli opportunismi: «L’uomo politico, se non vuole essere un puro faccendiere, è anch’esso un intellettuale, che vive pubblicamente e che fa con naturalezza la sua parte nella società».

L’energia di Pannunzio si indirizzò soprattutto a rendere possibile il «miracolo politico» di colmare il grande vuoto della Repubblica, ossia la formazione di una terza forza liberale e democratica in grado di dare risposte europee ed occidentali all’Italia in trasformazione. Tale impresa, che non riuscì né agli azionisti, né ai liberali che si attestarono sulla sponda conservatrice, né ai socialisti democratici e ai repubblicani che coltivarono gelosamente le radici storiche, finalmente trovò ne Il Mondo il suo alto laboratorio. Solo Pannunzio riuscì a mettere insieme nelle pagine della rivista una terza forza che espresse, prima con l’appoggio critico al centrismo e poi nei prodromi del centro-sinistra, una linea pragmatica liberaldemocratica e riformatrice capace di confrontarsi con i giganti democristiani e comunisti e con i nani conservatori e reazionari. Certo Pannunzio diede vita solo ad una rivista, ma attraverso di essa e con i collegati convegni a tema (1955-62), fu possibile la preparazione di una piattaforma politica concreta, niente affatto utopistica o illuministica, che si addiceva ai bisogni del tempo, anche se poi fu tradita dal centro-sinistra.

È vero, si trattò di un gruppo di pressione privo di quell’esercito partitico ed elettorale che fu sempre destinato al fallimento. Ma senza la determinazione intellettuale, la chiarezza politica e la forza carismatica di Pannunzio non sarebbe neppure esistito quell’isola liberaldemocratica in grado di mettere insieme persone di diversi orizzonti ideali - crociani e salveminiani, idealisti ed empiristi, cattolici liberali ed anticlericali volterriani.

Continuano a circolare diversi luoghi comuni sul mito di Pannunzio. Ma il suo a-fascismo degli anni Trenta non ebbe nulla a che fare con il frondismo di Longanesi che nel dopoguerra divenne l’avversario qualunquista e Borghese del Mondo. Il suo anticomunismo non fece sconti agli «utili idioti» che fiancheggiavano il Pci calpestando la libertà e l’autonomia della cultura. Ed il suo laicismo ebbe come bersaglio quei clericali che anche allora volevano indicare cosa è la «vera laicità»: sicché viene oggi da sorridere quando un esponente di Forza Italia, che ha espresso il giudizio secondo cui «il laicismo è peggiore del nazismo e del comunismo», pretende di parlare sull’origine tocquevilliana del liberalismo di Pannunzio.

A quarant’anni dalla scomparsa è meglio stendere un velo su quanti si proclamano eredi, e dedicarsi piuttosto a rileggere testualmente il legato del grande antitotalitario: «Per anni abbiamo sollecitato socialisti e repubblicani, liberali autentici ed indipendenti, a costruire alleanze democratiche, fronti laici, terze forze; abbiamo denunciato l’invadenza clericale, il sottogoverno delle maggioranze, i connubi tra mondo politico e mondo economico. Abbiamo deplorato con ostinazione la chiusura irrimediabile del mondo comunista alle sollecitazioni della libertà». Era il 1966, eppure sembra quasi la parola giusta per l’oggi.

Cyrus
11-04-09, 20:49
Mai testata giornalistica fu più liberale de "Il Mondo", il settimanale fondato e diretto da Mario Pannunzio dal 19 febbraio 1949 all'8 marzo 1966.
Diciassette anni di battaglie laiche, liberali, libertarie e riformatrici in un'Italia da sempre (oggi ancor più di ieri, peraltro) pasticciona, burocratica, clericale, socialcomunista e socialfascista.
Diciassette anni di denunce di un "sistema" corrotto e corruttore fatto di sottogoverno delle maggioranze (che videro protagonisti Dc e Pci in primis, abbracciati sino alla morte....ed oggi non a caso uniti nel Partito Democratico sostenuto dai Poteri Forti !); di ingerenza vaticana (per quanto allora fosse in qualche modo arginata dalla Dc alla quale va dato comunque il merito di essere un partito di gran lunga più laico degli attuali Pd, Forza Italia, Alleanza Nazionale e potremmo continuare nell'elenco dei partiti baciapile dell'Italia d'oggi) e di connubio fra mondo politico e mondo economico (aspetto che oggi ha raggiunto l'apice al punto che è l'economia - guidata da un capitalismo straccione, antiliberista ed antiliberale - a governare la politica !).
I diciassette anni pannunziani de "Il Mondo", animati da spiriti liberi, da "pazzi malinconici" borghesi sino al midollo, da liberali, repubblicani, socialisti e laici senza tessera, furono forse gli anni più "utopici" proprio perché inusitatamente realistici e concreti dell'Italia del dopoguerra.
Anni in cui i partiti laici Pri, Pli e Psdi (ai quali "Il Mondo" faceva per molti versi riferimento) avevano giustamente dato il loro sostegno alla politica filo-occidentale ed atlantica di De Gasperi e via via tentato di ricostruire un' Italia martoriata dalla guerra e dal fascismo. Il tutto con la feroce opposizione dei comunisti e dei socialisti nenniani allora sostenuti dalla dittatura sovietica.
E così, gli "Amici de il Mondo", ovvero i suoi collaboratori e simpatizzanti (dai padri del Liberalismo italiano Benedetto Croce e Luigi Einaudi, agli azionisti Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini e Aldo Garosci; dal liberista Panfilo Gentile, ai repubblicani Ugo La Malfa e Adolfo Battaglia, sino ad un giovanissimo Marco Pannella, tanto per citarne alcuni) contribuirono a creare le basi per una cultura "alternativa" e "dell'alternativa" al monolitismo conservatore democristiano e marxista che permeava la società italiana da poco uscita dal fascismo di cui proprio democristiani e marxisti furono i diretti continuatori sotto il profilo ideologico, politico e culturale.
E così "Il Mondo" ospitò fra le sue colonne intellettuali del calibro di Orwell, Thomas Mann, Ennio Flaiano e Alberto Arbasino, nonché, dal 1955, organizzò i "Convegni del Mondo" come risposta laica ai problemi che attanagliavano l'Italia di quegli anni (e, è il caso di dirlo, l'Italia di questi anni): dal rapporto fra Stato e Chiesa al nucleare; dalla lotta ai monopoli alla questione della scuola sino all'unificazione europea di cui "Il Mondo" fu tra i più accesi sostenitori.
Mario Pannunzio, padre de "Il Mondo", fu rarissimo esempio di professionismo giornalistico: egli leggeva personalmente ogni singolo articolo, si occupava personalmente della stesura dei titoli e delle didascalie nonché della scelta delle foto e dell'impaginazione. Ogni settimana ne uscive così un giornale, a detta anche dei maggiori critici dell'epoca, "elegante", "raffinato" ed "europeo".
Certo l'indipendenza dal potere economico e politico del giornale costò cara al punto che esso dovette chiudere prematuramente nel '66 con grande felicità di tutti i suoi denigratori (missini e comunisti in primo luogo).
Certo "Il Mondo" lasciò il solco nel mondo laico. Esso fu il primo a teorizzare la costituzione di una Terza Forza comprendente liberali, repubblicani, socialisti e socialdemocratici capace di contrapporsi alla Dc ed al Pci (ricordiamo in questo senso l'articolo "Qualche sasso in capponaia" di Gaetano Salvemini, pubblicato nel dicembre del 1949).
Grazie al contributo ideale di questo piccolo-grande settimanale liberale e attraverso una scissione del Partito Liberale Italiano, nacque il Partito Radicale dei Liberali e dei Democratici, il cui simbolo era la Minerva con il berretto frigio, e che recuperò la tradizione risorgimentale di Felice Cavallotti e prima ancora quella di Giuseppe Mazzini e le cui battaglie politiche si concretizzarono nella lotta alla speculazione edilizia (contro i cosiddetti "palazzinari", quelli che ci sono ancora oggi, guarda un po' !), nella lotta ai Poteri Forti (in particolare negli intrecci fra la Dc e la Federconsorzi) e nelle battaglie per uno Stato ed una scuola laica e pubblica.
La battaglia radicale, rarissimo esempio di volontà di modernizzazione e di occidentalizzazione del nostro Paese, rimase tuttavia puro velleitarismo ed "Il Mondo" si trovò costretto a ripiegare nella teorizzazione del Centro-Sinistra (l'unico vero Centro-Sinistra che l'Italia conobbe mai) attraverso la proposta di far entrare il Psi nella coalizione di Governo, all'indomani della Rivoluzione d'Ungheria del '56 in cui esso aveva condannato lo stalinismo e si avviava verso l'abiura del marxismo).
Sappiamo bene anche oggi che le istanze laiche, liberali, liberiste, anticlericali e libertarie, tipiche della storia e della cultura de "Il Mondo", vengono ancora bollate come astrusità velleitarie. Esse infatti sono da sempre un pericolo nei confronti dell'Ordine costituito dal monolitismo "catto-comun-clerical-fascista" che da un quindicennio a questa parte ha preso nomi e simboli pittoreschi, così, tanto per dare una mano di vernice: i già citati Partito Democratico, Forza Italia, Alleanza Nazionale, Sinistra Comunista Arcobaleno, Lega Nord, Udeur ecc...
Nel rileggere oggi le pagine di quel bellissimo libro di Paolo Bonetti "Il Mondo 1949/66 - Ragione ed illusione borghese" edito nel 1975 da Laterza, viene una grande nostalgia.
Forse allora erano altri tempi. Allora la politica (intesa a 360 gradi, non certo come mera ideologia) aveva un senso in ogni aspetto della vita ed era vissuta dai suoi militanti proprio come mezzo di confronto e d'elevazione financo intellettuale.
Oggi, o meglio, dal '92 ad oggi, la politica fa veramente ribrezzo e chi se ne occupa ancora ha secondo me un grande stomaco.
Parlando nello specifico della cosiddetta "area laica", vedo da troppo tempo solo grandi polveroni: tanto fumo e niente arrosto.
I socialisti sono divisi e, se proprio esistono ancora, hanno messo in piedi un partito di reduci "sasso in capponaia" e "utile idiota" di Veltroni & Co. I repubblicani ancora non mi è chiaro che cosa vogliono fare: se rimanere con Berlusconi per ottenere ancora qualche posto in Parlamento (da inascoltati), oppure finalmente cercheranno di porsi come apripista di un Partito dei Liberali e dei Riformatori in Italia (nel frattempo personalmente ho dato la mia adesione al loro movimento giovanile - la Federazione Giovanile Repubblicana - perché senza di questi giovani il partito di La Malfa e Nucara sarebbe davvero perso per sempre); i liberali non si sa davvero più dove siano e, quanto ai radicali di Pannella e Bonino, dopo essere stati imbrogliati da Enrico Boselli e dallo Sdi nell'affaire Rosa nel Pugno, oggi sono inspiegabilmente i più accaniti sostenitori del cattocomunismo prodiano (ma non erano contro l'accanimento terapeutico ?).
Un'alternativa, forse, ci sarebbe ancora (ma sottolineo il "forse" !): la nascita o la ri-nascita, all'interno di questi partiti, di nuclei di persone pensanti (in questo senso Beppe Grillo ha profondamente ragione, altro che antipolitica !), di spiriti liberi che non si lascino cooptare o raggirare dai "caporioni" dei loro rispettivi gruppi dirigenti.
Se lo scanzonato ma concretissimo spirito di Ernesto Rossi e degli "Amici de Il Mondo" aleggiasse ancora in casa laica sono certo che tutti ne trarrebbero immenso e produttivo vantaggio.
Peccato che...siamo pressoché totalmente pessimisti in questo senso.

Luca Bagatin
www.lucabagatin.ilcannocchiale.it

Cyrus
11-04-09, 20:50
mario pannunzio un' eredità molto ambita

Repubblica — 13 marzo 2003 pagina 40 sezione: CULTURA
Con la presentazione del Quaderno dell' Archivio storico che ne raccoglie l' indice del fondo privato, Mario Pannunzio è entrato ufficialmente alla Camera dei Deputati, per iniziativa del cattolico presidente Casini. Il volume si apre con i saggi di due testimoni quali Eugenio Scalfari e Marco Pannella. Come tutte le famiglie culturali, anche quella pannunziana non è esente da discussioni. E ieri mattina, nella sontuosa Sala della Lupa, a Montecitorio, Pannella sembra felice di figurare in quest' opera celebrativa accanto al fondatore di Repubblica. «Pensavo che Eugenio non accettasse di firmare una testimonianza vicino alla mia. Poi accade che, anche fuori stagione, germoglino fiori interessanti. E ora ne sono davvero lusingato». In platea, alcune firme del Mondo, Giulia Massari e Giovanni Russo, insieme a personalità politiche di diversa ispirazione come Giorgio Napolitano, Emilio Colombo, Antonio Maccanico, Emanuele Macaluso, Giorgio La Malfa. Pannella è contento di esserci, in questo rivisitato album di famiglia pannunziano. Ma, intervenendo ieri a Montecitorio più da politico militante che da conferenziere, finisce un po' per annettersi l' eredità del grande giornalista, facendone un precursore forse troppo letterale e profetico dei radicali di oggi (e dalle antiche stanze del Mondo ci trascina nella cronaca di questi giorni). Nel suo intervento, Nello Ajello - all' epoca giovane collaboratore del Mondo, poi condirettore dell' Espresso, oggi firma di Repubblica - mostra invece qualche diffidenza per le "interpretazioni antistoriche" che possono fiorire intorno a Pannunzio («Non oso immaginare il furore che l' avrebbe assalito alla vista di un "no global"»). Ne affiora il profilo di «personaggio difficilmente ripetibile» e «figura professionalmente anfibia, divisa tra politica e letteratura». Tutti, oggi, vogliono figurare nella schiera dei suoi ereditieri, "conservatori aperti al sociale", "laici morbidi" o "intransigenti paleocomunisti". «Perfino tanti di coloro che, avendo debuttato in politica proprio in quel '68 nel quale Pannunzio morì, formano oggi - cresciuti, rinsaviti o restaurati - gran parte dell' attuale classe dirigente». Eppure quest' ansia di assicurarsene le reliquie, conclude Ajello, non sembra insincera. «Nel richiamarsi al suo nome, c' è anche un po' di rimpianto per le élites, quando sono serie e pulite». - ROMA SIMONETTA FIORI

Cyrus
11-04-09, 20:50
Elzeviro Colma un vuoto il saggio di Mirella Serri
MARIO PANNUNZIO LIBERALE COERENTE
Con «Il Mondo» diede una voce forte e autorevole ai più diversi filoni del pensiero laico

Nel 2010 ricorre il centenario della nascita di Mario Pannunzio e già ora si stanno organizzando iniziative in occasione della ricorrenza. Mentre si è molto parlato del settimanale Il Mondo da lui fondato, finora non era stato studiato Risorgimento liberale, che Pannunzio aveva diretto durante il periodo clandestino e fino al novembre 1948. Con il libro I profeti disarmati (Corbaccio), Mirella Serri colma un vuoto. Pur ammettendo che la continuità con Risorgimento liberale «si riconosceva perfino nell' identità delle rubriche», sostiene che, nel Mondo, Pannunzio «destinerà agli scantinati della memoria quegli argomenti-tabù per la sinistra italiana che il quotidiano aveva invece affrontato nella sua breve vita: dalla vera storia degli omicidi del triangolo rosso» ai «campi di concentramento in Jugoslavia, alle foibe, alla ricostruzione della "guerra guerreggiata" che aveva terremotato i mesi appena passati». Chi ha vissuto la nascita del Mondo sa però che con il settimanale Pannunzio non fece altro che proseguire la battaglia che aveva svolto nel quotidiano. A differenza dei liberali conservatori, non propendeva a destra. Come riconosce la Serri, anche su Risorgimento liberale tentò di aprire un colloquio costruttivo con la sinistra. Per far questo, occorreva però denunciare la connivenza del Pci con gli illegalismi, le violenze e i delitti delle squadre volanti rosse, rintracciarne la radice nelle vicende della guerra civile spagnola e le responsabilità di Togliatti nella guerra intestina che aveva condotto alle esecuzioni degli anarchici. Su queste tematiche, come dimostrano proprio gli scritti sul Mondo di Ernesto Rossi e di Gaetano Salvemini, non vi fu nessun ripensamento. Quando, nel febbraio del 1949, Il Mondo iniziò le pubblicazioni, Pannunzio aveva capito che esse erano diventate appannaggio delle forze neofasciste e di destra, che odiavano i comunisti, ma anche gli antifascisti democratici: «i profeti disarmati». Il suo obiettivo principale era raccogliere gli intellettuali e la parte sensibile della classe dirigente attorno a una prospettiva capace di porsi come alternativa sia al comunismo sia alla Dc, che il 18 aprile 1948 aveva conquistato la maggioranza assoluta. Se dal punto di vista politico il progetto non riuscì, in campo culturale Il Mondo raggiunse i suoi obiettivi: unì e mantenne uniti i rappresentanti di una cultura laica, che quando il settimanale nacque era debole e divisa, ed esercitò una profonda influenza intellettuale, e quindi indirettamente politica, fino alla nascita del centrosinistra. Ciò avvenne non solo per gli interventi dei due «dioscuri», Salvemini e Rossi, ma anche tramite i convegni del Mondo, che furono in grado di indicare i problemi principali del Paese riguardanti l' economia, la scuola, la sanità, il rapporto con la Chiesa. Giustamente Mirella Serri ricorda che fu Salvemini a coniare lo slogan, poi ripreso da Montanelli, di «turarsi il naso e votare per De Gasperi, Scelba, Villabruna», quando aderì alla cosiddetta legge truffa nel ' 53, la legge maggioritaria che lo storico Pietro Scoppola considerò un tentativo di rimedio alla debolezza dei governi. Il Mondo fece sempre una distinzione netta tra il ruolo dei comunisti nella Resistenza al fascismo e al nazismo, che non poteva essere né sottovalutato né misconosciuto, e quello che era invece il progetto di una rivoluzione guidata o protetta dall' Unione Sovietica, avversato e apertamente denunciato. Si deve alla personalità e alle capacità organizzative di Pannunzio, se si incontrarono sulle stesse pagine figure così diverse di idee e temperamento come Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi e Giuseppe Saragat, Ernesto Rossi e Ignazio Silone, Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi (per fare solo qualche nome), in una fusione (che non era mai confusione) di liberali, crociani, salveminiani, ex azionisti e rappresentanti della migliore tradizione socialista, cioè tutta la cultura laica che contava. Pannunzio e gli intellettuali del Mondo furono politicamente sconfitti. L' idea di una terza forza non si realizzò mai e il centrosinistra, in cui tante speranze erano state riposte, non assolse il suo compito. Il Mondo cessò le pubblicazioni nel 1966, sia per difficoltà economiche, sia perché sembrava, nel cambiamento dei tempi, che non ci fosse alcuna possibilità di opposizione. Nel febbraio 1968, due anni dopo la chiusura del Mondo, Mario Pannunzio morì. Oggi, benché sia trascorso tanto tempo, ancora si sente il vuoto che ha lasciato. Ma ci resta il suo insegnamento.

Russo Giovanni

Pagina 47
(19 dicembre 2008) - Corriere della Sera

Cyrus
11-04-09, 20:54
MARCELLO PERA
MARIO PANNUNZIO EUROPA, GIUSTIZIA, SCUOLA, LAVORO: IL PRESIDENTE DEL SENATO RICORDA UN INTELLETTUALE CHE HA ANTICIPATO I TEMI POLITICI D´OGGI

In primo luogo, a mo' di premessa, nel ricordare Pannunzio, permettetemi di ricordare un lucchese. Non lo faccio per spirito provinciale. Pannunzio stesso mostra che i migliori lucchesi non sono provinciali. Lo faccio perché sono convinto che la personalità di Pannunzio, soprattutto quel suo rigore intellettuale e morale, si comprendono meglio se si ricordano le sue radici in una città che dalla sua storia ha attinto le virtù repubblicane, lo spirito della tolleranza, il culto della libertà e dell'indipendenza, l'intransigenza etica, il dovere della comprensione degli avversari, il ripudio del manicheismo. Poi, una raccomandazione, soprattutto a me stesso. Diceva un mio compianto maestro e amico che le celebrazioni sono spesso un tentativo di celebrare i celebranti a spese delle idee dei celebrati. Vorrei evitare questo rischio, osservando però che, quando si celebra un uomo, non solo non si può prescindere dal proprio punto di vista, ma si deve anche ricordarne l'attualità, cioè l'eredità viva che egli ha lasciato a noi. Le mie opinioni di celebrante non possono dunque scomparire del tutto. Nell'Italia del centrismo e dei primi anni del centrosinistra, Pannunzio e il gruppo del Mondo seppero rappresentare uno sprone per la classe politica, incarnando un ideale di liberalismo moderno in grado di confrontarsi senza complessi d'inferiorità - e i meno giovani sanno quanto allora non fosse facile - sia con la cultura cattolica che con quella marxista. Come è stato giustamente osservato, il Mondo non ebbe mai una dottrina vera e propria, perché volle essere l'opposto delle ideologie e soprattutto delle escatologie. E però ebbe una visione della storia, che Pannunzio derivò da Tocqueville, Constant, Croce: dentro, c'era la filosofia (e non la religione) della libertà e della democrazia occidentale. Per questo, a differenza delle vene di giacobinismo degli azionisti, i liberali del Mondo si dimostrarono, sì, intransigenti, ma anche più pratici e più pragmatici. Essi si confrontavano molto di più con l'Italia reale - con critiche, pungoli, ironie, e anche sarcasmi e invettive - che con l'Italia ideale. In questo senso non furono mai "antitaliani", ma italiani fino in fondo, sia pure di una pasta diversa. Nel confronto con il cattolicesimo e il marxismo, il programma "terzaforzista" del Mondo poté all'epoca apparire "con i piedi saldamente piantati per aria" e persino velleitario. Ma era un giudizio ingeneroso, frutto della convinzione, che a lungo in Italia è stata senso comune, che i soli motori della storia politica siano i partiti di massa, e che al di fuori di essi si possa, al più, fare testimonianza. Il tempo si è rivelato giudice. Pannunzio e il Mondo furono fondamentali nel varo del centro-sinistra, e i più riconoscono che le indagini e le analisi del Mondo contribuirono ad alimentare la vena innovatrice di quella stagione, che, una volta lasciata alla gestione esclusiva dei partiti, ben presto si essiccò. Per quella parte in cui può dimostrare qualcosa, la storia ha inequivocabilmente accertato almeno due punti: la superiorità del modello liberaldemocratico rispetto ad ogni altro, e l'insostenibilità, nel lungo periodo, di politiche di espansione della spesa pubblica indirizzate prevalentemente alla formazione e al mantenimento del consenso. Sul primo punto, sembra (almeno, sembra) che siamo tutti d'accordo. Sul secondo, basterà osservare che, se non bastasse la globalizzazione, già quel pezzo di costruzione europea che abbiamo realizzato, con i suoi trattati e i suoi vincoli, non consente deroghe o scappatoie. Pannunzio e il Mondo avevano dunque ragione. Questo non significa però che il loro progetto debba oggi essere studiato solo per l'indiscutibile valore di testimonianza politica e morale. Il modo migliore per onorare la memoria del fondatore del Mondo, almeno da parte di coloro che si richiamano al suo insegnamento, non è, come dicevo all'inizio, quello di celebrare noi stessi, ma di trarre dal celebrato una lezione per l'oggi. In questo senso, c'è ancora strada da fare. L'Italia ha sperimentato, negli ultimi dieci anni, una salutare alternanza alla guida del governo. Credo che, pur apprezzando questa conquista, Pannunzio l'avrebbe considerata insufficiente. Mi spiego. La liberaldemocrazia è sia un programma politico che un metodo. Quanto al programma, se si rivisita lo scaffale dei convegni del Mondo, si trovano almeno tre temi che stupiscono per la loro attualità e che sono ancora in attesa: quelli della giustizia, della scuola e del mercato del lavoro. Mi limito a ricordarli nei loro dati essenziali. L'Italia ha oggi un sistema giudiziario palesemente inadeguato alle esigenze della società. La disputa infinita fra magistratura e politica sta diventando, o forse è già diventata, una controversia di potere. Di tutto si parla, fuorché del servizio. Si dimentica che la magistratura non deve essere soltanto autonoma e indipendente, ma autonoma, indipendente ed efficiente. Il gruppo del Mondo a questo mirava. E questo ancor oggi noi aspettiamo. La scuola. Anche se si lavora, non stiamo meglio in quanto ad efficienza. L'abbandono di qualunque criterio di autorità e di meritocrazia ha ridotto nel corso degli anni i docenti ad un ruolo subalterno e burocratico, privo di quel prestigio sociale, se non economico, tradizionalmente riconosciuto nei decenni precedenti alla professione. E, d'altra parte, gli studenti vengono quasi immancabilmente gratificati, al termine della loro carriera scolastica, con un diploma spesso non corrispondente alle conoscenze acquisite e quindi poco spendibile sul mercato del lavoro. Anche su questo i liberali del Mondo hanno lasciato riflessioni di lunga durata che ancora non abbiamo raccolto. Si aspetta. Infine, il lavoro. L'Italia ha un tasso di disoccupazione superiore alla media europea, con punte di particolare gravità nel Mezzogiorno e tra i giovani. Allo stesso tempo una quota consistente della ricchezza nazionale viene prodotta nell'economia "sommersa" da lavoratori non regolarmente assunti e pertanto privi delle dovute garanzie. Il Mondo aveva già individuato nella progressiva liberalizzazione del mercato del lavoro la via per porre rimedio a questo stato di cose. Forse non aveva immaginato che, per questa via, si dovessero mettere in questione i privilegi dei lavoratori garantiti e trovare nuove forme e nuovi strumenti per coloro che tali non sono. Qui pure si aspetta. Resta la liberaldemocrazia come metodo. Su questo versante la lezione di Pannunzio è anche più attuale. Non solo occorre ricordare che ogni posizione, quando è contenuta nell'alveo del civile confronto, ha una sua ragion d'essere, ma, soprattutto oggi che siamo entrati nell'epoca del bipolarismo e dell'alternanza, è necessario riscoprire il valore fondamentale dell'etica della responsabilità. Non sono pochi in Italia coloro che ancora vivono la lotta politica come un contrasto manicheo tra bene e male, nel quale tutti gli strumenti, compresa la violenza, possono essere legittimamente utilizzati per il trionfo della causa "giusta". Contro questa concezione, antidemocratica e antiliberale, occorre riaffermare, seguendo la lezione di tolleranza impartitaci da Pannunzio, il carattere sempre perfettibile delle soluzioni politiche di volta in volta proposte e sempre aperto al miglioramento, almeno nel senso della correzione di tali soluzioni. Sarebbe un grave errore ritenere che, dopo la caduta dell'impero sovietico, i valori dell'Occidente si impongano da sé, siano definitivi e possano difendersi da soli. Non è così. E un po', ma non troppo, paradossalmente mi sento di affermare che per fortuna non è così: la storia non ha leggi che consentano di predeterminarne gli eventi. In questo senso, la democrazia liberale rappresenta per tutti non un obbligo ma una scelta, e quindi una responsabilità. A priori non si può in alcun modo essere certi che un governo liberamente scelto dalla maggioranza degli elettori prenda senz'altro le decisioni più sagge per il bene della collettività e che l'insieme dei comportamenti degli individui all'interno di una economia libera conduca inevitabilmente alla massimizzazione del benessere collettivo. E però dalla coscienza della nostra fallibilità deve discendere anche la consapevolezza dell'importanza dei nostri valori ed il rigetto di ogni relativismo. Non si può essere orgogliosi di nulla, neppure della coscienza della propria fallibilità, se si è relativisti. Proprio Pannunzio ci ricordava che dalla coscienza dell'imperfezione della democrazia liberale deriva lo spazio per sviluppare il confronto tra soluzioni differenti, nonché la possibilità di modificare soluzioni e ricette, a cospetto della verifica empirica dei fatti. Per Pannunzio, l'empirismo critico era l'antidoto contro le derive totalitarie, e la garanzia del civile confronto tra le forze politiche. Anche sotto questo aspetto il Mondo di Mario Pannunzio resta un esempio di come la passione politica possa convivere con il rispetto delle opinioni e con un'analisi serena e scrupolosa della realtà. Quelle virtù che servono per un'Italia laica, liberale, civile, rigorosa, rispettosa. Giusto quell'Italia in attesa che auspico e che mi piacerebbe vedere realizzata meglio.

DA LA STAMPA

Cyrus
11-04-09, 20:55
Le garanzie della libertà
di Mario Pannunzio
da “L'estremista moderato” di Mario Pannunzio
1966



A diciassette anni, Vittorio de Caprariis lesse per la prima volta un libro di Croce, la Storia d'Europa. La sua vocazione di storico e di politico, l'ha notato lui stesso, nacque da quell'incontro. Del resto, passione civile e ispirazione ideale si congiungevano in una natura ardente, che venne poi maturando, negli anni della Napoli antifascista e liberale, alla scuola di Omodeo e di Chabod, suoi maestri di vita insieme con Croce. Nella covata dei giovani intellettuali meridionali, che furono più tardi chiamati da Aldo Garosci i «radicali del mezzogiorno», trovò presto il suo posto naturale. Quello che nei libri dei maestri aveva più intuito che scoperto, lo rinveniva giorno per giorno nella realtà che si svolgeva fiammeggiante sotto i suoi occhi. Non credo che molti altri giovani abbiano vissuto con altrettanta intensità un periodo storico così pieno di insegnamenti. Nemmeno nel Risorgimento era accaduto di vedere qualcosa di simile. Col crollo del fascismo, una generazione nuova, in una stagione brevissima, era sorta come un esercito, numerosa, ardita, intraprendente, e, con una contemporaneità che ha del miracolo, si era impadronita del potere, determinata a cambiare il volto del paese, nel più breve tempo possibile. L'esperienza di Vittorio de Caprariis si formò in quell'epoca straordinaria, osservando per così dire nel sottosuolo le vicende dei partiti, l'urto degli ideali e degli interessi, e meditando su un problema che doveva accompagnarlo lungo tutta la vita, e che a volta a volta ha cercato di approfondire rintracciandone le origini e gli sviluppi negli storici italiani del Rinascimento, nei pubblicisti delle guerre francesi di religione, nei dottrinari della democrazia ottocentesca, nei filosofi-sociologi dell'età presente:come nasce e perché muore la libertà. Sarà dunque possibile - si domanda - sottoporre la realtà fuggente e demoniaca all'ordine dei valori morali e spirituali, sciogliere la tensione di un conflitto che non si è mai risolto, ma anzi mette oggi in crisi le istituzioni moderne della libertà e dello stato di diritto?

Animale politico fino al midollo, de Caprariis non riuscirà mai a concepire il passato come una cosa morta. Sempre il suo sguardo si ferma a scoprire nel tempo passato i centri nervosi, i momenti esemplari, nei quali come sotto a una pelle si scorge il palpitare della storia in fermento. Nei libri e nei documenti d'archivio ricerca il prolungamento del presente, concentrando l'indagine su quei nuclei di pensiero in azione che si rivestono poi dei fatti e dei nomi che gli occorrono. Soltanto in questi limiti, si direbbe, la storia gli diventa parlante, conoscenza della realtà colta sul fatto. D'altra parte, nessuno come lui è refrattario alle filosofie moderne dell'angoscia e dell'informale, che tranquillamente rifiuta con un allegro atteggiamento di sfida. Il giovane storico non è di quelli che si esaltano alle cose buie e complicate: crede nella realtà e nella solidità delle categorie spirituali. Se l'uomo, per dirla con Vauvenargues, è oggi in disgrazia, bisogna pure che torni a rialzarsi e a collocarsi al centro dell'universo.

Ed eccolo, constantemente impegnato in una lotta nella quale gli interessi storici e le preoccupazioni del giorno si intrecciano. Non solo bisogna difendere gli ideali splendenti della libertà dalla sfiducia che sembra incrinarne gli istituti, ma occorre ricondurre le forze nuove e impazienti, oggi così minacciose, nei confini di un ordinamento ragionevole e umano, senza distruggere il patrimonio di civiltà liberale ricevuto dal passato. Con un fervore che mai si attenua, negli anni in cui la fede nelle cose che più gli stanno a cuore trovano scarsissimi proseliti, de Caprariis è sempre in campo, tutto armato di politica, con l'aria di chi si trova a suo agio sul terreno nemico, e si difende di fronte, sui fianchi, alle spalle: mescolato nei congressi, nei convegni, nelle scissioni, nelle fondazioni di nuovi partiti. E il de Caprariis che tutti abbiamo conosciuto, europeista, laico, radicale, meridionalista, antifascista: il vivissimo scrittore politico e saggista del «Mondo», il più attivo collaboratore di Francesco Compagna in «Nord e Sud»; un uomo che sa di far parte di una minoranza e di combattere battaglie non si sa bene se di avanguardia o di retroguardia, ma che ha sempre davanti alla mente un'ispirazione luminosa che lo guida, la concezione liberale, etico-politica della vita. E può parer strano che soltanto a un certo momento della sua vita egli parlidi «sollecitazioni del presente» che gli avrebbero fatto abbandonare certi studi per affrontarne altri più vivi e vicini. Le sollecitazioni del presente hanno sempre ispirato gli studi storici di de Caprariis, anche i più minuti ed eruditi. Certo, il primo libro su Guicciardini, del 1950, e la stessa sua opera maggiore, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione, del 1959, hanno un accento diverso dal Profilo di Tocqueville che è del 1962. I tempi sono cambiati, e in Italia, all'ambiguo mortificato decennio che ha spento sul nascere le accese speranze della Liberazione, è succeduta un'epoca di movimento, di nuove lotte, di revisioni ideologiche. Con lo sguardo del politico, e vorrei dire con l'esperienza vissuta dell'uomo di parte, de Caprariis aveva studiato in Machiavelli e in Guicciardini la crisi politica e morale del Rinascimento italiano, mentre in Europa gli Stati si formavano come organismi autonomi e laici, ricchi di energia e di volontà di potenza. Con l'inquietudine e la trepidazione del liberale aveva indagato i motivi nuovi di civiltà e di libertà che trasparivano nella polemica tra ugonotti e «ligueurs», in Francia, durante la seconda metà del '500. Nei libertini e in Saint-Evremond, in particolare, aveva rintracciato quella concezione dell'uomo e del mondo «su cui già spirava il soffio dell'idea liberale». Da Guicciardini a Calvino, da Erasmo a Bodin, si passa ora d'un tratto a Tocqueville, a Benjamin Constant, agli storici e sociologi moderni americani, alla più recente storiografia sui partiti e le correnti politiche italiane. C'è una corsa di secoli, ma non un mutamento di rotta. L'inclinazione a vivificare la storia con la passione ideologica del presente sollecita de Caprariis a inoltrarsi in nuovi campi d'indagine e di meditazione. Nelle lotte sociali del '800, nello scontro attuale tra concezioni mistiche e concezioni laiche della politica, il giovane storico rintraccia avidamente quei semi della libertà che sembrano di tanto in tanto scomparire, ma che rigerminano poi misteriosamente nel silenzio e nella solitudine. Se i suoi interessi cambiano, vuoi dire che è lo spirito del mondo che muta, ma non il suo animo. Non so se sia stata soltanto la lettura della Democrazia in America di Tocqueville a strapparlo da «ugonotti e ligueurs» e a ringiovanire il suo impegno storico deviando la mente verso lo studio analitico della società moderna, scissa tra i principi in conflitto della libertà e dell'uguaglianza, della morale e della potenza: o non piuttosto un sentimento più acuto, quasi sofferente, del risveglio di tutte le malattie dell'epoca. Ma ci sono libri che si leggono in un certo momento e, vorrei dire, con uno spirito segretamente inappagato. Finora la lunga frequentazione degli storici machiavelliani e bismarckiani aveva dato una certa piega ai suoi studi, inducendolo a dar risalto, nel quadro dell'ideologia liberale, alla realtà dello Stato e della organizzazione della forza, vecchia tentazione storicista. Ora, proprio la lezione di Tocqueville, secondo padre con Croce, del liberalismo moderno, gli fornisce le nuove armi della critica, e lo libera come un vento dai vecchi vapori di una certa Realpolitik. Ecco il nuovo ordine di problemi: la società moderna, così mobile e dinamica, il livellamento egualitario, l'industrialismo, il moltiplicarsi delle fonti di potere, determinano una spinta nuova e irresistibile, che forse travolgerà le istituzioni e le garanzie della libertà, avviandoci a rinnovate forme di dispotismo. Siamo davanti a un paesaggio sconvolto; e lo sguardo che lo osserva appare mutato e febbrile.

De Caprariis non ha un atteggiamento di condanna verso questi nodi di vita, che stanno di giorno in giorno accelerando il loro moto di accrescimento e di conquista. La questione è un'altra: è quella del contemporaneo invecchiamento delle strutture politiche del passato, inadatte a contenere la tensione delle forze in movimento. È in grado, per esempio, il parlamento, col suo antiquato sistema di rappresentanza, di far fronte agli scontri che lacerano oggi il corpo sociale? «Noi siamo in ritardo di una costituzione, in ritardo di una riforma costituzionale» risponde de Caprariis. Ma, si chiede ancora, la crisi istituzionale è qualcosa di irrimediabile o è il prodotto di una crisi più generale e più profonda, la crisi stessa della coscienza democratica e degli universali valori liberali, ieri dominati, oggi logorati e semispenti? «A me sembra che la crisi sia innanzi tutto nella coscienza riflessa delle cose e delle ideologie, nella filosofia - risponde ancora de Caprariis - Non sono guaste le istituzioni e le ideologie politiche, è guasta la lente con cui noi le osserviamo». E parla di microscopio impazzito, della necessità di procedere a una ricostruzione filosofica della politica attuale, a un nuovo approach alla storia, a una teoria della storia laica e liberale.

«Non bisogna confondere - scrive - la libertà con gli istituti storici in cui si è di volta in volta incarnata».

Ed ecco che il politico, uscendo dalla meditazione storica e ideologica, entra subito nel vivo, attraverso l'esame dei mali odierni, mali determinati, di fronte ai quali non soltanto la teoria politica, ma la politica reale di ogni giorno si trova impreparata. Chi scorra queste Garanzie della libertà così compiute e stimolanti, mosse di tanto in tanto da una specie di slancio oratorio, vede dispiegarsi lo spettacolo del nostro presente, come in una vasta rappresentazione teatrale, con i suoi personaggi in abito di guerra, i suoi scenari agitati. E si direbbe che l'osservatore sia tentato qualche volta di uscir di platea e di saltare anche lui sul palcoscenico.

Sono presenti sulla scena i nuovi protagonisti del secolo, i partiti di massa, i sindacati, gli enti pubblici, i gruppi di pressione, le oligarchie economiche: come innestare questi organismi viventi desiderosi di potere nelle istituzioni democratiche dello Stato? Con quali regole e con quali prospettive di promozione sociale e di garanzie liberali? C'è il problema dei partiti, associazioni private, riconosciute per così dire di sbieco dalla costituzione, ma che sono oggi depositari di un potere immenso. C'è, legato al primo, il fenomeno nuovo degli «apparati» dei partiti, la cerchia subalterna dei funzionari, propagandisti, pubblicisti, figure anonime, che minacciano la libera vita interna delle loro organizzazioni, con l'irresponsabilità delle burocrazie di tipo industriale. Ci sono, peggio ancora, i gruppi di pressione, categorie ambigue di cittadini associati nella difesa di speciali privilegi, formazioni prive di controlli, ma potenti e misteriose. E lecita la loro esistenza in regime democratico? E, d'altra parte, l'attuale sistema elettorale, sottoposto alla disciplina ferrea dei leaders democratici, non alimenta una specie di mandarinato autoritario, indebolendo e alla fine distruggendo il potere esecutivo? Dovremmo dunque tornare al collegio uninominale? E l'istituto regionale, sul quale da un secolo si discute invano in Italia, potrà favorire la creazione di quei contrappesi, che Tocqueville già invocava, o piuttosto incoraggerà la disgregazione dello Stato, frantumando in minuscoli centri il potere, nuove forme di un moderno feudalesimo?

A tutte queste domande de Caprariis risponde col suo modo caratteristico, pieno di sfida e di realismo. A differenza di tanti teorici che non conoscono se non sulla carta la vita interna degli organismi democratici, il nostro giovane storico ha una rara esperienza di uomini di parte, che gli ha fatto conoscere fino nelle viscere gli ingranaggi delle nuove macchine del potere. Cita Tocqueville: «Le libertà non si possono tutelare al livello dei meccanismi costituzionali, come pretendeva il garantismo dottrinario, ma devono esser fatte valere al livello della società». In una società, dunque, che si rivela come non mai pressante, fluida, ramificata, diamo pure uno statuto giuridico ai partiti, regoliamo gli apparati, controlliamo i gruppi di pressione, istituiamo le regioni, mettiamo a punto il sistema elettorale, riformiamo il parlamento, ma innanzi tutto proponiamoci un esame generale della condizione in cui viviamo e ricordiamoci che ogni riforma va adattata al corpo delle cose, e che sistemi elettorali, partiti, sindacati, apparati, sono figli del suffragio universale, un fenomeno cioè naturale, e quindi irreversibile e necessario. Ogni giudizio moralistico è incongruo. Meglio queste pesanti macchine un po' arrembate, i partiti moderni, che danno tuttavia un senso di vitalità e di disciplina, riuscendo almeno a concentrare l'opinione pubblica su problemi generali e omogenei, piuttosto che i vecchi aggregati di clientele, le sparpagliate «alleanze degli eletti», fantasmi di un passato ormai sotterrato. Del resto, i guai dei nostri partiti non sono né diversi né maggiori di quelli dei partiti inglesi o americani. Né la democrazia spontanea, come ha dimostrato Gaetano Mosca, è mai esistita in natura. Non esisteva certo col collegio uninominale. Guardare ai partiti come a mostruose potenze infernali, vuol dire entrare nel campo della demonologia, e abbandonare quello della politica.

De Caprariis non ha dubbi sul primato della dottrina liberale fra le ideologie moderne in contrasto, che si presentano oggi come se ognuna d'esse fosse in grado di risolvere globalmente i problemi della convivenza sociale. La fiducia nel liberalismo e nella democrazia non è intaccata dalla consapevolezza del loro attuale svilimento. Il metodo liberale, quando non diventi uno stanco atteggiamento di conservazione, è il segno di una civiltà adulta, capace di ricevere continuamente dal basso lo stimolo al rinnovamento; carica di una forza creativa incomparabile. «Conosco per averla studiata nei suoi testi fondamentali - scrive de Caprariis in una pagina che si potrebbe mettere a conclusione di tutti i suoi pensieri - la critica liberale della democrazia, l'analisi delle sue insufficienze e dei pericoli che sono impliciti nel suo spiegarsi, e tuttavia mi pare che questa critica, se ci rende avvertiti dei rischi cui andiamo incontro, se consiglia di mettere da parte ogni entusiasmo ottimistico, non distrugge e non può distruggere la convinzione ragionata che il regime democratico, un regime, cioè, fondato sull'ordinato confronto delle idee, sulla libera competizione dei partiti, sul pacifico avvicendamento dei governi, sulla garanzia costituzionale delle libertà fondamentali, la convinzione, ripeto, che questo regime, se non è perfetto, è pur sempre il migliore che sia stato escogitato finora».

Fatto singolare: questi saggi, che appaiono legati da una connessione costante e che finiscono per assumere un carattere di vero e proprio trattato di teoria politica e costituzionale, sono nati dalla occasione, in tempi diversi, nel fuoco della polemica: un congresso socialista fornisce a de Caprariis l'opportunità di intrattenersi sugli apparati; una tavola rotonda gli fa rimeditare la questione delle élites e delle formule politiche; una certa dichiarazione del presidente del Senato gli fa toccare il tema del finanziamento dei partiti.

«Le istituzioni sono anche passioni» scrive in uno di questi saggi. Una esclamazione che potremmo trovare in Tocqueville. Ma la scoperta di Tocqueville è l'incontro tra due anime affini. C'è nell'uno e nell'altro una patetica volontà di capire, un'ansia di penetrare nel cuore delle cose, senza illusioni ma senza rassegnazione. Da severo storicista, de Caprariis non crede nelle «città felici», non prepara liste per le trattorie dell'avvenire. La passione civile, la passione dell'oggi animato e vivente, brucia in silenzio come un fuoco senza fiamma. Soltanto quando si sdegna contro gli ideali mortiferi del presente, il suo respiro si fa un po' più affrettato. A meno di quarant'anni si sente calmo, sicuro, un po' altero, come chi sa di possedere un'esperienza e un patrimonio morale aspramente acquistati. Non ha esitazioni, lui che ha trascorso quindici anni sui testi del Guicciardini, di Gabriel Naudé, di Erasmo, di Saint-Evremond, a trattenersi sulla questione della legittimità dei funzionari di partito ad assumere cariche pubbliche, o sul problema del cannibalismo di lista nelle elezioni politiche. Raro esempio, tra i nostri giovani storici, così superbi di tenersi appartati in un loro monastico ritiro. «Vittorio de Caprariis - ha scritto Francesco Compagna - è stato di quei non molti giornalisti politici del nostro paese che hanno smentito, con la loro attività, il pigro alibi della semplificazione ad uso del pubblico; e che non hanno mai dato segni di insofferenza moralistica nei confronti delle vicende politiche che dovevano commentare, anche quando queste vicende si presentavano deludenti, o grigie, o semplicemente meno suggestive di come si erano immaginate. Perché Vittorio de Caprariis, come tutti i grandi giornalisti politici, amava la politica».

Pochi mesi prima di morire, per non so quale senso di premonizione, Vittorio de Caprariis cominciava un articolo citando Montaigne: «Sono trascorsi quindici giorni da quando ho varcato la soglia dei trentanove anni, e probabilmente ne vivrò altrettanti...». Strana coincidenza: in una piccola biografia di Pascal leggo per caso: «E se muore a trentanove anni, e perché il suo corpo non ha potuto resistere alla tensione del suo spirito». Vittorio de Caprariis è morto a trentanove anni, nel momento in cui la tensione del suo spirito insoddisfatto aveva raggiunto il punto più alto. Eppure si sente che la parte migliore della sua opera era appena agli inizi. La morte lo ha sorpreso quando intorno al suo nome, diventato ormai d'esempio, si era formato qualcosa di più di una speranza e di un'attesa. Dottrina, rigore, impetuosità, un sentimento potente di idealismo, rappresentavano le promesse di una personalità energica e attraente, che fin dal suo apparire aveva spiccato solitaria tra gli scrittori politici della sua generazione.

Questo libro di saggi, Le garanzie di libertà, esce postumo. Altri volumi seguiranno nei prossimi mesi, raccolte di studi storici e politici, inediti o introvabili. Sappiamo del resto che avrebbe dovuto portare a termine, in tempo brevissimo, una storia d'Italia dopo la Resistenza, ampliare uno studio sui partiti italiani durante la prima guerra, arricchire di nuovi capitoli il suo Profilo di Tocqueville, correggere le bozze di una storia dell'età della Controriforma. La varietà degli argomenti indica una simultaneità di interessi e una regolarità di lavoro fuori del comune. Si può immaginare con che impegno avrebbe percorso il suo cammino, con quale pienezza ormai di conoscenze storiche e di prospettive politiche, se la sua stagione non fosse stata interrotta. Ma già dagli sparsi frammenti della sua «opera in progresso» si può misurare quanto la cultura e la vita morale del nostro paese abbiano perduto con la sua scomparsa. Sarà un amaro compito per gli amici di dover parlare di lui come se fosse ormai un personaggio storico o una figura letteraria già delineata e intera, e non l'uomo puro, libero, appassionato che ha lasciato la sua immagine in un messaggio incompiuto nel quale il nostro tempo inquieto può riconoscersi.



1966



Mario Pannunzio

da “L'estremista moderato”
di Mario Pannunzio - Saggi Marsilio 1993

Cyrus
11-04-09, 20:56
Pannunzio e la sua eredità : un saggio di Pier Franco Quaglieni

Mario Pannunzio direttore "Il Mondo"Sono passati 60 anni da quel 19 febbraio 1949, data di inizio della pubblicazione del settimanale liberale “Il Mondo”, creatura cogitata e diretta da Mario Pannunzio, già direttore di “Risorgimento Liberale”: il giornale dissidente che più e meglio di ogni altro denunciò le angherie di fascisti prima e di comunisti poi.

Il Centro Pannunzio di Torino, fondato da Arrigo Olivetti ed altri collaboratori di Pannunzio, nel 1968, è oggi l'unico vero ed autentico erede e custode della cultura pannunziana. Questo sarebbe bene dirlo e sottolinearlo per chi non ne fosse a conoscenza ed anche a chi parla di Mario Pannunzio a sproposito, attribuendosene la tradizione.

E così, a 60 anni dalla storica data di fondazione de “Il Mondo”, il prof. Pier Franco Quaglieni - attuale Presidente del Centro Pannunzio - ci regala un raro testo sull'argomento.

Il suo “Liberali puri e duri – Pannunzio e la sua eredità”, edito da Genesi, è una vera e propria antologia di ricordi senza peli sulla lingua e di scritti di autorevoli giornalisti, scrittori ed autori vari che a “Il Mondo” collaborarono.

Il libro del prof. Quaglieni, amico e discepolo – per così dire – di Pannunzio, traccia un quadro limpido e cristallino del giornalista liberale lucchese, delle sue battaglie e del suo spirito autenticamente schietto e progressista. Il tutto con la prefazione del deputato europeo già eletto con il Partito Repubblicano Italiano ed oggi con Il PdL: Jas Gawronski.

Quaglieni restituisce nuova luce a questa tradizione culturale e politica di liberali puri e duri (come la definì il repubblicano Francesco Compagna) appunto.

Liberali duri e puri che certo non sono stati i precursori del Partito Radicale di Marco Pannella, come spiega lo stesso Quaglieni: in quanto il Partito Radicale dei Liberali e dei Democratici fondato dagli “Amici de Il Mondo” era ben altra cosa. Così come la tradizione di Pannunzio e dei pannunziani si rifaceva in toto a Benedetto Croce e non già a certo “azionismo” vicino agli ambienti giacobini e comunisti e, per finire, il prof. Quaglieni sfata il mito secondo il quale il quotidiano “La Repubblica” sia l'erede de “Il Mondo”, così come lo sia lo stesso direttore storico Eugenio Scalfari. Quaglieni ricorda quest'ultimo come giovane frequentatore del gruppo dei liberali pannunziani, ma poco dopo amico dei comunisti al punto che lo stesso Pannunzio – prima di morire – diede disposizione ad un amico di vietare a Scalfari di partecipare al suo funerale.

Da sottolineare come molti autorevoli collaboratori de “Il Mondo” avessero infatti scelto, negli anni successivi, di collaborare con il quotidiano “Il Giornale”, con una linea non a caso distante da quella de “La Repubblica”.

Mario Pannunzio ed i suoi liberali puri e duri erano infatti intransigentemente e laicamente antifascisti ed anticomunisti allo stesso tempo e per questo erano invisi al Partito Comunista ed ai suoi accoliti e da loro definiti, con spregio, “visi pallidi”.

Eppur fu questa tradizione, che va da Salvemini ad Ernesto Rossi, passando per Nicolò Carandini, Aldo Garosci, Leo Valiani, Giovanni Spadolini, Ugo La Malfa, Vittorio De Caprariis e molti altri, che combattè contro i monopoli, la speculazione edilizia, l'influenza del dogma ecclesiastico nelle leggi dello Stato, i privilegi delle corporazioni ed i Poteri Forti.

Battaglie difficili e combattute da un'esigua minoranza di intellettuali. Una minoranza purtuttavia consapevole della situazione dell'Italia di allora, che non è poi diversa da quella di oggi (con la differenza che oggi gli intellettuali e la cultura politica scarseggiano praticamente in ogni dove).

Ed ecco che il saggio del prof. Quaglieni, oltre a ripercorrere le tappe della vita giornalistica, politica e culturale di Mario Pannunzio, è una vera e propria antologia di figure di liberali che segnarono la vita stessa del giornale “Il Mondo”: da Benedetto Croce – padre nobile del Partito Liberale Italiano – ed ancora Carlo Antoni, Vittorio De Caprariis, Rosario Romeo, Ennio Flaiano, Nicolò Carandini, Arrigo Olivetti, Mario Soldati, Spadolini e molti altri grandi nomi che fecero - ciascuno nel suo specifico campo – dell'Italia un Paese migliore (oggi, francamente, facciamo assai fatica a scorgerne dello stesso calibro. Quelli che ci sono, per la maggior parte, sono emigrati all'estero. E non li biasimiamo).

Nella seconda parte del libro di Quaglieni, troviamo una serie di articoli di amici di Pannunzio che lo ricordano. Degni di nota gli interventi di Indro Montanelli che lo elogia sottolineando anche le grandi differenze fra loro due (fra cui il fatto che Montanelli fu fiero fascista, mente Pannunzio non lo fu mai).

Il volume è impreziosito da moltissime foto d'epoca che ricordano quella stagione e da foto recenti con coloro i quali in questi anni hanno ricevuto il premio intitolato a Mario Pannunzio (fra questi lo stesso Montanelli, Giorgio Forattini, Sergio Romano, Antonio Ricci e molti altri).

Degne di nota anche le simpatiche vignette satiriche di Mino Maccari, di Amerigo Bartoli e dell'immancabile Forattini (assolutamente caustica quella in cui è ritratto Pannunzio che “fa la carità” a Eugenio Scalfari).

Da segnalare il lungo articolo di Tiziana Conti ed Anna Ricotti dal titolo “Il Centro Pannunzio: quarant'anni fuori dai cori” che ripercorrono la storia del Centro, con la sua cultura saldamente liberaldemocratica e le sue iniziative presenti e future.

Questo è decisamente l'anno di Mario Pannunzio e delle sue “creature”.

Dal saggio di Massimo Tedori, a quello della professoressa Mirella Serri ed oggi a quello di Pier Franco Quaglieni, abbiamo la possibilità di leggere ed approfondire una figura assai vilipesa dall'egemonia culturale – proveniente dalle file marxiste e cattoliche - imposta all'Italia dal dopoguerra ad oggi.

E' ora di ricordare la migliore tradizione liberaldemocratica, che è anche quella che ha permesso al nostro Paese di rimanere ancorato all'Occidente democratico e di resistere alle tentazioni clericali provenienti dal Vaticano (per mezzo dei partiti laici più vicini alla cultura pannunziana come il PLI, il PRI ed il PSI di Craxi che riprese il concetto di “socialismo liberale”).

Se oggi ciò sarà ancora possibile lo sarà anche grazie a tutti coloro i quali avranno il coraggio di continuare questa tradizione di libertà oltre la destra e la sinistra.

Luca Bagatin

Cyrus
11-04-09, 20:59
Ernesto Rossi
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


Ernesto Rossi (Caserta, 25 agosto 1897 – Roma, 9 febbraio 1967) è stato un politico, giornalista e antifascista italiano che ha operato nell'ambito del Partito d'Azione e del successivo Partito Radicale.

Con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni è, in Italia, il massimo promotore dell'Europeismo. Il Manifesto di Ventotene, di cui condivise la stesura con Spinelli e che fu pubblicato e curato da Colorni, è il suo libro più importante e il suo testamento morale.
Biografia [modifica]

Non ancora diciannovenne partecipò volontario alla prima guerra mondiale. Nel dopoguerra, mosso dalla opposizione all'atteggiamento dei socialisti di ostilità nei confronti dei reduci e dei loro sacrifici e dal disprezzo della classe politica incapace di slanci ideali, si avvicinò ai nazionalisti del "Popolo d'Italia" diretto da Benito Mussolini, giornale con il quale collaborò dal 1919 al 1922.

In quel periodo però conobbe Gaetano Salvemini con il quale iniziò un lungo legame di stima e di amicizia e si allontanò definitivamente e radicalmente dalle posizioni che stavano portando all'ideologia fascista.

A Salvemini, Ernesto Rossi si legò fin da subito e il vincolo dell'amicizia, oltre che dall'ammirazione e dall'affetto, venne ben presto cementato dalla piena intesa intellettuale. "Se non avessi incontrato sulla mia strada" - scrisse Ernesto Rossi - al momento giusto Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialità dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci da combattimento".

Da allora, il suo percorso non ebbe deviazioni né perplessità. Vibrò sempre una certezza affermativa nelle sue opere, e tutto - l'intrepida moralità, la causticità sibilante, l'astuzia affilata - tutto, proprio tutto, venne posto al servizio di questa certezza, che poi era la consapevolezza di dover difendere comunque e ad ogni costo la libertà.

Nel 1925 con il gruppo dei salveminiani (Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli) dà vita al giornale clandestino "Non Mollare". Da questo deriva l'implacabile determinazione con cui si oppose il regime fascista. Fu dirigente, insieme con Riccardo Bauer, dell'organizzazione interna di "Giustizia e Libertà", e quindi pagò la sua intransigente attività antifascista con venti anni di carcere, inflittigli dal Tribunale Speciale, dei quali nove furono scontati nelle "patrie galere" e gli altri quattro al confino nell'isola di Ventotene. Qua, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni maturò più compiutamente quelle idee federalistiche che nel 1941 ricevettero il loro suggello nel famoso Manifesto di Ventotene.

Dopo la Liberazione, come rappresentante del Partito d'Azione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell'ARAR (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958.

Dopo che fu sciolto il Partito d'Azione aderì al Partito Radicale guidato da Pannunzio e da Villabruna nel quale, sentendosi come "un cane in chiesa" (sono parole sue), rifiutò incarichi di direzione anche perché preferì dedicarsi alla scrittura di libri e al giornalismo d'inchiesta su "Mondo".

La collaborazione al "Mondo", iniziata sotto i migliori auspici nel 1949 (quando Mario Pannunzio, proprio lui, il direttore dalla vigilanza occhiuta e minuziosa, gli promise che i suoi articoli li avrebbe letti "solo dopo pubblicati"), la collaborazione al "Mondo", dicevamo, iniziata nel 1949, continuò ininterrotta per tredici anni, fino al 1962.

Fu la stagione d'oro di Ernesto Rossi, durante la quale egli poté assecondare il genio profondo che lo agitava dentro, quello che lo traeva a tirare per il bavero anche le barbe più venerande, denunciandone le malefatte, irridendone le asinerie, sbugiardandone le falsità.

I suoi articoli migliori Ernesto Rossi li raccolse in volumi dai titoli famosissimi, così famosi da diventare patrimonio della lingua comune. Due per tutti: I padroni del vapore (Bari, 1956) e Aria fritta (Bari, 1955). Dal 1962 in avanti svolse la sua attività di pubblicista su "L'Astrolabio" di Ferruccio Parri. Nel 1966, quando la strada della sua vita andava ormai discendendo, gli fu conferito il premio "Francesco Saverio Nitti", che molto lo confortò e, in parte, lo ripagò di un'esistenza scontrosa che gli era stata assai avara di riconoscimenti accademici.

La morte di Ernesto Rossi [modifica]

Il 9 febbraio 1967 moriva Ernesto Rossi. «Ernesto - racconta Marco Pannella - era stato operato nei giorni precedenti. L'avevo visto il 7, e lui, che era sarcastico verso chi non credeva all'Anno anticlericale che avevamo lanciato, era allegro perché un'infermiera gli aveva detto: "Bè, se lei presiede questa cosa, verrò anch'io all'Adriano". Ernesto, abituato come eravamo spesso noi radicali al Ridotto dell'Eliseo, aveva soggiunto: "L'ho detto anche a Ada: ma vuoi vedere che questa volta quel matto di Pannella ha avuto ragione!". L'operazione era andata benissimo, il medico era Valdoni, tuttavia le conseguenze non furono controllate e all'improvviso Ernesto se ne andò. Di lì a trentasei ore avrebbe dovuto presiedere una prima grande manifestazione della religiosità anticlericale, della religione della libertà di tutti i credenti».

Qualche mese prima aveva scritto, in una lettera a Riccardo Bauer, parole presaghe che vibrano di un'accensione poetica: "se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finché il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe". E ancora: "Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre sembrata una funzione naturale, inspiegabile com'è inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po' prima o un po' dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all'eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della "cattiva morte" ".

L'anticlericalismo di Ernesto Rossi [modifica]

Ernesto Rossi il «democratico ribelle», come lo definisce Giuseppe Armani nel testo dedicato alla sua figura di politico ed intellettuale, ha sempre manifestato un'indole polemica e intransigente, dedito all'invettiva contro i vizi del potere, impegnato nel combattere gli interessi corporativi e clientelari dei “padroni del vapore”, attivo nei confronti dei grandi assetti monopolistici, testimone esemplare di un pensiero laico e liberale che, inevitabilmente, si è esplicitato in un'aperta dichiarazione di anticlericalismo in nome della difesa di un mondo libero dalle costrizioni ideologiche delle gerarchie ecclesiastiche e del regime fascista con cui la chiesa, a partire dagli anni Venti, non mancava d'intessere relazioni.

Nel Manganello e l'aspersorio[1], prende corpo la denuncia di questa forma di collusione tra “l'altare” e il regime fascista antiliberale che con Mussolini si era instaurato al governo: polemica appassionata che investe contemporaneamente, dispiegando lo stesso impegno, e la stessa carica dissacrante, sia il dominio della politica, sia quello della religione e dell'economia. Parimenti ai grandi monopoli dello zucchero e dell'elettricità, e alle forme di regime politico illiberali e antiliberali, l'inclinazione alla conquista di zone d'influenza e di ambiti di potere sempre più vasti e pervasivi si rivela connaturata alla natura coercitiva e dogmatica della chiesa: «Pochi italiani conoscono quale centro di coordinamento e di guida delle forze più reazionarie è il Vaticano, e quale fattore di corruzione esso costituisce nella nostra vita pubblica [...] con l'insegnamento della cieca obbedienza ai governanti, comunque delinquenti e in qualsiasi modo arrivati al potere, purché prestino l'ossequio dovuto al Santo Padre. [...]. Approfondendo l'argomento, oggi mi sono dovuto convincere che la soluzione di tutti i problemi – anche di quelli che riteniamo più spiccatamente economici e tecnici- dalla convivenza civile, è in funzione del modo in cui si riesce a risolvere il problema della libertà di coscienza, cioè del modo in cui vengono regolati i rapporti tra lo Stato e la Chiesa»[2].

L'indignazione di Rossi nei confronti della chiesa, e segnatamente della pretesa di espandere capillarmente il suo controllo sulla società, raggiunge il suo apice nel momento in cui si trova ad analizzare la natura ancipite del rapporto di Mussolini con il potere ecclesiastico: ateo e “sboccatamente” anticlericale, avverso ai valori diffusi dal cattolicesimo sin dalle prime prese di posizione giovanili, si dimostrerà – a partire dalla seconda metà degli anni Venti, con la firma l'11 febbraio 1929 dei Patti Lateranensi – un fervido e ossequioso sostenitore della politica del Vaticano, tanto da guadagnarsi l'appellativo di “Uomo della Provvidenza”, confermando, da un lato, l’intenzione esclusivamente strumentale che Mussolini aveva circa l’uso del potere, e dall’altro lato, l’oblio della chiesa riguardo i trascorsi ateo-socialisti del duce non fanno che ribadire il disegno politico del Vaticano perseguito attraverso calcoli macchinosi e continui regolamenti di conti.
Per disegnare correttamente la parabola intellettuale di Ernesto Rossi, non bisogna però trascurare le oscillazioni che si avvertono nelle sue prese di posizione nei primi anni venti con l’avvento del fascismo: Rossi dal 29 marzo 1919, al 29 novembre 1922 collabora con "Il Popolo d'Italia". In questo periodo di collaborazione al quotidiano Rossi si attesta su posizioni antisocialiste per ragioni che esulano dalle riflessioni teoriche sul marxismo, riguardando piuttosto il disprezzo manifestato dai socialisti nei confronti degli ufficiali reduci di guerra, che «offendevano la memoria dei nostri morti e sputavano sui nostri sacrifici» – Rossi, il “non interventista intervenuto”[3], arriva sulla linea del basso Isonzo nell’ottobre del 1916 e dovranno trascorrere più di due anni prima che egli possa prendere congedo dagli orrori della guerra - . Ma, poco prima della marcia su Roma, Rossi cambia decisamente fronte: intensifica il suo rapporto epistolare con Gaetano Salvemini, “padre intellettuale” del giovane Rossi e, nel novembre 1922, propone di pubblicare i suoi articoli a Piero Gobetti su «La Rivoluzione liberale», recidendo drasticamente con gli ambienti filofascisti. Sarà egli stesso a riconoscere la portata salvifica dell’incontro con Salvemini: «Se non avessi incontrato sulla mia strada, al momento giusto, Gaetano Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti delle passioni suscitate dalle bestialità dei socialisti e dalle menzogne della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch’io nel fascismo»[4]. E, a proposito dei sui debiti intellettuali, riconosce di essere approdato ad una maggiore consapevolezza circa l’effettiva realizzazione di nuove forme di giustizia sociale, nel corso delle sue discussioni con Salvemini sulla chiarezza e il rigore logico del metodo scientifico di Pareto (autore a cui Rossi aveva dedicato i suoi studi giovanili di filosofia del diritto, nonché la sua tesi di laurea: “l’evoluzione sociale secondo Pareto”).

L'impegno intellettuale di Rossi nella lotta contro l'oscurantismo e gli abusi del clero affonda le sue radici in una delle idee guida del Risorgimento italiano: "libera Chiesa in libero Stato". La questione della conflittualità dei rapporti tra la Santa Sede, con la sua pretesa di conservare il potere temporale, e il ceto dirigente liberale italiano si era posta fin dai tempi di Cavour e Mazzini, assumendo i toni di un contrasto ideologico tra la volontà di modernizzare il Paese e il bisogno di mantenersi nella tradizione, tra i processi d'innovazione politica e le "clericali" battute d'arresto. Secondo Rossi, la porzione di libertà e autonomia guadagnata dallo stato laico attraverso le lotte risorgimentali, culminate il 20 settembre 1870, si dissolve l' 11 febbraio 1929, giorno infausto, in cui la società civile perdeva le speranze di potersi definitivamente affrancare dal potere della Chiesa.

Azione laicista e pensiero anticlericale. Ernesto Rossi: Il Sillabo e dopo [modifica]

L'atteggiamento assunto da Rossi di schietto anticlericalismo e di rigoroso attaccamento etico alla norma nella gestione di uno stato che voleva essere riconosciuto liberale, democratico e antiprotezionista, lo spinsero inevitabilmente verso un “isolamento” radicale nei confronti dei benpensanti di tutti i partiti – dal partito liberale a quello comunista –[5] , che consideravano scomodo «fuori dal senso della storia» e oltremodo pessimista il suo atteggiamento polemico e il suo carattere “eccentrico”. Questa scelta di campo, che illuminava l’“integrità” del suo pensiero liberale, ovviamente, da parte del regime fascista non poteva non dimostrarsi insidiosa ed ingombrante. Così Rossi, nel maggio 1940 dal confino di Ventotene, luogo del suo isolamento effettivo, si rivolgeva alla moglie Ada: « […] È in gioco la vita della civiltà moderna, così come noi la consideriamo. In tutti i modi, però, non bisogna mai lasciarsi prendere dall’angoscia e dalla disperazione. Io sono forse più pessimista di te rispetto all’immediato futuro, ma so che la storia è una rappresentazione che continua oltre le nostre vite […] Per mio conto non mi sono mai preoccupato di sembrare straniero nel mio paese, o “superato” rispetto ai miei contemporanei. Non ho bisogno di trovare negli avvenimenti delle prove di bontà delle mie convinzioni. Mi basta la mia coscienza e il debole lume della mia ragione»[6].

Nella rilettura del Sillabo di papa Pio IX, promulgato nel 1864 assieme all’enciclica Quanta Cura che denunciava gli “errori del secolo” e le “nefande macchinazioni di uomini iniqui”, Rossi dà voce alle sue idee anticlericali in modo da difendere la causa della laicità attraverso un metodo rigoroso e puntualmente documentato: compiendo un uso sapiente di citazioni testuali tratte da documenti vaticani, encicliche, lettere pastorali, allocuzioni, giunge alla confutazione delle tesi della chiesa circa la libertà di stampa e d’insegnamento, dei rapporti tra poteri civili ed ecclesiastici e tutto il resto delle dinamiche di potere che costituiscono il fulcro della società contemporanea; sono il pontefice e la chiesa stessa a parlare di sé, della propria realtà attraverso i documenti da loro stessi promulgati: « Questo è un libro anticlericale. La sua singolarità consiste soltanto nel fatto che non è stato scritto da un anticlericale, ma dagli otto pontefici che si sono succeduti, durante l’ultimo secolo, sulla “cattedra di S. Pietro”: Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI»[7].

Questa forma di anticlericalismo di Rossi non degenera mai in un atteggiamento irrispettoso o addirittura blasfemo nei confronti della religione, non indulge mai alle offese o al dileggio nei confronti dei credenti, ma si concentra esclusivamente sui privilegi e la corruzione della chiesa e del papato. Soffermandosi sul significato attribuito dalla Chiesa, e in modo specifico da Pio X nel 1909 e da Pio XI nell’enciclica Quas primas del 1925, al precetto evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di , dimostra come la chiesa perverta l’originale messaggio del Vangelo affermando la necessità di sottoporre alla Chiesa e all’ufficio assegnatole da Dio, tanto l’ordine sociale, quanto quello economico: « Quel che è di Dio, dunque, è della Chiesa perché la Chiesa è il corpo mistico di Gesù, e quel che è di Cesare è pure della Chiesa perché l’uomo è una creatura di Dio e, fine ultimo dello Stato, deve essere quello di far osservare la legge di Dio per condurre gi uomini alla beatitudine eterna»[8]. Come si può notare da questo passo tratto dal Sillabo e dopo, ciò che Rossi mira a denunciare è la volontà della Chiesa di accrescere sempre più la sua ricchezza, di attestarsi come una tra le maggiori potenze finanziarie, e di investire i suoi capitali nei titoli delle imprese più rilevanti (gruppi monopolistici minerari e saccariferi, società concessionarie di sevizi pubblici ecc.). Rossi non manca di sottolineare il legami della Chiesa con il fascismo sotto il profilo delle reciproche concessioni economiche; uno dei primi provvedimenti con i quali, a seguito della “marcia su Roma”, Mussolini si assicurò l’appoggio della Santa Sede fu il decreto del dicembre 1922 che abolì la legge sulla nominatività obbligatoria dei titoli; provvedimento che permetteva alla chiesa di sfuggire più facilmente al controllo pubblico e di evadere il sistema della imposte.

L'elaborazione federalista di Rossi e Spinelli: il Manifesto di Ventotene[9] [modifica]

Il Manifesto di Ventotene, viene scritto da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel 1941 quando si trovano confinati nell'isola di Ventotene. Il Manifesto circola prima in forma ciclostilata e successivamente viene pubblicato clandestinamente a Roma nel gennaio 1944, il volume viene prima intitolato Problemi della federazione europea, reca le sigle A.S. (Altiero Spinelli), E.R. (Ernesto Rossi) ed è curato e prefato da Eugenio Colorni. Grazie alla corrispondenza tra Rossi e Luigi Einaudi, era pervenuta a Ventotene una vera e propria letteratura federalista sconosciuta alla gran parte della cultura politica italiana. L’idea di guardare al modello statunitense nell’elaborazione di un progetto federalista per l’Europa si nutre, in gran parte, di questa apertura di orizzonti dal punto di vista teorico, ma il grande passaggio compiuto nel Manifesto è il passaggio ad un vero e proprio programma d’azione che, mettendo in luce la crisi dello stato nazionale, permettesse di ripensare l’assetto geopolitico internazionale. Nella prefazione Eugenio Colorni afferma: «Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes»[10]. Attribuendo, dunque, come causa prima dell’imperialismo e delle guerre mondiali la teoria della ragion di stato e l’esercizio della sovranità statale, il Manifesto e la sua visione politica federalista, irrompe in modo del tutto alternativo sullo scenario rappresentato dal sistema degli stati nazionali, auspicando una strategia politica-economica completamente autonoma e innovativa rispetto ai precedenti assetti. In primo luogo il Manifesto pone con urgenza la prerogativa di realizzare una Federazione europea: obiettivo nient'affatto utopico considerando la crisi post-bellica dello stato nazionale e, anzi, la realizzazione di questa prima tappa non dovrà essere che il preludio ad una Federazione mondiale di stati. Problema prioritario di questo nuovo ordinamento internazionale sarà quello di oltrepassare l’anarchia internazionale nell’ambito della risoluzione dei conflitti, di frenare l’impulso di ciascuno stato ad accrescere il proprio potere e prestigio internazionale, evitando in tal modo che la libertà politica e le problematiche istituzionali, sociali ed economiche vengano relegate sullo sfondo privilegiando la sicurezza militare e le spese belliche.
Cadranno, pertanto, tutte le vecchie linee di demarcazione formale tra progressisti e reazionari, tra i fautori dell’istituzione di una minore o maggiore democrazia interna al singolo stato, tra la necessità che questo si costituisca o meno con una solida cultura socialista: la netta divisione sarà marcata da coloro che continueranno a promuovere una forma stantia di lotta politica a sostegno del potere nazionale e, al contrario, coloro che coopereranno per dar vita ad una solida unità internazionale.

Contro il capitalismo inquinato e i parassitismi monopolistici [modifica]

Nei Padroni del vapore Ernesto Rossi, analizza la politica economica e l'atteggiamento di alcuni ambienti industriali prima e durante il fascismo, estendendo a questo periodo critiche ed appunti che aveva elaborato con riferimento alla situazione presente. Quando, nel 1955, Angelo Costa, presidente di Confindustria, scriveva a Ernesto Rossi proponendogli un contraddittorio nel quale si sarebbe fatto il possibile per far conoscere la verità sull'industria italiana all'opinione pubblica, Rossi accettando di buon grado, offrì la possibilità di dare origine ad un dibattito pubblico di fondamentale importanza per comprendere l'attualità e le istanze principali del suo pensiero liberista, contraddistinto da una netta avversione nei confronti di taluni assetti monopolistici, di cartelli privati, dei consorzi autarchici e di tutti quei meccanismi di potere tesi ad "inquinare" il capitalismo e a svolgere un ruolo di consolidamento nei confronti dei regimi autoritari che tendenzialmente sono volti a fiancheggiare. Il tema del dibattito con Costa aveva come titolo "gli industriali italiani", ossia i Padroni del vapore, i grandi capitani dell'industria italiana e tutti coloro che hanno come diretto referente la Confindustria.

Rossi, criticando il capitalismo nelle forme “statalizzate” che ha assunto in Italia, non manca di manifestare il suo entusiasmo per il capitalismo americano dove la situazione concorrenziale non attende aiuti statali e s’indirizza verso un cammino indipendente da quello del potere politico. L’altro bersaglio polemico di Rossi, indagato nella sezione dedicata alla Critica del sindacalismo, è il sindacato monopolistico e tutti gli assetti di potere in mano alle leghe sindacali, che rendono invasivo il ruolo di controllo dello stato e compromettono la libera formazione dei prezzi sul mercato. La polemica liberale contro il capitalismo è dunque volta a porre sia dei limiti ad uno sfrenato laissez faire che non interviene a ricucire le falle e le inefficienze generate dal mercato, sia a frenare gli interventi diretti di assistenza e l’estensione del lavoro sindacalizzato. La pars costruens della sua Critica alle costituzioni economiche si propone come obbiettivo quello di Abolire la miseria: imponendo delle riforme di fondamentale importanza – riforma agraria, terra a chi la coltiva – ed estendendo servizi pubblici e bisogni essenziali – cibo, alloggio, istruzione, assistenza sanitaria – a tutte le categorie sociali, la “striscia” delle miseria tenderebbe ad accorciarsi, rendendo meno eclatanti talune storture del capitalismo. Secondo Eugenio Scalfari, nella prefazione di Capitalismo inquinato, la posizione di Rossi sul capitalismo italiano coincideva in almeno sei punti con quella dei liberali sinistra: « Il libero mercato non è uno stato di natura, la libera concorrenza e la libertà di accesso al mercato sono situazioni perennemente a rischio, che debbono essere create e mantenute da apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e sanzione. L’economia mista, si risolve di fatto in una privatizzazione dei profitti e in una pubblicizzazione delle perdite[…] favorendo il diffondersi nel sistema di un elevato grado di corruttela»[11].

Se, dunque, la genesi del capitalismo italiano a causa di una ristrettezza iniziale di capitali e della mancata compattezza di sviluppo tra nord e sud, è riconducibile alla dipendenza e alla protezione di gruppi bancari, industriali e politici, inevitabilmente le caratteristiche del suo sistema sono sempre state la difficile concorrenza, la mancanza di regole di controllo, lo sviluppo massiccio di cartelli e monopoli. Esclusivamente un’azione di netta discontinuità con la politica delle partecipazioni statali e del protezionismo doganale può, secondo Rossi, riformare e restituire trasparenza all’intero sistema. Dunque applicare il settimo comandamento: non rubare. Questa è l’esortazione che Rossi rivolge al presidente di Confindustria Costa e agli imprenditori italiani. « Ma io non mi sono mai preoccupato che gli industriali guadagnassero troppo; mi sono preoccupato che rubassero troppo; e, mettendo in luce questa consuetudine di alcuni di loro, ho sempre creduto di scrivere in difesa del bene comune». Gli strali lanciati da Rossi contro la corruzione del sistema capitalista sono indirizzati non alla pretesa di aumento del profitto degli industriali, quanto piuttosto alle licenze, alle concessioni esclusive, ai favoritismi messi in atto dall’imprenditoria nel finanziamento dei giornali, dei partiti politici, delle campagne elettorali, consentendo a uomini di loro fiducia d'inserirsi nei gangli vitali delle istituzioni. Per poter cogliere l'autentico contributo politico-culturale fornito da Ernesto Rossi attraverso le sue riflessioni sulla situazione economica italiana, non è necessario interrogarsi se vi fu da parte sua una netta scelta di campo tra socialismo e liberalismo, bisogna piuttosto individuare il bersaglio polemico delle sue critiche: da un lato il regime individualistico che garantisce la proprietà privata su gran parte degli strumenti materiali di produzione, incurante della miseria diffusa in larghi strati della popolazione; dall'altro lato le sue critiche si rivolgono al monopolio statale di tutti i mezzi di produzione, alla burocratizzazione di tutta la vita economica.

Dunque, secondo Rossi, la molla propulsiva dell'economia deve essere rintracciata in un dinamismo economico che permetta di aumentare i mezzi materiali per la soddisfazione dei bisogni umani. Come afferma in Abolire la miseria: « L'eroe di questa grandiosa rivoluzione economica non è il "fedele servitore dello stato" mosso dal senso del dovere. È l'imprenditore, che non ha lo stipendio sicuro alla fine del mese, comunque vadano le cose; [...] è l'imprenditore, che costruisce la sua baracca sempre più avanti, se scopre la possibilità di un nuovo guadagno, dove neppure arriva la tutela della legge». Questo eroe è, dunque, colui che ha avuto l'audacia di avventurarsi in territori ancora inesplorati dai monopoli e che ha segnato le prime tracce di un cammino che ha poi permesso a tutta l'umanità di procedere sicura.

La questione "Federconsorzi" [modifica]

Un secondo ambito di attività di Ernesto Rossi nella lotta contro i monopoli parassitari fu la questione della Federconsorzi, ente statale che aveva ereditato dalla gestione ammassi, esercitata dal regime fascista durante la "battaglia del grano", e dal successivo periodo del tesseramento annonario, una struttura molto efficiente per l'importazione, lo stoccaggio e la distribuzione del grano.

Ernesto Rossi denunciò con fermezza che sotto la gestione di Bonomi questa stessa struttura era diventata una "macchina" per gestire il consenso delle campagne a favore di precise correnti della Democrazia Cristiana. La gestione ammassi lasciava, sempre a parere di Rossi, margini spropositati, a carico dei contribuenti e che erano impiegati per operazioni di corruzione politica.

Significativi in questo senso i titoli dei volumi pubblicati sull'argomento: La Federconsorzi e lo Stato e Viaggio nel feudo di Bonomi.

Il “Mondo” di Ernesto Rossi [modifica]

Attraverso la rivista «Il Mondo» è possibile offrire uno spaccato della prima repubblica compreso in un arco di tempo che si estende dal 1949 al 1966. «Il Mondo», come ricorda Antonio Cardini, «consente di osservare attraverso una privilegiata fonte un periodo di cui raccoglie e descrive come documenti le tensioni sociali, gli slanci economici, le istanze culturali, gli equilibri politici, gli sviluppi ideologici, le carenze istituzionali, le vicende di cronaca e di costume»[12].

Nel corso della sua attività di polemista ed intellettuale, Ernesto Rossi partecipa numerose testate giornalistiche – «L’Italia Libera», «L'Italia Socialista», «Corriere della sera», «La Stampa», «Il Giorno» - ma, il suo nome resterà indissolubilmente legato al «Il Mondo», diretto e fondato dall’intellettuale lucchese Mario Pannunzio. Quando nel febbraio 1949 esce il primo numero de «Il Mondo», lo sconcerto di Gaetano Salvemini nei confronti della nuova testata si fa presto sentire. Ancora esule in America scriverà a questo proposito a Rossi: «Temo che parteciperemo ad una nuova mistificazione, destinata a impedire il coagularsi di qualunque primo nucleo intorno a cui possa cristallizzarsi un movimento di sinistra non solo indipendente dai comunisti, ma anche e soprattutto ostile ai liberali di destra». Rossi prontamente replicherà: «La direttiva generale de «Il Mondo» è quella “terza forza”, né comunista, né repubblicana; presa di posizione ben netta contro il fascismo e la monarchia, critica nei confronti dei privilegi, delle camorre e degli sperperi. La nostra collaborazione (Altiero Spinelli, Ignazio Silone, Alessandro Levi, Cesare Musatti) spero riuscirà a dare anche al giornale un contenuto sempre più federalista»[13]. La prima sede del giornale era in via Campo Marzio, solo in seguitosi trasferiranno in via della Colonna Antonina, e gli unici in redazione a possedere una “stanza tutta per sé” sono Rossi e il direttore Mario Pannunzio. Da questo “salotto” privilegiato e separato dagli altri collaboratori Ernesto Rossi, per tredici anni, persegue la sua battaglia di critica costante della realtà presente: dal fascismo alla monarchia, dal monopolio dei “Grandi Baroni” dell’industria al Vaticano «la più grande forza reazionaria esistente in Italia».

(fine parte -1)

Cyrus
11-04-09, 21:00
Gli “Amici del Mondo” e il Partito Radicale – fondato dalla sinistra liberale nel 1955 – condividono, ad un primo sguardo, un orizzonte comune di problematiche, percorsi e obiettivi politico-sociali. Le istanze di maggior vicinanza sono ravvisabili, in primo luogo, nella necessità di abrogare talune leggi fasciste ancora presenti all’interno della nostra Costituzione, in seguito la realizzazione della Federazione europea, l’approvazione di leggi antitrust, la difesa di una cultura e di un pensiero laico soprattutto all’interno della scuola statale, “l’abolizione della miseria”, l’urgenza di normare gli ambiti relativi al divorzio e al riconoscimento dei figli illegittimi… Nel Taccuino. Il resto è silenzio, apparso nel dicembre 1955 su «Il Mondo», circa la comunione d’intenti tra uomini di salda cultura liberale – come Rossi, Riccardo Bauer, Aldo Garosci - e i “nuovi radicali” - Bruno Villabruna, Mario Pannunzio, Nicolò Carandini, Franco Libonati... – verrà scritto: «Accomunati dal vincolo fraterno delle amare esperienze non rassegnati, non perplessi, si accingono a costituire una nuova larga formazione politica che s’ispiri ad una concezione moderna e civile del liberalismo, a quella concezione che Benedetto Croce ebbe a definire ad una parola radicale [...] In questo campo, i padroni del vapore non troveranno certo mercenari e staffieri pronti a vender le idee per un assegno mensile»[14]. Durante il VII Congresso, svoltosi dal 9 all'11 dicembre 1955 al Palacongressi dell’Eur, gli “Amici del Mondo” – composti da un gruppo di secessionisti del PLI, da una frangia moderata (Villabruna, Olivetti, Carandini, Libonati) e da una parte più progressista che vedeva tra i suoi militanti Mario Pannunzio, Benedetti e Eugenio Scalfari - daranno inizio all’avventura del Partito Radicale. Rossi, in un primo momento, si mostra titubante circa l’adesione al Partito ma, in occasione della prima costituente – 20 gennaio 1956 - sarà egli stesso a cercare di convincere, in ambiente progressista, Giorgio Agosti e Manlio Rossi Doria ad aderire alla nuova iniziativa politica.

Sebbene il Partito Radicale si ponesse come alternativa alle forze politiche tradizionali, intendendo la democrazia in senso laico, socialista e riformista, contribuendo a sbloccare una situazione politica imbrigliata - come sosteneva Nicolò Carandini - tra il timore comunista da una parte e le istanze clericali dall'altra, e dunque mostrando caratteristiche che senza dubbio erano perfettamente aderenti al pensiero di Rossi, il suo atteggiamento iniziale di scarsa risolutezza può essere attribuito all'ostilità che aveva sempre nutrito nei confronti dei partiti politici "mere macchine per fabbricare deputati e senatori". In ogni caso sentiva la necessità di fare tutto ciò che era in suo potere per scalzare via la presenza sempre più invadente del clero all'interno della vita pubblica e di non lasciare ai comunisti questo arduo compito. Decide pertanto di entrare a far parte del Comitato Provvisorio, che avrebbe dato poi vita al Partito Radicale, insieme a Bruno Villabruna, Calogero, Eugenio Scalfari e Leo Valiani, rinunciando però alla proposta di entrare nella direzione del partito, affermando di provare disgusto nei confronti dei congressi e delle assemblee di partito. Contribuì alla stesura dei punti di orientamento del partito con "concretismo salveminiano" imprimendo la sua voglia di rinnovamento democratico del Paese contro le alleanze "clerico-fasciste aperte e mascherate".

La rottura del forte sodalizio tra Rossi e Mario Pannunzio, che si era cementato nel corso della loro reciproca collaborazione a «Il Mondo», avviene nel 1962 – a seguito della scissione interna al Partito fra gli alternativisti, coloro che intendevano costituire la “sinistra radicale” (Gianfranco Spadaccia, Marco Pannella, Roccella, Mellini, Angiolo Bandinelli, Massimo Teodori) e i filo-lamalfiani (Giovanni Ferrara, Stefano Rodotà, Piero Craveri) – lo stesso anno in cui il gruppo degli “Amici del Mondo” si lacera e vede scindersi dal suo interno personalità quali Pannunzio, Carandini e Cattani. A provocare la rottura definiva tra Rossi e Pannunzio fu in modo peculiare il "caso Piccardi". Lo storico Renzo De Felice aveva scoperto nel corso delle sue ricerche sul razzismo in Italia, che Leopoldo Piccardi, in qualità di consigliere di stato, aveva partecipato a due convegni giuridici italo-tedeschi destinati ad essere il luogo dell'elaborazione teorica delle leggi razziali. Mentre Pannunzio e altri “ Amici del Mondo” condannarono irrevocabilmente Leopoldo Piccardi, Rossi, che aveva sulle spalle anni di collaborazione con “l’amico del Mondo”, fu solidale, insieme a Ferruccio Parri, con Piccardi; Parri e Rossi avviano da quel momento un sodalizio intellettuale che li vede collaborare sulle colonne del settimanale "L' Astrolabio".

Gianfranco Spadaccia nel suo ritratto dedicato ad Ernesto Rossi “radicale” ricorda: «Noi, con la guida e la tenace ostinazione di Marco Pannella, invece raccogliemmo l’eredità organizzativa e politica del Partito Radicale ridotto ormai a poche decine di iscritti ma avemmo l’insperato sostegno di Elio Vittorini che accettò di esserne il presidente del consiglio nazionale. Anche con Ernesto ci fu dunque una separazione organizzativa. Il suo scetticismo nei confronti dello strumento partito fu rafforzato dalle vicende traumatiche che il PR aveva subito. Non vi fu mai invece separazione personale e dissenso politico»[15].

Note [modifica]

1. ^ E.Rossi, Il Manganello e l'aspersorio, Bari, Laterza, 1968
2. ^ E.Rossi, Il manganello e l'aspersorio", Bari, Laterza p. 10-11,1968
3. ^ Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi, Einaudi, Torino 1997, p. 19
4. ^ Carteggio Salvemini Rossi 1921-1925. L’amico dei giovani, «Il Mondo», gennaio 1960
5. ^ Cfr. E. Rossi, Pagine Anticlericali, Roma, Samonà e Savelli 1966, p.X.
6. ^ E. Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene 1939-1943, Feltrinelli, Milano 1981, pp.51-52
7. ^ E.Rossi, Il Sillabo e dopo, Kaos Milano 2000, p.17
8. ^ E.Rossi, Il Sillabo e dopo, Kaos Milano 2000, p.36
9. ^ Ernesto Rossi, Altiero Spinelli Manifesto di VentoteneVentotene, 1941
10. ^ L.Levi, Il “Manifesto di Ventotene” fra Rossi e Spinelli, in Lorenzo Strik Lievers, Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, cit., p. 105
11. ^ E. Rossi, Capitalismo Inquinato, a cura di R. Petrini prefazione di E. Scalfari, Laterza Roma-Bari 1993, p. IX
12. ^ A. Cardini, Il partito de «Il Mondo»: liberali, “terza forza”, sinistra democratica, radicali; in I partiti politici nell’Italia repubblicana, a cura di G. Nicolosi, Rubbettino 2006, pp. 313-314
13. ^ Cfr., Giuseppe Fiori, Una Storia italiana, p.247
14. ^ Cfr., Giuseppe Fiori, Una Storia italiana, p.260
15. ^ Gianfranco Spadaccia, Ernesto Rossi, un radicale, in Lorenzo Strik Lievers, Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, cit., p. 178

Fonti [modifica]

* Nello Ajello, Ernesto Rossi. Il sogno europeista di un pazzo malinconico, La Repubblica, 11 gennaio 2007.

* Guido Gentili, Rileggiamo Rossi sugli intrecci politico-economici, Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2007.

* Quando a Ernesto Rossi non piaceva J. F. Kennedy, La Voce Repubblicana, 24 gennaio 2007.

* Pier Vincenzo Uleri, A proposito di commemorazioni, celebrazioni e ricordi di Ernesto Rossi. In riferimento a una lettera di Angiolo Bandinelli…, Notizie Radicali, 12 febbraio 2007.

* Gualtiero Vecellio, Le lettere di Ernesto Rossi, il più politico di tutti, Notizie Radicali, 12 febbraio 2007.

Bibliografia [modifica]

Opere di Ernesto Rossi [modifica]

* Rossi Ernesto (a cura), No al fascismo, Torino 1957
* Rossi Ernesto (a cura), Sillabo, Parenti, Firenze 1957
* Rossi Ernesto, A.De Viti De Marco uomo civile, Laterza, Bari 1948
* Rossi Ernesto, Abolire la miseria, Laterza, Bari 1977
* Rossi Ernesto, Aria fritta, Laterza, Bari 1956
* Rossi Ernesto, Banderillas, Ediz. La Comunita', Milano 1947
* Rossi Ernesto, Borse e borsaioli, Laterza, Bari 1961
* Rossi Ernesto, Capitalismo inquinato (a cura di R.Petrini, prefazione E.Scalfari), Laterza, Bari 1993 [raccolta di alcuni articoli di Rossi su "Il Mondo" gia' pubblicati in: Settimo non rubare, e Il Magoverno.
* Rossi Ernesto, Critica del capitalismo, Ediz. La Comunita', Milano 1948
* Rossi Ernesto, Critica del sindacalismo, La Fiaccola, Milano 1945
* Rossi Ernesto, Critica delle costituzioni economiche, Ediz. La Comunita', Milano 1965
* Rossi Ernesto, Elettricità senza baroni, Laterza, Bari 1962
* Rossi Ernesto, Elogio della galera, lettere dal carcere 1930-1943, Laterza, Bari 1968
* Rossi Ernesto, Guerra e dopoguerra. Lettere (1915-1930). A cura di G. Armani, Nuova Italia, Firenze 1978
* Rossi Ernesto, I nostri quattrini, Laterza, Bari 1964
* Rossi Ernesto, I padroni del vapore, Laterza, Bari 1955
* Rossi Ernesto, Il Malgoverno, Laterza, Bari 1954 [raccolta completa degli articoli apparsi su "Il Mondo" e "Stato Socialista" (1950-1954)]
* Rossi Ernesto, Il manganello e l'aspersorio, Parenti, Firenze 1958 [anche: Laterza, Bari 1968]
* Rossi Ernesto, Il Sillabo e dopo, Editori Riuniti, Roma 1965
* Rossi Ernesto, Io e Garibaldi. A cura di G. Armani, Tecnostampa, Reggio Emilia 1982
* Rossi Ernesto, L'Europa di domani. In: Federazione Europea ...., Firenze 1948
* Rossi Ernesto, L'Europe de demain, Movimento Federalista Europeo, Roma 1948
* Rossi Ernesto, La Federconsorzi e lo Stato, Nuova Italia, Firenze 1963
* Rossi Ernesto, Viaggio nel feudo di Bonomi, Editori Riuniti, Roma 1965
* Rossi Ernesto, La pupilla del Duce, Guanda, Bologna 1956 [l'O.V.R.A.]
* Rossi Ernesto, Lo Stato cinematografaro, Parenti, Firenze 1959
* Rossi Ernesto, Lo stato industriale, Laterza, Bari 1953
* Rossi Ernesto, Miseria e splendori del confino di polizia. Lettere (1939-1949), Feltrinelli, Milano 1981
* Rossi Ernesto, Non mollare, Firenze 1955
* Rossi Ernesto, Padroni del vapore e fascismo, Laterza, Bari 1966
* Rossi Ernesto, Pagine anticlericali, Samonà e Savelli, Roma 1966
* Rossi Ernesto, Salvemini il non conformista, Tecnostampa, Reggio Emilia 1971
* Rossi Ernesto, Settimo: non rubare, Laterza, Bari 1953 [raccolta completa degli articoli apparsi su "Il Mondo" (1949-1952)]
* Rossi Ernesto, Un democratico ribelle. Cospirazione antifascista, carcere, confino. Scritti e testimonianze a cura di G. Armani, Guanda, Parma 1975
* Rossi Ernesto, Viaggio nel feudo di Bonomi, Editori Riuniti, Roma 1965 [Federconsorzi]

Bibliografia su Ernesto Rossi [modifica]

* Gian Paolo Nitti Appunti bio-bibliografici su Ernesto Rossi, in Il movimento di liberazione in Italia, nn.86-87, gennaio-giugno 1967.
* Gaetano Pecora Ernesto Rossi: un maestro di vita e di pensiero, in Uomini della democrazia (ESI, Napoli 1986)
* AA.VV. Ernesto Rossi. Una utopia concreta, a cura di Piero Ignazi (Comunità, Milano 1991); la godibile biografia di Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi (Einaudi, Torino 1997).
* Livio Ghersi, Ernesto Rossi, in "Pratica della libertà", Anno I, numero 4, ottobre-dicembre 1997.
* Giuseppe Fiori, Una storia italiana - Vita di Ernesto Rossi -, Einaudi Torino 1997

Recenti pubblicazioni e ri-pubblicazioni [modifica]

* «Ernesto Rossi, Nove anni sono molti – Lettere dal carcere 1930-39», Torino, Bollati e Boringhieri, 2001, nuova edizione delle lettere dal carcere. [Un altro epistolario era stato curato da Manlio Magini e pubblicato dalla casa editrice Laterza con un titolo che è certamente caro ai meno giovani come chi scrive «Elogio della galera – Lettere 1930/1943», Bari, 1968.]
* «Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini, Dall'esilio alla Repubblica – Lettere 1944-1957», Torino, Bollati e Boringhieri, 2004.
* «"Non Mollare" (1925) – Riproduzione fotografica – Con saggi di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei», Torino, Bollati e Boringhieri, 2005 (la prima edizione era stata pubblicata a Firenze da La Nuova Italia).
* «Ernesto Rossi, Una spia del regime», Torino, Bollati e Boringhieri, 2000.
* «Ernesto Rossi, Il manganello e l'aspersorio, Milano, Kaos, 2000.
* «Ernesto Rossi, Nuove pagine anticlericali, Milano, Kaos, 2002.
* «Ernesto Rossi, Settimo: non rubare; Milano : Kaos, 2002.

* Antonella Braga, «Un federalista giacobino – Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d'Europa», Bologna, il Mulino, 2007.
* Simonetta Michelotti, « Ernesto Rossi contro il clericalismo. Una battaglia per la democrazia liberale», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.
* Giuseppe Armani, La forza di non mollare: Ernesto Rossi dalla grande guerra a Giustizia e libertà, Milano, Franco Angeli, 2004 (presentazione di Arturo Colombo).

Cyrus
11-04-09, 21:09
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OPERE DI ERNESTO ROSSI
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Ernesto Rossi
IL SILLABO E DOPO
Pagg. 240 – Euro 14,46 – ISBN 88-7953-092-5

Questo libro documenta un secolo di dogmi cattolici contrari a tutte le libertà: dal Sillabo di Pio IX (dicembre 1864), fino all’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI (agosto 1964), raccoglie una polemica antologia di documenti papali avversi alle “libertà moderne”. «Appartengo alla sparutissima schiera di coloro che credono ancora sia dovere di ogni uomo civile prendere la difesa dello Stato laico contro le ingerenze della Chiesa in Parlamento, nella scuola, nella pubblica amministrazione». A cura di Giuseppe Armani.

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Ernesto Rossi
I PADRONI DEL VAPORE
Pagg. 353 – Euro 18,08 – ISBN 88-7953-101-8

La prima analisi storica della politica economica che il fascismo, arrivato al potere anche grazie alla Confindustria, sviluppò durante il Ventennio. Le responsabilità dei Grandi Baroni dell’industria e della finanza nell’avvento e nel consolidamento del potere mussoliniano, e le loro operazioni predatorie all’ombra della dittatura «finanziando giornali, corrompendo uomini politici e alti burocrati ministeriali»: intese monopolistiche, consorzi autarchici, crediti di favore e sussidi, esenzioni fiscali, commesse statali a prezzi maggiorati, salvataggi di imprese dissestate, materie prime sottocosto, eccetera. A cura di Mimmo Franzinelli.

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Ernesto Rossi
IL MANGANELLO E L’ASPERSORIO
Pagg. 361 – € 18,08 – ISBN 88-7953-094-1

Le collusioni fra il Vaticano e il regime fascista nel Ventennio: il sostegno della Santa sede a Mussolini (considerato “l’uomo della Divina Provvidenza”), i retroscena finanziari dell’intesa concordataria, la benedizione della “guerra santa” del Fascio in Abissinia, le radici cattoliche del pregiudizio antiebraico... «Il Vaticano è il naturale alleato di tutti i regimi tirannici che comunque riescano ad affermarsi nel mondo, purché siano rispettosi delle cosiddette “libertà della Chiesa”». A cura di Mimmo Franzinelli.

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Ernesto Rossi
UN DEMOCRATICO RIBELLE
Pagg. 409 – € 19,63 – ISBN 88-7953-105-0

La dimensione umana e intellettuale di Ernesto Rossi antifascista, attraverso lettere, testimonianze, documenti storici. Gli anni della guerra, dell’opposizione antifascista, del carcere e del confino, in una biografia per frammenti. Con gli scritti che Rossi dedicò ai suoi maestri nel Dopoguerra: in primo luogo a Gaetano Salvemini, poi ai fratelli Rosselli, Riccardo Bauer, Eugenio Colorni, Luigi Einaudi, Vittorio Foa, Ferruccio Parri, ecc. Con una testimonianza di Massimo Mila, e un’intervista a Ada Rossi. A cura di Giuseppe Armani.

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Ernesto Rossi
NUOVE PAGINE ANTICLERICALI
Pagg. 525 – € 20,00 – ISBN 88-7953-107-7

Le celebri Pagine anticlericali (dedicate al pontificato di Pio XII, ai Patti lateranensi, ai privilegi fiscali per le finanze vaticane, all’ingerenza confessionale nella scuola pubblica, all’influenza elettorale del clero, agli opportunismi delle Sinistre verso la Santa sede, ecc.), sono qui riproposte e integrate con nuovi scritti di Rossi dedicati al tema dei rapporti Stato-Chiesa. Rapporti che «attraverso la Democrazia cristiana hanno ridotto il nostro Paese a una repubblica papalina». Prefazione di Alessandro Galante Garrone. A cura di Mimmo Franzinelli.

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Ernesto Rossi
SETTIMO: NON RUBARE
Pagg. 514 – € 20,00 – ISBN 88-7953-110-7

La battaglia di Rossi nel primo Dopoguerra italiano per la moralizzazione e la trasparenza dell’economia nazionale. Una serrata denuncia delle scorribande dei potentati economici e del padronato nei “pascoli pubblici”, con la connivenza della classe politica e dell’alta burocrazia statale. «C’è il fastidio della libertà di stampa, ma è una seccatura da poco. Dov’è la stampa indipendente in Italia? I quattrini per finanziare i giornali li hanno soltanto i grandi industriali...». Con uno scritto di Gaetano Salvemini. A cura di Mimmo Franzinelli.

Cyrus
11-04-09, 21:11
Ernesto Rossi (1897-1967)
Pubblicato da Casa Memoria su Novembre 17, 2008


Nel 1924 dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, i pestaggi di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, che procurarono la morte di entrambi e dopo tutte le nefandezze criminali di cui si rese colpevole il partito fascista, Mussolini, capo del governo per incarico del Re, abolì le libertà politiche sopprimendo la stampa d’opposizione, sciogliendo i partiti, vietando gli scioperi, istituendo i tribunali speciali e il confino di polizia.

Con la guida morale e intellettuale di Gaetano Salvemini nel 1925 Ernesto Rossi, Carlo e Nello Rosselli, Nello Traquandi, Tommaso Ramorino e Luigi Emery, fondarono la rivista clandestina Non mollare. La rivista antifascista ebbe gloriosa ma breve vita. A causa di una delazione Ernesto Rossi fu arrestato, Salvemini riuscì a espatriare e Carlo Rosselli si trasferì nascostamente a Milano a continuare la lotta.

La vita di Ernesto Rossi fu una intransigente avversione alla dittatura fascista pagata con nove anni di galera e quattro di confino. Al confino in piena guerra nel 1942 redasse con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni il Manifesto di Ventotene gettando le basi della Federazione degli Stati Uniti europei.

Nel dopoguerra Ernesto Rossi fu sottosegretario nel governo di Ferruccio Parri e presidente dell’A.R.A.R. (Azienda per il Rilievo e l’Alienazione dei Residuati bellici). Tale Azienda ha procurato provvidenziali utili allo stato italiano in un momento particolarmente difficile. Ernesto Rossi rinunziò ai vantaggi economici che la sua carica prevedeva e volle equiparare il suo stipendio a quello più modesto degli insegnanti scolastici. Dopo avere assolto al suo mandato l’A.R.A.R., a differenza di tanti enti inutili sopravvissuti per motivi di clientela politica, venne sciolta definitivamente. Questo comportamento è significativo della personalità e dello stile dell’uomo.

Fu tra i fondatori del movimento clandestino “Giustizia e Libertà” e dopo del Partito d’Azione.

Era professore di economia politica. Liberale in politica e liberista in economia. Il suo liberismo, sulle orme di Adamo Smith, era contrario ai monopoli verso i quali indirizzava i suoi strali. Tuttavia non era scevro da aperture sociali, basti leggere il suo libro Aboliamo la miseria.

Inoltre nel suo interessante libro I padroni del vapore denunzia la commistione tra economia e politica. Restano famose le sue battaglie contro la corruzione e le sofisticazioni alimentari dei grossi gruppi industriali.

Si dedicò con passione e collaborò alla rivista Il Mondo di Pannunzio, un settimanale che resta una pietra miliare e luminosa del giornalismo italiano. Successivamente scrisse molti articoli e saggi su L’Astrolabio di Ferruccio Parri.

In una Italia viziata nelle radici ataviche e storiche, una delle virtù di Rossi, in sintonia con Piero Gobetti (Autobiografia della nazione), è stata l’intransigenza morale. Il rinnovamento morale dell’Italia devastata dalla guerra moralmente e materialmente dal fascismo era per gli azionisti la priorità assoluta.

A seguito di una malattia allo stomaco contratta nei lunghi anni di detenzione nelle carceri morì nel 1967 a Roma.

Quella di Ernesto Rossi, con la moglie Ada, è stata una rivolta civile contro la dittatura, un esempio di rigore morale, una vita dedicata alla libertà.

Vittorio Cimiotta

Cyrus
11-04-09, 21:12
24, 26, 27 e 28 ottobre 2007 Verbania Convegno
ERNESTO ROSSI (1897 - 1967).
UNA VITA PER LA LIBERTÀ

Economista, storico, polemista, giornalista d’inchiesta tra i più efficaci, Ernesto Rossi(1897-1967) fu tra i fondatori del movimento di “Giustizia e Libertà”. Arrestato con Riccardo Bauer, pagò la sua opposizione al fascismo con nove anni di galera (tra i quali uno scontato nel carcere di Pallanza) e quattro di confino sull’isola di Ventotene, dove elaborò con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni il Manifesto per un'Europa libera ed unita (1941). Per lui Gaetano Salvemini, conosciuto nel 1919, finì per sostituire la figura paterna; e l’affetto era ricambiato: «Se avessi mai potuto fabbricarmi un figlio su misura, me lo sarei fabbricato pari pari come te», gli scriveva Salvemini. Rossi fu anche legato da rapporti di stima e amicizia a Carlo e Nello Rosselli, con i quali aveva già condiviso l’esperienza della pubblicazione clandestina del «Non mollare», a Firenze, nel 1925. Con Altiero Spinelli fu tra i fondatori del Movimento federalista europeo (1943) e ne promosse le battaglie in favore della federazione europea durante gli anni dell’esilio svizzero (1943-1945) e nel dopoguerra, sino all'abbandono dell'attività federalista nel 1954, dopo la delusione per la sconfitta del progetto di costituente europea legato alla CED (Comunità europea di difesa). Sottosegretario alla Ricostruzione nel governo Parri, per più di un decennio, dal 1945 al 1958, Rossi fu presidente di un ente pubblico di primaria importanza nell’economia dell’immediato dopoguerra, l’Azienda per il Rilievo e l’Alienazione dei Residuati bellici (ARAR), incarico che egli ebbe da Ferruccio Parri e nel quale fu confermato da Alcide De Gasperi. L’ARAR fu un caso più unico che raro di ente pubblico che produceva consistenti utili per le finanze dello Stato e che si autoliquidò quando concluse il proprio mandato. Nel dopoguerra Rossi divenne paladino di un’Italia laica, liberale, più civile, combattendo numerose battaglie contro la commistione tra economia e politica, il potere monopolistico della grande industria e dell’altra finanza, la corruzione amministrativa, il conservatorismo delle corporazioni sindacali e le ingerenze clericali nello Stato. Nel dicembre del 1955, Rossi fu tra i fondatori del Partito Radicale. Contemporaneamente si dedicò alla ricerca e al giornalismo d'inchiesta sul «Mondo». Dal 1963 svolse la sua attività di pubblicista su “L’Astrolabio” di Ferruccio Parri. Morì a Roma il 9 febbraio del 1967.

Cyrus
11-04-09, 21:13
APERTO IL CONVEGNO SU ERNESTO ROSSI
Repubblica — 19 maggio 1984 pagina 6 sezione: POLITICA INTERNA

MILANO (s.g.) - Alla presenza del sindaco Carlo Tognoli si è aperto ieri pomeriggio il convegno "Utopia e riforme: l' insegnamento di Ernesto Rossi alla prova degli anni ' 80" promosso dal circolo "Il Politecnico" e della rivista "Critica liberale". Minuta, bianca di capelli, vivace, la vedova di Ernesto Rossi, Ada, ha letto il messaggio inviatole per l' occasione da Sandro Pertini che non ha ricordato solo il ruolo di Rossi in alcuni cruciali momenti della vita della nazione, ma anche la sua generosità d' animo, la raffinata arguzia, la cultura. E' poi seguita la prolusione di Alessandro Galante Garrone che di Rossi è stato compagno di lotte politiche e amico e ha quindi saputo ricostruire con affetto ed eleganza la figura di Rossi a metà tra il pubblico e il privato. Spiegando il modo in cui le qualità umane ricordate da Sandro Pertini hanno interagito con la passione politica e civile durante tutta la vita di Rossi. L' antifascista di maniera diventava, nelle parole di Galante Garrone, il giovane uomo uscito dallo smarrimento seguito alla prima guerra mondiale grazie al senso dell' umorismo e al fondamentale incontro con Salvemini. Il grande nemico dei "Padroni del vapore" mostrava il volto dell' estimatore di Luigi Einaudi: le sue discussioni, diceva Rossi, anche se vertevano sui dazi e le imposte erano sempre discussioni sul Giusto e sul Vero. Parlando delle straordinarie doti di scrittura di Rossi, che ne fecero un grande giornalista, Galante Garrone ha precisato che la chiarezza, in lui, "aveva prima di tutto una radice morale, scaturiva dalla limpidezza non solo della mente ma anche della coscienza". Il convegno riprende questa mattina con le relazioni di Giorgio Fuà e Angiolo Bandinelli.

Cyrus
11-04-09, 21:16
libri. il " Capitalismo inquinato "
le prediche al vento di Ernesto Rossi
Ernesto Rossi autore del libro " capitalismo inquinato " a cura di Roberto Petrini con prefazione di Eugenio Scalfari edito da LATERZA

------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ LIBRI Il "Capitalismo inquinato" TITOLO: Le prediche al vento di Ernesto Rossi - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Ernesto Rossi e' uno dei padri della nostra Repubblica, fondatore di Giustizia e Liberta' e collaboratore del settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio. Nel ricostruire personaggi importanti del tempo recente della nostra Repubblica non si riesce sempre da parte delle giovani generazioni a valutarne le radici storiche, e ne viene talvolta fuori un' immagine deformata. Non e' il caso di Roberto Petrini, che ha raccolto in una bella antologia gli scritti di Ernesto Rossi ne Il Mondo. C' era il rischio di presentarlo soprattutto come un agitatore politico, un moralista, un polemista. Egli era, invece, uno studioso molto serio di economia, uno degli allievi migliori di Luigi Einaudi. Mentre Einaudi, di cui si dovrebbero rileggere le "Prediche inutili", interveniva a grande livello scientifico, Ernesto Rossi ha tentato di applicare le sue idee nella lotta politica che conduceva con libri e articoli contro le disfunzioni del sistema capitalistico italiano, dominato da monopoli o oligopoli (ricordiamo alcuni titoli: "Settimo non rubare"; "Il malgoverno"; "Aria fritta"; "I nostri quattrini", pubblicati tra il ' 52 e il ' 58). Rossi sosteneva in realta' le stesse tesi degli economisti classici, e i suoi libri, come l' epistolario tra lui ed Einaudi, dovrebbero essere riletti in questa luce. Nella societa' italiana, come oggi stiamo constatando, gli insegnamenti di coloro che passavano per conservatori, ma che avevano dirittura morale e amavano il Paese, sono stati distorti. Oggi si parla tanto della situazione economica italiana, condizionata dal consociativismo tra destra e sinistra, dallo statalismo e dal privilegio di enti pubblici, ma Ernesto Rossi aveva gia' spiegato come questi fossero mezzi di sfruttamento dei cittadini e dei consumatori. Egli denunciava la pubblica amministrazione che non funzionava, i consorzi della canapa o quelli delle banane, e altre forme di deformazione del mercato. Era un uomo di grande vivacita' intellettuale e di grande spirito che, oltre ad aver avuto un passato di combattente politico durante la Resistenza, aveva scontato tredici anni di prigione sotto il fascismo. A lui si devono alcune definizioni fulminanti, come quella sul Piano Marshall, che all' inizio era chiamato Erp: in un bell' articolo egli parlo' degli "erpivori", riferendosi appunto agli enti, ai partiti, ai personaggi che se lo sarebbero appunto mangiato come gli erbivori mangiano l' erba. Un' altra famosa battuta di Ernesto Rossi riguardava l' Iri, definito "l' ospizio degli insanabili". Ernesto Rossi ha fatto delle battaglie isolate con le sue polemiche ne Il Mondo. Il blocco comunista non era capace di aderire alle sue idee e continuava a pensare allo statalismo in una maniera legata alla visione dell' Unione Sovietica. Il dramma di uomini come lui e' proprio quello di avere avuto una sinistra incapace di capire il moderno e una destra parassitaria e clientelare. C' e' una pagina della prefazione al suo libro "Settimo non rubare" che e' di un' attualita' folgorante ancora oggi, ne riferiamo una frase: "Il capitalismo italiano vuole le concessioni senza gare possibilmente gratuite, quelle delle risorse naturali: acqua, miniere, giacimenti petroliferi che sono patrimonio di tutta la collettivita' nazionale, la costruzione di impianti privati con i quattrini dei contribuenti e con i prestiti garantiti dallo Stato, la eliminazione di tutti i vincoli e di controlli sulla vendita dei servizi di pubblica utilita' , la conservazione all' Iri delle aziende bacate e la restituzione al capitale privato delle aziende sane, il trasferimento allo Stato di tutti i bubboni abbandonati nel suo impetuoso cammino dall' iniziativa privata, il ritorno nelle mani dei privati dei grandi istituti di credito che prima consentivano di attingere liberamente nella massa dei depositi per speculazioni in Borsa, gli investimenti industriali a lungo termine". E si potrebbe continuare a lungo. Sembra fotografato il modo come si affrontano oggi i problemi economici e sociali del nostro Paese. Ernesto Rossi e' sempre attuale. ERNESTO ROSSI Capitalismo inquinato a cura di Roberto Petrini prefazione di E. Scalfari Editore Laterza Pagine 252, lire 25.000

Russo Giovanni


Pagina 27
(24 gennaio 1994) - Corriere della Sera

Cyrus
11-04-09, 21:17
Ernesto Rossi / Abolire la miseria


L'intuizione di Ernesto Rossi


di Marco Maria Sigiani


Abolire la miseria
di Ernesto Rossi
Roma-Bari, Laterza 2001
pp. 258, euro 15


Nella sua introduzione alla recentissima ristampa dell’ormai classico Abolire la miseria di Ernesto Rossi (Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 244, 15 euro) Paolo Sylos Labini – pensando a quanti sono oggi partecipi dell’avventura berlusconiana, scrive che di questi tempi “si definiscono liberali in gran parte quelli che non lo sono”. Tuttavia, sessant’anni dopo la stesura, sarebbe riduttivo trasferire il testo di Rossi nella politique d’abord dell’Italia del 2002.

Il significato più profondo del libro si chiarisce meglio ripercorrendone la storia. Pubblicato nel 1946 a Milano, il testo era stato scritto quattro anni prima, nel 1942, in uno dei luoghi sacri della nuova Europa: l’isoletta di Ventotene. Lì Ernesto Rossi era stato confinato dal regime fascista in ottima compagnia: Eugenio Colorni, Altiero Spinelli, Sandro Pertini… Sono i nomi che compaiono in calce all’ormai leggendario “Manifesto di Ventotene”, nel quale si prospettavano le ragioni dei futuri Stati Uniti d’Europa. Considerato da Luigi Einaudi come il suo migliore discepolo, Rossi era innanzitutto un economista, ma era anche un liberale autentico. La tesi centrale del libro resta solidamente attuale: la miseria non è il risultato necessario del sistema capitalistico, ma proprio per questo occorre tenere i capitalisti lontani dalla tentazione di credere che la povertà di alcuni strati della popolazione sia la condizione dello sviluppo economico generale, oltre che delle loro private fortune. Bisogna dunque avere il coraggio di predisporre un programma per abolire la miseria.


Il confinato di Ventotene scrive in stretta contemporaneità al celeberrimo piano Beveridge (che è appunto del 1942); pur essendo consapevole di tali sviluppi inglesi (era riuscito a leggere in carcere il libro di Beveridge sulla disoccupazione pubblicato nel 1935), Rossi se ne distacca nettamente per la motivata diffidenza nei confronti di qualsiasi sussidio monetario, preferendo un sistema di beni e servizi “in natura” che avrebbe dovuto coprire tutti i bisogni fondamentali: nutrimento, alloggio, vestiario, sanità, istruzione.



La produzione di questi beni essenziali dovrebbe essere garantita da uno speciale “servizio del lavoro” di due anni , obbligatorio per tutti i cittadini. Sul piano teorico bisogna almeno citare l’americano Bellamy che aveva avanzato, decenni prima, idee simili in un libro diventato molto popolare negli Stati Uniti.

In questa breve segnalazione non ci dilungheremo a trattare i molti aspetti di grande interesse del libro di Ernesto Rossi, ma vogliamo almeno sottolineare la grande modernità dell’enfasi posta sul significato economico dell’istruzione. Rossi identifica nel sistema formativo la cellula riproduttiva delle disuguaglianze fondamentali della società, anticipando i movimenti studenteschi che scuoteranno il mondo negli anni 60. Egli si chiede, ad esempio, come mai un professore universitario o un ingegnere possano ottenere un reddito di gran lunga superiore a quello di un lavoratore manuale non qualificato, pur svolgendo un’attività gratificante e di prestigio, due elementi che perciò dovrebbero entrare nel calcolo delle rispettive funzioni di utilità in base ai presupposti classici dell’economia politica. La risposta è secca: il lavoratore intellettuale spunta condizioni privilegiate perché fruisce di una posizione di monopolio nella distribuzione del sapere, garantita dalla struttura scolastica esistente. Occorre perciò abolire da una parte il ricatto della miseria e dall’altra il monopolio dei ceti dominanti nel settore educativo.

Anche se la sorte ha voluto che Ernesto Rossi non riuscisse più a riprendere in mano il suo testo del 1942, come egli desiderava, i brani dedicati alla scuola recano le tracce di una ricerca profonda, nella quale ciò che più tardi verrà chiamato “diritto allo studio” è considerato come premessa necessaria ma insufficiente. In altri termini, il problema della scuola non si lascia ridurre alla questione dei mezzi economici necessari per garantire a tutti un accesso all’istruzione. Contenuti e modalità della didattica sono altrettanto importanti. Questa banalità di base è spesso ripetuta come una giaculatoria, ma dimenticata nella pratica politica e culturale, dove predomina una “contabilità” finanziaria e pseudomanageriale del tutto slegata da obiettivi di efficienza generale.

L’economia del sapere è qualcosa di diverso dalla ragioneria dello Stato: un cultore di scienza delle finanze come Ernesto Rossi lo sapeva bene. Almeno questa lezione andrebbe oggi riletta attentamente.

(Rassegna sindacale, n. 14, aprile 2002)

Cyrus
11-04-09, 21:19
Comune fRS FONDAZIONE
di Firenze ERNESTO ROSSI
GAETANO SALVEMINI

Sabato 23 febbraio 2008

ore 10.30 - Centro Anziani - Viale Ugo Bassi, 29
Lettere di Elide e Ernesto con Antonella Braga, Elena Croce e Daniele Lamuraglia

ore 12 - Via delle Cento Stelle 48
Cerimonia d’inaugurazione della lapide

ERNESTO ROSSI
ECONOMISTA, POLITICO, GIORNALISTA
ESPONENTE DI GIUSTIZIA E LIBERTA’
SOSTENUTO DALLA MADRE ELIDE VERARDI
FECE DI QUESTA CASA LUOGO DI LOTTA ANTIFASCISTA
AL PREZZO DI CARCERE, CONFINO ED ESILIO

Interverranno:

Cristina Bevilacqua, Assessore Comune di Firenze
Alessandro Figà Talamanca, Fondazione Rossi-Salvemini
Gianluca Paolucci, Presidente Quartiere 2
Piero Piccardi, via delle Cento Stelle 48
Valdo Spini, Fondazione Circolo Rosselli

La famiglia Rossi si trasferì della casa di via delle Cento Stelle 48 nella primavera del 1929. Elide Verardi (Bologna 1870 - Firenze 1957) vi abitò fino al 1938. Fu la destinataria di circa 500 lettere dal figlio in carcere, parzialmente raccolte in Elogio della Galera (1968, 1997) e Nove anni sono molti (2001). Una scelta di pagine dalle lettere della madre fu pubblicata nei Quaderni del Ponte (Lettere a Ernesto, 1958).

Nell’ultima lettera al figlio, 29 marzo 1945:
“Non è davvero il caso di rallegrarci della presente situazione, perché ancora troppi fascisti ammorbano l’aria: a furia di raccomandazioni o dopo aver voltato la giubba nell’ultimo anno, moltissimi sono riusciti a infiltrarsi anche nei partiti che si avrebbe diritto di pretendere fossero composti di persone per bene e conscie di adempiere al più sacro dei doveri: quello di non tradire le speranze che sono state riposte in noi. Per mia disgrazia, sono un’intransigente, e vorrei che ognuno dei nostri comprendesse di quali responsabilità ci siamo dovuti caricare le spalle. Ora più che mai il nostro motto dev’essere: non mollare.”

Ernesto Rossi (Caserta 1897 - Roma 1967) fu antifascista nell’Italia fascista, laico ed anticlericale nell’Italia democristiana, critico implacabile dei “padroni del vapore”, l’oligarchia della grande industria e dell’alta finanza che nel nostro Paese ha prosperato con la “politica della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite“.

Fu, coerentemente, anticomunista, quando il PCI era inserito in un sistema che faceva capo all’Unione Sovietica. Cresciuto e formatosi a Firenze, si considerò sempre fiorentino; nel 1915 prese la licenza liceale al “Galileo”. Volontario nel 1916, “non interventista intervenuto”, mutilato, nel 1919 conobbe Salvemini al Circolo di Cultura e, per suo mezzo, i Rosselli, Calamandrei e molti altri amici.

Nel 1920 si laureò in giurisprudenza all’Università di Siena. Negli anni 1920 e 1921 lavorò nell’Italia meridionale con Zanotti Bianco, all’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno. Segretario dell’Associazione agraria di Firenze, diresse fino al 1925 anche Il giornale degli agricoltori toscani, nel quale pubblicò scritti di economia agraria e finanziaria, ispirati ai maestri Pareto e Einaudi.

Negli anni 1924 e 1925 fu incaricato dell’insegnamento di materie economiche nell’Istituto Tecnico di Firenze. Dopo l’assassinio di Matteotti, fu con Bocci, Rochat, Rosselli, Traquandi e Vannucci tra i dirigenti di Italia Libera, associazione segreta fra ex combattenti antifascisti, ed aderì all’Alleanza Nazionale diretta da Giovanni Amendola.

Insieme a Salvemini, ai Rosselli, a Traquandi, Pilati e agli altri amici fiorentini, pubblicò e diffuse il primo giornale clandestino d’Italia, il Non mollare. Denunciato dal tipografo Pinzi, nel giugno 1925 si rifugiò in Francia. Quattro mesi dopo, nascosto dal comunissimo cognome, concorse ad una cattedra di materie economiche, riuscendo primo. Scelse di insegnare a Bergamo, per continuare l’attività cospirativa.

Nel 1929, con Parri, Rosselli, Salvemini, Lussu, Bauer, Tarchiani, fu tra i fondatori del movimento repubblicano antifascista Giustizia e Libertà e rimase nel comitato direttivo di tale organizzazione segreta fino al suo arresto. Dal 1925 al 1930 collaborò a Riforma Sociale, diretta da Einaudi, ed alla stampa clandestina di GL.

Il 30 ottobre 1930, venduto da Del Re, fu arrestato con tutti i capi in Italia di GL. Trascorse 9 anni nei reclusori di Pallanza (dove il 24 ottobre 1931 sposò civilmente Ada Rossi, sua collega nell’Istituto tecnico di Bergamo), di Piacenza e di Roma (dove fu trasferito nel 1933 dopo un terzo tentativo di fuga). Alla fine del 1939 fu assegnato al confino per un periodo di cinque anni.

Autore con Spinelli e Colorni del “Manifesto per un’Europa libera ed unita”, scritto nel 1941 a Ventotene, promosse le battaglie del Movimento federalista europeo durante gli anni dell’esilio svizzero (1943-1945) e fino al 1954, con la sconfitta del progetto di costituente legato alla Comunità europea di difesa.

Dal 1945 al 1958 è presidente dell’Azienda Rilievo Alienazione Residuati, incarico ricevuto da Parri e confermato da De Gasperi. Nell’Italia dei furbi, Rossi chiede che la sua indennità non sia superiore allo stipendio di docente; l’ARAR è protagonista della ricostruzione e della ripresa economica ed è rimasta esempio di buon governo. Dal 1949 al 1962 è l’editorialista e il giornalista d’inchiesta de Il Mondo.

Nel dicembre del 1955 è tra i fondatori del Partito Radicale, insieme a Leo Valiani. Dal 1957 al 1962 dirige la collana “Stato e Chiesa”, per l’editore Parenti. Dopo la morte di Salvemini, nel settembre del 1957, ne promuove e segue l’edizione completa delle Opere, presso l’editore Feltrinelli. Nel 1962 è tra i fondatori del “Movimento Gaetano Salvemini” e del settimanale L’Astrolabio, al quale collabora attivamente.

Nel 1966 è insignito dall’Accademia dei Lincei del premio “Francesco Saverio Nitti” per i suoi studi di politica economica e di scienza delle finanze. Muore a Roma, in seguito ad un intervento chirurgico, il 9 febbraio 1967.

Cyrus
11-04-09, 21:20
..OPERE DI ERNESTO ROSSI
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Ernesto Rossi
NUOVE PAGINE ANTICLERICALI
Pagg. 525 – € 20,00 – ISBN 88-7953-107-7



Le celebri Pagine anticlericali (dedicate al pontificato di Pio XII, ai Patti lateranensi, ai privilegi fiscali accordati alle finanze del Vaticano, all’ingerenza confessionale nella scuola pubblica, all’influenza elettorale del clero, agli opportunismi delle Sinistre verso la Santa sede, ecc.), sono qui riproposte e integrate con nuovi scritti che Rossi dedicò al tema dei rapporti Stato-Chiesa. Rapporti che «attraverso la Democrazia cristiana hanno ridotto il nostro Paese a una repubblica papalina». Prefazione di Alessandro Galante Garrone.
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ERNESTO ROSSI (Caserta 1897, Roma 1967) fu tra gli animatori della prima op- posizione al fascismo e uno dei capi di “Giustizia e libertà”. Nel 1930 venne arrestato, e il Tribunale speciale lo condannò a vent’anni di carcere. Detenuto a Regina Coeli per nove anni, nel 1939 venne mandato al confino nell’isola di Ventotene, dove elaborò, con Altiero Spinelli, il manifesto del Movimento federalista europeo. Liberato nel ’43, si trasferì in Svizzera. Nel 1945 tornò in Italia e partecipò all’esecutivo del Partito d’azione. Dopo la Liberazione fu sottosegretario alla Ricostruzione nel governo Parri. Nel 1956 fu tra i fondatori del Partito radicale. Dalle pagine de “Il Mondo” e “L’Astrolabio” condusse una strenua battaglia contro i monopoli industriali, la corruzione amministrativa e le ingerenze clericali nello Stato. Economista e storico, scrittore e polemista, pubblicò numerose opere, fra le quali: Settimo: non rubare (1951), I padroni del vapore (1954), Il manganello e l’aspersorio (1958), Il Sillabo e dopo (1965).


http://www.kaosedizioni.com/schrossi_nuovepagganticleric.htm

Cyrus
11-04-09, 21:21
Il realista che voleva abolire la miseria

Corriere della Sera - venerdì 8 febbraio 2002



ABOLIRE LA MISERIA è un testo certamente invecchiato, ma di grande interesse perché resta un modello del pensiero riformista...

Questo libro di Ernesto Rossi, Abolire la miseria, che è uscito ora da Laterza (pagine 239, euro 15), ha avuto una vita complicata. Fu scritto al confino di Ventotene dove Ernesto Rossi era arrivato nel 1939 dopo quasi dieci anni di carcere. In quello stesso periodo lavorava nell'isola con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli, al "Manifesto di Ventotene", il documento del federalismo democratico. Abolire la miseria fu pubblicato nel 1946, ma - scrisse poi il suo autore - "risultò stampato così male e su carta tanto brutta che mi vergognavo anche di mandarlo in omaggio; preferii, perciò, ritirarlo dalla circolazione e passare al macero quasi tutte le copie". Ernesto Rossi aveva in mente di rimettere le mani in quel libro che gli stava a cuore, di "tener conto degli studi comparsi negli ultimi anni e delle esperienze compiute, nei Paesi del mondo capitalistico, dopo la Seconda guerra mondiale".

Non fece quel che si riprometteva, lavorò febbrilmente fino alla morte, nel 1967, doveva colmare tutti quegli anni passati nelle prigioni fasciste. Scrisse le sue famose Lettere scarlatte sul "Mondo" di Mario Pannunzio, il giornale amato, scrisse molte delle sue opere giacobine, Settimo: non rubare, Lo stato industriale, Il malgoverno, Ipadroni del vapore, Aria fritta, Borse e borsaioli, Elettricità senza baroni, nella collana inventata nel 1951 da Vito Laterza, i "Libri del tempo" (Jemolo, Calamandrei, Salvemini, Peretti Griva, Antonio Cederna, Danilo Dolci) che segnano con intelligenza e coraggio la presenza polemica di un'Italia civile che esprime un possibile modello di cultura delle riforme in un cupo momento di restaurazione politica.

Abolire la miseria uscì da Laterza nel 1977 presentato da Paolo Sylos Labini che di Ernesto Rossi era stato a lungo amico e che aveva avuto in comune con lui uno dei maestri, Gaetano Salvemini. Ora lo ripresenta con un'introduzione rivista e aggiornata. Il libro è ancora oggi ricco di stimoli e di vitalità. Come scrive Sylos Labini, Abolire la miseria "considera problemi tuttora largamente e appassionatamente discussi: il problema della miseria, il problema della crisi finanziaria dello stato assistenziale, i rapporti tra riforma della scuola e prospettive dell'occupazione".

Ernesto Rossi era soprattutto un economista. Luigi Einaudi lo considerava come il suo migliore allievo, Piero Sraffa ne aveva grande stima. Per Ernesto Rossi economia, politiche economiche e problemi politici si fondevano tra loro: "Ogni forza economica è sempre anche una forza politica", sosteneva. Ma non confondeva saperi e comportamenti, fu uno studioso rigoroso. I suoi scritti, secondo Sylos Labini possono essere raggruppati in cinque distinte categorie: gli scritti sulla finanza pubblica e sul mercato del lavoro; gli scritti critici delle costituzioni economiche; gli scritti sulla federazione europea; gli scritti sul fascismo; gli scritti sulle "partite passive che abbiamo ereditato dal regime" e sui problemi dell'attualità.

Se si volesse sintetizzare lo spirito che anima l'opera di Ernesto Rossi economista bisognerebbe prendere a prestito l'espressione che usa in uno dei suoi scritti (Critica al capitalismo): "La libera concorrenza non porta necessariamente a un massimo di benessere economico. Le critiche al capitalismo non significano giudizio favorevole al comunismo".

Ernesto Rossi è un liberale ("in opposizione alla parola "servile""), è anticomunista, ma sente viva la questione sociale e lo si capisce assai bene dalle pagine di Abolire la miseria. E un positivista, un anticlericale, un anticrociano, un europeista convinto. In una sua lettera, dei 1966, a Gennaro Barbarisi - la si può leggere nella biografia di Giuseppe Fiori, Una storia italiatia, (Einaudi, 1977) fa il conto delle persone che nella vita sono state per lui il "sale della terra": con Salvemini, tra gli altri, i Rosselli, Gobetti, Giovanni Amendola, Parri, Bauer, Tarchiani, De Viti De Marco, Einaudi, Augusto Monti, Spinelli, Colorni, Calamandrei, Enriques Agnoletti, Giorgio Agosti, Galante Garrone, Garosci, Franco Venturi, Vittorio Foa.

Con Foa, Massimo Mila e Riccardo Bauer tutti di "Giustizia e libertà" - Ernesto Rossi passò anni nella stessa cella a Regina Coeli. Racconta Foa nel suo Lettera dalla giovinezza (Einaudi 1998) che Ernesto è un capo naturale, che non dà tregua nelle letture dell'università carceraria. É un uomo ironico, un burlone, anche, disegna pupazzetti tremendi. Legge con lui testi di economia e di finanza, leggono tutti insieme libri di storia, di filosofia, di letteratura, con grandi litigi sul Croce rifiutato da Ernesto, venerato dagli altri tre.

Ernesto Rossi è un realista, ma è anche un utopista: per correggere il suo pessimismo.
Abolire la miseria è un testo certamente invecchiato, ma di grande interesse perché resta un modello del pensiero riformista. Ernesto Rossi è estremamente razionale nell'informare, criticare, discutere. Non è mai noioso,è in costante contraddizione, anche con se stesso. I suoi capitoli sulla carità privata e sulla carità legale, sulle assicurazioni sociali, sul diritto al lavoro, sui servizi pubblici sono ancora attuali.

Che cosa sarebbe oggi Ernesto Rossi? Domanda illegittima, ma stuzzicante. Scrive Paolo Sylos Labini nella sua introduzione ricca di passione: "Le battaglie di Ernesto erano già contro quella che poi è stata chiamata Tangentopoli: Tangentopoli l'aveva individuata lui molti anni prima. Quanto vorrei poter leggere quello che Rossi scriverebbe adesso nei riguardi di Berlusconi liberista!"

Cyrus
11-04-09, 21:29
Ernesto Rossi. Il sogno europeista di un “pazzo malinconico”


• da La Repubblica del 11 gennaio 2007, pag. 46


di Nello Ajello

“Al confino, e poi uscito dal carcere, non ho fatto altro che lavorare per la realizzazione dell’unità federale europea. E sono qui, in Svizzera, per questo”. Così scrive il qurantasettenne Ernesto Rossi (classe 1897) al suo amico Alberto Tarchiani, esponente del partito d’Azione e futuro ambasciatore italiano a Washington. E’ il dicembre del 1944. Da poco più di un anno Rossi si trova in Svizzera, appunto, dopo averne scontati nove di prigione e tre di confino a Ventotene (lì ha redatto, insieme ad Altiero Spinelli, il famoso Manifesto europeista). Ora, in esilio, l’Europa continua a essere più che mai al centro dei suoi ideali. “L’”idea” domina la prima parte dell’Epistolario 1943-1967 – Dal Partito d’Azione al centro-sinistra, che è in uscita presso Laterza a cura di Mimmo Franzinelli (pagg.554, euro 38).



Di europeismo Rossi discorre per lettera con gli amici più cari, da Bauer allo stesso Spinelli, da Colorni a Valiani, da Marion Rosselli, vedova di Carlo, ad Ursula Hirschmann. Scrivendo a Luigi Einaudi, esule a Basilea, lo informa con minuzia di ciò che “è stato fatto finora qui in Svizzera per l’idea federalista”.



Il suo attivismo si esercita senza respiro. A Lugano egli provvede alla stesura di trattati, opuscoli, “quaderni”, lettere circolari e volantini da indirizzare, ciclostilati, ai cittadini di ogni nazionalità internati in terra elvetica, perché “domani possano farsi propagandisti” dell’Unione Federale Europea. A Ginevra si dedica alla creazione del Centre pour la Fédération Européenne.



“Se non riusciamo noi, elementi progressisti dei diversi paesi”, scrive a Riccardo Bauer, “a imporre l’unione federale dell’Europa, tutto quello che potremmo fare nell’ambiro del nostro stato nazionale non avrà significato”.



Si chiama La Nuova Europa il settimanale che Rossi scopre nel maggio del ’45 appena tornato in Italia. In questa testata, diretta da Luigi Salvatorelli, egli scorge “uno dei pochissimi sintomi della esistenza di forze capaci di salvare ancora la nostra civiltà dall’estrema rovina”. Sono, sotto una parvenza d’elogio, parole sconsolate. E tali resteranno lungo i suoi umori di reduce. Ad Eugenio Reale, poco più tardi, fa sapere: “Vedo buio nell’avvenire”. In un’altra lettera versa un mucchio di delusioni. Perfino, ormai, sull’Europa. “La guerra”, argomenta, “ha portato a una situazione in cui l’unificazione federale è un’idea più utopistica della Città del Sole di Tommaso Campanella”. Si vive “in attesa della nuova guerra mondiale”. E altrove: L’Italia è in pieno “marasma”. E così la Repubblica “nata tisicuccia, tisucuccia, non ha avvenire”. Come comportarsi, allora? “In conclusione, me ne sto in disparte perché non so cosa fare”. D’altronde – e qui risponde a Marion Rosselli che lo rimprovera per il suo pessimismo – “io non ho mai preteso di essere un uomo di Stato”. Sono invece, “un povero diavolo d’intellettuale”. “Un limone spremuto”, si definisce scrivendo ancora a Reale.



E tuttavia “il limone” qualche po’ di succo deve ancora contenerlo, se negli incarichi che via via assume – sottosegretario alla ricostruzione con Parri e presidente dell’ARAR, un’azienda per l’alienazione dei residuati bellici – Ernesto Rossi si muove con energia e competenza.



Fra il ’45 e il ’46 domina, nell’ambiente laico e antifascista, il tema del partito d’Azione, nato nel ’41 ed erede di Giustizia e Libertà. Se ne discute con accanimento. E’ tuttavia facile osservare come il dibattito su quel partito riguardi soprattutto i tempi e i modi del suo scioglimento che un simile destino appaia prematuro. Nulla di più congeniale, in effetti, rispetto al “cupio dissolvi” politico che Rossi va manifestando. Abbastanza transitoria si rivelerà la sua proposta di confluire, in quanto ex azionisti, nel PSI nenniano. I motivi per i quali l’ipotesi sfiorisce sono quelli che più tardi, nel luglio del 1951, l’autore dell’epistolario esporrà in una missiva allo stesso Nenni: “Non sono e non sono mai stato marxista, e la dittatura del proletariato ha, per me, lo stesso puzzo di tutte le altre dittature”.



Schietto e sintetico. Ma di giudizi ancor meno diplomatici sul PSI, l’epistolario è pieno. Ha scritto per esempio Rossi nel 1944: “Quando si accetta il programma e il metodo comunista” non c’è “alcuna ragione di formare un partito separato”. Oppure in una lettera a Lelio Basso datata 10 settembre 1963: “Il pateracchio con la DC” è “divenuto per il PSI una questione di vita o di morte, perché da quando ha rotto l’alleanza con il PCI, ha dovuto rinunciare alle principali fonti di finanziamento. Il nocciolo del problema è nei quattrini”. Guardando altrove, i suoi umori non migliorano: il PCI gli pare “un partito nazionalista straniero”.



Giudica “ammuffito” il partito repubblicano. Gli danno “poco affidamento2 i socialdemocratici, sbocciati all’alba del ’47, e avrà poi occasione di giudicare Saragat “un cretino”.



Insomma, quella offerta dal “nostro glorioso partitino d’azione” è stata per Rossi una delusione cocente. Ma la delusione è dovunque. Tanto vale rifugiarsi nel recinto dei “Pazzi malinconici”, così li chiamava il suo maestro Salvemini, dedicandosi a “studiare i problemi economici” e a “rompere le scatole ai Padroni del vapore, ai Principi della Chiesa e agli altri Personaggi più importanti del nostro Paese”.



Per oltre un decennio questa incombenza gli calzerà alla perfezione. Leggendo il libro curato da Franzinelli, è forte la tentazione di periodizzare così il contenuto (e di riflesso, la vita di Ernesto Rossi, dopo il carcere): due grandi disinganni politici – l’azionismo e poi, lo vedremo subito, il Partito radicale – frammezzati da un febbrile successo: il giornalismo d’inchiesta e di denuncia. Prima nell’Italia socialista, e poi soprattutto nel Mondo, lungo gli interi anni Cinquanta, il nome di Ernesto Rossi sarà sinonimo di un modo di trattare “il caso Italia” con una carica del tutto inusitata di passione e di rigore, energia ed umorismo, aggressività mista e disinteresse. I suoi articoli sui temi più disparati dell’economia “vissuta” della storia politica e della vita civile, i libri che li raccoglieranno – da Settimo non rubare a lo Stato industriale, dal malgoverno ai Padroni del vapore, dal Sillabo e dopo al manganello e l’aspersorio, fino ad Elettricità senza baroni – i convegni degli “amici del Mondo” che ad essi faranno seguito e il dibattito fra Rossi e il presidente della Confindustria Angelo Costa (novembre 1955), testimoniano nel loro complesso uno dei rari esempi di vigore ed efficacia offerti dalla sinistra democratica.



Forse, il fatto che quella stagione s’interrompesse in maniera penosa – rientrava nel destino di Esto (così Rossi firmava le sue lettere). O forse esso gravava come una maledizione sulle sorti della sinistra italiana più riflessiva e moralmente irreprensibile. Il Partito radicale, nato nel 1956, si dissolverà – salvo la sopravvivenza che gli assicurerà Pannella e sulla quale verte la lettera a lui inviata da Rossi – a partire dal 1962. Le analogie fra la “dolorosa istoria” azionistica e la “schifosissima storia” radicale (entrambe le definizioni sono di Esto) si offrono alla valutazione dei lettori nelle numerose pagine che l’epistolario dedica all’argomento. E così le ragioni e i torti dei protagonisti: tra i quali lo stesso Rossi che sembrò aver deposto, nell’occasione il suo habitus di “non politico”.



Peccati di personalismo, in una cornice autolesionistica, vennero commessi da entrambe le parti: da un lato Mario Pannunzio, direttore del Mondo, e gli uomini a lui più legati, da Leone Cattani a Nicolò Carandini, e dall’altro – con i suoi amici, fra i quali Rossi – quel Leopoldo Piccardi, la cui partecipazione a un convegno tenutosi a Vienna nel marzo del ’39 e l’estensione della risoluzione finale su “razza e diritto” lo espose all’indignazione degli avversari “interni”. Quel lontano episodio era stato documentato in una nota del volume di Renzo De Felice Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo (1961). Ma probabilmente, il dissidio, rivelatosi subito insanabile, verteva su idee diverse in politica: i liberali di sinistra, alla Pannunzio, erano “atlantici” e legati alla “terza forza”; mentre Piccardi e i suoi sostenitori erano più vicini al socialismo nenniano e tendenzialmente neutralisti. “Il Partito radicale era stato un fiasco” scriverà Esto a Leo Valiani. “Dopo un calcio al fiasco, come l’avevano dato Pannunzio e Ci, non si potevano più mettere insieme i cocci”. D’accordo sui cocci irreparabili. Ma che quel partito fosse un fiasco è contraddetto, se non altro, dai buoni risultati conseguiti alle “amministrative” del 1960, dove gli eletti radicali furono 52 fra comuni e province.



Dal litigio, che sfocia in una querela che gli costa la collaborazione al Mondo, Rossi esce “abbacchiato” (e lo confessa).



Ma è un eufemismo. La sua attivistica generosità lo porta ora a trovare dei surrogati a ciò che lo aveva reso illustre (e forse perfino felice) negli anni Cinquanta. Fonda un quindicinale. L’Astrolabio, ma per stanchezza ne cede la direzione a Ferruccio Parri. Vi scrive molto, ma se ne dice scontento. I Convegni del Mondo troveranno una discendenza più scialba in quelli indetti dall’Associazione Gaetano Salvemini, un’altra creatura di Rossi.



Ernesto morirà il 9 febbraio 1967: ora sono quarant’anni. Non sembra un caso che nell’ultimo epistolario – una lettera del 17 gennaio ’67 al nipote Carlo Pucci – egli accenni alla vicenda che lo ha amareggiato negli ultimi anni. “Piccardi ha ritirato la querela a Pannunzio”, scrive, “ha accettato il ritiro della querela”. E aggiunge: “Questa storia si è finalmente conclusa”. Dileguandosi, si direbbe, insieme a lui.

Cyrus
11-04-09, 21:29
Per ricordare Ernesto Rossi a quarant’anni dalla sua morte


di PierVincenzo Uleri da Notizie Radicali

Il prossimo 9 febbraio ricorrerà il 40° anniversario della morte di Ernesto Rossi. La personalità, la vita, l’opera e il pensiero di Ernesto Rossi sono riproposte alla nostra attenzione grazie alla ricerca storiografica di alcuni studiosi.



Di Mimmo Franzinelli è disponibile in libreria da alcuni giorni «Ernesto Rossi, Epistolario, 1943-1967 – Dal Partito d’Azione al Centro-Sinistra», Roma-Bari, Editori Laterza, 2007.

Franzinelli ha già pubblicato due epistolari di assoluta importanza

«Ernesto Rossi, Nove anni sono molti – Lettere dal carcere 1930-39», Torino, Bollati e Boringhieri, 2001, nuova edizione delle lettere dal carcere. [Un altro epistolario era stato curato da Manlio Magini e pubblicato dalla casa editrice Laterza con un titolo che è certamente caro ai meno giovani come chi scrive «Elogio della galera – Lettere 1930/1943», Bari, 1968.]

«Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini, Dall’esilio alla Repubblica – Lettere 1944-1957», Torino, Bollati e Boringhieri, 2004.

Franzinelli ha curato la ristampa di alcuni libri di Ernesto Rossi o che riguardano momenti della sua vita:

«“Non Mollare” (1925) – Riproduzione fotografica – Con saggi di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei», Torino, Bollati e Boringhieri, 2005 (la prima edizione era stata pubblicata a Firenze da La Nuova Italia).

«Ernesto Rossi, Una spia del regime», Torino, Bollati e Boringhieri, 2000.

«Ernesto Rossi, Il manganello e l'aspersorio, Milano, Kaos, 2000.

«Ernesto Rossi, Nuove pagine anticlericali, Milano, Kaos, 2002.

«Ernesto Rossi, Settimo: non rubare; Milano : Kaos, 2002.



Arriveranno nelle prossime settimane due libri dedicati rispettivamente al pensiero e all’opera di Ernesto Rossi federalista europeo e a Ernesto Rossi anticlericale (con particolare riferimento alla travagliata storia della collana editoriale «Stato e Chiesa» edita dalla casa editrice fiorentina Parenti):

Antonella Braga ha scritto «Un federalista giacobino – Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa», Bologna, il Mulino, 2007 (in uscita nelle prossime settimane).

Simonetta Michelotti invece ha scritto «Ernesto Rossi contro il clericalismo. Una battaglia per la democrazia liberale», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007 (in uscita nelle prossime settimane).



Infine dobbiamo ricordare almeno altri due volumi:

Lorenzo Strik Lievers (a cura di), Ernesto Rossi: economista, federalista, radicale, Venezia, Marsilio, 2001 [Atti del Convegno tenuto a Verbania nel 1998 introduzione di Emma Bonino].

Giuseppe Armani, La forza di non mollare: Ernesto Rossi dalla grande guerra a Giustizia e libertà, Milano, Franco Angeli, 2004 [presentazione di Arturo Colombo ].



Sappiamo, naturalmente, che per ricordare degnamente Ernesto Rossi ci vorrebbe altro che un banale elenco di libri.

Cyrus
11-04-09, 21:30
http://www.socialisti.net/files/images/sole24-o.gif del 6 febbraio 2007, pag. 12



di Guido Gentili

Sì, una volta di più sarebbe stato il suo momento. Perché nel 2007, a 40
anni esatti dalla morte e a 52 dal suo confronto pubblico (modera*to da Ugo
La Malfa) con l'allora presidente di Confindustria Angelo Costa, discutiamo
ancora di liberalizzazioni, pubblicità degli assetti proprietari delle
imprese, modello-Iri, Stato corporativo, liber*tà di stampa.

Sono i temi che Ernesto Rossi ha sollevato e dibat*tuto con brillante
intransigenza e passione civile. Nato nel 1897 si è spento il 9 febbraio
1967, al termi*ne di una vita che più intensa non si può. Discepolo di
Salvemini, ispiratore insieme ai fratelli Rosselli del foglio clandestino
«Non Mollare», dodici anni tra prigione, confino ed esilio fino al 1945
estensore assieme a Spinelli e Colorni del «Manifesto di Ventotene»,
promotore del Partito d'Azione e del setti*manale «Il Mondo», fondatore nel
1955 del Partito Radicale, giornalista "d'inchiesta" tra i più efficaci.

Nella sua intermi*nabile transizione, punteggiata da corsi e ricorsi, è la
stessa storia italiana a ripro*porre l'attualità di questo intellettuale
eclettico (che sarà ri*cordato a Firenze ve*nerdì dalle Fondazio*ni Rossi e
Circolo Rosselli e dagli editori Rubbettino, il Mulino e Laterza) forse
trascurato e "collocato" troppo spesso in una sinistra-sinistra di vecchio
stampo, classista, perché avversario degli industriali-"Padroni del va*pore"
(dal titolo del suo libro che fu al centro del dibattito con Costa nel '55)
e perché laico-anticleri*cale nell'Italia a trazione democristiana.

Di sinistra sì, fu Rossi. Ma anticomunista. E così liberale (e liberista
temperato, tanto da definire don Sturzo un "liberista manchesteriano"
dell'Ottocen*to) da non essere inquadrabile in una casella politi*ca. Con il
metro di oggi potremmo definirlo un riformatore-liberale-volenteroso o un
riformista blairiano ante litteram, a maggior ragione se si considera che
voleva un'Europa unita modellata sull'esempio degli Stati Uniti.
'
Coglie nel segno Pannella, che condivise in prima persona molte battaglie di
Rossi, quando ricor*da nel 1976 che «fu lui a scatenare la polemica con*tro
le responsabilità miste nell'Iri e nel capitali*smo privato» e che fu lo
"Stato corporativo", più che il "capitalismo selvaggio", al centro
dell'anali*si critica di Rossi.

E di che cosa discutiamo nel febbraio 2007? Degli incroci pericolosi tra
economia e politica; di Fondo per le infrastrutture misto pubblico-privato;
di con*trollo delle reti; di rinascita del modello Iri; di politi*ca
antitrust; di pubblica amministrazione inefficien*te; di scarsa cultura del
mercato; di rendite e grandi manovre finanziarie.

Fu implacabile, Rossi, nel denunciare le commi*stioni tra politica ed
economia, il conservatorismo dei sindacati, i socialisti «animelle sensibili
a ogni soffiar di vento» sempre a metà strada tra riformi*smo e
massimalismo. Questioni attualissime. Scris*se nel '53 sul «Mondo»: «La
mobilità e la libertà del lavoro sono condizioni necessarie perché tutta la
manodopera possa essere impiegata a salari che eguaglino la sua produttività
marginale»; «Il dina*mismo economico ha un costo, ma rifiutarsi di paga*re
questo prezzo significa rinunciare al progresso».


Ps. A proposito di qualità, chiarezza del dibattito e palinsesti radio-tv:
con un clic su radioradicale.it (http://www.radioradicale.it/) si può ascoltare il confronto Rossi-Costa
del 1955 ri*preso allora in diretta radio e dalla prima pionieri*stica tv.
Una grande pagina di storia e di giornali*smo, davvero.

Cyrus
11-04-09, 21:30
http://www.socialisti.net/files/images/riformista-o.gif, 9 febbraio 2007

ROSSI. A 40 ANNI DALLA MORTE -

DI GAETANO PECORA

Quando Salvemini gli scrisse «Ernesto, vorrei un figlio come te» in
una lettera indirizzata a Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini scriveva
così: «Se avessi potuto fabbricarmi un figlio su misura, me lo sarei
fabbricato pari pari come te». E perché la piena dei sentimenti non
lo travolgesse, subito stemperava il suo affetto in una increspatura
lievemente canzonatoria: «ma anche quel figlio - aggiungeva - sarebbe
andato a male come te e come me». È vero: per molti aspetti chi dice
Rossi dice Salvemini. La chiarezza che informa i suoi scritti è la
stessa: stringente, incalzante, che nulla concede alla magniloquenza
della retorica e che mai si impantana in guazzabugli incomprensibili.
Così come da Salvemini derivò la stessa passione per la giustizia, e
identico fu l'istinto di libertà. Sorgenti morali, queste,
limpidissime che con gli anni trassero Ernesto Rossi a riconoscersi
nel medesimo liberalismo del Salvemini maturo; un liberalismo
fermentato da aspirazioni socialiste, le cui ascendenze empiriche lo
trattennero dall'involarsi nei cieli delle astrazioni. Non il
Progresso, la Rivoluzione o il Popolo lo interessava, ma lo studio
dei problemi concreti, specie se questi problemi tradivano
l'esistenza di soprusi a danno degli umili. Degli umili in carne e
ossa, con tanto di nome e di cognome. È allora che Ernesto Rossi dava
il meglio di sé: puntuali e documentate fino alla pignoleria, le sue
denunzie inchiodavano i responsabili alle loro colpe. Il tutto senza
indulgere al melodramma e tenendosi discosto dalle pose accigliate e
un po' ferali del quaresimalista in penitenza. Al contrario: tali
requisitorie venivano percorse e come illeggiadrite da una vena
sbarazzina che incanta per la sua freschezza; era tale lo sfavillio
delle arguzie, tanta la felicità della battuta e dello sberleffo, che
le stesse vittime ne riuscivano sedotte e quasi forzate a ridere
delle loro bestialità. Riderne di un riso verde, si capisce. E si
capisce altresì perché un simile liberalismo subisse l'ingiuria
dell'oblio dopo la scomparsa del suo artefice (avvenuta a Roma il 9
febbraio del 1967). Nessuno era interessato a riscoprirlo perché
nessuno, proprio nessuno, venne risparmiato dalle sue bordate
polemiche. Ripercorrerne oggi, a quaranta anni dalla morte, la
vicenda umana e politica significa imbattersi in una figura a tutto
sbalzo, risoluta e indipendente fino alla spregiudicatezza, poco
disposta a patteggiare con gli altri perché poco incline a transigere
con se stessa. Il che, alla saggezza filistea dei suoi compatrioti e
alla soffice indolenza dei loro dirigenti, dovette apparire una
novità oltremodo strana e sgradevole.Di qui la solitudine che
l'accompagnò per tutta la vita. Sì, Ernesto Rossi fu un uomo solo.
Libero ma solo. Un uomo che della propria libertà non ebbe paura e
che se ne avvalse per lanciare i suoi strali nelle più diverse
direzioni. In direzione del cattolicesimo, di cui respingeva l'ideale
di una società controllata e ubbidiente e al quale imputava
l'allentamento della fibra morale degli italiani. In direzione del
comunismo, che egli, fin dagli anni '30, aborriva per il suo
programma economico e al quale rimproverava la stessa religione dei
cattolici, sia pure nella versione secolarizzata del marxismo. E
neppure ai liberali e ai socialisti lesinava i suoi puntuti giudizi.
Dei liberali - dei «liberaloni con la tuba» - come li chiamava -
denunziava i sofismi con i quali tradivano i principi della libertà
(anche di quella economica) e accreditavano come collettivi quelli
che invece erano asfittici interessi di gruppo. Dei socialisti - di
questi «comunisti mal riusciti» come ebbe a battezzarli -
sottolineava causticamente il comportamento pendolare, sempre
combattuto tra l'alternativa: o ministri o rivoluzionari. Se è vero
perciò che Ernesto Rossi distribuiva le sue bastonate a destra e a
manca, contro il coriaceo antiliberalismo dei cattolici e dei
comunisti, e contro quello più subdolo ma non meno pervicace degli
imprenditori e dei sindacati, se è vero tutto questo, si capisce bene
perché fino a ieri nessuno ci fosse che si mostrasse seriamente
interessato al suo lascito intellettuale. Oggi però che le cose sono
cambiate e che le idealità liberali paiono meno estranee
all'orientamento degli spiriti, è lecito attendersi una maggiore
attenzione per un pensiero che non è invecchiato. Purché, beninteso,
questo pensiero venga conosciuto. Ecco perché, dopo la ristampa
dell'Elogio della galera (che per la verità ancora dieci anni fa
passò quasi inosservato ma che pure è uno stupendo epistolario la cui
lettura potrebbe segnare per sempre i giovani e i giovanissimi: in
ogni caso i migliori tra loro), ecco perché, si diceva, dopo che
altri ha curato la ristampa dell'Elogio (Roma, 1997), bene ha fatto
Mimmo Franzinelli a tirare dalle carte di Ernesto Rossi tutto quanto
gli è servito per pubblicare, prima,Nove anni sono molti. Lettere dal
carcere 1930-39 (Torino, 2001), poi Dall'esilio alla Repubblica.
Lettere 1944-1957 (Torino 2004) e ora Epistolario 1943-1967. Dal
Partito d'Azione al centro-sinistra (Roma-Bari, 2007). Nonostante le
impuntature e le impazienze polemiche, queste lettere di Ernesto
Rossi trasportano in una atmosfera superiore dove anche il cuore più
amareggiato trova la sua armonia. Salvemini l'avrebbe detta
così: «per aver toccato almeno una volta quelle altezze, noi non ci
ritroviamo più del tutto gli stessi quando ritorniamo alla nostra
vita di ogni giorno. Qualche cosa rimane nel nostro intimo, che non
sarà mai interamente perduta. Questa è cultura morale». Proprio così:
è cultura morale.

Cyrus
11-04-09, 21:35
Maria Adelaide Aglietta
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Maria Adelaide Aglietta (Torino, 4 giugno 1940 – Torino, 20 maggio 2000) è stata una politica italiana, esponente prima radicale e poi dei Verdi Arcobaleno e della Federazione dei Verdi, nonché parlamentare italiano ed europeo.

Nel 1974 inizia a militare nel Partito Radicale impegnandosi nella campagna per l'introduzione della legge sul divorzio. Dopo la vittoria divorzista, fonda il C.I.S.A. (Centro d'Informazione sulla Sterilizzazione e sull'Aborto) di Torino e porta avanti la battaglia per la liberalizzazione dell'aborto.

Il 4 novembre 1976 nel corso del Congresso viene eletta Segretario del Partito Radicale. In quell'anno, promuove insieme a Lotta Continua e porta a termine la raccolta di firme degli "otto referendum contro il regime", di cui due, finanziamento pubblico dei partiti e legge Reale bis, andranno in votazione l'anno successivo. Durante il primo anno della segreteria si impegna nel suo più difficile sciopero della fame, durato 73 giorni, per il rispetto della riforma carceraria, contro l'insediamento delle carceri speciali.

Nel 1978 viene sorteggiata, dopo il rifiuto di quasi cento cittadini, quale giurato popolare nel primo processo intentato in Italia ai capi storici delle Brigate Rosse e consente con la sua accettazione, nonostante le minacce di morte, la formazione della giuria e la tenuta di un processo equo.

Nel 1979 viene eletta al Parlamento italiano nelle liste del Partito Radicale e diviene presidente del gruppo radicale alla Camera dei Deputati. È protagonista insieme al suo gruppo di una dura battaglia parlamentare ostruzionistica sulle leggi d'emergenza. Viene rieletta nel corso delle elezioni del 1983 restando in carica sino al 1985, quando si dimette per la rotazione.

Viene rieletta nel 1987. In questi anni si impegna con sistematicità sul problema carcerario, a fianco dei detenuti ed in particolare dei detenuti politici, sostenendone gli scioperi della fame e le lotte nonviolente, dando un contributo determinante al superamento del regime delle carceri speciali. Sempre in questo periodo segue e coordina la campagna del Partito Radicale fino alla vittoria definitiva in Cassazione sul caso giudiziario di Enzo Tortora, il cui impegno coerente e profondo fa esplodere il problema delle gravissime deviazioni del sistema giudiziario italiano e ne fa il simbolo della lotta per una "giustizia giusta".

Nel 1988 è eletta in una lista unitaria di Verdi, Radicali ed Ambientalisti al Consiglio comunale di Trieste. È tra i fondatori dei Verdi Arcobaleno. Dopo il rifiuto opposto dalle Liste Verdi a presentare una lista unitaria e aperta alle elezioni del 1989, si candida nelle liste dei Verdi arcobaleno che ottengono due seggi. È eletta nella circoscrizione del Nord-Est. Opta per l'impegno pieno al Parlamento europeo dimettendosi dal Parlamento nazionale e dal Consiglio comunale di Trieste. Nel Parlamento europeo è membro titolare nella Commissione Affari Esteri e Sicurezza, nella Commissione Affari Istituzionali e nella sottocommissione Diritti dell'Uomo.

Viene riconfermata nel 1994, per le liste Verdi. È stata presidente della Delegazione per le relazioni con la Bulgaria, la Romania e l'Albania e del Gruppo Verde al Parlamento europeo; membro della Commissione per le relazioni economiche esterne, della Commissione per gli affari istituzionali, della Commissione per gli affari esteri e la sicurezza, della Delegazione per le relazioni con le Repubbliche di Jugoslavia, della Commissione per il regolamento, la verifica dei poteri e le immunità, della Sottocommissione per i diritti dell'uomo, della Delegazione per le relazioni con la Repubblica popolare cinese.

Cyrus
11-04-09, 21:49
Biografia

Adelaide Aglietta, nasce a Torino il 4 giugno 1940. Nel 1974 inizia a militare nel Partito radicale impegnandosi nella campagna per l'introduzione della legge sul divorzio. Dopo la vittoria divorzista, fonda il C.I.S.A (centro italiano sterilizzazione e aborto) di Torino e porta avanti la battaglia per la liberalizzazione dell'aborto.

Nel 1976 nel corso del Congresso viene eletta Segretario del Partito radicale. In quell'anno, promuove insieme a Lotta Continua e porta a termine la raccolta di firme degli "otto referendum contro il regime", di cui due, finanziamento publico dei partiti e legge Reale bis, andranno in votazione l'anno successivo. Durante il primo anno della segreteria si impegna nel suo più difficile sciopero della fame, durato 73 giorni, per il rispetto della riforma carceraria, contro l'insediamento delle carceri speciali.

Nel 1978 viene sorteggiata, dopo il rifiuto di quasi cento cittadini, quale giurato popolare nel primo processo intentato in Italia ai capi storici delle Brigate Rosse e consente con la sua accettazione, nonostante le minaccie di morte, la formazione della giuria e la tenuta di un processo equo.

Nel 1979 viene eletta al Parlamento italiano nelle liste del Partito radicale e diviene presidente del gruppo radicale alla Camera dei Deputati. E' protagonista insieme al suo gruppo di una dura battaglia parlamentare ostruzionistica sulle leggi d'emergenza. Viene rieletta nel corso delle elezioni del 1983 restando in carica sino al 1985, quando si dimette per la rotazione. Viene rieletta nel 1987. In questi anni si impegna con sistematicità sul problema carcerario, a fianco dei detenuti ed in particolare dei detenuti politici, sostenendone gli scioperi della fame e le lotte nonviolente, dando un contributo determinante al superamento del regime delle carceri speciali. Sempre in questo periodo segue e coordina la campagna del Partito radicale fino alla vittoria definitiva in Cassazione sul caso giudiziario di Enzo Tortora, il cui impegno coerente e profondo fa esplodere il problema delle gravissime deviazioni del sistema giudiziario italiano e ne fa il simbolo della lotta per una "giustizia giusta".

Nel 1988 è eletta in una lista unitaria di Verdi, Radicali ed Ambientalisti al Consiglio comunale di Trieste. E' tra i fondatori dei Verdi Arcobaleno. Dopo il rifiuto opposto dalle Liste verdi a presentare una lista unitaria e aperta alle elezioni europee del 1989, si candida nelle liste dei Verdi arcobaleno che ottengono due seggi. E' eletta nella circoscrizione del Nord-Est. Opta per l'impegno pieno al Parlamento europeo dimettendosi dal Parlamento nazionale e dal Consiglio comunale di Trieste. Nel Parlamento europeo è membro titolare nella Commissione Affari Esteri e Sicurezza, nella Commissione Affari Istituzionali e nella sottocommissione Diritti dell'Uomo.

Dal mese di ottobre del 1990 è Presidente del Gruppo dei Verdi al Parlamento Europeo.

Cyrus
11-04-09, 21:50
Su Adelaide Aglietta

Ricordo di Valter Vecellio

Di Adelaide Aglietta molti di noi, che con lei siamo stati radicali, e abbiamo condiviso sogni, speranze, lotte, vittorie esaltanti, hanno bei ricordi; ci accompagneranno sempre. Momenti di gioia e di felicità anche, che ricorderemo con malinconia e mestizia. Nella mia memoria c'è un'immagine di Adelaide: lei che si avvia sorridente nell'aula del tribunale dove si svolgeva il processo ai capi storici delle Brigate Rosse. Processo che i terroristi fortissimamente volevano non fosse celebrato; e i giurati venivano per questo minacciati. Non scherzavano: il presidente dell'ordine degli avvocati Croce era stato ucciso; e uno dopo l'altro,quei giurati, spaventati, producevano certificati sanitari e si ritiravano. Adelaide venne estratta nella rosa dei giurati. Accettò. Grazie al quel suo sì, anche gli altri estratti si fecero e trovarono coraggio, e la giuria venne alla fine formata; e il processo celebrato. Un'esperienza raccontata in un bel libro: il "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse". "Una delle poche, pochissime testimonianze dirette, nate da un'esperienza diretta che siano state pubblicate in Italia sull'amministrazione della giustizia. Ne ricordo soltanto un altro, anzi: "Il diario di un giudice" di Dante Troisi", scrisse Leonardo Sciascia. Adelaide è stata la prima donna segretaria di un partito;è stata la prima donna capogruppo a Montecitorio. Piccole cose, ma a ben vedere, non tanto piccole. Ed è stata, e ha fatto, tante altre cose ancora. C'è poi un'altra immagine che mi piace ricordare: Adelaide in maglietta bianca, jeans e un cartello al collo, un'estate di quasi vent'anni fa.Seduta sul marciapiede, davanti al ministero di Giustizia, a confabulare con Emma Bonino, l'eterna sigaretta tra le dita. Con altri, era impegnata in un digiuno e in una quantità di manifestazioni: in difesa dei diritti dei detenuti e degli agenti di custodia, costretti entrambi a vivere e a patire un inferno carcerario che oggi forse è un po' più lieve di allora grazie anche a quelle lotte, a quel suo impegno. In queste ore di grande malinconia, consola un poco il fatto di aver potuto fare con lei e con molti altri alcuni anche loro non più con noi, alcuni ancora irriducibili, come allora qualcosa che era giusto fare, e che sono orgoglioso di aver fatto.

Cyrus
11-04-09, 21:50
Personale e Politico

La scoperta della malattia, e di una malattia che appartiene al nostro tempo, è un'esperienza insieme di disintegrazione e di compassione verso sé e verso gli altri. Ci si chiede come sia potuto accadere, in quale parte della coscienza qualcosa abbia continuato a soffrire a nostra insaputa; quand'è che il nostro corpo si è inceppato, o si è ribellato Una delle conseguenze più pesanti della delega in bianco al potere politico, è stata senz¹altro lo scandalo della "mala sanità". Scoprire che il ministro deputato alla salute pubblica e i massimi esponenti delle case farmaceutiche e dell'ordine dei medici, somigliassero piuttosto a Ceausescu che a liberi e responsabili individui di una società democratica, ha fatto infuriare e, credo, disperare milioni di persone. A parte le considerazioni moralistiche sulla qualità del reato, (lucrare sulla salute è davvero peggio che lucrare sul lavoro, sull'ambiente o sulle carceri?) è certamente vero che la salute è un ambito dell¹esistenza di ciascuno in cui a volte delegare diventa un'autentica necessità. Non solo perché la maggioranza di noi non ha studiato medicina, ma anche e soprattutto perché il divario sempre più profondo fra scienza e potere, si è trasformato nella scienza come potere. Potere di vita e di morte sulle persone; sulla malattia; sulla gestione dei farmaci; sulla loro sperimentazione... Se c'è una parte dell'esistenza dove si impone un'attenzione collettiva e individuale, nella quale sarebbe necessario rompere gli schemi del conformismo della scienza (che non è conformista di per sé, ma in quanto potere indiscusso), questa è la gestione della propria salute.

La visione ecologista dell'individuo, che condivide un unico destino con le altre specie viventi e con gli elementi che gli permettono di esistere, ha rimesso in discussione molte certezze scientifiche che hanno ormai tutta l'aria di essere dogmi, e tutta la pretesa di volere esistere in quanto tali. Che cos'è, per esempio la malattia? Come nasce in un individuo? E' giusto trattare tutti gli ammalati con la stessa terapia, invece che con un trattamento individuale, specifico per ciascuno? Oramai, a causa delle mutate condizioni ecologiche - l'aria inquinata, l'acqua contaminata, il sole meno filtrato dalla fascia di ozono, gli alimenti avvelenati dai pesticidi o i veleni prodotti dal consumismo alimentare, gli effetti iatrogeni di migliaia di farmaci distribuiti in ogni casa da una politica sprecona - in ogni famiglia c'è una persona che si ammala di patologie gravi. Anch'io sono stata male in questi due ultimi anni: un carcinoma mammario, una di quelle cose che colpiscono una donna su tre e che ti raggiungono come un colpo alla testa, sparato all¹improvviso. Una specie di epidemia sulle cui ragioni bisognerebbe indagare più a fondo, perché prevenire significa non smettere mai di interrogarsi sulle possibili cause, e avere il coraggio di intervenire su esse, piuttosto che sulle conseguenze. La scoperta della malattia, e di una malattia che appartiene al nostro tempo, è un'esperienza insieme di disintegrazione e di compassione verso sé e verso gli altri. Ci si chiede come sia potuto accadere, in quale parte della coscienza qualcosa abbia continuato a soffrire a nostra insaputa; quand'è che il nostro corpo si è inceppato, o si è ribellato.

Io ho potuto godere di un'assistenza buona, che non è stata quella degli ospedali italiani, ma di un efficiente ospedale belga. Ho fatto l'immersione angosciante nella chemioterapia, e mi sembrava di non riuscire a sopportarla. Ho attraversato tutto il triste percorso che tante persone conoscono, e mi sono chiesta molte volte se avevo fatto la scelta giusta, e se ne avevo un'altra. Ho goduto anche del terribile privilegio di conoscere passo per passo le condizioni in cui ero, la terapia che stavo facendo, e cosa sarebbe accaduto al mio corpo. Credo che di queste cose si discuta poco e si sappia pochissimo, benché tante pubblicazioni del mondo ecologista tentino di proporre degli interrogativi più dettagliati, tentino di aprire un varco su una riflessione di metodo, più che di tecnica. Non è facile, quando ci si ammala, scegliere di fidarsi, mentre negli ospedali circola il sangue infetto di HIV o di antigeni dell'epatite e i farmaci autorizzati sono quelli delle case farmaceutiche che pagano di più; quando si viene trattati male non più per cattiva intenzione, ma per banale abitudine: riflesso di un comportamento più generale. Io non dimentico di avere goduto, nella mia malattia, di alcuni privilegi che derivano dalla mia condizione di parlamentare, e di avere potuto scegliere strutture e assistenza che altri non avrebbero potuto avere. Ma so, credo di averlo sempre saputo, che insieme al privilegio mi compete la responsabilità verso gli altri: quella cioè di concorrere a creare le condizioni perché ciascuno possa scegliere e difendersi. Di sicuro, l'Europa politica serve anche a questo, a garantire con il minimo della fatica e dello spesa che un cittadino, in qualunque paese nasca, possa scegliere dove farsi curare e come.

Vorrei anche aggiungere che da diversi anni sono una paziente omeopatica, e che non ho smesso di vedere il mio medico e di assumere rimedi prima e dopo l'operazione chirurgica. Fra noi ecologisti e ambientalisti c'é una grande attenzione per le medicine cosidette "alternative", nella realtà non convenzionate e non riconosciute dagli Stati membri, ovvero sottoposte a legislazioni nazionali difformi. Il gruppo verde - io personalmente non potevo farlo perchè diversamente impegnata - ha organizzato numerosi riunioni con medici omeopati e di altre medicine, dando seguito all'indicazione dell'Organizzazione mondiale della Sanità che auspica il recupero in ogni paese delle proprie medicine tradizionali. Il Parlamento europeo ha fra i suoi compiti quello di uniformare le leggi nazionali che regolamentano il diritto di ciascun cittadino a curarsi secondo le proprie convinzioni e conoscenze, attraverso direttive chiare e applicabili. Il Gruppo verde, in particolare, sente questo impegno.

Cyrus
11-04-09, 21:51
Un sorriso al potere

Ricordo di Adelaide Aglietta

di Gianni Riotta

Qualche tempo fa un artista dipinse tutta la chiesa della Gran Madre di viola, giocando con le luci fluorescenti, con l'ombra della collina di Torino e i riflessi del Po. L'atmosfera bizzarra sarebbe molto piaciuta a Adelaide Aglietta, parlamentare e femminista che oggi, in quella chiesa, sarà ricordata, sfinita da una lunga malattia. La storia pubblica di Adelaide Aglietta è cominciata a Torino. Casalinga, due figlie, una famiglia normale che più normale non si può. Poi i consultori: una nostra lettrice ricorda oggi su www.lastampa.it, rubrica Pensieri&Parole, che l'abortista¯ Aglietta ascoltava le voci delle donne povere, sei figli e marito violento, ma cercava di dissuadere altre signore dall'aborto. Ecco: nel paese dei superficiali, Adelaide Aglietta era una donna profonda. Allegra e profonda. Combattiva e profonda. Coraggiosa e profonda. Da Torino arrivò a Roma, una Roma triste, percorsa dal terrorismo e dalla corruzione, ma che la giovinezza colorava. Abitava in una soffitta del centro, divisa a lungo con Emma Bonino. La passione politica la divorava, parlamentare e leader radicale, sempre attenta e fedele al partito, sempre irriducibile indipendente, anche dal fondatore Marco Pannella. La signora di Torino, il profilo dolce e scattante come una lama, combattè contro i luoghi comuni della sinistra scialba. Sfidò le Brigate Rosse andando a fare il giurato popolare in un processo da lasciarci la vita (e scrisse un bel libro, pubblicato da Oreste Del Buono per la Milano Libri). Andò all'Asinara a difendere i detenuti br, malgrado fosse l'unica politica ad averli sfidati in tribunale. Emigrò a Bruxelles, parlamentare europea, con i Verdi. Sempre ironica, sempre insofferente delle burocrazie, al potere e all'opposizione. Era una donna viva e libera, perchè‚ l'onorevole Aglietta era solo un un frammento di Adelaide. C'era poi una donna innamorata, una madre fiera delle sue figlie, un'italiana appassionata del suo paese, un'europea scettica e decisa. Durante un digiuno chiamò un amico, agonizzando: posso bere un bicchiere d'acqua? l'amico le impose un cappuccino: qualche caloria per salvare le idee. Ma lei restò male, temendo di tradire un impegno preso. A guardare la politica italiana di oggi, scrivendo di Adelaide Aglietta, viene un senso di terribile malinconia: certo ci saranno da qualche parte personalità felici come la sua. Ma, per ora, non sappiamo vederle.

Cyrus
11-04-09, 21:52
L'EUROPA NON CADE DAL CIELO
Questi sono alcuni brani tratti dal supplemento n.2 di Notizie Verdi del 31/1/1994

Care amiche, cari amici,

al termine del mio mandato di parlamentare europeo ho sentito la necessità di raccontare alcune delle cose che ho fatto in questi cinque anni, e di dare, attraverso la mia personale esperienza, un contributo di conoscenza della realtà del Parlamento, dei suoi limiti e delle sue potenzialità. Il mio non è un riflesso di protagonismo, (in tanti anni di attività al Parlamento italiano non l'ho mai fatto) ma solo la necessità di uscire dalla "clandestinità" a cui è inesorabilmente condannato l¹eletto europeo quando faccia veramente il parlamentare nelle sedi di Bruxelles e Strasburgo. E credo che questa sia una prima considerazione: il parlamentare europeo, anche se presidente di gruppo - e per tanto coinvolto interamente nella direzione e nelle scelte politiche e istituzionali del parlamento - non esiste. Questo accade perché, in Italia in particolare (negli altri paesi d'Europa esiste un giornalismo più preparato e meno provinciale) i mass-media non sono interessati agli accadimenti europei, tranne in poche circostanze. Secondo un costume molto italiano, esse sono: la partecipazione del Presidente del Consiglio ai vertici dei capi di Stato, qualche Consiglio specializzato o le visite del Presidente della Repubblica. Tutte occasioni nelle quali il palcoscenico è occupato dal "potere politico nazionale". Stando così le cose, è difficile spiegarsi - o forse è perfettamente conseguente? - perché il cittadino italiano, che è il meno informato sull"Europa, sia il più europeista di tutti.

E' indubbio che il Parlamento è la cenerentola delle istituzioni europee: dotato di pochi poteri reali e confrontato con il Consiglio e la Commissione, che gestiscono in modo non trasparente il potere legislativo ed esecutivo. Inoltre, in assenza di un vero governo della Comunità, il Parlamento è condannato a non giocare il gioco della democrazia, cioè dello scontro fra maggioranza e opposizione: e questo toglie interesse alle sue decisioni. Eppure, io credo che se tutti i parlamentari, liberati dal vincolo della maggioranza-opposizione, fossero un pò meno "nazionali"; un pò meno succubi dei propri governi, quando i loro partiti ne facciano parte; un pò più conseguenti con le promesse elettorali, e un pò più diligenti, la strada della integrazione politica europea, che trova il suo più convinto sostenitore nel Parlamento europeo, sarebbe meno accidentata. Avendo avuto il privilegio e la responsabilità di essere presidente del quarto gruppo del Parlamento, il Gruppo verde, per parte della legislatura, sono convinta di avere potuto incidere sulle scelte della assise europea. Esse, seppure nei limiti che ho già detto, sempre di più hanno un riflesso sulle scelte delle altre istituzioni. In questo resoconto, mi sono limitata a dare qualche riferimento dell'attività che ho svolto, ma mi è parso importante mettere in evidenza che il Parlamento europeo può essere un'occasione di conoscenza straordinaria, di riflessione, e anche di azione significativa in una realtà internazionale in cui la nostra vita quotidiana fa i conti con la dimensione sovranazionale delle scelte politiche.

Certo, non si corre il rischio di essere accecati dai riflettori, ma se si ha l'umiltà del lavoro quotidiano sconosciuto, i risultati ci sono, e, per quanto riguarda il mio gruppo e la priorità ambientale, i risultati ci sono stati. Ma questo lo vedrete nelle poche pagine che seguono e che vogliono solo essere il racconto di chi, eletta al Parlamento europeo, ha ritenuto innanzitutto di svolgere con il massimo impegno possibile il mandato che aveva ricevuto: essere un parlamentare europeo, impegnato nella realizzazione del sogno europeo, che sempre più diventa una risposta necessaria, adeguata, e urgente alle sfide degli anni duemila.



L'Europa non cade dal cielo

Nella mia storia politica ho imparato l'importanza delle istituzioni: la necessità che esse funzionino nel rispetto delle regole e delle leggi (che devono esistere ed essere certe); la necessità della lotta per il ripristino della legalità, come fonte di democrazia e di garanzia politica e civile per tutti. La mia esperienza politica radicale, pur avendo caratteristiche di movimento, mi ha portata a essere molto attenta alle istituzioni - giudicate un riferimento necessario della democrazia - e ho sempre lavorato per costruirle e farle funzionare. Con queste premesse, non dovrebbe essere difficile comprendere perché, appena giunta al Parlamento europeo, sono andata nella Commissione istituzionale: un'assise di parlamentari che si occupa di cosa devono essere le istituzioni europee, oltre che dell'accelerazione democratica necessaria per insediarle prima che la loro esistenza sia compromessa. Per chiunque misuri la commissione istituzionale dal di fuori, e cioè dallo scarso impatto che i suoi lavori hanno sulla realtà, può ritenerla arida e noiosa e, in un certo senso, inutile. Eppure, per chi è convinto che l'integrazione europea sia il cammino necessario perché gli Stati operino in comune, in una situazione di uguaglianza, garantita da un diritto sovranazionale, formale e obbligatorio, la Commissione istituzionale è un luogo dove si tenta di costruire l'Europa politica e democratica. Il luogo dove il Parlamento degli eletti dai popoli - 518 deputati per 342 milioni di cittadini - cerca di affermare il proprio ruolo naturale: fare leggi, vegliare sul rispetto delle norme fondamentali dei Trattati di Roma, dialogare in un rapporto politico definito e costante con le altre istituzioni europee. Ma il Parlamento si è dato anche un compito in più: essere il motore della riforma democratica delle istituzioni della Comunità e la sede in cui si elaborano i principi fondamentali della Costituzione dell'Unione europea. In questa legislatura, la Commissione istituzionale è stata al centro del tentativo del Parlamento di svolgere un ruolo di Assemblea costituente. Questo é accaduto tanto nella fase delle conferenze intergovernative che hanno portato a Maastricht, tentando di influenzare e di correggere le tendenze conservatrici e poco federali dei Governi, quanto nella fase successiva alla firma del Trattato sull'Unione. In questa fase la Commissione ha elaborato un vero testo di Costituzione che, partendo da Maastricht ne supera i limiti, definendo in termini più vicini alla teoria federalista le competenze dell'Unione, ed in modo più trasparente ed equilibrato le funzioni e i rapporti fra le istituzioni. Questo testo, fin'ora votato solo in commissione, è l'ultimo contributo che la Commissione istituzionale ha fornito al Parlamento, alle altre istituzioni, agli europeisti convinti, come strumento da cui partire per entrare in una vera fase costituente che porti all'approvazione della nuova Costituzione nei Parlamenti nazionali e nel Parlamento europeo. E' una necessità per fare comprendere ai cittadini europei che cosa è l'Europa, quali ne sono le competenze e come interagiscono con i poteri nazionali e regionali, ed anche per fissare - alla vigilia dell'allargamento - un quadro definito e stabile della dimensione politica dell'Europa, per quei paesi che ne volessero fare parte. Opposta e antitetica a questa Europa politica e democratica, che pone un limite ai poteri dei singoli Stati e li armonizza a partire da esigenze sovrannazionali, c'è solo l'Europa degli Stati nazionali, basata sui rapporti di forza, dove si giocano pesanti compromessi a spese dei più deboli con rischi per tutti.

Signori Presidenti e colleghi, il gruppo Verde, e i partiti e movimenti di cui è espressione, sono certamente la più giovane famiglia politica del nostro Parlamento dell'Europa. Quarant'anni fa, dunque, non eravamo fra quanti salutarono nella CECA e nella sua Assemblea l'embrione di quella solidarietà di fatto che, passando per la definitiva riconciliazione franco-tedesca, avviava il percorso dell'integrazione europea come nuova frontiera di pace e convivenza da conquistare per tutti i popoli europei. Oggi, nel quarantennale della nostra Assemblea, ricordiamo con rispetto il nucleo di precursori che seppe trarre dal fertile magma di quegli anni un progetto e un metodo capaci di scrivere una nuova pagina della storia; ma, in particolare, il nostro pensiero va a coloro che di quel magma furono gli instancabili animatori, agli utopisti che si battevano fin da allora per un'organizzazione europea democratica e federalista, rigettando lo schema realista dei piccoli passi. Voglio salutare anch'io per tutti il nome e la memoria di Altiero Spinelli, il cui contributo alla vita del Parlamento e della Comunità resta l'esempio più vivo della forza concreta dell'utopia. Ripercorrendo le origini, la polemica fra le varie scuole di pensiero che nutrirono il dibattito di quegli anni - federalisti, unionisti, intergovernativi, nazionalisti - è d'obbligo ricordare, signor Presidente del Consiglio, la dichiarazione dell'Orologio. Mentre a Maastricht, il Consiglio Europeo ha fatto sparire persino il timido accenno alla vocazione Federale dell'Unione, Robert Schuman, dal canto suo, affermava che "la mise en commun des productions de charbon et d'acier assurera immédiatement l'établissement de bases communes de développement économique, première étape de la féderation européenne". E' questa utopia che è venuta meno nel corso degli anni, nei quali il Parlamento ha conquistato qua e là qualche briciolo dei poteri e delle prerogative proprie di un Parlamento e l'illusione di un equilibrio istituzionale democratico, senza però riuscire a scalfire davvero il muro delle sovranità nazionali. Il progetto di trattato di Unione europea siglato a Maastricht, senza voler negare gli aspetti positivi che pure esistono e senza dimenticarne il significato simbolico che è venuto via via assumendo, costituisce da questo punto di vista un monumento alla visione di una Europa in cui gli interessi nazionali fanno premio sulle motivazioni ideali da cui nacque il percorso d'integrazione europea. E non è un caso che, oggi, assistiamo nel cuore stesso dell'Europa al rinascere dei fantasmi, ahimè quanto vivi e reali, del nazionalismo e al dilagare della violenza razzista e xenofoba. L'Europa di Maastricht è un'Europa che rischia di perdere per strada, signor Presidente della Commissione, i fini originari, prigioniera di un metodo e di costruzione non democratica, incapace di adeguarsi in tempi utili al corso della storia dopo la caduta del muro di Berlino, assumendo come propri obiettivi le grandi sfide del sottosviluppo, della democrazia e dell'ambiente. Tra pochi giorni i francesi si esprimeranno su Maastricht e sappiamo con quanta apprensione è atteso questo verdetto dagli addetti ai lavori, dai mercati finanziari, dalle élites economiche e dalla burocrazia europea. Mi pare che questa scadenza lasci perplessi e frastornati i cittadini che non riescono a trovare nell'impianto di Maastricht quelle garanzie di democraticità, di trasparenza, di vera sussidiarietà che uniche possono fare della costruzione europea, fino in fondo, affare della gente, dei lavoratori, dei più emarginati, di tutti. Non è un gran risultato, e lo dico con dispiacere, essere appesi al filo del 50 per cento. Parafrasando Clemenceau, potremmo dire che l'Europa è cosa troppo seria per farla fare solo ai diplomatici. Certo è che continuare ad escludere questo Parlamento, i Parlamenti, le regioni, dal processo negoziale di modifica dei trattati è a dire poco miope. Noi Verdi, certamente gli ultimi arrivati in questo Parlamento - ma proprio per questo, forse, più attenti e memori delle motivazioni da cui nacque il sogno europeo - siamo testardamente convinti che la costruzione dell'Europa sia una condizione necessaria per incidere sulle urgenze che ogni giorno ci richiamano alla necessità di concepire istituzioni e politiche adeguate. Per fare questo, non possiamo che richiamarci all'unico modello di Europa capace, a nostro giudizio, di coniugare democrazia, ambiente e solidarietà: l'Europa federalista, l'Europa delle regioni, l'Europa della convivenza. Nel 1952, l'Assemblea appena insediata fu investita del compito di redigere in sei mesi un progetto di comunità politica, dunque una costituzione. L'Europa urgeva unita, partecipata, fondata su principi democratici. Oggi, come allora, rivendichiamo al nostro Parlamento il compito di redigere la costituzione dell'Europa come passaggio necessario per dare chiarezza e trasparenza al progetto europeo e alla sua realizzazione. Per concludere, non imporremo dall'alto una costruzione sentita come estranea e come strumentale. Solo ritrovando i valori originali, gli obiettivi adeguati alle sfide dei nostri tempi, le motivazioni che consentiranno a tutti di essere protagonisti e partecipi nella costruzione dell'Europa, potremo riprendere nelle nostre mani il testimone facendo tesoro dell'esperienza di questi quarant'anni. Il sogno europeo non può più aspettare. Tocca ad ognuno di noi esercitare la propria responsabilità politica per farne una realtà.

Cyrus
11-04-09, 21:54
Dopo la caduta del muro

Ci sarà una moneta per l'Europa?

In assenza di volontà, competenze e strumenti politici, la sola integrazione economica e monetaria crolla alle prime difficoltà E' il 9 novembre 1989, e una notizia sconvolgente appassiona il mondo: il muro di Berlino è stato abbattuto. Il Governo della DDR, piegato dalle manifestazioni di migliaia di persone contro il regime di Pankow (il sobborgo di Berlino Est dove ha sede e da cui prende il nome il Governo), e dalla continua fuga attraverso l'Ungheria dei suoi cittadini verso la Germania ovest, decide la liberalizzazione della concessione dei passaporti. Con questo atto si determina praticamente la caduta del muro, e si apre la strada al processo di unificazione delle due Germanie. Un vento di libertà attraversa l'Europa, e non solo: a migliaia giungono i visitatori di tutto il mondo, venuti a guardare le macerie del muro. Esso ha rappresentato la separazione virtuale e sostanziale di tutto ciò che abbiamo conosciuto in occidente, e la sua caduta sembra l'annuncio di un futuro colmo di solidarietà e di pace. Il cancelliere Helmut Kohl garantitosi l'assenso della Comunità, vola a Mosca a trattare con Mikahil Gorbaciov: nel brevissimo arco di dodici mesi il trattato di unificazione è firmato e hanno luogo le prime elezioni della Germania unificata. Il Bundestang appena eletto vota: Berlino diventa capitale della Germania. Al Parlamento europeo giungono diciotto osservatori della ex Germania dell'Est. Il loro Status si avvicina a quello di deputati, anche se non hanno diritto di voto né di parola in seduta plenaria. Soltanto alle prossime elezioni europee, quando si ratificherà l¹aumento del numero dei deputati per la Germania unificata, l'ex Germania dell'Est avrà i suoi eletti. Ma la riunificazione delle due Germanie non è ovviamente solo un problema tedesco. Le conseguenze politiche, economiche e monetarie della scelta anche elettoralistica del cancelliere Kohl di procedere a tappe accelerate all'unificazione garantendo, contro il parere della Bundesbank, la parità fra marco occidentale e marco orientale, sono molteplici e, a volte, inaspettate.

Dalla rinascita di un sentimento di timore e di diffidenza verso la potenza tedesca da parte di molti europei, alla progressiva diminuzione dell'interesse dei tedeschi al progetto di integrazione federale dell'Europa, alle conseguenze della politica della Bundesbank di tenere elevati i tassi di sconto per contenere le spinte inflazionistiche conseguenti agli altissimi costi dell'unificazione, alla nascita di spinte nazionaliste e razziste conseguenti alla recessione. Senza volere indugiare sulle responsabilità delle scelte del cancelliere Kohl, credo che il caso della riunificazione tedesca sia esemplare per comprendere come anche un avvenimento di straordinaria, positiva, portata storica e politica possa produrre effetti negativi, quando venga gestito come un problema interno di un singolo paese. La mancanza di un quadro di riferimento politico europeo nel processo di riunificazione tedesca - e in generale della situazione creatasi all¹Est - ha sicuramente contribuito ad acuire gli effetti della recessione in Germania e nel resto dell'Europa, in particolare nei 12. La crisi monetaria dell'agosto '92, che molti addebitano unicamente alla politica della Bundesbank, ha in realtà cause più complesse che derivano innanzi tutto dall'inefficacia di un sistema di integrazione in cui le decisioni continuano ad essere il frutto dei rapporti di forza fra i 12 paesi.

Alla proposta, che pure era stata fatta nell'agosto'92, di arrivare ad un aggiustamento globale della parità con il marco, si è preferito procedere a dispendiosi e fallimentari tentativi di salvataggio della speculazione (scatenata da un profitto sicuro e facilissimo) prima della sterlina e della lira - costrette poi ad abbandonare lo SME - e poi, a turno, di tutte le altre monete del paniere dell'ECU, per poi arrendersi all'evidenza del fallimento dello SME. In realtà, una volta in più è dimostrato che in assenza di volontà, competenze e strumenti politici per agire in comune, la sola integrazione economica e monetaria salta alle prime difficoltà. In effetti lo SME è uno strumento unicamente monetario, sprovvisto di meccanismi interni che garantiscano una gestione unitaria o almeno convergente delle politiche monetarie degli Stati membri. Questi, trovandosi alla prese con una fase di recessione economica, invece di farvi fronte con una politica comune e solidaristica, seguono ognuno la ricetta nazionale che pare loro più efficace. Ed è così che ci ritroviamo, al di là delle tante parole, alle soglie dell'ultima fase di realizzazione della moneta unica, senza nessuna certezza di trovare gli strumenti adeguati per realizzarla.


Per i diritti degli indigeni per i diritti degli animali

Occuparsi della regolamentazione del mercato degli animali da pelliccia, apre un orizzonte, anche doloroso, di riflessioni che riguardano il nostro sistema di vita: da un lato il consumismo e i lussi ai quali non vogliamo rinunciare; dall'altro la fatica e lo strazio a cui costringiamo una parte del pianeta e degli esseri viventi Nella prima metà della legislatura, come ho già detto, faccio parte della Commissione per le relazioni economiche esterne (Rex), e mi è accaduto di occuparmi della regolamentazione della importazione delle pelli degli animali da pelliccia pregiata e del relativo commercio. Non so se avete mai riflettuto sui diversi aspetti del mercato delle pellicce, e sui diversi gradi di necessità esistenziale che in esso si giocano. Per l'animale vuole dire perdere la vita; per certe popolazioni indigene, che vivono di caccia, vuole dire sopravvivenza; per coloro che acquistano le pellicce, vuole dire quanto ciascuno intende investire di status, di piacere, di esibizione o di bisogno personale. A me - a cui è toccato di dovere riflettere su tutti e tre questi elementi - la questione ha mostrato tutti i suoi lati oscuri e anche dolorosi. Per comprendere quello che voglio dire basta leggere le definizioni di trappola e di trappola al laccio, e di quest¹ultima soprattutto: "Un laccio infilato in un congegno ad arresto, inteso a formare un cappio che provochi lo strangolamento, restringendosi progressivamente, intorno al collo e al corpo degli animali".

Questo è solo uno dei modi in cui vengono catturati gli animali, e non solo quelli cacciabili, ma tutti quelli che - anche domestici - finiscono nelle tenaglie di ferro di una trappola dalla quale non possono più fuggire, se non strappandosi a morsi pezzi di corpo. E' stato mentre sostenevo l'abbandono di certi strumenti di cattura feroci e indiscriminati, e il ritiro dal mercato delle pellicce così ottenute, che ho cominciato a ricevere le prime visite e le lettere. Tralascio di raccontare gli incontri con i pellicciai; le loro raccomandazioni perché i vincoli al commercio e la regolamentazione sui sistemi di cattura slittasse di un anno o due: imporle prima sarebbe un inutile proibizionismo, dicevano. Tutto continuerebbe allo stesso modo, ma nella clandestinità. Quanto alle lettere, invece, a scriverle era l'International Work Group for indigenous affairs. In esse si sosteneva la causa degli indigeni della Groelandia e del Canada e il loro diritto a cacciare per sopravvivere. La loro esperienza, mi informavano, è tanto elevata e specifica da consentire loro di catturare solo certi animali, risparmiando quelli protetti, e riconoscendo finanche i maschi dalle femmine. Successivamente mi sono giunti i cataloghi con le facce degli indigeni: facce antiche, belle e terribili.

Our land, our culture, our future, si leggeva sulla copertina, mentre il depliant illustrava con le immagini la convivenza elementare di indigeni di ogni età - bambini, anziani, uomini e donne in forze - con animali vivi e morti. Trattati con affetto i primi, spellati con identico amore i secondi. E' indubbio che quella fosse la loro tradizione, così come per gli indiani d'America dare la caccia Bisonte (non a caso rappresentazione terrestre di Manitù), e cibarsi della sua carne, usarne la pelle e ogni altra piccola parte, senza buttare via nulla. Ma proprio per questo, non si può ignorare che gli indigeni, in tempi non lontani - cinquanta o settanta anni fa, al massimo -avevano con gli animali un rapporto di rispetto necessitato dalla loro stessa vita. C¹era fra loro un equilibrio delicatissimo, dove non era ammissibile lo spreco di nessuna esistenza. Niente a che vedere con l'uccisione incontrollata e inutile imposta dai ritmi frenetici della società dei consumi e delle vanità. Si è creato, ai danni degli indigeni (e degli animali) - un mercato del lusso, dal quale i primi non ricavano nulla o quasi nulla. Uccidono di più e più indiscriminatamente, ma nello stesso tempo guadagnano cifre ridicole; si arricchiscono, invece, i loro "protettori", i cosiddetti mediatori, e rivenditori. Le pelli finiscono spesso - come dimostrano tutti i nostri dossier - nei paesi dove non c'è nessun bisogno di indossare una pelliccia. Nel frattempo il loro habitat si impoverisce, le specie si estinguono, le loro tradizioni di caccia si perdono definitivamente: insieme scompaiono uomini e animali. Questo è un tipico esempio di modello di sviluppo che è necessario combattere: esso mette gli esseri umani contro gli altri esseri viventi, in una spirale distruttiva nella quale siamo destinati a perdere tutti.



L'Europa dei Trattati

Interventi parlamentari (1992)

di Adelaide Aglietta

Quando si parla dell'Europa politica, cioè di un'Unione europea dotata di un ordinamento federale con istituzioni democratiche e competenze limitate e reali, sottratte alla sovranità degli Stati membri, sono due i nomi che devono essere richiamati alla memoria storica: Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Nel documento che essi scrissero negli anni del confino a Ventotene, e che fu reso pubblico nel 1941, si legge: "Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per fare nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta in Europa". Rossi e Spinelli - benché duramente perseguitati dal fascismo, separati dalle loro famiglie e condannati a una vita di stenti e di privazioni - stavano già sognando la fine della guerra e il riordino dell'Europa. Essi riescono a immaginare gli Stati uniti d'Europa e come bisognerà trovare la forza di farli nascere dalle ceneri dei nazionalismi e degli imperialismi. Con il documento di Ventotene, il federalismo ha una svolta decisiva, e dimostra di avere appreso una lezione ancora sconosciuta ai federalisti del secolo precedente: nessuna meta è preventivamente assicurata, nessun esito predeterminato in anticipo. L'Europa non cade dal cielo, è il loro motto, e costruirla vuole dire coniugare il pensiero all'azione, procedendo nella critica del marxismo, della restaurazione democratica nazionale e dei nuovi razzismi. La lunga marcia dell'Unione europea ha inizio con il Trattato di Parigi del 1951. Esso sanciva la nascita della Ceca (comunità europea del carbone e dell'acciaio) ed era sottoscritto dai governi della Francia, dell'Italia, della Germania, del Belgio, dell'Olanda e del Lussemburgo. Lo slancio europeista condusse alla firma nel 1953 del Trattato della Comunità europea di difesa e alla elaborazione dello Statuto della Comunità politica, primo vero progetto di costituzione europea. Scriveva Altiero Spinelli: "I poteri di cui l'autorità federale deve disporre, sono quelli che garantiscono la fine delle politiche nazionali esclusiviste. Perciò la federazione deve avere l'esclusivo diritto di reclutare e di impiegare le forze armate; di condurre la politica estera; di determinare i limiti amministrativi dei vari Stati associati, in modo da soddisfare alle fondamentali esigenze nazionali e di sorvegliare che non abbiano luogo soprusi sulle minoranze etniche (..) di emettere un'unica moneta federale, di assicurare la piena libertà di movimento a tutti i cittadini entro i confini della federazione". Ma entrambi furono spazzati via da un voto dell'Assemblea nazionale francese che esprimeva un sentimento molto diffuso nei paesi membri, e il progetto di avere una politica estera e di sicurezza comune, benché continuamente riproposto, finora è sempre fallito, da ultimo anche nel Trattato di Maastricht. Questo fallimento è certamente fra le cause più importanti del mancato ruolo dell'Europa nella politica internazionale, come interlocutore dei processi politici all'Est, e come autorità capace di evitare o contenere le grandi catastrofi del nostro tempo, da ultima la guerra nella ex-Jugoslavia. La Comunità in assenza di una politica comune e di un'unica sede decisionale, si è trovata divisa, paralizzata, lacerata, incapace di un'azione autonoma, all'altezza dei compiti e delle aspettative. Al suo posto c'é stata un'azione dei Governi limitata e pericolosa che, con l'alibi della Comunità, ha perseguito la strada degli interessi e delle politiche nazionali. Con il Trattato di Roma del 1957, la dimensione economica dell'integrazione ha preso il sopravvento sulla creazione dell'Unione politica: fu sancita la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei lavoratori, senza però fare nessun passo verso l'organizzazione dei poteri europei. Il primo luglio del 1961 furono soppressi i dazi doganali e si avviarono una serie di politiche comuni, soprattutto agrarie e commerciali. A quest'Europa senza regole, ma delle merci e dei capitali e che si avviava a divenire una potenza economica mondiale, chiesero di aderire anche la Gran Bretagna, la Danimarca e l'Irlanda, benché per farne parte abbiano dovuto aspettare la fine dei negoziati nei quali la nazionalissima Francia di De Gaulle oppose il suo veto per ben due volte, nel 1961 e nel 1967. Dunque, il primo ampliamento della Comunità è avvenuto nel 1972. Esso sollevò nuovi problemi da affrontare: primo fra tutti, la necessità di una politica economica comune che non poteva fondarsi solo sul principio di stabilità dei cambi e sulla illusione monetarista. Lo scontro fra i federalisti e gli altri fu molto duro: per i primi, infatti, l'unione monetaria avrebbe dovuto essere una conseguenza dell'unione politica; per gli altri, invece, essa poteva esistere indipendentemente dal resto o, al massimo, doveva costituire un primo passo verso l'unione politica. Vincono i secondi (la storia della Comunità europea è frequentemente giocata sul piano del realismo politico e con un reiterato rifiuto del "sogno" federalista), e nel 1979 insieme al Parlamento europeo nasce lo Sme: il sistema monetario europeo, che ha lo scopo di arrivare ad una regolamentazione dei cambi delle monete dei singoli Stati membri, fino a raggiungere le condizioni per una moneta unica comune: l'ecu. Fra il 1981 e 1986, anche la Grecia, la Spagna e il Portogallo chiedono di entrare nella Comunità, e le disparità di sviluppo economico fra i dodici paesi si accentuano. A questo punto, le strade da seguire sono solo due: o si affrontano i problemi posti dai dislivelli economici e politici dei dodici Stati in una chiave di soluzione sovranazionale, capace di armonizzare le differenze e di intervenire laddove lo Stato nazionale non è più capace di essere adeguato; o si restituiscono i poteri agli Stati nazionali, mettendo in comune solo i mercati e la moneta. Per mediocrità e per egoismo nazionale, si è fatta sempre questa seconda scelta, e le modifiche al Trattato di Roma, introdotte nel 1985 con l'Atto unico europeo (registrato dai federalisti di tutta Europa come un'occasione mancata) ne sono state una ulteriore conferma. Dal 1991, e per tutta la durata della legislatura, sono stata presidente del Gruppo verde: un incarico che mi ha richiesto molto tempo e attenzione, e che mi ha costretta a fare delle scelte rispetto ad altri possibili interessi: tuttavia, ne è valsa la pena perché si è trattato di un banco di crescita enorme. Ero già stata presidente del gruppo radicale alla Camera dei deputati, ma il compito ricevuto al Parlamento europeo conteneva molte e nuove difficoltà, rispetto a quelle di cui avevo già avuto esperienza. In primo luogo, l'eterogeneità delle componenti: le provenienze diverse, non solo in senso strettamente geografico, ma culturale e di approccio politico. Poi - ed è stato forse lo scoglio più grande - l'appartenenza di alcuni membri a partiti nazionali invadenti e decisi a gestire il gruppo parlamentare come un proprio prolungamento di potere politico, e il Parlamento come una struttura da usare per scopi di parte. In un gruppo europeo si possono vivere le stesse difficoltà che, in scala maggiore, si vivono nei rapporti fra governi: la strenua resistenza a conservare piena e indiscussa la propria sovranità; il tentativo costante di non cedere a un progetto comune, nel quale si stemperino le pretese individuali e si giunga a scelte sostenibili e convincenti per tutti. Io ho lavorato a costruire un gruppo parlamentare dotato di autonomia dai partiti di appartenenza e capace di esprimere una politica propria, con risposte indipendenti, elaborate autonomamente, sui diversi problemi posti dalla costruzione dell'Europa. Sono stata presidente del gruppo verde, con l'eccezione dei primi diciotto mesi, per la durata dell'intera legislatura, e dopo un periodo di confronto duro e di qualche incomprensione - si è determinata una situazione di collaborazione e di intelligenza comune che ci ha permesso di mettere al centro della nostra attenzione il problema delle regole per l'Europa, della sua Costituzione, dei suoi poteri e dei suoi compiti. Lentamente, un giorno dopo l'altro, lavorando fianco a fianco, il Gruppo verde - all'inizio assolutamente diviso fra fondamentalismi e soggettivismi, anti-istituzionale per istinto e atterrito da qualunque ipotesi di politica comune, immediatamente percepita come imperialista - è riuscito a esprimere una posizione anche su temi difficilissimi come la difesa e la sicurezza dell'Europa, argomento che più di ogni altro scatenava tutte le diversità e le diffidenze. Non è stato facile comprendere, ma infine ci siamo riusciti, che mentre per i governi dei 12, complessivamente e individualmente, le minacce sono prevalentemente militari, per noi ecologisti e per chi guarda al futuro del pianeta all'alba di questo nuovo millennio, i pericoli vengono dal sottosviluppo, dal razzismo, dalle catastrofi ambientali, dai dissesto idrogeologico che si è prodotto in questo ultimo decennio, dai possibili terremoti, dalle nuove epidemie, dalla fame nel mondo, della necessità di un controllo demografico fondato sull'informazione e la libertà, invece che sulla repressione e il totalitarismo. Ciò che siamo riusciti a comprendere collettivamente, è che non si combattono i rischi di costruire una forza "imperialista" negando la possibilità di una politica estera e di sicurezza comune, ma costruendo istituzioni democratiche - con un ruolo rafforzato del Parlamento europeo - che determinino la politica dell'Unione e non consentano ai paesi più forti di imporre le proprie scelte nazionaliste e di profitto a svantaggio degli altri Stati membri. Dopo la definitiva approvazione del trattato di Maastricht, il Gruppo verde - superata la delusione per un Trattato che ha scontentato tutti e ha accentuato il potere degli Stati nazionali e dei Governi a detrimento dei poteri del Parlamento - è riuscito a esprimere delle posizioni di critica costruttiva e una strategia per rilanciare il processo di unificazione democratica dell'Europa. La nostra parola d'ordine è allora divenuta: superare Maastricht. A parte i contenuti specifici della proposta ambientalista e ecologista, una critica decisa va fatta alla regola che vincola le decisioni più importanti all'unanimità. Pretendere che si possa governare con un voto espresso all'unanimità è l'esatto contrario di quello che accade in democrazia, dove esiste il governo della maggioranza e il rispetto del ruolo e dei diritti delle minoranze. La regola dell'unanimità è quella che permette a ciascuno Stato di esercitare un potere di veto sulle decisioni comuni, garantendo in tal modo i propri interessi nazionali a scapito di quelli dell'Unione euroepa. Maastricht ha riconfermato questo criterio nazional-governativo a discapito dell'Europa dei popoli. E' chiaro, inoltre, che l'Europa non può avanzare - ma è destinata a subire continue sconfitte - ricorrendo a soluzioni che invece di essere politiche siano amministrative e tecnocratiche. L'Europa può esistere solo con il sostegno popolare e la coscienza di ognuno di essere parte di un'Unione, delle cui decisioni è direttamente o indirettamente partecipe. Questo è il senso di una cittadinanza comune, che il Trattato di Maastricth prevede, senza però porre le istituzioni comunitarie nelle condizioni di renderla effettiva e sicura. Ancora una volta emerge il contrasto fra due diverse visioni politiche: quella di chi intende la cittadinanza europea come un'aggiunta di democrazia, ovvero come una facoltà della libertà individuale e un progresso nel cammino dei diritti civile e umani, e chi vuole che la libertà di circolazione derivi e sia funzionale all'Europa dei capitali e delle merci, in una esasperata e inutile illusione economicistica. Noi, verdi e federalisti d'Europa, siamo convinti che la nascita della cittadinanza europea sia un primo, obiettivo, riconoscimento dell'esistenza di una nuova dimensione politica, al di là degli Stati nazionali, e della necessità che questa si doti di un proprio effettivo governo.

Alla scadenza elettorale, che eleggerà direttamente la IV assemblea parlamentare europea, i cittadini europei dovranno votare un Parlamento in piena e responsabile funzione, che risponda della rappresentanza dei suoi elettori, e che eserciti un'effettiva coodecisione nei processi e nelle scelte. Questo è tanto più impellente in quanto la Comunità europea sta per allargare i propri confini, cosa che non deve accadere senza un dibattito che definisca i poteri, le competenze, i ruoli delle istituzioni, e che consenta l'adozione contemporanea d'una riforma istituzionale di tipo federale. Superare Maastricht vuole dire essere capaci di opporci a chi - senza fare nessun dibattito politico - vorrebbe un'Europa aperta solo ai mercati e incapace di assumere le contraddizioni dell'ingresso nella Comunità di paesi poveri, come la Polonia, l'Ungheria e la Cecoslovacchia che hanno più volte chiesto, senza essere accolti, di entrare a fare parte dell'Unione europea, o come i Paesi dei balcani, o le repubbliche dell'ex-URSS, che cercano la propria sicurezza in una qualche forma di integrazione europea. Non ci possiamo più permettere soltanto l'Europa dei paesi ricchi, non solo perché questo corrisponde a una politica degli egoismi nazionali, ma perché esprime una volontà proterva di continuare a non rendersi conto di quello che sta accadendo attorno a noi. L'integrazione dei popoli nel rispetto dei diritti, nella tolleranza delle diversità, l'offerta di confronto - mentre la domanda di Europa sale dai paesi scandinavi, dall'Austria, e da tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale - non solo è una necessità democratica, ma è anche ciò che ci "conviene" fare. Infatti, solo un'Europa politica forte, aperta, tollerante e democratica, può costituire un ancoraggio contro la ricomparsa dei nazionalismi, dei conflitti etnici, e contro i rischi di involuzione autoritaria. Ma come possiamo riuscire a fare tutto questo, come possiamo tentare di imporre scelte democratiche al Consiglio dei ministri - emanazione dei Governi nazionali, dove si prendono tutte le decisioni politiche, sapendo che molto spesso gli stessi parlamentari garantiscono solo il proprio paese e la propria parte politica? E' già successo che alla vigilia di decisioni importantissime per la Comunità europea, quando il vertice intergovernativo di Maastricht stava per approvare il Trattato con i contenuti che noi tutti disapprovavamo, il Parlamento abbia votato una mozione durissima, minacciando, se le cose non fossero cambiate, di non accordare il parere conforme. Ma le cose non sono andate così: benché l'empito di orgoglio e di responsabilità lasciasse ben sperare, rapidamente i Governi hanno ripreso il controllo dei singoli deputati, attraverso le pressioni dei partiti nazionali. Ora i problemi si ripresentano sotto gli occhi di tutti, e alcune scelte diventano improcrastinabili: la necessità di riprendere il dibattito sulla costituzione europea e di approvarla, dotando finalmente l'Unione e i cittadini europei di una carta fondamentale; riprendere un ruolo deciso di controparte politica nei confronti delle istituzioni europee, come il Consiglio dei ministri, richiamandolo ai limiti dettati dalle reciproche interdipendenze, e riproponendo il problema delle riforme delle istituzioni, del suo calendario e del metodo da seguire per realizzarle.Il Trattato di Maastricht va revisionato, convocando al più presto una conferenza interistituzionale che restituisca al Parlamento europeo il ruolo che gli compete, e che gli riconosca il potere di codecisione costituente. Il Parlamento europeo, con i soli poteri attribuitigli da Maastricht, dispone già di alcune frecce al proprio arco: voto sul bilancio, parere conforme, cooperazione e codecisione per alcuni settori, censura dell'operato della Commissione. La minaccia di rifiutare il parere conforme a tutti i trattati o gli accordi che prevedano un allargamento della Comunità senza l'adozione contemporanea di una riforma istituzionale di tipo federale può condizionare in maniera decisa l'operato dei Governi, e costituire una influenza determinante su come sarà l'Europa. Ma questa sarà la storia del prossimo Parlamento. Successi, sconfitte, speranze.

Il Parlamento europeo, come tutti i Parlamenti, è governato dalla Conferenza dei Capigruppo che si riunisce per prendere le decisioni politiche riguardanti i rapporti internazionali e con le altre istituzioni, la gestione del lavoro d'aula e in commissione. A differenza degli altri Parlamenti, però, quello europeo non ha una maggioranza di Governo, né, quindi, una vera opposizione. Questo rende i nostri incontri di lavoro molto particolari, perché non esiste mai una soluzione precostituita, e su ogni argomento possono determinarsi schieramenti inaspettati. Per questo, nella mia responsabilità di presidente del Gruppo verde, ogni volta ho saputo che dovevo impegnarmi fino in fondo per riuscire a rendere maggioritari punti di vista e contenuti squisitamente ecologisti, frutto dell'impegno del gruppo Verde e di ciscuno di noi. E' accaduto che, a volte, ci riuscissimo, e che l'Europa "portasse a casa" spezzoni di politica ambientale, tanto per quanto attiene a risultati operativi,tanto per quanto attiene ai fondamenti e ai valori della scelta politica. Ci siamo battuti per imporre dibattiti sulle catastrofi ambientali e sui problemi dell'inquinamento; sui problemi della sicurezza delle centrali nucleari; sulla sicurezza nei luoghi di lavoro; sulle reti transeuropee per un modello alternativo di trasporto; per la riforma della politica agricola comune, distrutta dalla "riforma" precedente, tutta finalizzata ad un modello produttivistico che ha distrutto il tessuto stesso delle campagne. Abbiamo posto un limite al delirio della scienza sulla natura: sulle biotecnologie siamo riusciti a scongiurare che si brevettassero esseri viventi; abbiamo imposto norme molto severe per gli alimenti geneticamente modificati; abbiamo ottenuto un alto grado di protezione per gli alimenti irradiati; norme unificate e non inquinanti per gli imballaggi. Siamo stati al centro di un rapporto sulle droghe, e dei problemi derivanti dalla politica proibizionista su questa materia. Grazie a noi, la commissione di inchiesta istituita a questo scopo, ha dovuto convenire sul fallimento del modello proibizionista. Abbiamo descritto i contenuti di un nuovo modello di difesa non esclusivamente militare, in grado di fronteggiare i nuovi pericoli per il nostro pianeta, intervenendo sulle catastrofi ecologiche che incombono o si sono già verificate. Abbiamo lottato, fino all'ultimo momento utile, per trovare soluzioni diverse da quelle militari, sia per la guerra nel Golfo che per la tragedia della ex-Jugoslavia. Abbiamo inciso sulla definizione dei rapporti della Comunità con i paesi del Mediterraneo, contribuendo a bloccare protocolli economici con paesi, come la Siria e il Marocco, che non rispettavano i diritti umani. Abbiamo imposto, ogni volta che ci è stata data l'opportunità di farlo, la condizione del rispetto dei diritti umani a premessa delle relazioni economiche con la Comunità. Siamo riusciti a portare in aula centinaia di risoluzioni sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, attivando lo spauracchio delle sanzioni o la prospettiva dei crediti e degli aiuti. Abbiamo contribuito a portare a termine la transizione democratica di paesi dell'Est come la Romania, e di paesi africani come il Madagascar; abbiamo sventato - con la complicità attiva di Carlo Ripa di Meana, allora Commissario della Cee - l'Esposizione universale di Venezia, una tangentopoli ecologica che il ministro De Michelis avrebbe voluto produrre.

Cyrus
11-04-09, 21:54
I mezzi e i fini

Può uno Stato che debba difendersi dalla violenza del singolo cittadino ricorrere allo strumento della pena di morte? E' giusto che il mezzo usato lo renda uguale a chi vuole combattere?

A questa domanda il Parlamento europeo ha già dato una risposta con la risoluzione Aglietta: nessuno Stato può disporre della vita di una persona, neanche come conseguenza di reati gravissimi

Fin da quando ero una ragazza ho sempre pensato che non avrei voluto fare due cose: l'insegnante e il giudice. Come dire che non mi sono mai sentita addosso la misura necessaria per propormi agli altri, perfino alle mie figlie, come un modello da imitare. Ma soprattutto, non ho mai pensato che avrei voluto assumermi la terribile responsabilità di giudicare gli altri, decidendo della loro libertà. Invece, come ognuno di noi sa, le cose che temiamo sono senz'altro quelle che ci metteranno alla prova. Così, nella mia vita politica - iniziata a Torino nel 1974, a trentaquattro anni, sul richiamo irresistibile dei diritti civili - il divorzio, l'aborto, l'obiezione di coscienza - mi è successo di dovere assumere in prima persona i ruoli che avevo più temuto. Erano i cosiddetti anni di "piombo"; di lì a pochi mesi le Brigate rosse avrebbero "processato" e ammazzato Aldo Moro, mettendo fine, con questo misfatto, alla loro parabola ascendente. In Italia si respirava un clima di paura e di inquietudine, accompagnato spesso a una tensione individuale, come se da noi, dalle nostre singole vite, dipendessero i destini e la storia dell'Italia. Si trattava solo di decidere come, con quali strumenti e a quale prezzo personale. Lo scontro fra violenti e nonviolenti era quotidiano e intenso. I terroristi proponevano il loro modello di rivoluzione: la lunga notte della clandestinità, degli attentati, dei comunicati abbandonati nelle cabine telefoniche e poi rivendicati. I nonviolenti proponevano la disobbedienza civile, le autodenunce degli aborti praticati; le manifestazioni annunciate; i referendum contro le leggi liberticide; il dialogo intransigente con le forze dell'ordine. Le quali spesso ci reprimevano duramente, per l'incomprensione profonda verso i nostri metodi. In questo clima rovente, io, che ero segretario politico del Partito radicale, fui sorteggiata come giudice popolare al processo istruito nella mia città, a Torino, contro le Brigate rosse. Erano al banco degli imputati: Curcio, Franceschini, Ferrari, Ognibene, Bonavita, Bertolazzi... Non so dire da dove nasca il coraggio: forse semplicemente dalla paura che diventa necessità. Avevo paura in quei giorni nei quali, ogni mattina, mi recavo al processo e attraversavo le strade da sola? Non lo so più. Di sicuro avevo molta più paura per le persone che mi erano care che per la mia stessa vita: non avrei sopportato un lutto che derivasse dalle mie scelte. Rifiutai la scorta. Se le Brigate rosse avessero deciso di colpire, non avrei messo in pericolo anche la vita dei poliziotti. L'anno prima, per settantatré giorni, avevamo digiunato per ottenere la riforma del corpo degli agenti di custodia, massacrati fra la legislazione di emergenza e lo scoppio delle carceri. Alla fine, eravamo riusciti ad impegnare Andreotti, allora presidente del Consiglio, a una riforma effettiva. Il resto è storia che si conosce: i brigatisti ebbero il loro processo che si concluse con pesanti condanne. Si trattò tuttavia di un vero processo: qualcosa di molto diverso da quelli che si fecero in seguito con le leggi Cossiga, la carcerazione preventiva e il teorema Calogero. A Torino valsero ancora le prove a carico piuttosto che le "colpevolezze oggettive". Molti anni dopo, nel corso delle visite ispettive che periodicamente facevo nelle carceri di tutta Italia, ho incontrato i miei "condannati": Alberto Franceschini, Roberto Ognibene e gli altri, anche loro in sciopero della fame. Ho sentito che fra di noi non c'era rancore, ma invece una specie di conoscenza profonda, che divenne negli anni amicizia, e, per alcuni, una comune militanza radicale. Forse violenti e i nonviolenti, nel deserto morale dell'indifferenza, sono destinati a ritrovarsi.

Dall'Europa: non uccidere!

Dopo pochi mesi dalla mia elezione, mi recai a Parigi dove si teneva la prima riunione della Commissione politica del Parlamento europeo, a cui partecipavano Jacques Delors e il presidente del Consiglio europeo. Quando venne il mio turno di parola, quasi di istinto, facendo una sintesi delle cose in cui credo di più, proposi che il Parlamento europeo definisse un suo impegno per l'abolizione della pena di morte, e che si schierasse sulla situazione del Tibet convocando subito un'audizione pubblica. La proposta fu accolta, e il 25 e il 26 aprile 1990 il Dalai Lama venne ufficialmente ascoltato dal Parlamento europeo. In seguito sono stata nominata relatrice sulla pena di morte: il tema che riassume, amplificandoli, i contenuti politici e di diritto che mi hanno sempre appassionata. I relatori del Parlamento hanno il compito di istruire il dibattito sul tema che gli viene affidato, e di preparare un testo di risoluzione da sottoporre all'assise parlamentare. Hanno lavorato con me alla stesura della risoluzione Antonio Marchesi di Amnesty international e Olivia Ratti. I punti di riferimento abolizionisti da cui partiamo sono, per cominciare, quelli già esistenti: - Il secondo Protocollo opzionale al patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni unite, entrato in vigore nel 1991, ma firmato solo da 20 paesi e ratificato da 17. Esso recita: Nessuno che sia sottoposto alla giurisdizione di uno Stato parte al presente protocollo sarà giustiziato. Ogni Stato adotterà le misure necessarie all'abolizione della pena di morte nell'ambito della propria giurisdizione. L'articolo 1 del Sesto protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1983, dove si legge: La pena di morte deve essere abolita. Nessuno deve essere condannato a tale pena o giustiziato. Entrato in vigore nel 1985, è stato firmato da 20 paesi e ratificato da 18, il Sesto protocollo è il primo trattato internazionale giuridicamente vincolante - anche se in un ambito geografico delimitato - a prevedere l'abolizione della pena di morte anche in tempo di pace. La pena di morte evoca i contenuti su cui ho sempre riflettuto nel mio impegno politico: il rapporto fra Stato e cittadino; la definizione del ruolo dell'istituzione, e i limiti del suo potere legittimo. Lo stesso problema lo affrontammo in Italia fra il 1975 e il 1979, quando discutemmo della depenalizzazione dell'aborto: anche in quel caso si trattava di definire il territorio di non ingerenza dello Stato. Quel settore dell'esistenza su cui l'istituzione, il potere, lo Stato in quanto tale, non possono arrogarsi diritti prevalenti sulla vita e sulla coscienza del singolo cittadino. Naturalmente, qualcuno potrebbe chiedere che senso abbia occuparsi della pena di morte in Italia o in Europa, dove questa in pratica non c'è più. La risposta è semplice: la cultura abolizionista dell'Europa può essere il tramite di una grossa campagna internazionale contro la pena capitale. Per fare questo è necessario che scompaia innanzi tutto dagli ordinamenti dei paesi della Comunità, laddove è ancora formalmente prevista. Più precisamente, la situazione è la seguente: essa è prevista dal codice penale o dalla Costituzione per reati "ordinari" in Belgio e in Grecia, sebbene da oltre vent'anni non se ne esegua alcuna; è prevista solo nei codici militari, o per reati "eccezionali" in Italia, Spagna e Inghilterra, dove è mantenuta anche per il reato di alto tradimento. Per quanto riguarda i paesi del Consiglio d'Europa, la Svizzera rappresenta una novità positiva, avendo abolito la pena di morte per tutti i reati. Nel resto dell'Europa, tempi duri in Bulgaria, dove una parte del Parlamento sarebbe favorevole alla proposta di abrogare la moratoria sulle esecuzioni del 1990. Recentemente, il testo di ripristino della pena capitale è stato battuto di strettissima misura. Nelle tre Repubbliche baltiche (fanno parte del Consiglio d'Europa solo Estonia e Lituania) nessuna novità legislativa, nonostante la campagna di Amnesty International e le sollecitazioni del Parlamento europeo. In Albania sono riprese le esecuzioni capitali. In Moldavia, benché la pena di morte fosse stata abolita nel 1992 per reati economici e di spionaggio, è stata proposta nella nuova Costituzione. Molto probabilmente, verrà seguito l'esempio della Russia: limitazione della pena di morte ai soli reati di sangue.

Pena di morte o democrazia?

Un capitolo a parte è costituito dalla situazione degli Stati uniti d'America. Dopo una lunga sospensione delle esecuzioni durata fino al '77, gli Stati uniti hanno riattivato l'esecutività delle condanne a morte: nel volgere di pochi mesi un numero rilevante di detenuti è stato ucciso. Sta accadendo sostanzialmente per due ragioni. La prima: sono giunti a termine i ricorsi e le fasi processuali per oltre un migliaio di detenuti nei braccetti della morte; la seconda: l'attuale Corte suprema è composta per la maggioranza da conservatori (sette su nove sono favorevoli alla pena di morte) indisponibili a concedere altri rinvii. La pena capitale era stata sospesa perché le Corti supreme precedenti l'avevano giudicata una pratica inusuale e crudele, che non garantiva una morte sopportabile. Per molti anni, alcuni folli hanno continuato a perfezionare sedie elettriche, camere a gas e iniezioni letali, per rendere simili strumenti sempre più efficaci e "meno crudeli". Dei sei ultimi candidati democratici alla presidenza degli Stati uniti, soltanto due erano contro la pena di morte: l'ex governatore della California Brown e il senatore Arkin. Clinton stesso ha interrotto la sua campagna elettorale per respingere una richiesta di grazia, a lui presentata come governatore dell'Arkansas. Inoltre, l'opinione pubblica americana, a causa della violenza che ha raggiunto una soglia altissima, è sempre più favorevole alla pena di morte, e i politici - con rarissime eccezioni - non osano mettersi contro di essa. Naturalmente, la violenza esplode dove il livello di vita è inferiore: nel ghetto, tra gli immigrati, fra gli ispano americani, fra i negri. Si calcola che un nero abbia cinque probabilità più di un bianco di essere "giustiziato". Ma non basta. Gli Stati uniti, quando solo recentemente hanno firmato il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni unite hanno posto le riserve sulla pena di morte nei confronti dei minori, degli handicappati e delle donne in stato di gravidanza, "riservandosi", appunto, la facoltà di eseguire la sentenza anche su loro.

La vita è indisponibile allo stato

Quando ho cominciato a raccogliere il materiale di riflessione necessario a formulare una proposta di risoluzione per il Parlamento europeo, mi è sembrato che il primo argomento fosse che nessuno Stato, a maggiore ragione se democratico, può disporre della vita delle persone, neanche come conseguenza di reati gravissimi, e con sentenze formulate in un processo legittimo. La nostra ambizione è stata quella di indicare una concezione dello Stato, del diritto e dei diritti, che si ponesse come riferimento per la comunità internazionale, e come diga contro una pratica oscena che non è un retaggio del nostro passato ma, come sostiene il sociologo Luigi Manconi, all'orizzonte del nostro futuro. Per questa ragione, il secondo punto della risoluzione, afferma il dovere legittimo, che si configura come tale, di intervenire per impedire che la pena di morte venga praticata. La risoluzione chiede inoltre una moratoria generalizzata delle esecuzioni, e che la Comunità imposti la propria politica estera e di cooperazione economica ponendo come condizione fondamentale, il pieno rispetto dei diritti umani, e in particolare l'abolizione della pena di morte. Benché l'autorità del Parlamento europeo sia solo morale e le indicazioni contenute nella risoluzione non siano operative e non vincolino neppure i paesi della comunità, è indubitabile che il grande confronto democratico e giuridico si gioca innanzi tutto sui limiti del potere dello Stato, ed in secondo luogo sulla funzione riabilitativa o retributiva della pena. Nella recente sentenza della Corte suprema degli Stati uniti sul caso Leonel Torres Herrera, la cui esecuzione non è stata sospesa benché si fossero acquisite le prove della sua innocenza, si legge: "Una rivendicazione di innocenza effettiva non è di per sé un diritto costituzionale". Con queste parole, la Corte, risponde definitivamente a chi dovesse obiettare: e se state uccidendo un innocente? Per il sistema americano, quello che conta è che il processo sia stato legittimo; che non ci siano vizì formali; che la sentenza sia stata espressa a seguito di un processo giusto. La grande e formale democrazia americana, purché abbia compiuto perfettamente i suoi riti giuridici, può, e vuole, assumersi il rischio di mandare a morte un innocente. Allo stesso modo, essi dicono, in cui si manda libero per sempre un colpevole che sia risultato processualmente innocente. Questo principio, che si fonda sul rispetto delle regole e accetta la parzialità della verità processuale, paradossalmente diventa integralismo giuridico allorché ricorre a una soluzione totale come la pena di morte. E' questo assurdo che ha fatto scrivere all'editorialista Furio Colombo un bellissimo articolo nel quale scrive fra l'altro: "Il processo che la cultura Usa chiama del Trial and error (sbagliare e riprovare) è il solo percorso che consente la civiltà. Quando viene abolito in favore di soluzioni assolute, esplodono fascismi e stalinismi. Sappiamo dalla psichiatria che la certezza assoluta è patologica. L'assassino la possiede. Non può possederla il suo giudice, per ragioni tecniche prima ancora che per differenze morali".

Nessuno tocchi Caino Una campagna entro l'anno 2000

La risoluzione da me proposta, è stata approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo 1992. In tal modo il principio di indisponibilità per lo Stato della vita della persona è diventata la posizione della Comunità europea. Ad essa si contrappone la posizione della Corte suprema americana che rivendica allo Stato il diritto di pronunciare (purché a seguito di un processo regolare) ed eseguire una sentenza di morte, anche se il condannato sia stato successivamente riconosciuto innocente. E' evidente che, per noi, dopo la sentenza della Corte suprema americana, il problema non è più quello di sottrarre qualcuno alla pena di morte perché potrebbe essere innocente, ma di affermare l'indisponibilità della vita del più colpevole degli imputati: quello sul quale non esistano dubbi di innocenza, ma solo la certezza della colpa. Caino, appunto, l'assassino del fratello. Forti dell'approvazione della risoluzione e di un esteso sostegno alla decisione di creare un coordinamento internazionale che ne promuova ovunque l'impostazione e le finalità, abbiamo organizzato al Parlamento europeo il Congresso di fondazione dell'Associazione: Nessuno tocchi Caino, campagna di cittadini e di parlamentari per l'abolizione della pena di morte nel mondo entro il 2000, che promuove una campagna di informazione, di mobilitazione e di pressione presso i parlamenti di tutto il mondo. L'associazione ha tenuto il suo primo Congresso il nove e dieci dicembre, ospiti del Parlamento europeo e del Gruppo verde; hanno preso parte ai lavori quasi centocinquanta rappresentanti di organizzazioni e parlamenti provenienti da tutto il mondo. Nei due giorni di riflessione, si sono identificate le priorità della nostra campagna abolizionista per i prossimi anni. Il documento finale del Congresso, esprime il proprio sostegno alla costituzione del Tribunale delle Nazioni unite sui crimini di guerra nella ex-Iugoslavia. Il primo tribunale penale internazionale che non processa imputati in contumacia, e non condanna alla pena di morte neanche il più efferato degli assassini. Neanche i cosiddetti boia di Sarajevo. Il Parlamento europeo ha sostenuto decisamente la costituzione del Tribunale, e ha fatto giungere la sua posizione anche alla Conferenza mondiale sui diritti umani, che si è tenuta a Vienna dal 10 al 24 giugno 1993. Benché sapessi che non bisognava aspettarsi molto da un'assise che aveva accettato il veto posto dalla Cina sul diritto di parola al Dalai Lama, mi sono comunque recata a Vienna nel corso dei lavori delle Organizzazioni non governative. Avevamo un appuntamento con il segretario generale della Conferenza, Ibrahima Fall, per consegnargli 60.000 firme in appoggio alla costituzione del Tribunale internazionale e per l'abolizione della pena di morte. Insieme ad esse, giungeva una risoluzione del Parlamento europeo, ispirata ancora una volta da noi, che chiedeva una moratoria generalizzata. La risoluzione chiedeva anche che il documento finale della Conferenza considerasse l'abolizione della pena di morte come uno dei punti fondamentali della politica dei diritti umani e dell'evoluzione del diritto internazionale.

Salman Rhusdie: la mia causa È quella dell'Europa

Nel mio discorso di apertura ai lavori del Congresso di fondazione di Nessuno tocchi Caino, sono stata particolarmente fiera di rendere conto di una iniziativa presa dal mio Gruppo e dal Gruppo socialista. Insieme abbiamo invitato al Parlamento europeo Salman Rhusdie, l'unico cittadino europeo sulla cui testa gravi una pesante condanna a morte, decretata e annunciata al di fuori di qualsiasi norma di diritto internazionale. Condannato a morte dal governo iraniano per avere pubblicato il famosissimo libro Versetti satanici, egli conduce una vita da prigioniero, mentre la sua sentenza a morte - la Fatwa che tutti i credenti islamici sono invitati a eseguire - è stata ripetutamente confermata nell'arco di cinque anni. A ciò, al rischio costante, assurdo, fanatico, di essere ucciso per mano di uno delle migliaia di islamici che gli danno la caccia, si è aggiunta, fra le tante difficoltà (vivere scortato, nella clandestinità) anche quella derivante da una incredibile decisione di alcune compagnie aeree britanniche e americane. Esse non consentono a Salman Rhusdie di avvalersi dei loro voli neppure per partecipare a riunioni internazionali dove parlare del suo caso. Grazie al nostro impegno, alla reiterate occasioni di dibattito, alla problematica complessa che egli evoca con la sua esistenza (il conflitto fra una società tollerante e la barbarie fondamentalista, ma anche il diritto di un cittadino europeo a circolare liberamente, e il dovere delle istituzioni di garantire che questo accada) siamo riusciti a organizzare un incontro con il Parlamento europeo e una conferenza stampa. "Spero che si potrà trovare una soluzione politica, per questo sono qui. La mia causa è anche quella dell'Europa", ha detto Rhusdie. E infatti, che Europa sarà mai la nostra se l'Iran obbliga un semplice cittadino a vivere nella clandestinità, se continua a esprimere una vera e propria sfida verso le istituzioni europee? Il traduttore del suo libro è stato aggredito in Giappone; il suo editore è stato ucciso in Norvegia; mentre si svolgeva la conferenza con il Parlamento europeo, il governo iraniano, per bocca di Ali Khamenei, ha accusato i paesi occidentali di "servirsi" dello scrittore britannico "per offendere l'Islam, i musulmani e il profeta". Che Europa sarà la nostra se i rapporti politici e economici con gli Stati non saranno subordinati al rispetto dei diritti umani, al valore della tolleranza, della libertà, della libera circolazione delle idee e degli uomini? Come ci impegnamo a fare rispettare Maastricht e il concetto di cittadinanza europea, affinché le decisioni non rimangano parole prive di conseguenza? "Sono ovviamente d'accordo, sono sempre stato abolizionista - ha detto Rhushdie - e oggi ho ancora più ragioni personali per esserlo. Sono sicuramente a favore dell'abolizione della pena di morte nel mondo. Possibilmente prima del 2000".


Chi ha dimenticato Tian an men?

Dopo la strage degli studenti cinesi, la Comunità europea interruppe le relazioni con la Cina, subordinandone i rapporti al rispetto dei diritti umani e politici. Ancora oggi la Comunità europea mantiene alcune sanzioni che, sebbene nominali, rappresentano la volontà di non dimenticare iugno 1989. Mentre nei dodici paesi della comunità si celebrano i riti della democrazia e viene eletto il Parlamento europeo, in Cina è in corso la strage di Tian an men. Un'ondata di dolore e di rivolta si leva da ogni luogo, dove la televisione mostri la marcia dei carri armati sopra i corpi vivi degli studenti cinesi. Sembrano immagini di altri tempi. Quelli della mia generazione ricordano di avere già visto una scena uguale: l'invasione sovietica dell'Ungheria prima, e della Cecoslovacchia poi. Quando arrivo al Parlamento europeo, le relazioni con la Cina, iniziate nel 1980, sono state interrotte. Ma, a fronte di questa scelta di tutta la Comunità europea - che giustamente subordina le relazioni con la Cina al rispetto dei diritti umani e politici - i singoli Stati membri, già nel 1990, hanno ripreso rapporti commerciali improntati al più esplicito opportunismo nazionale. Ancora oggi, la Comunità europea mantiene verso la Cina alcune sanzioni: per esempio, l'interdizione alle visite dei capi di Stato e il blocco del commercio delle armi. Sanzioni essenzialmente nominali, che tuttavia rappresentano la volontà di non dimenticare e di offrire un argine alla violenza degli Stati. Certo, sarebbero state più significative se i singoli paesi membri - l'Italia e la Germania per primi - vi si fossero attenuti e non avessero normalizzato prestissimo le loro relazioni economiche con la repubblica cinese. L'assenza di un comportamento univoco ha permesso alla Cina di confrontarsi con le posizioni nazionali piuttosto che con le istituzioni europee, e di godere di una sostanziale impunità. Anzi, di avere la conferma che quello che conta è il potere economico. Capitalismo alla cinese e diritti umani La situazione della Repubblica popolare cinese è fra le più complesse che si possano immaginare. Si tratta di un paese geograficamente sterminato che, a causa del proprio sistema politico a controllo centrale e della ostinata vocazione a non cedere sul fronte di libertà elementari, deve gestire con violenza crescente contraddizioni interne sempre più forti. L'unico contrappeso, e ciò che sostanzialmente permette al regime di resistere dentro e fuori la Cina, è una situazione economica in enorme espansione, sebbene con un profondo divario fra le regioni contadine dell'interno e le regioni urbano-costiere. A uno sviluppo incontrollato dell'economia (la cosiddetta economia socialista di mercato) si aggiunge la mancanza di regole di protezione e di tutela sociale e dell'ambiente, con conseguenti catastrofi ecologiche. Quello che dovrebbe essere chiaro ai governi e agli uomini d'affari europei è che la mancanza di prospettiva di un'evoluzione democratica della RPC, rischia di dare come unico sbocco alle tante contraddizioni interne fra zone di povertà e di ricchezza, fra province e centro, fra minoranze etniche e maggioranza, fra decentramento e centralizzazione autoritaria, lo sbocco violento. Una simile tragedia, coinvolgerebbe tutta l'Asia e l'intera comunità internazionale, con effetti inimmaginabili. Se esiste una regione del pianeta nella quale è possibile constatare che il legame fra sviluppo e diritti umani, includendo fra questi i diritti dell'ambiente, non è un opzione sentimentale, ma una necessità impellente dei mercanti come dei cittadini, questa è la Cina. Essa si avvia a diventare una delle tre più grandi potenze economiche, e anche nel 1993 (benché contro il parere iniziale del congresso americano, che subordinava gli accordi alla non proliferazione delle armi e al rispetto dei diritti umani), ha goduto per il secondo anno di seguito della clausola di nazione più favorita. Intanto, mentre ha chiesto di essere ammessa al Gatt (cosa che le otterrebbe senza condizioni la clausola di nazione più favorita e che le permetterebbe di aprire stabilmente i commerci con l'America e i 116 paesi membri del Gatt) la Repubblica popolare cinese è impegnata in una politica di investimento, in programmi di modernizazione delle forze armate e di rafforzamento della propria forza militare, che rendono inquieti i suoi vicini asiatici. Ha inoltre investito nell'acquisto di armi nucleari dall'ex Urss, i cui tecnici, rimasti senza lavoro, sono disponibili ad offrire tutta la loro competenza. La Cina è attiva anche nella vendita di armi nucleari. Questo si accompagna alla drammatica situazione dei diritti umani, negati nel loro carattere universale così come è affermato nella Carta delle Nazioni unite sui diritti fondamentali, di cui la Cina è firmataria, repressi violentemente in nome del diritto - chissà perché "alternativo" - alla sopravvivenza. Non c'è incontro con i responsabili cinesi in cui l'incomunicabilità su questo versante non sia assoluta. I dati governativi più recenti dichiarano la presenza di 680 prigioni e di 1,1 milioni di detenuti, ma la realtà, come denunciano anche le Ong internazionali è molto superiore. Le prigioni cinesi secondo Harry Wu - ex prigioniero politico e autore del libro Laogai - non sono inferiori a tremila; e i detenuti variano fra i dodici e i sedici milioni. Ci sono differenti tipi di prigioni e differenti motivi di detenzione: la detenzione preventiva; per i reati comuni; per i dissidenti; per gli stranieri; luoghi di detenzione per condannati a morte, (1981 condanne solo nel 1992, e 1079 esecuzioni nello stesso anno); per i condannati a pene superiori a dieci anni; per i condannati a meno di cinque anni; campi di lavoro. Nei luoghi di detenzione è praticata abitualmente la tortura, benché la Cina abbia aderito alla convenzione contro di essa. Ci sono poi i Laogai, o campi di rieducazione attraverso il lavoro forzato, dove è possibile che i prigionieri vengano detenuti a tempo illimitato, discrezionale, comunicato solo a fine pena: un ricatto insopportabile, lesivo di ogni diritto umano. I prodotti dei "campi di rieducazione" costituiscono un enorme introito economico per la Cina: si parla di centinaia di milioni di dollari ottenuti con la loro vendita. Attualmente solo gli Stati uniti e l'Inghilterra vietano la loro importazione, sia pure incontrando ovvie difficoltà di applicazione.

Cyrus
11-04-09, 21:54
12 marzo 1992: Il Parlamento approva



Il Parlamento europeo:

1. ritiene che nessuno Stato, e a maggior ragione nessuno Stato democratico, possa disporre della vita dei propri cittadini, o di altre persone che si trovino sul suo territorio, prevedendo nel proprio ordinamento la pena di morte come conseguenza di reati, anche se gravissimi;

2. ritiene che l'impegno a operare per l'abolizione della pena di morte ovunque essa sia prevista e praticata possa configurarsi come dovere legittimo;

3. chiede di conseguenza - in coerenza con il VI Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e con il II Protocollo opzionale al Patto Internazionale sui diritti civili e politici - a tutti gli Stati membri di impegnarsi ad abolire la pena di morte dagli ordinamenti giudiziari che ancora la contemplano per i reati ordinari (Grecia e Belgio, anche se questi due Stati non la applicano effettivamente da diverse decine d'anni);

4. chiede altresì agli Stati membri che ancora la contemplano di abolire la pena di morte;

5. chiede a tutti gli Stati membri della Comunità europea che ancora non l'abbiano fatto di firmare e/o ratificare senza ulteriori rinvii sia il VI Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Belgio, Grecia, Irlanda, Regno Unito) che il II Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici;

6. chiede inoltre a tutti gli Stati membri che si impegnino a non concedere l'estradizione degli imputati passibili di una condanna alla pena capitale nel paese richiedente a meno che quest'ultimo non dia garanzie sufficienti che ciò non avvenga;

7. auspica che l'impegno ad abolire la pena capitale sia assunto dagli Stati membri del Consiglio d'Europa che ancora non l'abbiano fatto (Cipro, Malta e Svizzera per i reati eccezionali, Turchia e Polonia per i reati ordinari ed eccezionali) e ugualmente dagli Stati membri della CSCE che ancora contemplino la pena di morte nei loro ordinamenti (Bulgaria, Stati Uniti D'America, Comunità degli Stati Indipendenti, Jugoslavia, Lituania, Estonia, Lettonia, Albania);

8. ciò premesso, chiede alla Commissione, al Consiglio e agli Stati membri di operare con tutti i mezzi politici e diplomatici e in tutte le sedi affinché venga abolita la pena di morte in tutti gli Stati in cui sia ancora contemplata e ciò fino alla sua totale eliminazione;

9. chiede di conseguenza al Consiglio e alla Commissione e, per quanto di loro competenza, agli Stati membri di:

a) operare per ottenere in sede ONU una delibera vincolante di moratoria generalizzata sulla pena di morte;

b) impostare la propria politica estera e in particolare la politica di accordi e cooperazione economica considerando il pieno rispetto dei diritti umani e in particolare l'abolizione della pena di morte come una condizione fondamentale di cui tenere conto, consci che il potere negoziale della CE sarà debole fino a che esisteranno alcuni Stati membri che prevedono la pena di morte nei loro ordinamenti;

c) promuovere una vasta e capillare campagna d'informazione non solo delle posizioni del Parlamento ma anche delle tesi che si oppongono al mantenimento della pena di morte negli ordinamenti giudiziari di qualsivoglia Stato, al fine di creare un'approfondita conoscenza e sensibilità nell'opinione pubblica dell'inutilità e dell'inaccettabilità della pena capitale;

10. ritiene inoltre che sia contemporaneamente necessario, come strumento per combattere la pena di morte, intervenire con determinazione per limitarne e contrastarne l'applicazione; a tal fine chiede alle istituzioni della Comunità e agli stati membri di intervenire nei confronti degli Stati in cui è ancora prevista la pena di morte affinché da subito: a) non siano pronunciate ed eseguite condanne a morte contro coloro che al momento del crimine non avevano ancora 18 anni, contro donne in gravidanza o con figli piccoli, contro persone anziane, malate o ritardate mentali; b) sia garantito un processo equo a tutti gli imputati e, a maggior ragione, a quelli accusati di reati per cui è prevista la pena capitale e più precisamente:

-l'imputato sia considerato innocente sino a prova della sua colpevolezza; -siano garantite all'imputato l'assistenza di un avvocato e la possibilità' di sostenere la propria difesa conoscendo le accuse e avendo i mezzi giuridici per controbatterle attraverso testimonianze e prove a discarico; -il processo sia pubblico; -sia garantita la possibilità di ricorso contro la sentenza di condanna;

11. ritiene che il tema delle "esecuzioni" extragiudiziarie sia ancor più grave di quello analizzato nella presente risoluzione e invita pertanto la propria commissione politica a elaborare una relazione su tale tema;

12. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione alla Commissione, al Consiglio, alla Cooperazione politica europea, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, al Consiglio d'Europa, alla CSCE, al Segretario generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.





Tibet: storia di un genocidio

Mi sono recata in Cina per la prima volta nel 1991, allorché il Parlamento europeo ha ripreso le relazioni con la RPC. Facevo parte della delegazione ufficiale nella mia qualità di presidente del gruppo verde e di membro dell'intergruppo sul Tibet, e avevamo il compito esplicito di recarci in quella regione e di approfondire il problema delle violazioni dei diritti umani. Benché sia molto difficile che notizie dettagliate passino le frontiere del Tibet, l'azione delle associazioni di tibetani in esilio riesce a dare informazioni continue e dettagliate sulla situazione tibetana, ed in particolare sui singoli casi di persecuzione. Come, ad esempio, quando il giornale Tibetan Youth Congress di Dharamsala, insieme all'Ufficio tibetano di Zurigo, diffusero la notizia - confermata da Amnesty International - che stava per essere giustiziato lo studente ventiduenne Lobsng Tenzing, condannato nel marzo 1988 con l'accusa di avere ucciso un poliziotto cinese. La prassi cinese prevede una carcerazione di due anni prima dell'esecuzione; questa normalmente viene eseguita pubblicamente per intimidire la popolazione. Nella Repubblica popolare cinese, ci sono cinquantasei nazionalità ridotte a un numero esiguo, e per tanto insignificanti rispetto all'integrazione; inoltre, benché le minoranze etniche abitino il 55% di tutto il territorio, esse costituiscono solo il 10% della popolazione. Il Tibet, invece, insieme alla Mongolia e al Turkestan orientale, costituisce per la RPC un problema di integrazione irrisolto, tanto per la densità della popolazione, quanto per le legittime rivendicazioni di indipendenza. In effetti, nonostante i cinesi ribadiscano in ogni occasione che il Tibet è stato "liberato pacificamente nel 1951", la realtà storica è che il Tibet era una nazione indipendente che è stata brutalmente occupata militarmente dalla Cina, cosa che nel corso della visita non perdevo occasione di puntualizzare. Occupato militarmente nel 1951, e restituito ad autonomie del tutto insignificanti e marginali dal 1965 in poi, il Tibet è stato sottoposto ad una lenta e massiccia sinizzazione, che ha ridotto a ruolo di minoranza sei milioni di persone, soverchiati da sette milioni e mezzo di cinesi immigrati e che occupano il 70% dei posti amministrativi. Inoltre, il territorio tibetano, sottoposto a una selvaggia deforestazione, è stato utilizzato come discarica di residui tossici e di scorie radioattive, oltre che come base per le armi nucleari cinesi. Questo risultato è stato ottenuto, con l'occupazione fisica e progressiva del tetto del mondo, ma soprattutto con violenze incredibili contro la popolazione tibetana. Migliaia di arresti senza nessuna garanzia processuale, sterilizzazioni di massa; applicazioni di leggi marziali e esecuzioni capitali; distruzione dei templi e dei monasteri; sistematica repressione dell'insegnamento buddista e della trasmissione della cultura tibetana. Un vero e proprio genocidio. Insieme ad Alex Langer, preparo una risoluzione che il Parlamento dovrà rapidamente trasmettere al governo cinese. In essa si ribadisce che tutti i futuri accordi economici e commerciali con la RPC, dovranno essere subordinati al rispetto dei diritti umani in Cina e nel Tibet; che le autorità cinesi intanto concedano al Tibet un reale statuto di autonomia e che pongano fine alle immigrazioni di popolazione cinese; che siano rilasciati tutti i tibetani incarcerati per motivazioni politiche; che siano ritirate le armi nucleari e messo fine ai disboscamenti selvaggi; che si aprano le trattative con il Dalai Lama. Benché la nostra risoluzione abbia dato l'avvio al documento definitivo sul Tibet (relatore l'on. Sakellarion), non riesco a non pensare che si tratta di una lotta impari. Incontrandoli, mi accorgo sempre di più che i cinesi - ambasciatori, diplomatici e inviati della RPC - hanno una peculiarietà comune: sono ineffabili. Qualunque critica dettagliata o richiesta di chiarimenti non gradita, sono pronti a fare finta di non avere ascoltato e a ricominciare a parlare da dove avevano smesso, trattandoci come deficienti o come individui da indottrinare. A me personalmente fanno spesso saltare i nervi.

Se Vienna dice no al Dalai Lama

Di questa ineffabilità devono avere appreso qualcosa anche i responsabili della seconda Conferenza mondiale sui diritti umani, che si è tenuta a Vienna nel giugno 1993. In quella occasione, i cinesi sono riusciti a ottenere che il Dalai Lama, premio Nobel per la pace e capo spirituale del Tibet, non partecipasse ai lavori e non prendesse la parola nella Conferenza delle Organizzazioni non governative. Uno scandalo che è rimbalzato ovunque e che forse, una volta tanto, è servito alla causa tibetana molto più di quello che avrebbero potuto la presenza o la denuncia dello stesso Dalai Lama. Naturalmente, una tale ingiustificata esclusione si è potuta determinare non solo per responsabilità della Cina - la quale continua a considerare il Tibet null'altro che una provincia del proprio impero, completamente rappresentata dal governo centrale cinese - ma anche per responsabilità dei nostri governi che non hanno voluto opporsi alla richiesta della RPC. I nostri governi che, invece, dimenticano le continue violazioni dei diritti umani in Cina, al momento di stabilire con essa relazioni economiche vantaggiose e intense. L'interdizione di parola al Dalai Lama, il quale ha spiegato chiaramente di propugnare il rispetto dei diritti umani e l'autonomia culturale del Tibet, non pregiudizialmente la sua indipendenza (la parola d'ordine è infatti divenuta non più Free Tibet, ma Save Tibet), ha dato la misura esatta di quanto anche i diritti fondamentali unanimemente riconosciuti nella Dichiarazione universale trovino difficoltà a divenire una misura comune e comunemente applicata negli organismi internazionali. La drammatica situazione del Tibet rappresenta interamente tutta la potenzialità distruttiva del mancato processo di democratizzazione delle istituzioni cinesi. Ci separano da esse storia, cultura, religione, filosofia: l'unico punto di mediazione, se non di contatto, può essere la nonviolenza di cui sono portatori il buddismo e la grande tradizione tibetana. Se malauguratamente dovessero soccombere, rimarrebbe solo il capitalismo alla cinese: e cioè, il consumismo europeo senza il rispetto dei diritti civili e umani nei quali l'Occidente è cresciuto per secoli. Riuscite a immaginare una simile catastrofe?

Secondo viaggio in Cina

Torno sempre con molta apprensione in Cina; cerco risposte a domande formulate altre volte, in altri documenti ufficiali. I cinesi sono così: rispondono molti anni dopo A Vienna, la Cina ha ribadito la sua concezione dei diritti umani; la loro irrilevanza rispetto ai diritti cosiddetti sociali: al diritto di mangiare, di vestirsi, di sopravvivere. Al diritto insindacabile del potere costituito di difendersi dagli oppositori con soluzioni semplificatorie quali la pena di morte. E se qualcuno dovesse sostenere che tutto questo non è democratico, riceverebbe per risposta che in Cina i processi si svolgono pubblicamente e che le esecuzioni avvengono negli stadi. E questa non è forse democrazia? Proprio durante lo svolgimento della Conferenza sui diritti umani, ci giungono notizie di numerosi arresti in Tibet, che fanno seguito a manifestazioni di protesta contro il governo cinese che ha impedito l'incontro fra la delegazione degli ambasciatori della comunità e i dissidenti politici tibetani. La delegazione europea, partita il 16 maggio 93, al suo ritorno aveva rilasciato una dichiarazione molto preoccupata tanto per il rifiuto di ingresso al Tibet agli osservatori stranieri o ai giornalisti, quanto per il rifiuto del Governo alla presenza di osservatori durante i processi. A questo proposito, ci sono alcune cose che vanno dette: i processi in Cina - dicono le leggi - sono pubblici. Ma se qualcuno viene arrestato, la famiglia non sa più nulla di lui per giorni e giorni; egli stesso conosce le accuse a suo carico in un tempo, a discrezione dei suoi accusatori, che per lo più è insufficiente a garantire l'organizzazione della difesa; e nel caso di processi politici di fatto nessuno può assistere ai processi. Nella maggioranza dei casi, la pubblicità è, per così dire, assicurata dal resoconto di un funzionario. L'ordinamento giuridico non prevede la presunzione di innocenza bensì quella di colpevolezza: l'accusato deve dimostrare la propria estraneità ai fatti di cui è incriminato, e l'avvocato, fornito dallo Stato, deve sottoporre la propria linea di difesa al potere politico. Egli non può richiedere la "non colpevolezza" per il suo assistito, benché essa sia prevista dall'articolo 28 del codice di procedura penale. Nel nostro secondo viaggio, abbiamo ricevuto risposte a domande formulate nella prima visita: è la loro prassi. Anche questa volta, mi sono preparata una serie di domande che riguardano soprattutto la riforma del sistema giudiziario e lo svincolo definitivo del processo penale dal potere politico; il ruolo dell'avvocato e le garanzie dell'imputato. Si sta riflettendo a queste cose, quali ipotesi sono allo studio? la risposta è scontata: le nostre informazioni sono errate, frutto di propaganda anticinese, I problemi che noi proponiamo non esistono. Eppure io so che a livello universitario e di giuristi questa riflessione è in atto: chissà, forse se la nostra delegazione riuscisse a sfuggire alla prassi di incontrare solo "politici", riusciremmo a capire cosa si sta muovendo. Perché certamente qualcosa si sta muovendo. Ovviamente questo non è possibile, non solo per limiti organizzativi del Parlamento europeo, ma per i limiti impostici dai nostri ospiti. Questa volta i nostri interlocutori sono veramente seccati per l'ultima risoluzione del Parlamento votata alla vigilia della partenza, nella quale si affermava che solo uno dei prigionieri che avevamo segnalato due anni fa (senza avere mai ricevuto una risposta) era stato liberato. Ne sono stati liberati molti di più, e questo è il segno del pregiudizio del Parlamento e di alcuni di noi verso di loro. Questo problema incomberà su tutto il viaggio della delegazione, condizionando la qualità del dialogo e la disponibilità degli interlocutori. In realtà, di quei venti prigionieri, solo quattro hanno ripreso una vita normale: alcuni di loro sono stati mandati nei Laoagai; altri non sono stati più messi nelle condizioni di lavorare, prima o poi finiranno di nuovo in galera. Il nostro viaggio prevede quattro tappe: Pechino, Shangai, Hong Kong e Macao. A Shangai incontriamo il vicesindaco della città: è una donna e si occupa soprattutto di politica sanitaria. A lei consegno un appunto ricevuto dalle mani del console francese in Cina; si tratta di un detenuto in condizioni di salute drammatiche e io le chiedo di fare tutto il possibile per aiutarlo. Mi risponde che se ne occuperà; a lei vorrei rivolgere qualche domanda sulla politica demografica e sulle donne. In Cina, ogni sei mesi c'è l'obbligo della visita ginecologica e l'aborto, nel caso si sia superato il numero di figli consentito dallo Stato: è così anche per la provincia o solo nelle grandi città? Come si può capire, in Cina c'è la stessa situazione della Romania rovesciata: le due facce del totalitarismo. Nel 1997 e nel 1999 sono previsti il rientro nella sovranità cinese rispettivamente di Hong Kong e di Macao. L'obiettivo perseguito dalla Repubblica popolare cinese è di realizzare la "riunificazione pacifica della patria", in base al principio "uno Stato, due sistemi". Per entrambe le regioni, la Cina si è impegnata a non intervenire nei loro sistemi politici e amministrativi per un periodo di cinquant'anni. Chiediamo che cosa dà loro la garanzia che la promessa verrà mantenuta, e riceviamo risposte diverse. A Macao sono tranquilli: dicono che comunque non ci sono alternative alla riunificazione; a Hong Kong, invece, sono molto preoccupati e l'associazione per i diritti umani che abbiamo occasione di incontrare, è decisamente angosciata. La ragione c'è ed è molto importante: Hong Kong ha sostenuto e finanziato economicamente la rivolta di Tien an Men. Come dare loro torto?

Non è difficile capire che essere relatrice per i rapporti fra la Comunità europea e la Cina non è stato un compito semplicissimo, e non solo nei confronti dell'attività dell'ambasciata cinese. Infatti, mentre questa cerca di assicurarsi buoni rapporti con la Comunità, bloccando qualsiasi risoluzione critichi la politica della RPC, alcuni deputati la sostengono con i loro comportamenti. Essi fanno parte di partiti al governo particolarmente impegnati nelle relazioni economico-commerciali con la Cina, e si preoccupano che il Parlamento sia ostile ad approfondire i rapporti con la Cina prescindendo dal rispetto dei diritti umani e dall'evoluzione democratica del paese. Questa posizione è stata acquisita dal Parlamento come principio guida, anche se con un certo tasso di elasticità, dei suoi rapporti con gli Stati terzi ed è stata ribadita più volte nei confronti della RPC. La risoluzione approvata in Commissione esteri il 4 gennaio 1994, e prevista in plenaria per febbraio, rappresenta un'estrema resistenza rispetto al cedimento dei nostri paesi di fronte alla crescita vertiginosa della potenza economica della Cina e all'aprirsi di un mercato potenziale di un miliardo e duecento milioni di consumatori. In essa, pur non ponendo veti, per altro risibili e controproducenti, si pongono le premesse perché vi possa essere una legittima pressione sul fronte dei diritti umani e dell'evoluzione democratica. Vi si afferma, infatti, che senza progressi significativi in questo campo il Parlamento non potrà essere a favore di eventuali e più impegnativi accordi. Contemporaneamente, si incoraggia il livello di rapporti esistenti, che sono essenzialmente progetti di formazione di classe dirigente; progetti di aiuto allo sviluppo in alcuni settori; o progetti a favore delle zone abitate da minoranze.

IL PARLAMENTO EUROPEO ALLA CINA

-Considerando che le relazioni tra la repubblica popolare di Cina e l'Unione, sospese in seguito ai tragici fatti del giugno 1989, sono in una fase di "ripresa graduale", e che, a causa del permanere di violazioni dei diritti dell'uomo, sono ancora sottoposte a due sanzioni: la sospensione delle visite dei capi di Stato e il divieto di commercio di materia militare;

-Considerata la posizione della Cina nei confronti della questione tibetana, e rammaricato che tutti gli sforzi, attivati dall'Assemblea generale dell'Onu e dalla Corte di giustizia, per trovare una soluzione al problema non abbiano avuto esito positivo; considerando che, con l'entrata in vigore del Trattato sull'Unione europea, il ruolo del Parlamento in materia di politica estera si è accresciuto;

-Prende atto dei mutamenti del sistema economico in atto nella RPC, ma giudica indispensabile realizzare una riforma politica che garantisca i principi democratici e, in particolare, il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

-Ricorda alla RPC il carattere universale della nozione dei diritti fondamentali, così come è espressa nella Dichiarazione dei diritti dell'Uomo di cui essa è firmataria, e che ha confermato in occasione della firma della Dichiarazione emessa dalla conferenza internazionale sui diritti umani;

-Ribadisce la sua condanna della pena di morte e della tortura, ovunque siano praticate;

-Auspica che il sistema giudiziario cinese possa divenire realmente indipendente dal potere politico e capace di garantire ai cittadini il diritto alla difesa e a processi equi;

-Esprime la sua condanna e la sua preoccupazione rispetto alla situazione delle minoranze: conferma in particolare il dispositivo della propria risoluzione sulla situazione del Tibet, e stigmatizza ancora una volta senza riserve le violazioni dei diritti dell'Uomo perpetrati in Tibet dalle autorità cinesi; denuncia la distruzione dell'ambiente e lo sfruttamento delle risorse naturali tibetane;

-Auspica che la prevista riunificazione con Hong Kong e Macao, nell'ambito del principio "Uno Stato, due sistemi" avvengano con il massimo di garanzie democratiche;

-Si augura che le condanne a morte relative alle notizie secondo cui, nell'ambito di una vasta campagna anticrimine, sarebbero state condannate a morte e ai lavori forzati centinaia di persone, non siano eseguite;

-Si rammarica che, per perseguire vantaggi commerciali, i Capi di governo degli Stati membri si siano recati in visita in Cina, prima che si registrassero significativi miglioramenti nel rispetto dei diritti umani;

-Ritiene che i rapporti fra l'Unione europea e la Cina debbano tendere a sostenere i processi di democratizzazione e lo sviluppo equilibrato della società su un piano quanto più esteso possibile;

-Rammenta la propria insistenza sulla necessità di inserire una clausola di rispetto dei diritti umani negli accordi commerciali con i paesi terzi; ritiene inoltre necessario che qualsiasi rapporto di cooperazione a livello di commissione mista, di Parlamento europeo, di Stati membri, non sia disgiunto da una valutazione puntuale sull'evoluzione democratica e la situazione dei diritti umani nell'ambito della RPC; si impegna a non dare parere favorevole ad eventuali nuovi accordi di cooperazione se non in presenza di cambiamenti significativi;

-Ritiene, in conclusione, che un ulteriore approfondimento dei rapporti fra la RPC e l'Unione europea debba essere accompagnata da:

a) la ratifica, da parte della RPC del patto delle Nazioni unite sui diritti economici, sociali e culturali, del Patto internazionale delle Nazioni unite sui diritti civili e politici e l'effettiva applicazione della Convenzione delle Nazioni unite del 1987, sul divieto dei trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

b) il superamento del sistema dei Laogai, o campo di lavoro forzato, e la liberazione dei prigionieri politici;

c) il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali del popolo tibetano e l'avvio di negoziati con il Dalai lama o il governo tibetano in esilio;

d) accordi che garantiscano il rispetto dei diritti dell'uomo, delle popolazioni di Hong Kong e Macao, dopo il ritorno di questi territori alla sovranità cinese.

Questa risoluzione, al momento in cui scriviamo, è stata approvata solo in commissione.

Cyrus
11-04-09, 22:03
Commemorazione dell'onorevole Adelaide Aglietta
mercoledì 12 luglio 2000
Commemorazione dell'onorevole Adelaide Aglietta



Roma, 12/7/2000



*** Cerimonia promossa dai Deputati Verdi ***


In tempi in cui gli schieramenti politici erano severamente condizionati dagli equilibri internazionali, Adelaide Aglietta non ha permesso che il suo impegno fosse strumentalizzato dai pregiudizi ideologici. Il filo ideale del suo impegno è stata la dignità della persona umana, intesa non come categoria astratta che come insieme di concreti diritti e doveri, di bisogni e di desideri di uomini, donne, vecchi, giovani, bambini.
Nella vita politica si è sforzata di far accettare la specificità femminile del sapere vivere con naturalezza ed umanità i diversi ruoli che una donna assume nella società moderna. E' un atteggiamento che le è costato molte critiche in un mondo politico non ancora disponibile a questa riflessione.
Deputata in più legislature, Adelaide Aglietta è stata la prima donna, e per molto tempo l'unica, ad assumere la segreteria di un partito e la guida di un gruppo parlamentare. Quello della partecipazione delle donne alla vita politica è un tema controverso e di grande attualità che investe il ruolo delle istituzioni. Il Parlamento italiano continua infatti a soffrire di un grave deficit di rappresentanza e dobbiamo augurarci che la riforma dell'articolo 51 della Costituzione, al momento in fase di esame presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati, unita al concreto impegno delle forze politiche possa aiutare a rovesciare la situazione e a rendere effettivo il principio del riequilibrio della rappresentanza dei sessi.
Adelaide Aglietta è stata protagonista indiscussa di quella fase della storia del nostro Paese che è stata scandita dalle tappe della legge sul divorzio e sull'aborto. Si è trattato di riforme che hanno diviso la società civile e che sono state oggetto di dibattiti politici che hanno coinvolti i valori di fondo della nostra società. Adelaide Aglietta ha affrontato il confronto denunciando le ipocrisie e partendo dalla realtà della condizione femminile.
Nel 1990 inizia il suo lavoro di parlamentare europeo nel gruppo dei verdi e, per potere assolvere pienamente al mandato, si dimette dal Parlamento nazionale.
Continua l'impegno sui diritti civili che la vedrà attiva innanzitutto sul versante dell'abolizione della pena di morte dai Paesi europei. Presenta la risoluzione per la moratoria internazionale delle esecuzioni capitali approvata dal Parlamento europeo nel 1992. Preme perché il Parlamento europeo proponga la penalizzazione dei partners commerciali che si rendano autori di gravi violazioni dei diritti umani. Individua tra i primi la miseria sociale ed economica che affligge alcuni Paesi dell'Est europeo e che l'abbattimento del muro di Berlino consentì di vedere per la prima volta in tutta la sua gravità.
Adelaide Aglietta capì che oltre all'Europa delle economie esiste un ideale di Europa politica nel quale si riconoscono Paesi formalmente non membri dell'Unione ma che condividono con gli altri popoli del continente il patrimonio di valori basati sul rispetto e la tutela della dignità umana.
Adelaide Aglietta si chiedeva "che Europa sarà la nostra se i rapporti politici ed economici non saranno subordinati al rispetto dei diritti umani, al valore della tolleranza, della libertà, della libertà di circolazione delle idee e degli uomini?". Si preoccupava di porre le fondamenta di un'Europa politica che fosse forte, aperta, tollerante, democratica e che costituisse l'ancoraggio contro la ricomparsa dei nazionalismi e dei conflitti etnici.
Adelaide Aglietta fu tra le sostenitrici più convinte di un progetto di costituzione dell'Unione Europea che nel 1994 ottenne l'approvazione da parte del Parlamento europeo. La risoluzione che reca in allegato il testo della costituzione non fu allora ulteriormente valorizzata per scelte di tipo politico che indussero a devolvere la questione al livello intergovernativo. L'idea sottesa alla sua proposta riaffiora oggi nelle proposte di riforma dell'Unione che fanno riferimento alla redazione di una carta costituzionale. E' quella "certaine ideé de l'homme", di cui ha parlato in questi giorni il presidente della repubblica francese, e che si riferisce al contenuto necessario di ogni progetto di riforma dell'Unione che voglia sostenere il confronto con questioni quali la solidarietà tra Paesi ricchi e Paesi poveri, le diversità culturali o l'organizzazione internazionale degli scambi.
Potrebbe essere interessante in questa fase di stesura della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea andare a riscoprire i contenuti e cogliere i principi ispiratori di quella proposta che ha avuto il merito di anticipare l'inevitabile dibattito sulla costruzione della cittadinanza europea.

Cyrus
11-04-09, 22:04
Leo Valiani
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Leo Valiani - nato Leo Weiczen - (Fiume, 9 febbraio 1909 – Milano, 18 settembre 1999) è stato un giornalista e politico italiano.

Parlamento Italiano
Senato della Repubblica
Sen. Leo Valiani

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Luogo nascita Fiume
Data nascita 9 febbraio 1909
Luogo morte Milano
Data morte 18 settembre 1999
Titolo di studio
Professione politico, giornalista
Partito Partito d'Azione, Partito Radicale
Legislatura VIII, IX, X, XI, XII, XIII
Gruppo Indipendente aderente al gruppo Partito Repubblicano Italiano
Coalizione
Circoscrizione
Regione {{{regione}}}
Collegio {{{collegio}}}
{{{mandato}}}
Elezione {{{elezione}}}
Senatore a vita
Nomina Presidenziale
Data nomina 12 gennaio 1980
Incarichi parlamentari

[{{{sito}}} Pagina istituzionale]
Avverso al fascismo fu mandato al confino (1928) e successivamente (1931) condannato a cinque anni di carcere. Fuggito in Francia, ed internato in un campo di concentramento allo scoppio della II guerra mondiale, riuscì ad evadere e rifugiarsi in Messico. Rientrato in Italia nel 1943, divenne esponente del Partito d'Azione nel C.L.N.A.I., organizzando, insieme a Pertini e ad altri esponenti della resistenza antifascista, l'insurrezione dell'aprile 1945. Dopo la guerra fu deputato nell'Assemblea Costituente e quando il Partito d'Azione si sciolse, si ritirò dalla politica attiva e divenne giornalista. Aderì successivamente (1956-1962) al Partito Radicale e, negli anni '80, al Partito Repubblicano Italiano (come indipendente). Tornato al giornalismo, collaborò con "Il Mondo", "L'espresso" ed il "Corriere della Sera".

Fu nominato Senatore a vita (dal 1980 da Sandro Pertini).


Le opere [modifica]
Storia del Socialismo nel secolo XX

Tutte le strade conducono a Roma

L'avvento di De Gasperi

Storia del movimento socialista

Il problema della nazione italiana

Questioni di storia del socialismo

Cyrus
11-04-09, 22:06
Questo regime no può durare. Leo Valiani, dall'antifascismo alla Resistenza passando per il socialismo liberale e il partito d'azione..Giuseppe Candido
10/11/2008 - 00:12
Nell'inchiesta:
dall'antifascismo alla Resistenza
.Nato a Fiume nel 1909, Leo Valiani (nato Weiczen) Senatore a vita dal 1980, ancora ragazzo aderì nelle fila dei giovani socialisti comunisti che combattevano, già nella clandestinità contro la dittatura fascista. Il suo attivismo antifascista gli costò un anno di confino nel 1928; fu poi arrestato di nuovo nel 1931 e condannato dal Tribunale Speciale a 12 anni di prigione per aver diffuso stampa antifascista. A seguito delle amnistie sopraggiunte recuperò la libertà dopo aver scontato sei di prigione. Nel 1936 va in Spagna come corrispondente di guerra di giornali antifascisti, ma in Spagna Valiani vi si reca per combattere. Dal '37 al '40 visse in Francia dove nel '39, influenzato da Altiero Spinelli e dalla lettura degli scritti dei fratelli Rosselli aderisce al movimento “Giustizia e Libertà”. Dopo essere fuggito dal campo del Vernet prima in Marocco e poi in Messico, torna in Italia nel '43 dove ricopre la carica di segretario del Partito d'Azione durante la Resistenza e lo rappresenta nel Comitato di Liberazione Nazionale, per l'Alta Irtalia, alla Costituente Nazionale e, come deputato, all'Assemblea Costituente. Tra i saggi di straordinaria e stimolante acutezza politica sicuramente, tra gli scritti di Valiani, è da tenersi in considerazione per una corretta ricostruzione storica “Dall'antifascismo alla Resistenza” (Universale Economica Feltrinelli, 1986). Un saggio di appena duecento pagine in cui è concentrata la ricostruzione delle forze politiche che dall'antifascismo socialista, liberale e comunista maturarono, durante il governo Mussolini, la Resistenza italiana. Il movimento sindacale operaio sotto il fascismo, le Brigate Internazionali in Spagna, i fuoriusciti, i partiti antifascisti nel '43, la Resistenza e la questione meridionale. Tutti argomenti minuziosamente sviscerati ma con lucida semplicità. Che qui vogliamo ri_proporre nell'ottica del conoscere per deliberare.

I 25 anni che vanno dalla caduta dello Stato liberale nel '22 al voto della Costituzione repubblicana nel '47, non soltanto quando Valiani scrisse il suo saggio nell'86 ma ancora oggi sono oggetto di discussione storiografica sino a parafrasi del tipo che il cemento dell'unità d'Italia sarebbe da ricercarsi nel sangue (che macabra concezione) dei caduti della guerra mondiale. E l'antifascismo combattente? E la Resistenza? Per rispondere a queste domande abbiamo cercato di seguire la ricostruzione che Valiani, unico candidato eletto all'Assemblea Costituente nelle liste del Partito d'Azione, cercò di fornire nei suoi scritti.

Se da un lato, infatti, i documenti storiografici sono limitati e poco diffusi dall'altra le pressioni di parte originate dalla lotta tra fascismo e antifascismo, le scelte dei diversi schieramenti internazionali che hanno diviso l'Italia erano ancora vive ai tempi di Valiani e lo sono tuttora. Nonostante il fallimento e la caduta dei regimi comunisti da un lato e la disfatta ideologica del fascismo ancora oggi molte verità della storia dell'antifascismo liberale in italia non sono abbastanza conosciute. Lo studio della guerra civile che si è svolta in Italia tra il '21 e il '22 si è nutrito dei lavori di Salvemini, Salvatorelli, Trentin e ha potuto indagare l'ambiente sociale, politico e le forze presenti. La lotta antifascista clandestina, dalle leggi speciali del '26 sino alla seconda guerra mondiale, non è stata ancora oggi studiata a fondo nel suo reale significato politico. Lungi dal volerlo fare noi crediamo sia utile riportare alcuni passi dell'introduzione di Valiani. Numerose cose pregevoli sono state pubblicate sui singoli episodi di eroismo e sacrificio, a cominciare dal “Non Mollare!”, quel bollettino antifascista dei “rivoltosi” Rossi, Rosselli e Tarquandi che impegnava chiunque lo riceveva a farlo circolare. Bollettino che nel '25 precorse l'attività antifascista illegale dei lustri successivi. Poco o niente si conosce degli Slavi della Venezia Giulia negli anni in cui Valiani scrisse il suo saggio ('86). Oggi si sa che ci sono state le Foibe e si fa lo sforzo di ricordarlo a scuola. E anche sui socialisti, sugli anarchici sui repubblicani e sui liberali di sinistra, ancora oggi, si dovrebbe conoscere meglio. L'esauriente biografia di Carlo Rosselli curata da Aldo garosci evidenzia, con minuzia di particolari e intelligenza di giudizio, la storia di uno dei più importanti movimenti dell'antifascismo: “Giustizia e Libertà” e della sua direzione politica cui facevano parte anche Ernesto Rossi e Riccardo Bauer. Ma per il periodo successivo al 1930 e agli arresti torinesi dell'anno successivo che si scagliarono sul gruppo di Mario Andreis e Luigi Scala e costrinsero Garosci ad emigrare, sarebbe necessario, secondo Valiani, un'indagine storica più approfondita che ancora oggi manca. Per fare chiarezza sul come dal filone liberale giellino si sia arrivati al Partito d'Azione. E' risaputo che Carlo Rosselli, alimentato più dallo spirito socialista che non dalla vena liberista di Salvemini, rimase fedele al suo punto di partenza. Egli puntava sul rinnovamento del socialismo, in un senso che, sul modello di alcune correnti radicali del laburismo anglosassone, chiamò “socialismo liberale”. Quattro anni dopo aver costituito il movimento al quale offrì la vita Carlo Rosselli scriveva: “noi concepiamo Giustizia e Libertà come la libera federazione dei nuclei che saranno i partiti di domani”. E aggiungeva che “questa concezione di Giustizia e Libertà come federazione di gruppi socialisti, comunisti, liberali, che si sforzano di anticipare il nuovo Stato sembra a noi importante”. Un po quello che accade con i Radicali oggi, che devono prepararsi ad essere alternativa politica e alternativa di classe dirigente.

Come scrive Valiani, il pensiero politico di Giustizia e Libertà “progredivam evolveva anche in Italia in modo relativamente indipendente dai capi fuoriusciti del movimento e negli scritti di Leone Ginzburg si può rintracciare la prefigurazione della metamorfosi che il movimento di Giustizia e Libertà italiabo accetterà confluendo, come socio fondatore, nel Partito d'Azione”. Allievo ideologicamente del federalismo di Cattaneo, Ginzburg avverte, d'accordo più con Nello che con Carlo Rosselli, che sarebbe un errore “fare il processo al Risorgimento”, poiché “da un punto di vista politico, Cattaneo aveva chiaramente torto nel 1860. Rispetto al futuro però aveva ragione, e questa ragione gliela si può dare nel solo senso che coloro che condividono finalità repubblicane, ma libertarie, autonomistiche come accade appunto agli uomini di Giustizia e Libertà alla luce della trasformazione fascista, totalitaria, dello Stato monarchico accentrato da Cattaneo “hanno oggi il compito di influire sulla futura realtà”.

La rivoluzione antifascista, insiste Ginzburg, vincerà nella misura in cui saprà creare istituti di libertà, più larghi di quelli del passato. Ma, prosaicamente, la rivoluzione vorrà dire una serie di riforme, riforma istituzionale, amministrativa, agraria, industriale, “che la realtà si incaricherà di attuare o di rendere vane”. La religione della libertà di stampo crociano è il modo più adatto, secondo Valiani, di inquadrare l'antifascismo militante che poi confluì nel Partito d'azione. Per queti motivi di libertà, discepoli di Croce, se pur non incoraggiati dal maestro, finirono per aderire al Partito d'Azione che pertanto riuscì a far breccia fra gli strati laici del ceto medio italiano, nel momento della crisi del regime fascista.

Oltre al filone crociano che fu forse quello centrale dell'antifascismo culturale, altri si sono uniti su piani diversi e che andrebbero considerati più da vicino. I riferimento a nomi è esplicito: Antonio Banfi, Concetto marchesi, lorenzo capitini, Calogero, Eugenio Colorni, Pintor e tanti altri non specificati. In questi fatti e in questi nomi una delle radici, secondo Valiani, del nuovo Stato dei CNL che caratterizzò poi la Resistenza italiana. Un'altra radice si trova invece negli sviluppi della situazione internazionale. L'antifascismo italiano ha combattuto la dittatura totalitaria, dal giorno stesso delle leggi eccezionali, con lo stesso impegno, con lo stesso spirito di sacrificio e, nella misura possibile, con gli stessi metodi che la Resistenza impiegò più tardi, al momento dell'occupazione dei tedeschi. Le migliaia di processi al Tribunale Speciale, la frequente diffusione di una stampa clandestina, pubblicata da organizzazioni che vivevano una vita illegale intensa, i numerosi tentativi di scatenamento di scioperi, in certi casi gli attentati, la propaganda visibile ad occhio nudo fatta dagli aerei, l'azione antifascista svolta all'estero, fra le masse di italiani emigrati, e sull'opposizione pubblica internazionale, l'intervento armato in Spagna della Brigata garibaldi, della colonna di Giustizia e Libertà, della centuria “Gastone Sozzi”, della colonna internazionale di Durruti e di altre formazioni, tutte contro l'esercito franchista.

Cyrus
11-04-09, 22:07
Commemorazione a un anno dalla morte con storici, politici e imprenditori
Ricordata la figura di Leo Valiani

Commemorazione a un anno dalla morte con storici, politici e imprenditori Ricordata la figura di Leo Valiani ®Mi sento quasi indegna di essere stata accanto a un uomo della sua grandezza¯. La vedova di Leo Valiani, Nidia Pancini, accompagnata dal figlio Rolando, ha voluto ricordare cos il marito a un anno dalla scomparsa. La figura di Leo Valiani Š stata celebrata alla Banca Commerciale Italiana dove Š stato presentato il libro Tra storia e politica. Bibliografia degli scritti di Leo Valiani (1926-1999), curato da Giovanni Busino e realizzato dalla Banca con la Fondazione Feltrinelli. A ricordare Valiani ®uomo di banca¯ Š stato Lino Benassi, amministratore delegato della Comit, che ha anche letto un messaggio del ministro Antonio Maccanico rivolto ®all' amico, maestro di vita¯. Giorgio La Malfa ha parlato del compagno di avventure politiche nel dopo Costituente di suo padre Ugo. Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera - di cui Valiani fu importante collaboratore per 30 anni - ne ha ricordato il lavoro di giornalista ®una delle voci laiche pi— coraggiose¯. Tra i presenti, il presidente e i consiglieri di Mediobanca Francesco Cingano, Aldo Civaschi e Ariberto Mignoli, il consigliere della Rcs Gaetano Afeltra, il presidente dell' Ina Sergio Siglienti, il presidente della Comit-Asset Luigi Crippa, il presidente del San Paolo-Imi Luigi Arcuti, l' ex ministro del Tesoro Piero Barucci, l' ex vicepresidente della Pirelli Vincenzo Sozzani, l' ex vicesindaco Elio Quercioli, l' ex vicepresidente della Provincia Gianni Mariani, il presidente del Touring Club Giancarlo Lunati. Il convegno, moderato da Salvatore Veca, presidente della Fondazione Feltrinelli, Š proseguito nel pomeriggio con gli interventi di Giovanni Busino, Cosimo Ceccuti, Giovanni De Luna e Arturo Colombo, che ha ricordato l' impegno di Leo Valiani sul Corriere contro il terrorismo. ®Una battaglia aspra e difficile contro i "nemici dello Stato"¯.




Pagina 48
(12 ottobre 2000) - Corriere della Sera

Cyrus
11-04-09, 22:07
LEO VALIANI, STORICO DELLA MITTELEUROPA
Start: 02/04/2009 - 11:00
Domani, venerdì 3 aprile, alla Fondazione Bruno Kessler l’incontro organizzato da Maddalena Guiotto del Centro per gli Studi storici italo-germanici

(v.l.) In occasione del centenario della nascita di Leo Valiani (Fiume 1909-Milano 1999), il Centro per gli Studi storici italo-germanici della Fondazione Bruno Kessler organizza per domani, venerdì 3 aprile, alle ore 14.30, in via S. Croce a Trento, un incontro dedicato alla figura dello storico della Mitteleuropa.
Valiani aveva seguito da vicino l’attività del Centro trentino, collaborando in particolare all’organizzazione di due settimane di studio: su “Il movimento operaio e socialista in Italia e in Germania dal 1870 al 1920” (con Adam Wandruszka, settembre 1976) e sul “Fascismo e nazionalsocialismo” (con Karl Dietrich Bracher, settembre 1984).
Durante l’incontro, coordinato dalla ricercatrice Maddalena Guiotto, saranno affrontati alcuni temi fondamentali dell’attività e della produzione dello storico fiumano, con particolare attenzione ai suoi studi sull’Europa centrale.
All’introduzione del direttore del Centro per gli Studi storici italo-germanici della FBK, Gian Enrico Rusconi, seguiranno le relazioni di Andrea Ricciardi (Università di Milano), Ilona Fried (Università Eötvös Loránd, Budapest), Maddalena Guiotto (FBK – Studi storici italo-germanici) e Nicola D’Elia (FBK – Studi storici italo-germanici).
In chiusura dei lavori, la discussione introdotta da Marina Cattaruzza (Università di Berna) e Fulvio Salimbeni (Università di Udine).
Si parlerà del rapporto tra politica e storia e della sensibilità di Valiani nel collegare l’una all’altra. Fra le tematiche, l’Ungheria contemporanea, su cui si concentrano all’inizio gli interessi storici di Valiani per la Mitteleuropa, poiché Fiume, la sua città natale, aveva fatto parte del Regno di Ungheria, per più di un secolo, fino al 1918.
Attenzione sarà dedicata alla maggiore tra le opere storiche di Valiani, dove egli indaga la dissoluzione dell’Austria-Ungheria. Saranno infine ricordate le riflessioni di Leo Valiani sulla Germania pubblicate sulla stampa italiana a partire dal 1955.

Cyrus
11-04-09, 22:09
Leo Valiani http://www.anpi.it/uomini/valiani_leo.htm

Nato a Fiume il 9 febbraio 1909, deceduto a Milano il 17 settembre 1999, giornalista, storico e uomo politico.

Aveva soltanto dodici anni quando, nella sua città natale, fu sgomento testimone dell'incendio - per mano degli squadristi fascisti - di una sede degli autonomisti di Fiume. Nel 1926 Valiani (di famiglia ebraica, il suo originario cognome ungherese, Weiczen, fu italianizzato nel 1927), con il varo delle leggi speciali, sceglie di militare nel movimento antifascista clandestino a Milano, dove ha conosciuto Carlo Rosselli. Due anni dopo, il primo arresto: otto mesi di reclusione e poi l'invio al confino a Ponza. È nell'isola che il giovane, familiarizzato con alcuni dirigenti comunisti che vi erano confinati, decide di aderire al PCdI.
Quando torna a Fiume continua a svolgere attività cospirativa, ma non può operare per molto tempo. Nel 1931 è arrestato con altri nove compagni. Per lui la condanna più pesante: 12 anni e 7 mesi di reclusione. Valiani passa dal carcere di Trieste a quello di Roma, poi a quello di Lucca, infine a quello di Civitavecchia. Non sconta, per amnistia, tutta la pena e, rilasciato, nel 1936 emigra in Francia. Da Parigi, dove è entrato nell'apparato locale del PCdI, raggiunge la Spagna, come “inviato speciale” del settimanale Il grido del popolo, presso i volontari antifascisti italiani delle Brigate internazionali. Richiamato in Francia diventa redattore capo di La Voce degli Italiani, che sostiene la politica del Fronte popolare sino a che, nell'agosto del 1939, il quotidiano non è soppresso, dal governo Daladier. Con La Voce, è chiusa tutta la stampa che fa capo ai comunisti italiani, accusati di essere asserviti a Mosca.
Il patto di non aggressione, firmato da Molotov e Ribbentrop, offre così l'occasione alle autorità francesi per inviare gli esuli italiani in campo di concentramento. Anche Valiani è rinchiuso a Vernet d'Ariège, giusto il tempo di discutere con gli altri dirigenti comunisti italiani del patto russo-tedesco e di farsi espellere dal partito. Aiutato da alcuni dirigenti di “Giustizia e Libertà”, con i quali s'era tenuto in buoni rapporti a Parigi, nell'ottobre del 1940 Leo Valiani lascia il campo di concentramento. S'imbarca per il Marocco francese con altri esuli e di lì raggiunge il Messico.
Nell'estate del 1943, dopo la caduta di Mussolini, gli americani autorizzano Valiani ed altri antifascisti a rientrare in Italia. Via Algeri, Sicilia, Salerno, Leo Valiani arriva a Roma. La Capitale è appena stata occupata dai tedeschi e l'ex dirigente comunista passa al Partito d'Azione. Mandato a Milano al fianco di Ferruccio Parri, rappresenterà poi il PdA nel Comitato di liberazione nazionale dell'Alta Italia. È in tale veste che Valiani (con Luigi Longo, Sandro Pertini ed Emilio Sereni) sottoscrive, il 25 aprile, l'ordine di insurrezione e, il 29 aprile 1945, il comunicato di approvazione dell'avvenuta esecuzione di Benito Mussolini.
Nel dopoguerra Valiani, che nel PdA, durante la Resistenza, aveva sempre sostenuto una linea ferma e combattiva, che era stato membro della Consulta e che era stato eletto alla Costituente nelle liste del Partito d'Azione, allo scioglimento di questo partito rinunciò alla politica attiva, ma continuò la sua militanza con una feconda attività pubblicistica e giornalistica. Nel 1955 fu tra i fondatori del Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani, ma agì sempre da “battitore libero” scrivendo per Critica Sociale, Il Mondo, L'espresso, Rivista storica italiana e, dal 1970, come editorialista del Corriere della Sera. Ha pubblicato anche molti saggi storici e libri di memorie tra i quali, sulla Resistenza, ricordiamo: Tutte le strade conducono a Roma (edito nel 1947 e nel 1986), Dall'antifascismo alla Resistenza (1960), Il Partito d'azione nella Resistenza (1971).
Il 1° dicembre 1980, Sandro Pertini, compagno di tante battaglie, lo chiamò a Palazzo Madama per conferirgli l'incarico di senatore a vita. Dopo la scomparsa di Valiani portano il suo nome molte strade, piazze e scuole d'Italia.

Cyrus
11-04-09, 22:10
PERSONAGGI In ricordo dello storico e uomo politico morto un anno fa, i suoi 4.552 articoli sono ora ordinati in una bibliografia
Senatore Leo Valiani, soprattutto giornalista

PERSONAGGI In ricordo dello storico e uomo politico morto un anno fa, i suoi 4.552 articoli sono ora ordinati in una bibliografia Senatore Leo Valiani, soprattutto giornalista Apensarci bene oggi, a un anno dalla sua scomparsa, l' immagine più eloquente di Leo Valiani l' ha data lui stesso in una testimonianza autobiografica, spontanea e improvvisata. Era la sera di lunedì 7 maggio 1979 e al Circolo della Stampa di Milano si festeggiava proprio Valiani, cui veniva assegnato il «Premio nazionale sala stampa». Una cerimonia senza formalismi, condotta con entusiasmo e semplicità da Paolo Grassi, che presiedeva la giuria. Valiani aveva improvvisato, sul filo della memoria, una serie di episodi e di aneddoti della sua vita, concludendo: «Ho già declinato due volte l' offerta degli amici repubblicani per la candidatura senatoriale, una prima volta nel ' 72 e poi nel ' 76. Perché?». Leo Valiani si era affrettato a precisare: «Perché, come il vecchio direttore del Times, voglio poter dire anch' io: preferisco aver fatto il giornalista e continuare ancora a farlo, fino all' ultimo». Allora Valiani, classe 1909, aveva settant' anni (il presidente Pertini lo nominerà senatore a vita nel gennaio dell' 80) e dalle colonne del Corriere era una delle «firme» più rigorose e coerenti, impegnate nella lotta contro il terrorismo. Tre giorni prima aveva scritto un articolo di fondo, fermo e severo, contro «i frutti della permissività» e un altro sarebbe apparso di lì a poco, non solo per ricordare il primo anniversario dell' uccisione di Aldo Moro ma soprattutto per chiarire che contro i nemici dello Stato occorreva continuare a mantenere «fermezza e rigore». Eppure, durante la conversazione estemporanea al Circolo della Stampa, Valiani aveva preferito indulgere ai ricordi, confessando che non aveva ancora diciassette anni quando, nella «sua» Fiume, aveva esordito addirittura come «giornalista sportivo». Poi aveva precisato che, col fascismo ormai al potere, era giunto a Milano e si era messo in contatto con l' ambiente di Quarto Stato, la rivista diretta da Carlo Rosselli e Pietro Nenni. Anzi, non aveva omesso di ricordare che nell' ambiente milanese, insieme a Turati e a Treves, aveva conosciuto un po' di giornalisti, tanto da riuscire a pubblicare sull' Avanti! due articoli sulla situazione ungherese. «Senza firma, naturalmente» aveva precisato, col gusto per il dettaglio che ha costituito un altro dei segreti della sua personalità. Adesso la conferma di quel lontano episodio si trova nel documentatissimo volume che raccoglie la bibliografia degli scritti di Valiani, dal ' 26 al ' 99, ben 4.552 «titoli» (compresi i due articoli dell' esordio) che formano il volume Tra storia e politica, curato da Giovanni Busino e appena edito dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, in vista del convegno sulla figura e l' opera di Valiani, che la Banca commerciale italiana ha in programma per l' 11 ottobre prossimo. Ma perché, pur avendo svolto una quantità di altre attività (sia a livello politico sia nell' opera di storico), Valiani si è sempre sentito così profondamente giornalista, tanto da identificarsi con questo singolare «mestiere», mai abbandonato neppure quando il fascismo lo costrinse all' esilio, dove magari firmava con gli pseudonimi di Paul Chevalier, o Leo Giuliani, o Federico Ricci? Non diversamente da Einaudi o da Salvemini, da Salvatorelli o da Jemolo, anche per lui la tribuna giornalistica è sempre stata considerata, io credo, nel senso più alto e nobile. Come un mezzo di denuncia e, insieme, come uno strumento di educazione civile; in entrambi i casi, come un fattore indispensabile di presenza e di partecipazione civile, senza la quale una democrazia non vive: anzi, nemmeno si afferma. Arturo Colombo

Colombo Arturo


Pagina 25
(18 settembre 2000) - Corriere della Sera

Cyrus
11-04-09, 22:10
Milano celebra Leo Valiani maestro di libertà
Repubblica — 23 febbraio 1999 pagina 42 sezione: CULTURA

Milano Urla nel microfono: "Viva l' Italia libera nell' Europa unita". E viene travolto dagli applausi dei presenti risvegliando un sentimento dimenticato come quello del patriottismo. C' è voluto un padre della patria come Leo Valiani, ieri mattina, nei saloni comunali di Palazzo Marino, per appassionare la platea sul terreno politico. Per festeggiare i suoi 90 anni - e consegnargli la "medaglia d' oro del Senato" e la "grande medaglia d' oro del Comune" - c' erano il Presidente del Senato, Nicola Mancino, e il sindaco di Milano, Gabriele Albertini. E tanti invitati eccellenti, dal ministro Carlo Scognamiglio all' onorevole Antonio Maccanico, dal capogruppo dei Ds al Senato, Cesare Salvi, al Procuratore capo della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, all' amico Enrico Cuccia. Il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, ha inviato un affettuoso messaggio di auguri. "Non sono un padre della patria, ma un figlio della patria", ha detto di sé Valiani, che ha ricordato commosso quando insieme all' amico Sandro Pertini, la mattina del 26 aprile del ' 45, a Milano, ordinò l' insurrezione generale. Mancino, ricostruendo il suo avventuroso itinerario di antifascista, esule, partigiano, costituente, parlamentare, studioso e giornalista, lo ha voluto definire "maestro di libertà e padre fondatore della nostra democrazia". Albertini, sottolineando che Valiani dedicò il suo Diario della Resistenza "a tutti i caduti, di una parte e dell' altra", ha ricordato che Valiani prese le sue difese quando come sindaco volle essere presente a una cerimonia in ricordo dei morti della Repubblica di Salò: "Una sola voce si levò in mia difesa, quella del senatore Valiani. Ancora una volta un esempio di onestà intellettuale e statura morale". C. B.

Cyrus
11-04-09, 22:11
Valiani, Leo
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Valiani, Leo (Fiume 1909 – Milano 1999), politico, storico e giornalista italiano. Aderì al Partito comunista d'Italia e, durante il fascismo, fu confinato per un anno a Ponza (1928), quindi condannato a dodici anni di carcere (1931). Liberato nel 1936 per amnistia, espatriò in Francia e, nello stesso anno, partecipò, da antifascista, alla guerra civile spagnola. Abbandonato il PCI, perché contrario al patto Molotov-Ribbentrop tra Unione Sovietica e Germania (1939), tornò in Italia nel 1943, dopo un periodo trascorso in Messico, in seguito alla fuga dal campo di prigionia in cui era stato internato dai tedeschi. Fu tra i fondatori del Partito d'azione (1942) e membro del Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia (CLNAI); nel 1980 fu nominato senatore a vita.

Tra le sue opere ricordiamo Questioni di storia del socialismo (1958), Dall'antifascismo alla Resistenza (1959), La dissoluzione dell’Austria-Ungheria (1966) e Scritti di storia (1983).

http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_981532999/Valiani_Leo.html

Cyrus
11-04-09, 22:12
Leo Valiani
(Fiume, 1909 – Milano, 1999)



Protagonista della Resistenza e della nascita dell'Italia repubblicana, storico, giornalista, senatore a vita. Partecipa alla lotta clandestina contro il fascismo e subisce il carcere, il confino e l’esilio. È in Spagna come giornalista e come militante durante la guerra civile. Nel 1939, dopo un periodo di militanza comunista, aderisce a “Giustizia e Libertà”. Partecipa alla Resistenza ed entra nel Partito d’Azione di cui è uno dei massimi dirigenti. Con lo scioglimento del PdA abbandona la politica militante per dedicarsi allo studio e al giornalismo. Nel 1980 è eletto senatore a vita.

Ho conosciuto Lelio Basso nel 1928, più di sessanta anni fa, al confino di polizia di Ponza ove eravamo stati assegnati in quanto militanti antifascisti, dopo le leggi eccezionali del '26 che avevano messo fuori legge tutti i partiti politici antifascisti e soppresso ogni libertà di stampa. È naturale quindi che io sia qui per ricordarne, al di là di ogni dissenso ideologico e politico, la memoria. Egli partecipò alla lotta antifascista e si segnalò sin da allora per la sua straordinaria intelligenza e la sua grandissima cultura.
Se prendo la parola però è anche per un altro motivo. II relatore ci ha detto molto bene la grande ammirazione che Lelio Basso nutriva già allora, nel '28 a Ponza, per Rosa Luxemburg. Naturalmente anche altri erano gli autori che prediligeva: Piero Gobetti, di cui fu collaboratore, Rodolfo Mondolfo, Gangale, direttore di Conscientia, dal quale prese la tesi della gravità della mancata riforma protestante in Italia.
Rosa Luxemburg resterà immortale nella storia per molti motivi, non ultimo per il suo detto classico, classico perché vergato in quelle condizioni, in prigione, nel 1918, mentre la rivoluzione trionfava già in Russia e maturava in Germania. Essa diceva: "la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente. Anche il sultano - che allora era il governante più tirannico del mondo, il sultano di Turchia - tollerava quelli che erano d'accordo con lui. Il difficile è accettare quelli che sono di parere diverso. È lì il banco di prova della libertà".
Rividi Lelio durante la Resistenza. Nella Resistenza egli era entrato sempre con la sua passione, con il suo coraggio, con la sua speranza di una rivoluzione proletaria socialista. Io non condividevo più quella speranza; mi sembrava che la situazione internazionale e la stessa dinamica dell'economia moderna consentissero in Italia soltanto una rivoluzione democratica e non ancora una rivoluzione socialista.
Lelio stesso, in fondo, ne convenne alla fine, verso il culmine della Resistenza. Egli aveva iniziato la Resistenza stessa fuori dal Partito socialista, con un giornale bellissimo, dal titolo "Bandiera Rossa", che aspirava ad una rivoluzione socialista di tipo classista, luxemburghiano se così posso dire, e poi invece rientrò nel Partito socialista che chiedeva - come chiedevamo noi del Partito d'azione - la rivoluzione democratica.
Negli ultimi mesi della Resistenza proponemmo un'alleanza delle sinistre nel Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e in generale nel Paese, fra socialisti, comunisti, Partito d'azione, comprendente eventualmente anche i repubblicani, che erano fuori dal CLN, e la sinistra democratico-cristiana. Scopo dell'alleanza sarebbe stato quello di attuare la rivoluzione democratica. Essa doveva avere quale sbocco
la convocazione di un'Assemblea costituente che si avocasse il potere di riformare le istituzioni, le leggi, le strutture, con una democratizzazione profonda della vita italiana e con l'eliminazione rapida degli istituti ereditati dal fascismo e dall'Italia prefascista.
Questa iniziativa - che ebbe il consenso dei socialisti e della direzione comunista dell'Alta Italia, quindi di Morandi, di Pertini, di Longo, di Secchia-non fu condivisa dalla Direzione nazionale del partito comunista. Prevaleva allora in questo partito la concezione tipicamente staliniana secondo la quale una rivoluzione - fosse essa democratica o socialista - sarebbe stata possibile soltanto nei paesì in procinto di essere occupati dall'Armata sovietica. Nei paesi occidentali era considerato inevitabile l'avvento del capitalismo sul piano economico e di una democrazia parlamentare sul piano politico. Conseguenza di questa impostazione fu la ricerca costante, da parte di Togliatti, di un accordo con la Democrazia cristiana. Credo che l'esperienza dei quattro decenni e più passati da allora abbia dimostrato la fondatezza della nostra aspirazione ad una rivoluzione democratica messa in atto attraverso i poteri sovrani che l'Assemblea costituente si sarebbe potuta attribuire e non si attribuì, principalmente per l'opposizione delle forze conservatrici, ivi compresi i comandi delle forze alleate di occupazione, ma anche per la paralisi nella quale la concezione stalinista, alla quale ho precedentemente accennato, metteva la sinistra in Italia e - anche se in condizioni diverse - in Francia.
Le leggi democratiche che sono state fatte con grave ritardo si sarebbero potute fare molto meglio allora, molto più tempestivamente, con maggiore adeguatezza alle condizioni concrete. Comunque del senno di poi son piene le fosse. Lo stalinismo è rimasto dominante a lungo e il relatore ha parlato anche delle conseguenze sgradevoli che ciò ha avuto per un militante socialista, che pure era un sostenitore dell'unità delle sinistre, come Lelio.
Un'analisi critica dello stalinismo in Italia è stata fatta ancora insufficientemente, si sono cioè messi in rilievo soltanto gli aspetti più brutali, più feroci. Ma come mai milioni di persone non solo in Unione Sovietica o negli altri Paesi a dittatura comunista, ma anche nei paesi democratici hanno potuto credere fanaticamente nello stalinismo e plaudire alle sue peggiori follie? Anche qui in Italia i grandi processi staliniani del dopoguerra - le forche di Praga, di Budapest, di Sofia, la rottura con la Jugoslavia di Tito - furono applauditi e non solo da masse ignare, ma dalla grande maggioranza dello stesso ceto intellettuale di sinistra. In ogni modo questo è un problema che appartiene alla storiografia, anche se la storiografia italiana ha appena cominciato ad affrontarlo criticamente. Rimane invece il problema politico attuale. Come si fa a mandare avanti il movimento? Noi abbiamo oggi per la prima volta una maggioranza di sinistra alla Camera dei deputati. L'avremmo potuta avere già nell'Assemblea costituente se la sinistra democratico-cristiana avesse avuto come Dossetti - uomo indubbiamente disinteressato e lungimirante - l'incentivo a schierarsi con i partiti della sinistra. Ma i grandi partiti di sinistra, rinunciando alla rivolùzione democratica, non offrivano alla sinistra democratico-cristiana nessuna possibilità di iniziativa. Vinsero così le forze della conservazione, poi via via disgregate dall'anacronismo di alcune loro posizioni, seppure aiutate da un'evoluzione capitalistica, tecnocratica, che ha giocato a favore di esse perché esse si trovavano alle leve di comando. Adesso questa maggioranza di sinistra c'è, sia pure per pochi voti, ma con la sinistra della Democrazia cristiana i voti sarebbero molto più numerosi.
Come mai essa non riesce a prendere corpo e come mai non riesce neanche a precisarsi? Sembra che l'inesistenza o inconsistenza di una maggioranza di sinistra, che alla Camera dei deputati pure ci sarebbe numericamente, sia una fatalità. I motivi sono tanti. Naturalmente c'è il motivo del sistema elettorale per cui gli eletti dipendono più dalle segreterie dei partiti che dai loro elettori e qui c'è un altro discorso - che io non posso fare ovviamente adesso - su quale sarebbe il sistema elettorale suscettibile di legare di più gli elettori e gli eletti, le masse che vogliono dei cambiamenti ai deputati o senatori che vogliono anch'essi dei cambiamenti veri e non fittizi soltanto. C'è in ogni modo un altro problema più profondo ed è quello che sì riallaccia di più ai sogni e ai desideri, anche alle illusioni, di Lelio e cioè quello del programma. Che cosa è la rivoluzione democratica o anche la rivoluzione socialista nell'88, nell'89, che non solo non è più l'epoca di Marx, ma non è più neanche il 1945? A mio avviso Marx diceva cose sostanzialmente giuste per la sua epoca. Manchester, quando Engels la vide, nel 1843, presentava quel fenomeno di immiserimento, di contrapposizione di classe che egli descrisse e che Marx teorizzò.
L'analisi che c'è in Marx ed Engels negli anni '40-'50-'60 dello scorso secolo è valida ancora negli anni '70-'80, benché poco dopo, negli anni '90, cominci la nuova espansione produttiva, non è più valida nel 1988 per il motivo che lo stesso Marx diceva e cioè che un modo di produzione non muore finché può sviluppare forze produttive, e le forze produttive si sono impetuosamente sviluppate, e il Paese industrialmente più avanzato mostra la via del domani ai Paesi che si industrializzano e non viceversa. Marx non voleva essere un comunista primitivo che sogna di restaurare l'età dell'oro dì cui parla Ovidio, senza Stato, senza leggi, senza diseguaglianze. Questo comunismo Marx lo ripudiava già nel 1845 e rispetto a esso diceva: l'ignoranza non ha mai fatto del bene a nessuno. E lo diceva al sublime sognatore che era l'ex carcerato comunista primitivo Weitling. Ma neppure Marx poteva, e nessuno può, indovinare il futuro.
Adesso abbiamo quello che all'epoca di Marx era il futuro, oggi lo abbiamo come presente. Qual è il programma della sinistra? Voi ne discuterete, spero. Voglio solo osservare, a proposito del programma economico dei partiti di sinistra, che mi sembra di essere tornato indietro di due secoli: all'inizio dell'Ottocento i movimenti di sinistra chiesero la tassazione della terra, della casa, dei titoli di Stato, e fu un progresso quando già nella seconda metà dell'Ottocento chiedevano l'imposta progressiva sul reddito. Adesso le sinistre tornano a chiedere l'imposta sulla casa e sui titoli di Stato, in un momento in cui la proprietà della casa e di un modesto risparmio in titoli di stato si è diffusa in tutti gli strati sociali, mentre ben altri sono gli strumenti per una tassazione moderna e progressiva. Il problema vero è quale può essere il programma di una società migliore di quella odierna. È un problema che noi oggi affrontiamo avendo conoscenze che Marx non poteva avere. All'epoca di Marx si pensava ancora che le istituzioni economiche, sociali, politiche fossero la cosa fondamentale e che cambiando queste istituzioni - che possono essere cambiate attraverso una rivoluzione di pochi mesi o attraverso delle riforme di pochi anni - si potesse cambiare tutto.
Le scienze del cervello e della mente, le neuroscienze, ci insegnano oggi che, sì, le istituzioni sono importanti, ma ancor più determinanti sono i processi psichici che derivano da un'eredità di centinaia di migliaia, se non di milioni di anni. E queste strutture mentali cambiano molto lentamente, in tempi lunghissimi, e non c'è modo di affrettarne in larga misura il cambiamento. Questo è il vero limite di fondo alle rivoluzioni, che cambiano le istituzioni, ma non possono cambiare le menti degli uomini con la stessa rapidità. I neuroscienziati dibattono oggi tutto questo anche a livello di popolarizzazione nelle terze, quinte o settime pagine dei quotidiani, però ciò è rimasto al di fuori degli orizzonti dei partiti e non solo dei partiti di sinistra naturalmente. Così accade che si discute di tutto ma ultimo resta sempre il problema dell'educazione delle menti, delle coscienze, del sapere. Della scuola si parla soltanto in occasione degli scioperi degli insegnanti tendenti a strappare aumenti di stipendi e di salari che poi non significano molto perché con l'inflazione che cresce - e cresce molto di più di quanto non dicano le statistiche, come ogni massaia sa - vengono rapidamente neutralizzati. Le condizioni di vita dei lavoratori si sono elevate, oltre che per le lotte, per il progresso tecnologico, ma da ciò non è scaturita una direzione di sinistra della società, perché gran parte della sinistra vive ancora in miti, in slogan, in parole d'ordine passate che un tempo avevano una certa giustificazione, ma che oggi l'hanno perduta.
Ci dispiace certo che non sia più qui l'amico Lelio per motivi anche affettivi, ma anche perché ci vorrebbero tanti intellettuali come lui che mettessero in discussione i vertici delle sinistre, il problema di che cosa può significare oggi il socialismo democratico. Certamente non può significare la stessa cosa che significava nel 1918-19, nelle prime rivoluzioni socialiste, democratiche o dittatoriali, o nel 1945. Nel 1989 sarà celebrato in Francia con grandi convegni il bicentenario della rivoluzione francese. Anche noi faremo in Italia questa celebrazione; avremo grosse spese per convegni più o meno utili, ma non so se avremo - e vorrei che lo avessimo - un franco, profondo e sincero dibattito sugli obiettivi da raggiungere a vantaggio della società e non semplicemente per guadagnare voti che poi non servono a niente se questi voti non si sommano, ma rimangono sparpagliati, e quindi, anche quando sono in maggioranza, come oggi alla Camera dei deputati, formano tante minoranze divise fra di loro. Ecco quello che volevo dire.

[Tratto da AA.VV., Socialismo e democrazia. Rileggendo Lelio Basso, Concorezzo, Gi. Ronchi Editore, 1992 che raccoglie le relazioni e gli interventi dell’omonimo convegno svoltosi a Milano nel 1988]

ConteMax
12-04-09, 16:48
Purtroppo caduto nell'oblio Felice Cavallotti

http://it.wikipedia.org/wiki/Felice_Cavallotti

Felice Cavallotti
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Monumento a Felice Cavallotti a Verbania
Targa a Felice Cavallotti nella via a lui dedicata, Firenze

Felice Carlo Emanuele Cavallotti (Milano, 6 ottobre 1842 – Roma, 6 marzo 1898) è stato un politico, poeta e drammaturgo italiano.

Fu il fondatore, insieme ad Agostino Bertani, del Partito Radicale storico, movimento attivo tra il 1877 e l'avvento del Fascismo. Cavallotti fu considerato il capo incontrastato dell'"Estrema Sinistra" nel parlamento dell'Italia liberale pre-giolittiana.
Indice
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* 1 I primi anni del suo impegno
* 2 L'attività politica
o 2.1 I rapporti con il movimento socialista
* 3 Il Cavallotti uomo
* 4 Il duello fatale
* 5 Opere
* 6 Riferimenti
* 7 Voci correlate
* 8 Altri progetti
* 9 Collegamenti esterni

I primi anni del suo impegno [modifica]

Abbandonata la famiglia a diciotto anni per unirsi alla seconda fase della Spedizione dei Mille, Felice Cavallotti combatté con i Garibaldini nel 1860, e nel 1866 in Valtellina e in Trentino, ove prese parte alla Terza Guerra d'Indipendenza come volontario nel 4° Reggimento comandato dal colonnello Giovanni Cadolini del Corpo Volontari Italiani. Si distinse per valore nella battaglia di Vezza d'Oglio. Nel 1867 fu di nuovo al fianco di Garibaldi nella Roma pontificia, durante la fallita insurrezione che vide l'intervento delle truppe francesi in aiuto di Pio IX.

Come scrittore Cavallotti commentò le azioni dei Garibaldini per il giornale milanese L'Unione e per il napoletano L'Indipendente di Alexandre Dumas padre; tra il 1866 ed il 1872 scrisse satire anti-monarchiche per la Gazzetta di Milano e per la Gazzettina Rosa.

L'attività politica [modifica]

Dopo la morte di Agostino Bertani, avvenuta nel 1886, la passione di Cavallotti nel rivendicare riforme, ed una riconosciuta generosità d'animo da parte dei contemporanei, gli assicurarono la leadership della sua parte politica ed una popolarità seconda solo a quella di Francesco Crispi.

Nel 1873, all'età di 31 anni, Felice Cavallotti fu eletto per la prima volta al Parlamento come deputato di Corteolona. Molto attivo contro gli ultimi governi della Destra storica, Cavallotti fu scettico anche a proposito della Sinistra, che salì al potere nel 1876, e si tenne all'opposizione, denunciandone il trasformismo negli anni di Agostino Depretis.

Tramite un'intesa conclusa nel 1894 con Antonio Starrabba, Marchese di Rudinì, egli ottenne molte concessioni alle richieste radicali. Durante i dodici anni sotto la sua guida il partito, che sposò una posizione filo-francese, crebbe in numero da venti a settanta deputati, ed al momento della sua morte l'influenza parlamentare di Felice Cavallotti era all'apice.

I rapporti con il movimento socialista [modifica]

Cavallotti, che nel 1871 aveva espresso il proprio appoggio alla Comune di Parigi, mostrava attenzione verso le idee marxiste, pur non condividendo fino in fondo l'approccio di classe alla “questione sociale” che peraltro anche lui denunciava da parlamentare. Se i socialisti vedevano nel Partito Radicale una sinistra borghese, nei fatti radicali e socialisti si trovarono insieme nelle lotte per l'emancipazione delle classi subalterne e nell'opposizione al colonialismo italiano. Il primo operaio ad essere eletto parlamentare, nel 1882, tra le file dei radicali fu Antonio Maffi. E a Napoli, colpita dall'epidemia di colera, a trovarsi al fianco delle classi popolari nel 1885 furono il socialista Andrea Costa, l'anarchico Errico Malatesta e il radicale Cavallotti.

Il Cavallotti uomo [modifica]

Nella vita privata lo stile del politico radicale non tradì gli ideali professati. Felice Cavallotti riconobbe i due figli Maria e Giuseppe, nati da due libere unioni, e colse tutte le occasioni per riaffermare la sua intransigenza come laico nei confronti delle pressioni operate della Chiesa sulla politica dello Stato italiano. È anche grazie a lui che a Roma, in Piazza Campo de' Fiori, nel 1889 venne eretta la statua a Giordano Bruno, opera di Ettore Ferrari. Felice Cavallotti, descritto come persona dal carattere passionale e testardo, nel corso della sua vita combatté trentatré duelli, e prestò il giuramento di fedeltà come deputato solo dopo averne pubblicamente contestato la validità.

Il duello fatale [modifica]

Felice Cavallotti morì il 6 marzo 1898, ucciso in duello dal conte Ferruccio Macola, direttore del giornale conservatore Gazzetta di Venezia, che lo aveva sfidato in seguito ad un diverbio. Il radicale aveva tacciato di mentitore il conte, responsabile di avere pubblicato una notizia non verificata relativa ad una querela che egli aveva ricevuto come deputato. L'ultimo duello di Felice Cavallotti ebbe luogo a Roma, presso Porta Maggiore, in un giardino nella villa della contessa Cellere. Felice Cavallotti morì raggiunto alla bocca ed alla carotide dalla sciabola dell'avversario. Con la sua morte, gli elementi dell'Estrema Sinistra in Italia persero un leader, e la Casa dei Savoia un instancabile oppositore. Per la morte di Felice Cavallotti, Giosuè Carducci pronunciò un discorso funebre pieno di passione all'Università di Bologna. Un corteo di tre chilometri ne accompagnò il feretro fino al cimitero di Dagnente (oggi frazione di Arona), sul Lago Maggiore, dove è sepolto.

Opere [modifica]

Cyrus
30-04-09, 20:01
bel contributo del conte max che ringraziamo. continuo nella mia "opera" sui grandi radicali del passato. inizierò proprio con felice cavallotti, qualcosa in più su di lui, poi sul grande ernesto nathan, che fu sindaco della capitale.

Cyrus
30-04-09, 20:03
Felice Cavallotti: a 110 dieci anni dalla sua morte ne è svanita la memoria

RedattoreGiuseppe Candido
20/08/2008 - 15:29


Un milanese garibaldino, giornalista e radicale dell'ottocento da ricordare: Felice Cavallotti (Milano, 1842-Roma, 1898). Serve ancora il suo esempio: per la politica e i partiti urge una riforma radicale e democratica.



Felice Cavallotti fa parte di quei personaggi italiani di cui le istituzioni e le forze politiche hanno voluto rimuovere la memoria. A 110 anni dalla sua morte se ne è cancellato il ricordo.

“L'Italia ha bisogno, più che di ingegni, di caratteri…rafforzare la tempra morale…Gridare libertà e democrazia, nomi santi, non basta, se il culto loro si chiude nella cerchia di un indifferentismo passivo, o di una inerzia sdegnosa…Noi abbiamo della libertà un concetto diverso; presumiamo maggiormente della forza, della virtù di espansione che è in lei…ogni riforma, per quanto segni un breve passo sulla via del progresso, sarà da noi propugnata; e massimo progresso reputeremo non quello che porta le idee più in alto, ma benanche quello che meglio e più le diffonde fra le moltitudini”

Nel 1873, eletto per la prima volta in Parlamento:, afferma:"…Abbiamo una parola d'ordine: onestà;- una religione: giustizia ed uguaglianza, libertà e progresso;- un usbergo: la coscienza delle nostre opere;- un'arma: il coraggio delle nostre opinioni."

Queste le finalità esplicite de “Il Lombardo”il giornale cui diede vita proprio Felice Cavallotti.

Il nome di Cavallotti non è conosciuto come quelli di Garibaldi e Mazzini, eppure alla fine dell’Ottocento era considerato unanimemente l'erede dei due eroi del risorgimento. Felice Cavallotti era capo riconosciuto della “Estrema Sinistra” nel parlamento dell’Italia liberale pregiolittiana e fu fondatore (insieme ad Agostino Bertani) del Partito Radicale.



Nel 1998, in occasione del centenario della sua morte, il Movimento d'Azione “Giustizia e Libertà” ha ricordato Felice Cavallotti agli uomini liberi e memori. Oggi, a cento dieci anni dalla sua morte, chi sa chi era quest'uomo? Chi lo conosce? Su wiki si trova di tutto e anche su Felice Cavallotti esiste una seria documentazione consultabile on line. Nei tempi della Casta occorrerebbe conoscerlo meglio e ricordare il suo impegno come politico e come giornalista che per primo pose la “questione morale” nella politica italiana.

Così scrisse Carducci in un frammento di poesia del giugno 1860

Garibaldi !

Al tuo nome a mille a mille

fuggon giovini eroi le dolci case

e de le madri i lacrimosi amplessi…

La spedizione dei Mille provocò un sussulto giovanile di partecipazione in tutto il Paese. E tra quei giovani che si unirono a Garibaldi vi fu Felice Cavallotti che si arruolò a Milano all'insaputa dei genitori.

Dopo aver combattuto con i Garibaldini e averne commentato l'azione del L'Unione, giornale milanese dell'epoca. Il suo impegno e la sua passione politica nel rivendicare le riforme gli diedero popolarità nella sua parte politica che fu seconda soltanto a quella del Siciliano Francesco Crispi.

Eletto per la prima volta in parlamento a trentun anni nel 1860 fu molto attivo contro gli ultimi governi della destra storica. Ma non solo: fu a capo dell'opposizione anche quando al governo vi fu la Sinistra storica, propugnando la riforma dello Statuto, la più netta separazione tra Chiesa e Stato e l'adozione del suffragio universale. Un radicale al 100%.

Infatti le origini storiche e ideologiche del partito radicale risalgono, come si capisce dalle biografie di Bertani e Cavallotti, al Risorgimento e al Partito d'Azione mazziniano e soprattutto garibaldino. È infatti con la dissidenza dal repubblicanesimo mazziniano intransigente che si organizzò, sotto l'ispirazione di Garibaldi, la guida prima di Bertani e più tardi di Cavallotti, un primo coerente gruppo di Estrema Sinistra.

Dopo l'unificazione del Regno d'Italia, ai tradizionali raggruppamenti della Sinistra subalpina si aggiunsero rappresentanti del Partito d'Azione mazziniano e garibaldino. Si originò così un raggruppamento della Sinistra parlamentare non omogeneo e dalla vita interna assai travagliata (Strano, ma sembra di rileggere la storia di oggi). Ben presto, infatti, si arrivò alla formazione di una Sinistra Estrema, composta da deputati di orientamento repubblicano e radicale, capeggiata da Agostino Bertani prima e Felice Cavallotti poi (accanto a forti personalità politiche come Friscia, Saffi, Bovio, Mario, Imbriani, Campanella). Questa nuova formazione è caratterizzata da forti istanze riformatrici in campo politico, economico e sociale. La Sinistra storica, guidata invece da Depretis e Cairoli, si collocò su posizioni politiche più possibiliste e di governo. Fu appunto questa formazione di Sinistra storica ad assumere la direzione del Paese dopo la caduta della Destra storica (avvenuta con la “rivoluzione parlamentare” del marzo 1876), guidandolo sulla via delle prime riforme significative: abolizione della tassa sul macinato, riforma scolastica, riforma elettorale.

Cavallotti apparteneva quindi alla sinistra democratico - radicale più nel solco di Garibaldi e di Bertani, che in quello di Mazzini (seguito dai repubblicani puri e intransigenti).



La formulazione più ampia ed organica del programma di democrazia radicale, steso in gran parte da Cavallotti, si ebbe nel 1890 col 'Patto di Roma', al termine di un grande congresso, che indicò analiticamente gli obiettivi della lotta:

nessuna ingerenza della Chiesa nella vita dello Stato,

nessuna conciliazione o concordato, bastando ampiamente il principio della libertà religiosa e le leggi ordinarie;

la consultazione della nazione, quando fossero stati in gioco interessi e decisioni supremi;

l'indennità ai deputati, per permettere anche ai meno abbienti di accedere a ruoli dirigenti;

la possibilità di convocare il parlamento in casi urgenti o per atti gravi del governo, anche in tempo di vacanze e di chiusura di sessione;

la rivendicazione di tutti i diritti di riunione, di associazione, di stampa;

una legge speciale sulle responsabilità dei ministri, l'esclusione dei membri del governo dal voto di fiducia, il divieto del cumulo dei ministeri nella stessa persona;

il mantenimento al potere centrale (secondo le lezioni di Cattaneo e di Ferrari) solo di poche fondamentali competenze, decentrando tutto il resto, giacché la tutela accentratrice, eccessiva, provoca la paralisi della vita generale;

lo snellimento della burocrazia e l'eliminazione dei ministeri inutili;

l'ideale di una Roma laica e civile, capitale della scienza e della democrazia, con richiami alla 'terza Roma' di Mazzini e alla tradizione illuministica e rivoluzionaria (che il grande sindaco democratico Ernesto Nathan cercò di realizzare, spesso riuscendovi, nel primo decennio del Novecento);

l'indipendenza della magistratura, la semplificazione del processo civile, il gratuito patrocinio per i poveri, la giuria nei processi politici, l'indennità ai cittadini ingiustamente accusati e colpiti;

l'abolizione della pena di morte e la revisione del codice penale; l'educazione gratuita ai poveri e meritevoli dall'asilo all'Università, l'istruzione laica e obbligatoria per i primi cinque anni delle elementari, l'autonomia piena delle Università;

la riduzione della ferma e delle spese militari, considerando tutti i cittadini militi, non soldati;

le otto ore di lavoro, la cassa pensioni per la vecchiaia e gli infortuni, l'istituzione di camere del lavoro e di collegi di probi viri, sanzioni per gli imprenditori imprevidenti, con l'obbligo del risarcimento danni; l'esenzione dal dazio dei beni di prima necessità, l'imposta unica e progressiva (vecchio mito garibaldino);

un vasto programma di lavori pubblici, la bonifica della terra, con la redenzione dell'agro pontino e la trasformazione della valle padana;

un argine agli abusi anche della manomorta laica, espropriando le terre incolte, incamerando quelle mal coltivate, con concessioni dirette agli agricoltori, alle cooperative, alla piccola proprietà; lotta all'emigrazione;

fratellanza latina con la Francia, divenuta repubblica laica e democratica, simbolo degli obiettivi della politica radicale e riferimento delle speranze progressiste, amicizia cordiale con l'Inghilterra;

opposizione all'imperialismo e al colonialismo, alla luce della pregiudiziale sacra alle generazioni del Risorgimento del rispetto delle nazionalità, anche di colore, e della priorità dei problemi interni (bisognava pensare al nostro Mezzogiorno e non all'Eritrea);

gli Stati Uniti d'Europa, che non dovevano escludere l'amore della patria e la difesa accalorata della propria nazionalità "indarno ameremmo l'umanità tutta intera; gelido e sterile sarebbe l'amore se prima non intendesse le care voci e i doveri che gli parlano dal focolare domestico, dalla culla dei padri, e le voci solenni che dai balzi delle Alpi e dalle spiagge dei due mari gli rammentano gli orgogli di una più grande famiglia";

l'emancipazione della donna, con l'allargamento del diritto di voto ad esse e la lotta contro la prostituzione e le case di tolleranza, nella quale si distinse Ernesto Nathan, il futuro, grande sindaco di Roma.

Il Partito Radicale si costituì formalmente come tale proprio nel 1890, primo dei partiti politici in senso moderno, seguito poi, nel 1892, dal Partito Socialista e, nel 1895, dal Partito Repubblicano, (intransigentemente antimonarchico e antiparlamentare). L'ideale di Cavallotti e dei democratici di estrazione garibaldina è il "Partito delle mani nette", che vive soltanto delle sottoscrizioni degli aderenti o 'militanti', quasi "oboli dei credenti laici".

F. Cavallotti, deputato radicale fu ucciso in un duello, svoltosi il 6 marzo 1898 a Roma presso Porta Maggiore, nella villa della contessa Cellere, da Ferruccio Macola, deputato della Destra Storica che venne però politicamente distrutto dall'uccisione di Felice Cavallotti

Cyrus
30-04-09, 20:05
NEL CENTENARIO DELLA MORTE 1898 - 1998



IL



MOVIMENTO D'AZIONE GIUSTIZIA E LIBERTA'



RICORDA



AGLI UOMINI LIBERI E MEMORI



FELICE CAVALLOTTI



(Milano, 1842 - Roma, 1898)



GARIBALDINO,

GIORNALISTA,

POETA E DRAMMATURGO,

RADICALE DELL' OTTOCENTO,

IL BARDO DELLA DEMOCRAZIA,

CHE PER PRIMO POSE LA 'QUESTIONE MORALE'

NELLA POLITICA ITALIANA.

LOTTO' CONTRO IL TRASFORMISMO, L'AUTORITARISMO,

LE INGIUSTIZIE SOCIALI,

E PAGO' CON LA VITA LA SUA CORAGGIOSA BATTAGLIA

NEL PARLAMENTO E NEL PAESE







MEMORIA RIMOSSA PER TUTTO IL 1998 DALLE ISTITUZIONI E DALLE FORZE POLITICHE, ESTRANEE O SPESSO LONTANE DAI VALORI CHE DA QUEL GRANDE TESTIMONE DISCENDONO



Felice Carlo Emmanuele Cavallotti nacque a Milano il 6 ottobre 1842, penultimo di cinque figli di una famiglia della piccola borghesia. E, come dice Alessandro Galante Garrone, autore nel 1976 della più importante biografia su Cavallotti (alla quale molto deve questo profilo, dagli intenti divulgativi e celebrativi) " milanese egli si sentì e si professò per tutta la vita: non solo e non tanto per la nascita, quanto per gusto e carattere, che aveva arguti e bonari, e volti al pratico, al sodo buon senso (più di quanto non appaia dai ritratti un po’ convenzionali che di lui ci sono stati trasmessi), e anche per tradizioni culturali, risalenti a Parini, e uno spiccato sentimento di fierezza cittadina, e per lo stesso dialetto meneghino, che padroneggiava assai bene fin da ragazzo, e poi da adulto, perfino in poesie e discorsi in pubblico." (1).

Ma il padre, Francesco, era originario di Venezia, dove era nato nel 1800; si impiegò a Milano presso la Giunta del Censimento. Aveva interessi culturali in campo linguistico e conosceva bene il tedesco.

La madre, Vittoria Gaudi, era invece milanese. Dai diari conservati del marito Francesco emerge "una natura caparbia, indomita, irascibile", che portò anche a una formale richiesta di separazione, poi ritirata. Commenta Galante Garrone" non ci si può sottrarre all'impressione di un carattere risentito, impulsivo, spesso anche violento e incontrollato nelle sue manifestazioni esteriori. E qualcosa di questa trasmodante impetuosità, di questi incontenibili scatti della madre ritroveremo nel figlio Felice, fino alla tragica conclusione della sua esistenza" (2).

I momenti più felici della fanciullezza di Cavallotti furono legati ai giorni trascorsi presso la zia paterna Adelaide a Ghevio sopra Meina, sul Lago Maggiore " il mio Ghevio ove s'andava per greppi e boscaglie e per siepi, in traccia di funghi e ciclamini" (3). A Meina, a Ghevio, a Dagnente (dove acquistò poi una modesta casa) Cavallotti ritornò spesso nella sua vita per riposarsi, scrivere, lenire gli affanni, e a Dagnente (dove vi è stato quest'anno il ricordo) è sepolto.

Frequentò, per le ristrettezze familiari, dalle elementari le scuole pubbliche; al Liceo di Porta Nuova primeggiava, specialmente nelle materie umanistiche e nel possesso della lingua tedesca, tanto da dare lezioni private a sedici anni per aiutare la famiglia. A quell'età incominciò a verseggiare, caratterizzandosi per la "estrema facilità del comporre, la facilità tipica dell'improvvisatore" (4), che rimarrà caratteristica della sua attività poetica, pur con esiti non originali, se paragonati ad es. a quelli di Carducci, suo coetaneo ed amico.

Già le Quattro Giornate di Milano del 1848 avevano lasciato qualche traccia nella sua memoria, specialmente con la figura di Cattaneo, ma furono i giorni entusiasmanti della Seconda Guerra di Indipendenza del 1859 a spingerlo nella politica. Così, a capo della deputazione degli studenti del citato Liceo di Porta Nuova, lesse l'indirizzo di saluto al Conte di Cavour in visita al Liceo "L'Italia sa che non le verrete mai meno: è oppressa, soffre , attende, e vi benedice" (5). Cavour, alle parole infuocate del liceale milanese diciassettenne, rispose con compiacimento, ma anche con l'invito allo studio: "Non credete signori che solo con la spada si rigeneri una nazione; a ciò vuolsi eziandio lo sviluppo della mente e del cuore. Proseguite nella via che avete così bene iniziata: la patria attende molto da voi".(6)

Un altro indirizzo di saluto il giovanissimo Cavallotti lesse durante la visita del ministro dell'istruzione Terenzio Mamiani.

Nel frattempo il fratello Giuseppe, di un anno più grande di lui, nel febbraio 1860 si era arruolato volontario nell'esercito piemontese.

Date la discreta cultura e la facilità dello scrivere, Felice si diede già in quel periodo al giornalismo, essendo sorti tanti periodici nella Milano liberata. Iniziò su "Il Momento", fondato da Benedetto Castiglia, un esule siciliano, già professore all'Università di Palermo, che era di sentimenti cavouriani, ma aperto anche all'ammirazione di Garibaldi, consonante quindi con Cavallotti. Ma il giornale chiuse dopo pochi mesi e Felice pensò già allora di fondarne uno dal titolo "Libera ed Una", per il quale aveva redatto il programma "Libertà, unità, fratellanza. E' il motto dell'éra nuova, della vita nuova dei popoli."(7) Cavallotti, come tanti altri della sua generazione, es. Carducci, si muoveva tra difesa della politica sabauda e cavouriana, sentimento unitario e primi entusiasmi per Garibaldi. Ma, non accettando la tendenziale chiusura dinastica e regionale, che stava emergendo, e trovandosi a vivere l'eroica spedizione garibaldina del Sud, Cavallotti trapassò dalla possibile posizione moderata a quella decisamente democratica, distante sia da Cavour, ma anche lontana da Mazzini. La democrazia garibaldina cominciava a profilarsi come una delle correnti politiche più vive del paese accanto a quella liberale e a quella repubblicana mazziniana.

Nella primavera del 1860 Cavallotti pubblicò un opuscolo di 28 pagine 'Germania e l'Italia. Il partito nazionale germanico. Le sue vicende, le sue speranze", che presagiva la caduta del dispotismo austriaco anche in Germania, ad opera della Prussia, e il processo di unificazione sotto di essa, così come era avvenuto in Italia ad opera del Piemonte. Si auspicava che i due popoli liberi e uniti fossero "fratelli nel grande cammino dell' umanita' ". (8)

La spedizione dei Mille suscitò un'ondata di volontariato giovanile in tutto il paese, specialmente al Nord. Come scrisse Carducci in un frammento di poesia del giugno 1860 " Garibaldi ! Al tuo nome a mille a mille/ fuggon giovini eroi le dolci case/ e de le madri i lacrimosi amplessi…" (9). Tra quei giovani vi fu Felice Cavallotti, che, all'insaputa dei genitori, si arruolò a Milano col foglio di congedo di un suo cugino più grande, Cacciatore delle Alpi ( condizione per essere inseriti in lista), e partì il 10 giugno da Genova sul vapore 'Washington', che, con altri due, portò in Sicilia la seconda spedizione Medici. A Castellamare del Golfo conobbe per la prima volta Garibaldi, venuto in visita ai giovani volontari. La colonna Medici, passando per Alcamo e Partinico, giunse a Palermo. Cavallotti e i suoi amici più sensibili furono impressionati "dalle bigotte superstizioni del popolino, dalla frequenza di preti e mendicanti, dai ragazzi cenciosi e affamati; e la scoperta di questa arretratezza non sarebbe stata dimenticata."(10).

La sua compagnia fu tra quelle più duramente impegnate nella battaglia di Milazzo tra il 16 e il 20 luglio e Cavallotti fu in prima linea.

Nel frattempo il fratello Giuseppe si era congedato dall'esercito piemontese, stanco e deluso dall'inazione sabauda, e si arruolò il 28 luglio nella brigata Milano dell'Esercito Meridionale, agli ordini del generale Turr.

Felice, anche su sollecitazione del padre, inviò già da Messina corrispondenze e commenti politici per giornali milanesi, ad es. "L'Unione" (che erano considerati dal suo direttore tra i migliori del giornale).

Il 18 settembre arrivò a Napoli, ma, colpito da infiammazione, fu ricoverato all'Ospedale militare e pertanto non poté partecipare alla battaglia del Volturno, nella quale fu impegnato il fratello Peppino.

Con la sua intraprendenza e la sua bravura si fece assumere a Napoli come redattore presso il giornale 'L'Indipendente', fondato, diretto e in gran parte scritto da Alexandre Dumas padre.

Dato il dualismo tra l'esercito meridionale garibaldino e le truppe regolari, soprattutto piemontesi, crebbe nei volontari il sentimento anticavouriano e antigovernativo e tanti pensarono al congedo, specialmente dopo il ritiro a Caprera di Garibaldi". Scrisse efficacemente Cavallotti in una lettera al libraio milanese Schiepatti (che gli aveva pubblicato il citato opuscolo) "Garibaldi se n'è andato a Caprera, ed ha lasciato i suoi volontari 'nelle pettole' come si suol dire da noi milanesi." (11)

Tornato dopo sei mesi nella città natale, terminò gli studi liceali e si iscrisse in giurisprudenza all'Università di Pavia, mantenendo comunque l'impegno di giornalista presso la "Gazzetta del Popolo della Lombardia" e "L'Indipendente" di Dumas, annodando rapporti di lavoro tra il giornale di Milano e quello di Napoli.

Pur critico dell'azione politica della Destra al potere, considerata inadeguata ai nuovi compiti storico - politici, Cavallotti aveva fiducia nel nuovo Parlamento, che adunava comunque le migliori energie del paese.

Sul giornale 'Il Campidoglio' scrisse articoli di politica estera, specialmente sul mondo germanico, cogliendo i limiti di fondo dei dirigenti Prussiani "Noi disperiamo degli uomini che oggi governano la Prussia: essi saranno sempre gli uomini del diritto divino, gli avvocati del Papa e del Borbone, gli uomini che in Varsavia - sulla tomba della Polonia - rinnovarono il patto d'alleanza coi nemici dell'unità e libertà della Germania, dell'unità e libertà delle nazioni." (12).

Sempre per far fronte alle ristrettezze familiari tradusse dal tedesco nel 1863 la 'Vita di Gesù' di Strauss.

La sua vita, tra il 1861 e il 1863, trascorse lontana dal tono degli anni precedenti, grigia, dissipata tra lavori oscuri, routine giornalistica, condotta spensierata, con un certo disimpegno democratico che lo portò anche alla collaborazione nel 1863 a 'Il Carroccio', il giornale cattolico - liberale allora fondato a Milano dal canonico Giovanni Lega. L'interessante testata voleva tuttavia promuovere un liberalismo non antireligioso, difendere il diritti delle nazionalità, sconfessare ogni temporalismo "Nella vertenza attuale tra la Chiesa e lo Stato è nostra convinzione che le libertà dell'una e dell'altro non sono essenzialmente inconciliabili; ma che anzi possono e debbono coesistere insieme, tuttochè distinte." (13) Accettava pertanto l'esito unitario e liberale del Risorgimento. Lega voleva anzi che il ventunenne Cavallotti fungesse quasi da direttore. Egli vi collaborò tra la fine del 1863 e i primi mesi del 1864.

Ma la più lunga collaborazione giornalistica, durata sette anni, Cavallotti la ebbe con l'importante quotidiano milanese "Gazzetta di Milano", di cui nel 1863 divenne redattore fisso, occupandosi soprattutto di politica estera.

Crebbe il suo nome nell'ambiente giornalistico e a questo periodo risale il primo duello nel 1864 col il direttore del "Pungolo" Fortis. La duellomania di Cavallotti era legata sia al suo temperamento impulsivo e battagliero, ma anche alla convinzione che fosse un modo efficace per colpire il principio dell'irresponsabilità dell'ingiuria, così diffuso nell'ambiente giornalistico, spesso prezzolato.

Si laureò in giurisprudenza a Pavia nel 1866, accentuando in senso democratico la sua posizione politica e collegandosi, sul piano culturale, col mondo della Scapigliatura lombarda. Suoi amici furono Rovani, Boito, Praga.

Partecipò col fratello Peppino alla Terza guerra di indipendenza del 1866, che portò alla liberazione del Veneto.

Sostenne nel 1867 la candidatura di Carlo Cattaneo al Parlamento. Nello stesso anno fu in primo piano nell'appoggio alla sfortunata impresa garibaldina nello stato pontificio, che si concluse con la tragedia di Mentana, quando gli zuavi mercenari pontifici, con l'appoggio dei francesi di Napoleone III, uccisero tanti giovani volontari idealisti. Il popolo romano non insorse, il governo italiano non si mosse. E Cavallotti scrisse parole roventi "Torma di femmine e di frati, tienti adunque la gonna e la cocolla, se a te non s'addice la toga del libero".(14) Da quella indignazione nascerà nel 1869 il suo libro storico "L'insurrezione di Roma del 1867".

Aveva sostituito il direttore del "Gazzettino" Achille Bizzoni, corso con Garibaldi, e con lui nel 1868 lo modificò nel "Gazzettino Rosa", che divenne una delle voci più note degli ambienti democratici. Tra i collaboratori occorre ricordare Felice Cameroni, Vincenzo Pezza, Giuseppe Mussi, Andrea Ghinosi, Antonio Billia, Carlo Tivaroni, poeti, deputati, giornalisti, storici del Risorgimento.

Bizzoni era nato a Pavia nel 1841; ardente garibaldino, fu un giornalista impegnato in aspre battaglie democratiche, che spinse spesso Cavallotti sulla via dei duelli e fu uno dei padrini nell’ultima mortale sfida.

Diede un importante contributo alla memorialistica garibaldina con il volume "Impressioni di un volontario all'esercito dei Vosgi" (1874), interessante testimonianza sull'ultima campagna di Garibaldi del 1870, durante la quale morì il citato fratello di Felice, Giuseppe.

Scrisse anche il romanzo "L'onorevole" (1895), vivace accusa della corruzione parlamentare in relazione allo scandalo della Banca Romana.

Il "Gazzettino Rosa" aveva rapporti, anzi si confondeva con il più vasto mondo della Scapigliatura, in particolare lombarda. Questa corrente non fu solo letteraria, ma riguardò il costume, la sensibilità sociale, gli orientamenti politici spesso democratici, repubblicani, con aperture anche internazionaliste. Carducci, attratto da quel fervore di vita, fu all'unisono con gli uomini del "Gazzettino Rosa", che lo consideravano uno di loro, e divenne amico di Cavallotti. Sentì con loro l'amarezza di Mentana e nell'epodo per l'amico Corazzini, ferito nella campagna romana, Carducci esplose contro i francesi, il papa e i preti, fino all'orgogliosa scomunica "te…/io scomunico, o prete,…/ io sacerdote de l'augusto vero,/ vate dell'avvenire".(15). Per queste posizioni Carducci fu minacciato di trasferimento dall'Università di Bologna a quella di Napoli e fu sospeso per due mesi dallo stipendio.

Di fronte alle poesie adulatorie fiorite in varie parti d'Italia per le nozze del re Umberto con Margherita, in particolare quella di Giovanni Prati, Cavallotti, indignato, scrisse sul "Gazzettino Rosa" l'ode " Le auguste nozze. A Giovanni Prati", che costò il sequestro del giornale e un processo a Cavallotti. La vicenda, con la successiva assoluzione, rese ancor più famoso il poeta milanese, che ebbe da allora l'appellativo di "anticesareo". Criticava le "cetre vendute", contrapponeva i lutti del popolo ai fasti regali"…vestite di nero/ van le madri d'Italia in gramaglie;/ ma son d'oro e d'azzurro le maglie/ che rivestono i cuochi del re."(16).

Tuttavia, quando morì Giovanni Prati, Cavallotti, evidenziando uno degli aspetti più positivi della sua personalità, seppe dire parole nobili" o cantore di Savoja, se fu questa la tua fede del primo giorno e dell'ultimo, non sarà carme democratico che ti sfrondi l'alloro: poiché vanto al poeta è il vivere coerente, e morire avvolto tra le pieghe della propria bandiera." (17)

All'amico Airaghi, che gli consigliava moderazione di toni e di attacchi, Cavallotti rispondeva "Flagella! Flagella! Superbo peana…del frate Loyola la nera sottana /l'ignavia dei servi /l'orgoglio dei re…/Noi liberi il Fato, noi giovani e forti/ lanciò della vita sugli ardenti sentieri: drappello quest'oggi- saremmo coorti /domane, nelle pugne del Giusto e del Ver". (18)

Pur impegnatissimo sul fronte poetico e giornalistico, aveva ben chiari i limiti di quell'azione, ai fini del miglioramento della società e del costume. Diceva all'amico Bizzoni in versi" povero ingenuo! Tu credi riformare /la gente che il tuo foglio si accalca a comperar ! Se costasser sì poco le riforme, davvero non occorrea nascessero né Bruto, né Lutero."(19) Occorrevano, soprattutto in Italia, caratteri, occorrevano l'azione, il sacrificio, la lotta.

Nel 1869 il fratello Peppino, di simpatie più mazziniane e repubblicane, fu arrestato. In quello stesso anno morì Carlo Cattaneo, in onore del quale Cavallotti scrisse un'ode letta durante il ricordo democratico pubblico, dopo che era stata vietata ogni manifestazione durante i funerali. Il milanese Cavallotti aveva un vero culto verso il milanese Cattaneo, eroe delle Cinque Giornate, difensore della libertà, dei diritti del popolo, così come lo mantenne verso in altro protagonista del Risorgimento milanese, Enrico Cernuschi.

Il 'Gazzettino Rosa' di Bizzoni e Cavallotti fu in primo piano nella denuncia di uno dei primi scandali post - unitari, quello della Regìa cointeressata dei tabacchi, con somme e favori elargiti ad una sessantina di deputati per assicurarsene il voto a sostegno del progetto. Era la prima delle campagne di opinione che sarà portata avanti da Cavallotti fino all'età crispina, quando si raggiunsero i toni più aspri e forti.

In relazione ai disordini scoppiati a Milani sulla vicenda, i giornalisti del "Gazzettino Rosa" furono arrestati. Cavallotti si diede alla latitanza e da quella condizione (nel cuore di Milano) continuò a dirigere il giornale. Il processo si concluse con le inevitabili assoluzioni.

Nel 1869 uscì il citato suo libro sull'insurrezione di Roma del 1867, argomento incandescente, svoltosi due anni prima, affrontato con serietà di documentazione, senza remore di essere troppo vicino temporalmente. Era dedicato a Garibaldi, di cui apertamente rivendicava la figura e l'opera, e che fu apprezzata pienamente dal Generale, legatissimo al poeta. Era il primo volume di una "Collana dei Martiri Italiani" pubblicato dalla libreria Dante Alighieri di Milano.

Nello stesso 1869 uscì la raccolta della sue poesie, andata subito a ruba e che suscitò l'intervento della Procura del re, affinché fosse sequestrata e l'autore arrestato. Cavallotti si fece alcuni giorni di carcere, a fianco del fratello Peppino. Le poesie di Cavallotti non vanno giudicate tanto dal punto di vista estetico, mancando di lavoro di lima, ma sul piano dell'efficacia civile. Come dice Galante Garrone "Cavallotti si era proposto di far poesia civile, quella stessa di Parini e Foscolo, di Giusti e di Carducci". (20)

Nel 1870 conobbe Bakunin di passaggio a Milano, consolidò i suoi rapporti con le società operaie, accentuò il suo furore antisabaudo. In occasione di una cerimonia presso gli ossari di S.Martino e Solferino, in replica ad una poesia di Giacomo Zanella filosabauda, aveva criticato la "servil zampogna" i " bugiardi metri", ricordando ad es. la viltà di Carlo Alberto "Qui a l'Alemanno un dì volgea le spalle /il Savoiardo pallido e fuggiasco"(21)

Scoppiata la guerra tra la Francia di Napoleone III e la Prussia, la sinistra democratica lombarda, tra cui Cavallotti, firmò un manifesto per la neutralità, nel rispetto del principio di nazionalità a favore della Germania e nel ricordo doloroso di Mentana, contro orientamenti governativi a favore di Napoleone III. Vi furono agitazioni e disordini e tra i primi arrestati vi fu Cavallotti, che restò in carcere tre mesi fino ad ottobre, proprio nei giorni in cui si chiudeva la questione romana e in Francia tornava la Repubblica. Si ebbe allora in tutti i democratici italiani un'inversione di atteggiamento verso il vicino paese latino e Garibaldi da Caprera invitò a sorreggere la repubblica con tutti i mezzi, fino a partire egli stesso per la Francia contro il re tedesco, non vindice di libertà, ma oppressore di popolo.

Avendo maturato una posizione diversa dagli amici del "Gazzettino Rosa" sul ruolo della presenza in parlamento, sulla base anche dell'esperienza fatta in Francia durante il Secondo Impero, che aveva affrettato la crisi di esso, Cavallotti decise di dar vita ad un suo giornale, il "Lombardo", per il quale scriveva le seguenti finalità "L'Italia ha bisogno, più che di ingegni, di caratteri…rafforzare la tempra morale…Gridare libertà e democrazia, nomi santi, non basta, se il culto loro si chiude nella cerchia di un indifferentismo passivo, o di una inerzia sdegnosa…Noi abbiamo della libertà un concetto diverso; presumiamo maggiormente della forza, della virtù di espansione che è in lei…ogni riforma, per quanto segni un breve passo sulla via del progresso, sarà da noi propugnata; e massimo progresso reputeremo non quello che porta le idee più in alto, ma benanche quello che meglio e più le diffonde fra le moltitudini"(22). E al programma aggiungeva una personale postilla"…Abbiamo una parola d'ordine: onestà;- una religione: giustizia ed uguaglianza, libertà e progresso;- un usbergo: la coscienza delle nostre opere;- un'arma: il coraggio delle nostre opinioni." (23). E sul giornale ospitò interventi di Bertani (di cui si parlerà dopo), così presentato da Cavallotti "Mazzini è una mente e un cuore; Garibaldi un cuore ed un braccio. Bertani è una volontà…E' l'antitesi della retorica…Non parla, ragiona".(24)

Il giornale assunse fin dai primi numeri un tono di battaglia, attaccò il governo Lanza, i soprusi della polizia, gli scandali elettorali e diede largo spazio alla spedizione garibaldina in Francia, dove era accorso il fratello Peppino, che morì in combattimento il 21 gennaio 1871 a Digione e finì in una fossa comune. Garibaldi lo ricordò più volte con rimpianto e senso di colpa, scrivendo a Felice, da lui definito "poeta del cuore - e vate della libertà vera".(25). Felice ebbe il conforto della madre dei Cairoli, Adelaide, che venerava, e scrisse per il fratello la poesia "Dijon 21 gennaio 1871. In morte di mio fratello", fra le più sincere e commosse da lui composte.

Difese socialisti e internazionalisti, esaltò gli eroi e le vittime della Comune di Parigi, anche se Cavallotti non fu mai formalmente socialista e internazionalista.

Nel marzo del 1871 il giornale fu sequestrato e il direttore incarcerato per pochi giorni, per propaganda repubblicana. Poi, anche per sopraggiunti problemi finanziari, il periodico cessò le pubblicazioni.

Scrisse un opuscolo "Della proprietà letteraria ed artistica e sua perpetuità", per motivi pratici e di principio. La sua raccolta di poesia veniva ristampata senza che ne venisse alcun utile a lui, che aveva problemi economici pressanti. Egli ricordava che gli autori "d'aria non vivono", "la gloria, certo, è bellissima cosa, ma a stomaco pieno" (26) L'opuscolo era composto in forma di lettera all'amico deputato Antonio Billia, che si stava battendo in Parlamento proprio per fare approvare una legge in tal senso.

Riprese il lavoro della collana sui martiri italiani, preparando materiali su Santorre di Santarosa, i martiri di Rubiera, i giustiziati del 1833 (pubblicati poi in un volumetto nel 1892 da Sonzogno), tutti tesi a demolire il mito sabaudo allora imperante, e impostò lavori sui martiri della repubblica napoletana del 1799 e una biografia su Cattaneo.

Sentì ancor più il distacco da Mazzini, specialmente dopo la condanna della Comune e le accuse di materialismo rivolte agli ambienti democratici vicini al "Gazzettino Rosa" e all'Internazionalismo. La nuova generazione aveva riconoscenza verso il profeta dell'Unità e della Repubblica, ma non lo seguiva sul piano dogmatico e religioso. Diceva Pezza su "Il Gazzettino Rosa" "Noi giovani materialisti non ci curiamo di ciò che sarà l'anima quando saremo morti, ma vogliamo che sia qualcosa mentre siamo vivi…Mazzini è andato troppo alto e le nostre ali sono troppo tarpate dalla ragione per potergli tenere dietro. E' colpa dei tempi, tutti vogliono ragionare, e nessuno accetta dei dogmi…Quello che combattiamo in Mazzini non è l'opinione per se stessa, sebbene l'opinione eretta a sistema ed a dogma politico. Noi siamo materialisti, ma non facciamo del materialismo una scuola politica. A noi poco importa che uno creda o non creda in Dio…Mazzini invece vuole imporci una nuova religione…Non siamo noi che lo abbandoniamo; è lui che ci condanna."(27)

Nel 1871 Cavallotti iniziò l'attività teatrale con la sua prima opera "Pezzenti", dramma storico incentrato sulla rivolta delle Fiandre nel Cinquecento contro l'assolutismo di Filippo II. Seguirono nel tempo altri drammi , come l' "Alcibiade" (che rivelava l'amore per la Grecia classica, la sua vera patria ideale).

Nel 1872 morì Mazzini, nel 1873 scomparve Manzoni. Per l'uno e per l'altro Cavallotti scrisse poesie, che attestano sentimenti di commozione e di gratitudine. L'ode "In morte di Alessandro Manzoni" fu pubblicata nel giorno stesso delle esequie. Coglieva del grande e illustre concittadino l'amore per l'Italia, lo sdegno dei potenti e" puro serbarsi al canto /mai non tradire il vero…/ vergin d'encomio servo/ chiuse le luci al dì."(28)

Il 10 agosto 1873 morì all'improvviso, a trentasette anni, l'amico avvocato Antonio Billia, fiero deputato di Corteleona (Pavia), vicino alle idee di Cavallotti e "partecipazionista" come lui sul piano elettorale e parlamentare.

Dovendosi provvedere alla sua sostituzione, tutti gli ambienti democratici pensarono a Cavallotti. Garibaldi gli scrisse una lettera personale "dissessioni da parte dei nostri e corruzione infiltrata nelle moltitudini ci rendono impotenti ad agire come vorressimo, quindi consiglio l'arena parlamentare ove sembrami possibile far progredire la causa santa" (29) e così parlò di Cavallotti in una lettera precedete rivolta a Griziotti "Dite agli elettori di Corteleona che Cavallotti vuol dire: Onore italiano,- Religione del vero,- Dignità umana. - Non so chi diavolo vorrebbe significare di più."(30).

Così entrò alla Camera a 31 anni, ricevendo l'approvazione, tra gli altri, del grande democratico siciliano Saverio Friscia, vicino agli internazionalisti, presidente nel 1867 a Napoli dell'associazione "Libertà e Giustizia", che pubblicò anche un omonimo periodico (di recente pienamente studiati).

Il giorno prima di giurare fece dichiarazioni alla stampa, nelle quali proclamava la propria posizione politica e alle quali fece riferimento il giorno dopo, rispondendo poi, alle richieste di onore sul giuramento fatto, con queste parole "Al mio onore ci penso io e ne rispondo ai miei elettori e al paese". (31)

Riconfermato fino alla morte per ben dieci legislature, Cavallotti sedette sempre all'Estrema Sinistra, divenendone in breve tempo uno dei capi più autorevoli e amati.
FINE PRIMA PARTE

Cyrus
30-04-09, 20:07
In Italia le prime formazioni stabili di Sinistra parlamentare si erano avute nel Regno di Sardegna, dove avevano fatto proprio il programma indipendentistico nazionale, sostenendo, in polemica coi moderati, la necessità di uno scontro frontale con l'Austria. Staccatasi da tali gruppi la corrente di Urbano Rattazzi, sorse il “connubio” Rattazzi - Cavour, che diede vita a quella formula di governo di Centro - Sinistra tipica del “decennio di preparazione”.

Dopo l'unificazione del Regno d'Italia, ai tradizionali raggruppamenti della Sinistra subalpina si vennero ad aggiungere i rappresentanti del Partito d'Azione mazziniano e garibaldino, originando così un raggruppamento della Sinistra parlamentare non omogeneo e dalla vita interna assai travagliata. Ben presto, infatti, si arrivò all'enucleazione di una Sinistra Estrema, composta di deputati di orientamento repubblicano e radicale, capeggiata da Agostino Bertani prima e Felice Cavallotti poi (accanto a forti personalità politiche come Friscia, Saffi, Bovio, Mario, Imbriani, Campanella) e caratterizzata da forti istanze riformatrici in campo politico, economico e sociale, e di una Sinistra storica, guidata da Depretis e Cairoli, collocata su posizioni politiche più possibiliste e di governo. Fu appunto questa formazione di Sinistra storica ad assumere la direzione del Paese dopo la caduta della Destra storica (avvenuta con la “rivoluzione parlamentare” del marzo 1876), guidandolo sulla via delle prime riforme significative: abolizione della tassa sul macinato, riforma scolastica, riforma elettorale.

Cavallotti apparteneva quindi alla sinistra democratico - radicale più nel solco di Garibaldi e di Bertani, che in quello di Mazzini (seguito dai repubblicani puri e intransigenti).

Mazzini rimase sempre, fino alla morte, mistico e profeta, confermando, come dice Spadolini "la sua avversione intransigente alle leggi e alle regole della tattica, la natura religiosa del suo messaggio che prescindeva da tutte le remore, i consigli e le prudenze della 'ragion di Stato' per guardare ad un solo obiettivo, il 'riscatto' dell'Italia, la sua 'redenzione' e ' trasmutazione' ". Spadolini riporta l'amara riflessione del 'Mosè dell'Unità' nel 1870, alla presa monarchica di Roma, col sovrano sabaudo che rassicurava il Papa chiuso in Vaticano "Questa è l'Italia del passato… E l' Italia, la mia Italia, l'Italia dei nostri sogni ? L'Italia, la grande, la bella, la morale Italia dell'anima mia ?" (32)

Garibaldi è stato visto spesso solo come il grande condottiero popolare, ma poco politico e spesso ingenuo. In realtà non è affatto così: a lui si devono alcuni fondamentali passaggi per l'inserimento delle forze democratiche nel nuovo stato unitario. Dice Spadolini "Garibaldi era dotato di un autentico 'fiuto' politico, di una coscienza acuta dei problemi e delle opportunità, di una percezione vigile dei limiti e delle occasioni storiche: non raffinata, non approfondita magari, ma istintiva ed elementare."(33)

Con la morte di Mazzini nel 1872 si chiuse un periodo storico, finì l'età delle intransigenze e delle ribellioni e si aprirono nuovi possibili scenari di impegno. Da Caprera, dove si era trasferito definitivamente, Garibaldi osservava che era vero che "il presente, per isventura della nazione, è ancora delle monarchie, dei preti e del privilegio", ma proprio per questo occorreva l'unificazione di tutti i democratici, una "aggregazione in una sola di tutte le società esistenti che tendono al miglioramento morale e materiale della famiglia italiana" e poi bisognava prendere atto della dura realtà e rimandare nel futuro la risoluzione del problema istituzionale, pur nell'adesione ideale al repubblicanesimo "Essendo tutti noi aderenti al governo della gente onesta, il repubblicano, e non potendo per ora attuarne il sistema, sembrami possibile differire a miglior tempo il più largo svolgimento della quistione politica."(34)

Egli indicava in alternativa alcuni altri grandi obiettivi da raggiungere (che illumineranno il più analitico programma radicale): il suffragio universale per l'instaurazione di una vera democrazia in Italia, il decentramento con base nel comune, l'istruzione laica, obbligatoria e gratuita, per l'emancipazione intellettuale dalla superstizione religiosa e dalla servitù clericale, l'attuazione dell'imposta unica col logico principio dell'applicazione progressiva, il materiale sollievo del proletariato, con grandi opere pubbliche, specialmente bonificando i due quinti del territorio italiano incolto o paludoso, utilizzando i 115 milioni dei beni ecclesiastici invenduti. Del 1873 è il citato invito a Cavallotti ad entrare in Parlamento.

La posizione di Garibaldi era, come si può notare, di grande realismo. Come dice Spadolini "I criteri e gli orientamenti di ieri non esaurivano più gli scopi della democrazia: Roma e Venezia ormai conquistate, l'unità del regno assicurata, l'Austria cacciata da quasi tutto il territorio nazionale, il Papa 'prigioniero' nel Vaticano, l'influenza clericale debellata, tutti i gradi dell'insegnamento laicizzati, l'esercito sottratto alle influenze e alle suggestioni dell' "ancien regime", la burocrazia liberata dai residui legittimisti e reazionari, la cultura imbevuta di tutte le nuove convinzioni e di tutte le nuove certezze. Niente era più assurdo di un'opposizione di regime, un'opposizione aprioristica e dogmatica, e neppure la polemica istituzionale (pur ancora ardente e appassionata) poteva soddisfare gli spiriti irrequieti e anelanti all'azione, le volontà portate alle battaglie e alle affermazioni politiche piuttosto che alle dissertazioni ideologiche o alle evasioni moralistiche. E' appunto in questi anni fra il 1873 e il 1875, che si opera la definitiva separazione dei repubblicani dai radicali." (35)

Nel 1875 Garibaldi venne a Roma, per la prima volta dopo il 1849, incontrò Vittorio Emanuele II, che restò in piedi per tutto l'incontro a capo scoperto, mentre il vecchio generale era seduto col capo coperto dal berretto garibaldino. Parlò col re e con Quintino Sella dei progetti che più gli stavano a cuore: la canalizzazione del Tevere per collegare Roma al mare e la redenzione dell'agro pontino. Il sottinteso degli incontri, teso ad indicare le nuove vie di impegno politico, non sfuggì a nessuno.

Accanto a Garibaldi, l'altra figura importante nella storia della democrazia radicale dell'Ottocento, fu il citato Agostino Bertani. Medico e patriota, era nato nel 1812 a Milano (come Cavallotti). Repubblicano, amico di Cattaneo e di Mazzini, partecipò alle Cinque Giornate (1848), mostrandosi favorevole alla collaborazione di tutte le forze italiane anche sotto la direzione sabauda, ma opponendosi poi all'annessione immediata al Piemonte e alla costituzione di un regno dell'Alta Italia.

Lasciata la città all'entrata delle truppe austriache e recatosi alla difesa di Roma (1849), si rifugiò in seguito a Genova (1850), dove svolse intensa attività come medico durante l'epidemia di colera del 1854.

Prese poi parte con i Cacciatori delle Alpi alla guerra del 1859, preparò e sostenne la spedizione dei Mille, tentando di portare la rivolta anche nello Stato Pontificio; combatté nel 1866 e fu a Mentana con Garibaldi (1867), benché avesse in precedenza disapprovato l'opportunità di tale spedizione.

Deputato fin dal 1860, fu uno dei capi dell'opposizione anche nel periodo di governo della Sinistra storica, propugnando la riforma dello Statuto, la più netta separazione tra Chiesa e Stato e l'adozione del suffragio universale. Aperto alle questioni sociali, sostenne la necessità dell'intervento dello Stato in materia economica, fu tra i fondatori del giornale 'La Riforma' ed ebbe parte di rilievo nell'inchiesta agraria Jacini. A lui si deve il Codice per la pubblica igiene (1885); fu editore degli scritti di Cattaneo. Morì a Roma nel 1886.

Le origini storiche e ideologiche del partito democratico radicale risalgono, come si può evincere dalle biografie di Bertani e Cavallotti, al Risorgimento e al Partito d'Azione mazziniano e soprattutto garibaldino. È infatti con la dissidenza dal repubblicanesimo mazziniano intransigente che si organizzò, sotto l'ispirazione di Garibaldi, la guida prima di Bertani e più tardi di Cavallotti, un primo coerente gruppo di Estrema Sinistra.

La formulazione più ampia ed organica del programma di democrazia radicale si ebbe nel 1890 (steso in gran parte da Cavallotti) col 'Patto di Roma', al termine di un grande congresso (nel maggio al Teatro Costanzi), che indicò analiticamente gli obiettivi della lotta: nessuna ingerenza della Chiesa nella vita dello Stato, nessuna conciliazione o concordato, bastando ampiamente il principio della libertà religiosa e le leggi ordinarie; la consultazione della nazione, quando fossero stati in gioco interessi e decisioni supremi; l'indennità ai deputati, per permettere anche ai meno abbienti di accedere a ruoli dirigenti; la possibilità di convocare il parlamento in casi urgenti o per atti gravi del governo, anche in tempo di vacanze e di chiusura di sessione; la rivendicazione di tutti i diritti di riunione, di associazione, di stampa; una legge speciale sulle responsabilità dei ministri, l'esclusione dei membri del governo dal voto di fiducia, il divieto del cumulo dei ministeri nella stessa persona; il mantenimento al potere centrale (secondo le lezioni di Cattaneo e di Ferrari) solo di poche fondamentali competenze, decentrando tutto il resto, giacché la tutela accentratrice, eccessiva, provoca la paralisi della vita generale; lo snellimento della burocrazia e l'eliminazione dei ministeri inutili; l'ideale di una Roma laica e civile, capitale della scienza e della democrazia, con richiami alla 'terza Roma' di Mazzini e alla tradizione illuministica e rivoluzionaria (che il grande sindaco democratico Ernesto Nathan cercò di realizzare, spesso riuscendovi, nel primo decennio del Novecento); l'indipendenza della magistratura, la semplificazione del processo civile, il gratuito patrocinio per i poveri, la giuria nei processi politici, l'indennità ai cittadini ingiustamente accusati e colpiti; l'abolizione della pena di morte e la revisione del codice penale; l'educazione gratuita ai poveri e meritevoli dall'asilo all'Università, l'istruzione laica e obbligatoria per i primi cinque anni delle elementari, l'autonomia piena delle Università; la riduzione della ferma e delle spese militari, considerando tutti i cittadini militi, non soldati; le otto ore di lavoro, la cassa pensioni per la vecchiaia e gli infortuni, l'istituzione di camere del lavoro e di collegi di probi viri, sanzioni per gli imprenditori imprevidenti, con l'obbligo del risarcimento danni; l'esenzione dal dazio dei beni di prima necessità, l'imposta unica e progressiva (vecchio mito garibaldino); un vasto programma di lavori pubblici, la bonifica della terra, con la redenzione dell'agro pontino e la trasformazione della valle padana; un argine agli abusi anche della manomorta laica, espropriando le terre incolte, incamerando quelle mal coltivate, con concessioni dirette agli agricoltori, alle cooperative, alla piccola proprietà; lotta all'emigrazione; fratellanza latina con la Francia, divenuta repubblica laica e democratica, simbolo degli obiettivi della politica radicale e riferimento delle speranze progressiste, amicizia cordiale con l'Inghilterra; opposizione all'imperialismo e al colonialismo, alla luce della pregiudiziale sacra alle generazioni del Risorgimento del rispetto delle nazionalità, anche di colore, e della priorità dei problemi interni (bisognava pensare al nostro Mezzogiorno e non all'Eritrea); gli Stati Uniti d'Europa, che non dovevano escludere l'amore della patria e la difesa accalorata della propria nazionalità "indarno ameremmo l'umanità tutta intera; gelido e sterile sarebbe l'amore se prima non intendesse le care voci e i doveri che gli parlano dal focolare domestico, dalla culla dei padri, e le voci solenni che dai balzi delle Alpi e dalle spiagge dei due mari gli rammentano gli orgogli di una più grande famiglia" (36); infine l'emancipazione della donna, con l'allargamento del diritto di voto ad esse e la lotta contro la prostituzione e le case di tolleranza, nella quale si distinse Ernesto Nathan, il futuro, grande sindaco di Roma.

Il Partito Radicale si costituì formalmente come tale proprio nel 1890, primo dei partiti politici in senso moderno, seguito poi, nel 1892, dal Partito Socialista e, nel 1895, dal Partito Repubblicano, (intransigentemente antimonarchico e antiparlamentare). L'ideale di Cavallotti e dei democratici di estrazione garibaldina è il "Partito delle mani nette", che vive soltanto delle sottoscrizioni degli aderenti o 'militanti', quasi "oboli dei credenti laici". (37)

Il Partito Radicale lottò con socialisti, repubblicani, liberali progressisti durante la crisi reazionaria della fine del sec. XIX; nel primo decennio del Novecento appoggiò la svolta liberale di Giolitti, fornendogli un valido appoggio nell'ambito parlamentare e governativo. Dopo la crisi del primo dopoguerra, il Partito Radicale si frantumò in molte piccole formazioni. Alcuni di questi gruppi, guidati da Giovanni Amendola, furono tra i protagonisti dell'opposizione più irriducibile al fascismo (es. l'Aventino) e alcuni suoi esponenti continuarono a operare nella clandestinità, subendo il carcere e il confino. Specialmente Amendola con la sua ’Unione Democratica Nazionale’ e con la battaglia sulla ‘questione morale’(dopo il delitto Matteotti), può essere considerato uno degli eredi più diretti e moderni della linea politica di Cavallotti, tesa a porre in primo piano quei valori fondamentali della convivenza e ad aggregare su un fronte ampio le forze di democrazia laica, in stretta collaborazione, come Cavallotti, con Turati (e col suo Partito Socialista Unitario del 1922, il primo, seppur non pienamente consapevole, tentativo politico in direzione liberalsocialista nella storia della sinistra italiana, che ebbe nel suo simbolo elettorale la parola ’Libertà’ in grande e ‘Socialismo’ in piccolo sullo sfondo del sole nascente , mentre Carlo Rosselli, che divenne poi il teorico più lucido e moderno del fondamentale approdo teorico e politico, definì già nello stesso 1924 Matteotti il primo martire ’socialista liberale’).

L'espressione 'Partito Radicale' fu ripresa nel 1956 da liberali di sinistra, legati in gran parte all'esperienza del famoso settimanale "Il Mondo" di Pannunzio (che si ispirava sia a Croce che a Salvemini), usciti dal Partito Liberale nel 1955. Esso non riuscirà ad avere una rappresentanza parlamentare, ma, come dice efficacemente Spadolini, "svolgerà una funzione essenziale nel dibattito culturale e civile del paese, che preparerà e alimenterà la tematica del centro - sinistra, o almeno di un certo centro -sinistra, quello che meno si attuerà nella logica degli schieramenti politici. Eresia liberale, ma non solo quella. Dominato dai Pannunzio e dai Carandini..., tesi a ripristinare un'autentica ortodossia liberale - progressista, contro contaminazioni e commistioni di ogni sorta; ma con la componente degli Ernesto Rossi e dei Leopoldo Piccardi, di diversa e più complessa estrazione. Sullo sfondo: un gruppo di giovani o giovanissimi liberali dissidenti, in cui comincia ad affiorare il nome di Marco Pannella. Nel nucleo fondamentale che anima e promuove quella scissione, che la sorregge attraverso le pagine del 'Mondo', un richiamo alla linea scabra e asciutta del radicalismo britannico, tutto cose e problemi, alieno da evasioni retoriche e da vibrazioni massimaliste, teso ad una reinterpretazione moderna, e non statica e conservatrice, dei diritti di libertà, ma anche di libertà economica, contro le ritornanti tentazioni monopoliste, contro i rinnovati feudalismi non importa se del potere privato o del nascente e prepotente potere pubblico."(38)

Con l'avvento di Pannella il Partito Radicale, dagli anni Settanta ad oggi, ha ricevuto una svolta nel suo impianto di fondo (dalla democrazia rappresentativa alla democrazia tendenzialmente diretta, dall'ottica italiana e dei principi dell'89 a quella sovranazionale e nonviolenta), nei suoi assi culturali, nel suo modello organizzativo, tali da renderlo completamente altro sia dal Partito Radicale dell'Ottocento, sia da quello del 1956.

Della nobile e fondamentale esperienza democratico - radicale Alessandro Galante Garrone e Giovanni Spadolini sono stati tra i principali, sensibili e amorosi storici. Spadolini così essenzialmente valuta il contributo delle correnti di ispirazione democratica e radicale del post - Risorgimento: “esse furono decisive nella lotta per l'allargamento delle basi dello Stato e per il consolidamento delle istituzioni liberali scaturite quasi miracolosamente dalla soluzione politico - diplomatica del Risorgimento e sopravvissute a tutte le prove, a tutti i tentativi di reazione o di restaurazione. Il partito radicale, nell'arco di tempo e di contrasti che va dalla 'Lega della democrazia' di Garibaldi al 'Patto di Roma' del '90, rappresenta il momento di inserzione silenziosa e faticata dell'Italia repubblicana nella vita del Parlamento; l'esperimento trasformistico di governo, attuato da un antico collaboratore di Mazzini come Depretis, sanziona, press'a poco negli stessi anni, l'assunzione diretta e pesante di responsabilità ministeriali da parte di quella Sinistra storica, da cui l'ala radicale si era gradualmente e lentamente distaccata. Non senza conservare quei vincoli di educazione, di mentalità, di cultura, che porteranno il radicalismo e la Sinistra a confluire sulla stessa trincea ideologica di fronte al tentativo reazionario a e autoritario di fine secolo. E prepareranno il successivo ingresso "pleno jure" dei radicali nel governo, in piena età giolittiana, nell'età che rinnoverà su un piano più largo e audace gli equilibri già tentati da Depretis.

Tappe di una graduale ascesa della democrazia che sarà interrotta e spezzata dal fascismo e dalla guerra. Pur lasciando a noi, nipoti lontani venati di nostalgia, un esempio di stile e un insegnamento di costume cui spesso si volge la nostra mente nei momenti di pausa e di raccoglimento."(39)



Il primo Cavallotti parlamentare non poteva competere con il prestigio e l'autorevolezza di Bertani e rimase un po’ nell'ombra. Man mano acquistò sicurezza ed esperienza e si batte con vigore sui mali antichi e nuovi del paese. Bertani gli riconobbe il raro merito di chi" sa dire con nitidezza e schietta vivacità pane al pane, e non lascia fraintendere le sue intenzioni".(40).

Condivise coi compagni la critica alle leggi delle guarentigie, che intendevano salvaguardare comunque privilegi ecclesiastici, e la lotta contro le esorbitanze del clero.

Seguì l'avvicinarsi della Sinistra storica al potere, non osteggiando l'apertura tattica di Bertani, ma rivendicò nello stesso tempo una posizione più libera di critica e di iniziativa politica. Così diede vita nel 1875 ad un giornale, che fosse la voce "della democrazia radicale e della estrema sinistra…Aiutare a dissipar gli equivoci che scindono la democrazia, e a cementare la unione fra tutte le sue frazioni, dentro e fuori la Camera…sostenni e suggellai il connubio dei radicali coi progressisti, sostenni e salutai vittoriosa alle urne l' alleanza di Bertani con Cairoli."(41) Il nome del giornale: la "Ragione". Sentiva cioè il bisogno di una voce più libera, anche perché, come aveva detto incisivamente in un discorso poco tempo prima "la libertà tace dove le coscienze non parlano"(42)(p.33().

Salutò con favore la vittoria della Sinistra storica e l'avvento di essa al potere nel 1876 (essendo formata da antichi compagni), ma, nel dare gli auguri, li avvertiva che" ci prepariamo a proseguirli altresì della nostra più attenta vigilanza…Se il governo oggi è di sinistra, ha pur bisogno che un'estrema sua parte lo ammonisca, lo sospinga ad ogni passo"(43). Criticava le astratte posizioni immobiliste e attendiste dei repubblicani, rivendicando il valore dei concreti, graduali passi in avanti "Quanto a quei repubblicani, i quali pretendono rinchiudersi nella contemplazione astratta dei loro ideali, standosene immobili, come lo Stilita sulla sua colonna, ad osservare intorno a loro lo svolgersi degli eventi, noncuranti dei bisogni e dei mali del presente, aspettando a braccia conserte che l'avvenire riveli loro d'un tratto, in un sol giorno, i suoi segreti- sia pur questa, e rispettiamola, la loro fede- ma ogni ingiustizia riparata, ogni legittimo interesse soddisfatto, ogni lacrima di povero asciugata - qualunque sia la mano riparatrice- troverà sempre un posto nei canoni della fede nostra."(44)"Accettiamo il bene senza perdere di vista il meglio"(45). In questo tipo ethos radicale del milanese Cavallotti si svolse la prima formazione politica dell'altro grande lombardo Filippo Turati.

Ma il rimando e l'attenuazione del programma enunciato a Stradella (Pavia) da Depretis, l'emergere di comportamenti autoritari verso gli internazionalisti con l'arresto e l'ammonizione ad es.di Andrea Costa e la repressione sociale in Sicilia spinsero Cavallotti e l'Estrema (es. Bovio, Friscia) verso posizioni sempre più critiche, fino all'aperta opposizione verso gli antichi compagni, in nome dei diritti di libertà calpestati. Cavallotti non sarà mai formalmente internazionalista, socialista, perché, pur sentendo il problema sociale, lo porrà di più sul piano etico - politico, istituzionale, parlamentare, senza focalizzare più a fondo il livello sociale ed economico, da cui derivava la diseguaglianza e su cui bisognava, secondo la diversa visione socialista, decisamente intervenire. Ma Cavallotti non si sentiva affatto distante dal socialismo, nella sostanza, al di là della questione dei nomi: lo era" a modo suo...perché, senza tanto monopolizzar la parola, credo che con me siano in fondo socialisti tutti gli uomini di mente e di cuore che studiano, intendono le miserie, le ingiustizie flagranti, i dolori onde sorge il problema sociale, e ne cercano e ne invocano le giustizie e i rimedi."(46)

Continuava a scrivere drammi e poesie, trapassando nell'immaginario del suo pubblico garibaldino, libertario, democratico, anticlericale, dalla figura di poeta anticesareo a "bardo della democrazia".

Nel 1878 pubblicò la traduzione delle poesie del lirico greco Tirteo (dato il citato suo amore per la Grecia antica) e vi premise un'ode a Carducci, incitandolo ai carmi battaglieri della sua giovinezza "Lottiam ! Questo è il destino/che sul poeta incombe/ fin che sul suo cammino/mandin voce le tombe:/fin che geman le carte/ di eleganti viltà:/ fin che non rida all'arte/ una men fiacca età."(47)

All'Italia occorreva ancora una poesia civile, come quella di Tirteo e di Carducci, per far intendere i veri essenziali, profondi problemi storico - sociali, da affrontare "statisti, pubblicisti, economisti, filosofi s'incontrano, si azzuffano; ma le moltitudini…tendono l'orecchio indarno per udire qualche voce di poeta, che a loro riveli i problemi del loro avvenire che la loro anima intenda." (48)

Quando nel 1878 si ebbe il primo governo Cairoli (il combattente del Risorgimento, esponente di quella commovente ed eroica famiglia pavese, che aveva dato tutti i suoi figli alla patria), da parte di Bertani e Cavallotti e dell'Estrema Sinistra fu dato il voto di fiducia, pur condizionato. Un'apertura venne anche da esponenti repubblicani meno intransigenti, quali Ghisleri e Mario, che si raccoglievano intorno alla "Rivista Repubblicana", che erano ideologicamente vicini a Cattaneo (non solo per il federalismo, ma "per l'incitamento a calare le idee nella concreta realtà, a non estraniarsi dai problemi della vita nazionale" (49) ) e alla democrazia lombarda più avanzata.

Ma la caduta di Cairoli e Zanardelli, che segnò la fine della spinta liberaldemocratica, l'affermarsi dello stile depretisiano di governo, ricondussero alla dura opposizione Cavallotti e l'Estrema, che difesero le associazioni repubblicane, verso le quali si erano avute arbitrarie violenze e avviarono intese proprio in quella direzione. Nel 1879 Cavallotti scriveva sulla "Rivista Repubblicana" e nell'aprile di quell'anno si giunse alla fondazione della "Lega della democrazia", che, secondo Cavallotti, doveva allargare e rinsaldare il fronte dell'Estrema Sinistra e diventare l'asse di una nuova, più ardita politica, nel Parlamento e nel paese. Essa fu lanciata a Roma durante una grande riunione convocata su iniziativa radicale, con la presidenza di Garibaldi, la presenza di personalità repubblicane quali Saffi e Campanella, oltre Bertani, Cavallotti, Carducci, Imbriani. Quel 26 aprile 1879 così Garibaldi parlò "Cospicui patrioti di ogni classe, nobili ingegni, decoro del nostro paese, i quali s'illustrarono nel preparare e nel comporre ad unità di nazione l'Italia dal 1821 in poi, militano nel campo della democrazia e vi milita la gioventù generosa." La Democrazia italiana doveva battersi "per il men aspro vivere dei diseredati della fortuna, per la giustizia sociale, per la libertà inviolabile." (50). Insomma per “un più grande Risorgimento”, come dirà nel 1880.

Il nuovo schieramento assunse come bussola quella di battersi per due delle riforme promesse dalla sinistra e non realizzate: l'abolizione dell'odiosa tassa sul macinato e l'allargamento del suffragio, temi sui quali si verificò una crescente convergenza di radicali, repubblicani e socialisti. Un'altra rivendicazione fu quella dello scrutinio di lista in luogo dell'uninominale. Come dice Galante Garrone "Si voleva e si sperava di distruggere, con il nuovo sistema, o almeno di ridurre la preponderante influenza dei moderati nei singoli collegi, influenza basata sul prestigio personale e sui legami clientelari da lungo acquisiti specialmente nei piccoli centri rurali; e insieme di agevolare l'avvento di uomini nuovi, sulla base di programmi, di più larghe intese fra le correnti democratiche, di idee più che di persone e di personalismi." (51).Come dice efficacemente lo stesso Cavallotti "obbligare gli elettori, i cittadini a guardare più in là dove arriva l'ombra della chiesa del loro villaggio, di obbligarli ad aguzzare la loro vista di uomini liberi; a sentire, all'infuori della cerchia in cui vivono, la vita degli interessi collettivi, e dunque quello anche di orientare la vita politica italiana al di sopra dei meschini problemi locali, verso "l'idea italiana"." (52)

E la spinta che vide Cavallotti sempre sulla breccia, a fare quasi il "cane da guardia" (efficace nomignolo che si era dato) produsse i suoi effetti con le riforme elettorali del 1882, con l'allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista.

Altra battaglia fu quella per l'indennità parlamentare, che come dice efficacemente Cavallotti "consacra il diritto sovrano di scelta degli elettori; consacra il diritto delle classi povere alle funzioni anche le più alte della vita pubblica; sopprime dentro la Camera una rivoltante ingiustizia e disuguaglianza di privilegi e di sacrifizi fra colleghi e colleghi;… assicura l'indipendenza del voto, l'assiduità dei lavori, la serietà delle discussioni; mette alla porta i dilettanti, eleva il mandato rendendolo più severo."( 53)

Nella battaglia per l'allargamento del suffragio, i rapporti con Garibaldi si fecero più stretti. Garibaldi per vari motivi si era legato lungo gli anni a Cavallotti, come a un figlio, fino a scrivere per lui anche una poesia" Salve o cantore dei Pezzenti! O prode/ vendicatore delle plebi…/Dimmi Felice, questa manomessa/plebe dalla tirannide e dal furbo/seminatore di menzogne, un giorno/non avrà di vendette ?"(54).
FINE SECONDA PARTE

Cyrus
30-04-09, 20:07
Nel 1880 Garibaldi si recò a Genova e Cavallotti gli fu sempre a fianco. Nel novembre venne a Milano sempre per un grande comizio per l'allargamento del suffragio e per l'inaugurazione del monumento ai caduti di Mentana. Nella sua Milano Cavallotti fece da segretario al generale e ne ebbe la più intima confidenza. E proprio in quella circostanza compose e lesse il suo carme più famoso, la "Marcia di Leonida", che, come scrive Galante Garrone "per tanti anni fu recitata, nei grandi teatri e sui palcoscenici di provincia, da attori celebri o dilettanti, e fu mandata a memoria da intere generazioni." (55) Racconta dell'ombra dell'eroe greco che, vagando da un campo di battaglia ad un altro, Maratona, le Arginuse, Isso, Gerusalemme, le Piramidi, Zama, Munda, Aix, Legnano, finalmente giunge a Mentana e decide di dormire con quei morti. "Le notti, allora che torna piena la luna in cielo/ e 'ode per le téssale gole il vento mugghiar,/spalancasi una tomba sul culmine di Antelo,/e in vetta, in armi chiuso, ritto un guerrier appar." (56) Dati l'eco del carme e il valore simbolico di Leonida, il monumento a Milano in onore di Cavallotti, opera dello scultore Ernesto Bazzaro, fu incentrato sulla "gladiatoria figura di Leonida che finalmente posa, dominatrice, dopo il lungo peregrinare" (57).

Il 2 giugno 1882 morì Garibaldi e vi fu un'ondata di commozione e di celebrazioni dalla Camera al Campidoglio a Parigi. I radicali e Cavallotti furono in primo piano nel doveroso impegno della memoria e della gratitudine verso il loro grande Generale. Nell'inviare un telegramma per le celebrazioni a Firenze due anni dopo così scriveva "ricordino egli moriva sognando un'altra Italia. Date caratteri, coscienze per farla, spazzate Italia dei bimbi viziosi e dei vecchi cinici con entusiasmo di giovani, con opere di uomini."(58). Due anni dopo scrisse la seguente epigrafe per un monumento a Garibaldi che cittadini e amministrazione comunale di Loreto avevano deciso di erigere "Loreto - nota ai due mondi- per i miracoli della superstizione - qui con affetto - con orgoglio italiano - scrive il tuo nome - o Garibaldi - o liberatore - che terribile e buono - ai due mondi portavi - i miracoli - dell'amore armato - aprile 1884." Questo testo suscitò una reazione furibonda degli ambienti clericali, trapassando da fatto locale a vicenda nazionale, con l'intervento del governo sul prefetto perché fosse proibita. Cavallotti argutamente commentava in Parlamento che ormai la libertà in Italia camminava tra due angeli custodi, il prete e il carabiniere, che aveva scritto l'epigrafe, interpretando un sentimento diffuso nella cittadinanza, che il governo intendeva farsi interprete arbitrariamente della coscienza della gente, presumendo più di essa, assumendo lo strano ufficio di "curatore delle anime" e che, sulla vicenda del miracolo di Loreto, anche uomini religiosissimi, al limite del bigottismo, come il padre di Leopardi, il conte Monaldo, avevano espresso critiche molto più forti della sua innocente epigrafe. Cavallotti incarnò sempre più negli anni quell'Italia garibaldina, custode dei valori più democratici del Risorgimento, e in contestazione politica e morale col presente meschino e trasformista.

Date le vicine elezioni, le prime che tenevano con le nuove riforme, Cavallotti fece una campagna elettorale intensa. Così lo troviamo ad es. a Bologna insieme a Carducci, su iniziativa dell'Unione Democratica Romagnola.

Il governo, timoroso dell'avanzata radicale, usò in modo sistematico e spregiudicato contro di essa la stampa prezzolata, i prefetti. Ma i radicali ebbero comunque successo, passando da venticinque deputati a quaranta e si ebbero i primi eletti socialisti, come Andrea Costa. Paradossalmente Cavallotti non fu eletto, pur avendo riportato migliaia di volti, nei cinque collegi nei quali si era presentato.

Fu eletto l'anno dopo a Piacenza, ritornando a combattere in Parlamento a viso aperto Depretis e il suo stile di governo trasformista. Contestava anzitutto la confusione delle parole, prodotta dal chiamarsi di sinistra e agire nei fatti come uomo di destra ."Nulla è più pericoloso della confusione di parole, che ingenera la confusione dei principii, che ingenera lo smarrimento dei caratteri e dei profili dell'anima nazionale."(59). Già qualche anno prima aveva affermato efficacemente "il popolo, il quale non comprende che le idee semplici, chiare, a grandi linee, quando se le vede scambiate in mano, quando sente le stesse parole pronunziate da uomini d' opposte convinzioni, finisce a non credere più in nulla e in nessuno e s'infiltra in lui lo scetticismo, questa malaria dei popoli liberi, questa peste dei popoli giovani."(60).

Specialmente dopo la morte di Bertani nel 1886, emerse di più la sua figura di capo incontrastato dell'Estrema Sinistra. Ma dovette subire, oltre l'ostilità dei repubblicani intransigenti, anche l'attacco del Partito Operaio Italiano, sorto nel 1882, su base rigidamente classiste, il 'partito delle mani callose', diffidente e critico della democrazia borghese e dei suoi esponenti. Essi costituirono già con il loro apparire un elemento di divisione e di concorrenza nell'ambiente progressista, erodendo il consenso radicale, proprio quando esso era impegnato in prima linea con un programma politico avanzato, che non escludeva temi sociali. Crebbe il sospetto che quell'iniziativa fosse appoggiata dal governo proprio per combattere il crescente consenso democratico radicale, notando ad es., alla vigilia delle elezioni del 1886, la strana libertà d'azione lasciata ad essa dal governo al nord, e specialmente in Lombardia. Gli operaisti, nella loro aspra polemica antiradicale, giunsero a parlare di "democrazia vile", suscitando il giusto furore di Cavallotti, che reagì, parlando più chiaramente dei sospetti filogovernativi. Lo spirito settario operaista e classista (che si ripresenterà spesse volte tragicamente nella storia della sinistra italiana) aveva queste espressioni del comitato centrale "(Cavallotti) essere abbietto…In quanto alla forma violenta con cui tempestiamo quei farabutti della democrazia vile essi non meritano altro linguaggio…E' certo deplorevole la divisione profonda che va facendosi fra noi operai, i socialisti e gli anarchici e la democrazia borghese, è deplorevole ma è necessario. E' necessario perché in fondo i democratici odiano i socialisti."(61) Il che non era assolutamente vero, anzi profondamente ingiusto, conoscendo lo svolgersi storico della democrazia risorgimentale e la profonda, modernissima linea di Cavallotti che andava invece verso un dialogo costante, un accordo operativo tra tutte le forze della 'Estrema Sinistra’.

Uomini come Lazzari, lo stesso Costa vollero interpretare la vicenda come sintomo di un fatto per loro importante (divenuto tragico, come si è detto, nella storia lunga della sinistra italiana d'Italia con l'affermarsi dell' ideologia classista) "il distacco della classe operaia giunta a maturità, giunta alla coscienza della sua esistenza di classe, dalla democrazia borghese, per quanto radicale, e la costituzione della classe operaia in partito politico distinto da qualunque altro con proprio programma, con bandiere, con uomini propri." (p.491) In quell'occasione Turati, scosso dalla polemica, trapassò dalle simpatie radicali a quelle socialiste, anche se tutta la sua vita è leggibile come un tentativo disperato di non cadere vittima di quella nefasta ideologia classista e di non perdere i contatti con le forze liberali e democratiche di sinistra; non a caso fino alla morte mantenne stretti con Cavallotti e disse le parole più alte e commosse ai suoi funerali (come si riferirà dopo).

Essendo entrata in crisi l'iniziativa della 'Lega della Democrazia', paradossalmente alla luce anche del successo delle elezioni del 1882, che avevano portato in parlamento forze politiche dell'Estrema Sinistra più variegate, fu proposto, specialmente da Cavallotti e dagli uomini a lui più vicini (es. Ettore Socci), a Bologna, nell'agosto del 1883, il "Fascio della Democrazia" (il termine "fascio" non era allora contaminato dal tragico uso che nel Novecento ne faranno Mussolini e le forze totalitarie, ed era utilizzato spessissimo dagli ambienti repubblicani e democratici nelle denominazioni e nell'iconografia, legandosi ad una tradizione che partiva dalla rivoluzione francese e dalle Repubbliche italiane di fine Settecento, dalla Cisalpina alla Ligure, alla Romana, alla Napoletana).

Il comitato centrale fu formato da Bovio, Cavallotti, Costa, cioè da un repubblicano, da un democratico radicale, da un socialista. Esso indicava l'ideale di Cavallotti e degli ambienti più aperti delle tradizioni della Sinistra estrema "un'unione democratica che annodi gli animi senza assoggettarli ad assoluta autorità di dogmi o di capi."( 63). Molti spingevamo perché Cavallotti divenisse il leader forte di questa federazione. Ma l'iniziativa fu indebolita dagli intralci, dalla segreta opposizione degli ambienti repubblicani più rigidi e dal pregiudizio antiborghese presente negli ambienti operaisti e socialisti, che esploderanno, come si è già visto, alcuni anni dopo.

Quando scoppiò il colera a Napoli nel 1884, onde non far emergere una solidarietà di parte, solo monarchica o clericale, Cavallotti organizzò e guidò una squadra di soccorso. Diceva "Il dolore di Napoli è dolore italiano" (64). Nelle corsie degli ospedali, nei bassi, nei canili abitati da creature umane, portò il conforto, il sollievo, con umanissima, nobile abnegazione. Gli scriveva Carlo Gambuzzi da Napoli, subito dopo la partenza dei volontari "Caro Cavallotti, quanto bene che ci hai fatto ! Fra l'esattore e il prete il popolino ha veduto coi suoi occhi che ci sono i soldati della libertà," (65). Anche il socialista Costa e l'internazionalista Malatesta furono a Napoli a testimoniare la laica, operosa solidarietà.

L'anno dopo Cavallotti accorse coi suoi volontari anche a Palermo, colpita dalla stessa epidemia.

Nel 1885 nacque a Genova il figlio Giuseppe (dal nome del fratello morto a Digione), avuto dalla libera unione con la bella attrice Assunta Mezzanotte, Già aveva una figlia, Maria, nata da una precedente relazione con l'attrice ungherese Maria Feller. Amò teneramente e curò, con caldo sentimento paterno, i due figli nati fuori del matrimonio ( ma entrambi riconosciuti). Cavallotti era un amante, non un libertino. Come dice Galante Garrone "sentiva come pochi le ragioni, le responsabilità, i solidi affetti della famiglia, legittima o naturale che fosse: un sentimento che si rifletteva… perfino nelle sue opere teatrali."(66). Sulla linea degli Scapigliati, era noncurante del vincolo formale o della consacrazione dello stato civile.

Cavallotti continuava intanto le sue battaglie in parlamento su temi che potevano sembrare più ristretti, ma che erano significativi, come quello relativo alla condizione economica e giuridica dei maestri elementari, e su problemi più grandi come l'espansione coloniale, contro la quale ebbe parole di fuoco" le spedizioni dissennate, sterili come le sabbie che vanno a conquistare" e si augurava che esse si concludessero presto, affinchè "possiamo liberarci dell'incubo di quest'Africa maledetta e dei predoni suoi, per pensare all'altra Africa che abbiamo qui in casa ed ai predoni che vivono fra noi."(67)

Avversò aspramente il trasformismo di Depretis, pur avendo avuto e mantenuto con lui sinceri rapporti cordiali, nel rispetto della giovinezza risorgimentale antiaustriaca e lo spirito arguto che aveva vicino al suo. Diceva Cavallotti "il trasformismo è decadimento…sfacelo morale…il parlamentarismo trasformato in scuola di particolarismo gretto, di egoismi, di scoraggianti incoerenze, di più scoraggianti audacie, di piccoli intrighi, di piccole astuzie, di una politica piccina, in una manipolazione faticosa di caratteri e di coscienze, in una senile abilità del comporre giorno per giorno le maggioranze".(68)

Come si è detto, sia nei confronti di Cairoli che di Depretis vi furono voti favorevoli dell’Estrema, che così incisivamente venivano argomentati da Cavallotti "Non ci fu mai, che io rammenti, una questione in cui la Estrema abbia negato il suo concorso tutte le volte che si trattò di realizzare qualche progresso immediato, condurre in porto qualche importante riforma, appoggiare un atto di giustizia, tutelare qualche libertà"(69). Cavallotti non escludeva la prospettiva di un governo dell’Estrema, in coalizione con altre forze, ma solo a certe condizioni, mai di sottomissione o di abdicazione dei propri fondamentali principi” io non escludo che la Estrema rivendichi un giorno la parte che può competerle al governo del paese. Ma questa possibilità non può venirle che dal prestigio e dalle simpatie che ella saprà guadagnarsi, non colle abdicazioni, il giorno forse non lontano che la sua coerenza, i suoi progressi nel campo elettorale, la sua influenza morale in paese e le condizioni della Camera, gli errori del governo, il malcontento popolare, i sacrifici imposti da una cattiva politica, la crisi economica, la pazienza stanca dei migliori fra gli elementi popolari le diano un tal contingente che abbia peso decisivo nella bilancia dei voti e senza del quale nessun governo sia possibile. Quel giorno sarà il caso di discutere delle ’condizioni’, fino a quel giorno non possono darsi che ’sottomissioni’ e la Estrema Sinistra non si sottomette.”(70) Trattandosi di un punto importante della strategia politica di Cavallotti, si ritorna su di essa con le parole di Galante Garrone ”Costituirsi come forza autonoma dell’Estrema, distinta dal grosso della Sinistra, e procedere d’accordo con essa volta a volta, su singoli problemi, quando si fosse trattato di varare illuminate riforme, ma senza mai perdere di vista il proprio programma più avanzato(il programma ’radicale’), pronti a dare battaglia per esso...e intanto accrescere man mano le proprie forze, alla Camera e nel paese, col fermo proposito di non entrare nella maggioranza governativa se non quando, per la propria consistenza, si fosse stati in grado di fissare le condizioni, e cioè di imprimere alla maggioranza un certo indirizzo, compatibile col programma radicale. Forza condizionante, dunque, non condizionata: niente sottomissioni’.(71)

Il rapporto duplice con Depretis, cioè di distinzione tra l’uomo (rispettato) e lo statista (spesso criticato ed osteggiato), fu tenuto da Cavallotti fino allo scontro sulla’ questione morale’ anche con Crispi (giunto al potere nel 1887), il cui legame con il garibaldinismo era fortissimo, essendo stato uno dei protagonisti dell’impresa in Sicilia, il cui spirito laico era deciso e chiaro (data anche l’appartenenza alla massoneria, alla quale aveva aderito anche Cavallotti, secondo i recenti studi della Vernizzi), il cui fascino personale era diffuso. Ma quando cominciarono a affermarsi i primi segni della politica autoritaria, dittatoriale, bismarckiana, della sua mania di grandezza, delle sue infatuazioni bellicose, dell’uomo che "sa il patriottismo, ma non sa il liberalismo"(72), l’apertura radicale iniziale si tramutò in critica, in opposizione. Non si negò l’appoggio per il progetto del nuovo codice penale, che portava la firma di Zanardelli, e per la legge comunale e provinciale, con l’allargamento del suffragio nelle elezioni amministrative, la limitazione dell’accentramento statale, il maggiore rispetto delle autonomie locali, con l’elettività dei sindaci nei comuni maggiori, sempre alla luce di quella strategia duttile e razionale che si è indicata e che portava a non sacrificare il bene in nome del meglio. Si condivise "l’atteggiamento virile in faccia al Vaticano"(73), si fu a fianco nei momenti accesi della battaglia anticlericale "culminata il 9 giugno 1889, nella erezione del Monumento a Giordano Bruno al Campo dei Fiori, opera dello scultore radicale e massone Ettore Ferrari, con bella iscrizione di Giovanni Bovio."(74).

Ma, di fronte a strani capovolgimenti di anticlericali, Cavallotti sapeva criticare anche chi, a seconda del vento politico e di intenti opportunistici, trapassava dalle "spavalderie contro i preti...alle genuflessioni al Vaticano".(75)

Una forte distinzione di posizione tra Crispi e Cavallotti si ebbe nei confronti della Francia nel clima del centenario della Rivoluzione del 1789. Crispi era filogermanico, i democratici invece si sentivano figli degli immortali principi dell’89 ed erano favorevoli a legami più stretti con la vicina Repubblica. Cavallotti commemorò il centenario con l’importante discorso tenuto il 5 maggio 1889 a Milano, al teatro Castelli. Sottolineò la grandezza imperitura dell’evento nella storia dell’umanità, tenendola distinta dagli eccessi del terrore, rosso o bianco che fosse, e criticando Robespierre "era un prete. Per educazione, indole, temperamento...dottrinario sempre uomo d’azione mai"(76). Egli si sentiva vicino ai girondini, repubblicani e sinceri liberaldemocratici, non settari, dottrinari o sanguinari.

Per dare battaglia a Crispi, occorreva coagulare e rinsaldare le varie correnti dell’Estrema e i radicali promossero il grande congresso democratico del 1890, da cui uscì il ‘Patto di Roma’ di cui si è prima ampiamente fatto cenno. Il programma fu steso soprattutto da Cavallotti, parteciparono 450 associazioni, soprattutto radicali, ma anche repubblicane, operaie, socialiste, di libero pensiero, irredentiste (di un irredentismo che riguardava Trento e Trieste, non il Sud Tirolo), di reduci delle patrie battaglie.

Un’amicizia importante che si consolidò proprio nel 1890 fu quella con il grande economista Vilfredo Pareto. Come dice Galante Garrone "Pareto aveva fornito di dati, consigli, incoraggiamenti il leader radicale, e ne approvava incondizionatamente l’opposizione al governo Crispi, al suo triplicismo, alle spese militari, alla gallofobia, a tutta la sua politica economica e finanziaria."(77)

Alle elezioni del 1890 si ebbero più di cinquanta deputati radicali, numero mai più raggiunto, ma non sufficiente a dare la svolta decisiva nel parlamento e nel paese.

Si ebbe una certa apertura verso il nuovo governo Di Rudinì, distante per diversi aspetti nel programma da Crispi e vicina a qualche indicazione programmatica del ‘Patto di Roma’. Ma dopo appena tre mesi, di fronte ai soprusi polizieschi del 1 maggio 1891, che riprendevano i cattivi metodi crispini, l’insensibilità verso la questione sociale, l’apertura alla colonizzazione dell’Etiopia, più che verso la questione meridionale ("l’Africa che abbiamo in casa"), Cavallotti così affermò "riprendiamo ciascuno la nostra via; noi seguiremo ancora quella dei nostri ideali...siamo da capo alle spese per gli armamenti, perché i propositi di pasta frolla del governo sono alle prese colle volontà della Corte(che voleva il rinnovo della Triplice con la Germania e l’Austria)"(78)

Qualche compagno deputato, ’legalitario’, ’pratico’, tipo il salernitano Giampietro, premeva per una presenza al governo, onde spingerlo verso un più energico riformismo, ma Cavallotti rispondeva "Io non potrei a 48 anni mutare da quel che sono e da quello che mi hanno fatto tutti i precedenti della vita - se lo facessi mi ammazzerei moralmente senza nessun vantaggio per la causa democratica cui avrei voluto con la mia evoluzione giovare...dovesse la democrazia attendere venti anni, sarà utile che qualcuno rimanga ad aspettare."(79) Quindi, come sintetizza efficacemente Galante Garrone "Fedeltà al passato, coerenza, senso del limite, riforme concrete (secondo il programma tracciato nel Patto di Roma), senza sterili intransigenze ma anche senza alcun cedimento alle lusinghe del potere".(80)

Era preso a volte da sconforto e pessimismo per l’ambiente trasformista, corrotto, la mancanza di fierezza e di indipendenza all’interno e all’estero "tutto puzza sempre di porco...noi siamo destinati dal fato delle razze spente a rimanere accodati a qualche grosso padrone, che ci risparmia la pena di pensare al poi. Servitori prima dell’impero del terzo Napoleone, ora siamo alla mercè del pazzo coronato di Berlino, felici di schierare in parata accanto ai suoi ulani i nostri cavalleggeri."(81)

Commemorò l’irredentista Oberdan, richiamando con fierezza il suo destino: "pei predestinati del dovere, fin dove e fin quando è impero di violenti, la vita non è altro che un perenne terribile no".(82)

Dopo la crisi del governo Di Rudinì, si parlò per un poco, ancora una volta di Zanardelli, ma lo sbocco fu quello di un affidamento a Giolitti, verso il quale Cavallotti sentì in una prima fase lontananza e distacco, legato ai diversi caratteri, alle diverse storie personali. Giolitti veniva dall’amministrazione, dalla burocrazia, era un ’ragioniere’ della politica, estraneo alle lotte e alle tradizioni risorgimentali, volutamente non enfatico, non retorico nel linguaggio e legato comunque agli ambienti di corte. In uno scambio di battute, così emersero i due caratteri: a Giolitti che affermava " Volevate forse della retorica ? Allora avete ragione di darci un voto contrario; ma vi faccio notare che la retorica non ha mai salvato un paese", così Cavallotti rispondeva " C’è qualcosa di peggio della retorica ed è l’empirismo degli uomini pratici, che credono di risolvere le questioni coi piccoli mezzi."(83) Ma la novità del governo Giolitti già nel 1892 era nel programma aperto sul terreno economico - sociale (anche per la pressione socialista, tradottasi nello stesso anno anche con la fondazione del Partito Socialista) e quindi in grado di attirare aperture e simpatie nel fronte dell’Estrema. Così vi furono appoggi (considerate ‘defezioni’ dall’opposto punto di vista cavallottiano) da parte di alcuni deputati radicali. Cavallotti temeva di essere schiacciato dall’opposizione socialista sempre più forte e da una politica governativa di progresso sociale e di apertura liberale.

Alle elezioni di novembre 1892 il gruppo radicale ebbe una trentina di legalitari e una trentina di intransigenti, con lo stesso Cavallotti che non fu eletto a Corteolona (anche se poi, per l’annullamento delle elezioni in quel collegio, Cavallotti fu rieletto nel maggio del 1893). L’amico Sacchi gli scriveva "credere che il paese sia avanzato è un errore che noi della democrazia commettiamo sempre. I programmi di Giolitti e di Zanardelli sono di gran lunga più avanzati del paese"(84). In questa osservazione c’era anche in potenza quell’atteggiamento prudente, flessibile, realistico che portò lo stesso Sacchi e i democratici radicali ad appoggiare Giolitti ed entrare nei suoi governi nel primo decennio del Novecento, abbandonando le posizioni più battagliere e avanzate di Cavallotti. Nella lettera di Sacchi c’era anche un’amara constatazione su alcuni comportamenti di Bovio e Turati "Bovio abbandonò ora d’un tratto la democrazia politica e sventolando la bandiera della ’lotta di classe’ si fece applaudire da Turati, che ieri lo chiamava parolaio." (85).

Cavallotti cercò di evitare la dispersione politica con la lettera Alli amici dell’Estrema Sinistra (Legalitari e non legalitari) del 1 dicembre 1892, richiamando la linea praticata, sempre concreta, mai pregiudiziale, ma anche autonoma e di fedeltà al programma del ‘Patto di Roma’, linea che aveva prodotto nel tempo un crescente consenso parlamentare e che non andava pertanto abbandonata.

Dati i metodi di Giolitti, come di passati governi, di usare ogni strumento spregiudicato per il suo consenso, dai prefetti ai giornalisti prezzolati (in particolare il malfamato ed equivoco direttore del ‘Popolo Romano’, Costanzo Chauvet), scoppiato lo scandalo della Banca Romana, Cavallotti ebbe tanti argomenti per sollevare la ‘questione morale’ contro il governo, cercando così anche di rinsaldare i due tronconi radicali degli ’intransigenti’ e dei ‘legalitari’ e richiamò nel discorso di Belgioioso del 19 novembre 1892 il senso alto e nobile del termine, del valore, dei richiami storici, implicito in’ democrazia’ "Quando io parlo di democrazia, ossia del grande partito popolare che ebbe da Mazzini l’idea, da Garibaldi il metodo e dalla coscienza insorgente delle classi diseredate il sentimento dei bisogni nuovi, non mi occupo e non parlo della combriccola che ha trovato comodo aggrapparsi a quel nome per ammantare puerili ambizioni o per nascondere pudicamente connubi." (86)

Il governo Giolitti cadde e la Corte, anche timorosa di un peso radicale forte, quale poteva essere implicito in un gabinetto Zanardelli, ridiede l’incarico a Crispi.

La popolarità di Cavallotti era cresciuta in tutto il paese, in tanti ambienti: da De Amicis a Francesco De Sanctis al citato Pareto, ad Amilcare Cipriani, allo stesso Quintino Sella (pur militando in campo politico lontano) a tanti, spesso umili corrispondenti, che gli inviavano lettere di plauso e di gratitudine. Scriveva l’abate lodigiano, vecchio democratico, Luigi Anelli "onoro in Felice Cavallotti l’uomo che, in mezzo a uomini servi di cuore, neppur liberi di lingua, scandalo non forza della nazione, mantiene l’onore d’Italia."(87) Si giungeva quasi a forme di culto, come il vecchio garibaldino messinese Raffaele Villari "La tua fotografia di artista e soldato siede nel mio studio e favella in un linguaggio da me solo inteso." (88) Come osserva efficacemente Galante Garrone "Erano tutte voci di un'Italia umile, onesta, che è pure esistita, e in Cavallotti aveva riconosciuto uno dei suoi interpreti più fedeli e appassionati. Potremmo anche dirla un'Italia garibaldina, democratica, laica…essa ebbe un'ampiezza e una vitalità superiori a quel che comunemente si pensa."(89)

Di fronte al ritorno di Crispi, Cavallotti ebbe un iniziale posizione prudente, quasi distesa. Il vecchio garibaldino chiese una 'tregua di Dio' ai suoi oppositori in nome della patria e delle sue gravi condizioni, dicendo "Il patriottismo non è monopolio di nessun partito. Perciò ci rivolgiamo a tutti." Ma quando nel gennaio 1894 la situazione dell'ordine pubblico in Sicilia si aggravò (legata ai gravi problemi sociali) e Crispi ricorse a misure esteme con lo scioglimento dei 'Fasci siciliani', lo stato d'assedio, le repressioni sanguinose, gli arresti arbitrari (tra cui il deputato Giuseppe De Felice Giuffrida e la figlia), Cavallotti insorse verso chi intendeva mettere fuori legge "una infelicissima parte della nazione a cui invece del pane si dà risposta di piombo"(90), lanciando una sottoscrizione, come segno di solidarietà mandato al popolo lavoratore siciliano "dai lavoratori d'Italia e da quella stessa borghesia lavoratrice, sul cui capo tanti inconsulti anatemi si invocano, quella borghesia che del lavoro conosce i sacrifici, gli stenti, i doveri e le idealità, e non ha nulla di comune cogli sfruttatori plaudenti allo stato d'assedio."(91).

Si trattava di posizioni ferme, decise, politicamente intelligenti, che invece venivano deformate, alla luce del tragicamente astratto classismo socialista, da Antonio Labriola "questi legalitari più o meno radicalucci", dallo stesso primo Turati, che parlava di "beotismo radicale bamboleggiante".(92)
FINE TERZA PARTE

Cyrus
30-04-09, 20:07
Incurante di queste ingiuste critiche socialiste, Cavallotti alla Camera il 3 marzo 1894 insorse "contro una politica, come quella crispina, socialmente iniqua, tutta a beneficio dei proprietari e a spese dei poveri; e avrebbe ricordato le "lande squallenti della Sardegna, percorse avvelenate dalla malaria", le "solfatare della Sicilia, dove le creature umane si sottraggono alla sole soltanto per maledirlo", le "creature che maledicono la vita lungo i solchi della valle del Po" "(93). Non erano posizioni retoriche, ma impegni di lotta che erano insieme democratici e socialisti di fatto, di sostanza (come colse bene il suo primo biografo, Paolo Bardazzi, il cui volume uscì proprio nell'anno della sua morte, nel 1898).

A giugno Crispi si dimise, avendo una maggioranza risicata, tutti si aspettavano una svolta, ma la Corte appoggiò solo un rimpasto, con un governo più a destra del precedente. Crispi subì un attentato e vennero varate le leggi antinarchiche, che furono estese nell'autunno anche alle associazioni e i circoli socialisti. Nella situazione estrema, scattò finalmente un'apertura di solidarietà dei socialisti e dei repubblicani verso i radicali e Cavalotti, i quali subito promossero nell'ottobre 1894 la ‘Lega italiana per la difesa della liberta'. Turati e Prampolini dovettero riconoscere la nobiltà, la dignità, la sincerità, la preziosità dell' impegno democratico - radicale.

A dicembre, scoppiò lo scandalo che vedeva Crispi coinvolto nella vicenda della Banca romana più di Giolitti e implicato in compensi per onorificenze date ad una equivoca figura straniera. L'indignazione dilagò dal parlamento al paese, già scosso dai soprusi autoritari, dalle repressioni politiche e sociali, dal duro comportamento di Crispi.

Cavallotti fu l'uomo di punta di questa battaglia sulla "questione morale", che per lui era fondamentale nella vita profonda di un paese "un popolo che transige con l'onore non vive" (94). Quella battaglia scosse l'opinione pubblica, destò energie sopite, rinsaldò intorno a Cavallotti il gruppo radicale, anche se non si riusciva a costruire una solida struttura organizzativa di partito (limite costante della tradizione democratica), come giustamente osservava l'amico Romussi (curatore in vita dei suoi 'discorsi')" mentre i socialisti sono organizzati in partito, i democratici sono dispersi, disuniti, viventi in eccessiva indipendenza, che talora si traduce in disaccordi, in avversioni, in ribellioni".(95)

Cavallotti scrisse la lunghissima 'Lettera agli onesti di tutti i partiti', che riepilogava i passaggi della battaglia contro Crispi e indicava la linea per portare la questione morale alla sua risoluzione, e non far cadere il tutto nella dimenticanza" come si dimentica presto in Italia! …oblìo che è, in Italia specialmente, il grande aiutatore dei disonesti scoperti", che ebbe un'eco in tutti gli ambienti(96). Si giunse ad una mozione alla Camera, che raccolse 115 voti, ma fu respinta.

Cavallotti continuò su posizioni di intransigenza la battaglia fino alla fine del governo Crispi, riunendo i suoi interventi in un libro del 1896 "Per la storia. La questione morale su Francesco Crispi".

Il governo Crispi cadde poi sulla politica coloniale, con la sconfitta di Adua del marzo 1896.

Di fronte al nuovo governo Di Rudinì, almeno non coinvolto nella 'questione morale', il gruppo radicale votò la fiducia, anche perché era timoroso di un ritorno a climi autoritari e repressivi, come quello crispino. Contro Bovio che lo criticava per questo voto, così efficacemente e responsabilmente rispondeva Cavallotti "Per me, quando ho visto oscurarsi la giustizia, la legge, la libertà, la morale…ho detto: è tempo di essere conservatori, di conservare e salvare tutto ciò che di più sacro ci hanno lasciato i nostri maggiori, e per cui vale la pena di avere una patria."(97)

Intrattenne amichevoli rapporti anche con il grande deputato e studioso sicliano Napoleone Colajanni, auspicando insieme ad es. il decentramento regionale, polemizzando anche contro l'unitarismo duro dei repubblicani. Con toni cattaniani così rispondeva a questi ultimi" Voi volete una unità d'Italia sul modello francese, un modello che ha dato alla Francia il Terrore, il 18 Brumaio e il 2 Dicembre: noi vogliamo una unità d'Italia di modello nazionale, una unità italiana…abbastanza ci parlaste di una patria una; ora parliamo un poco di una patria libera".(98)

Nel novembre 1896 viaggiò in Sardegna e Sicilia, accolto calorosamente.

Tra la fine del 1896 e gli inizi del 1897, appoggio con vigore l'insurrezione dei greci di Creta contro la dominazione turca. Molti volontari, con spirito garibaldino, partirono a favore degli oppressi insorti e alcuni di loro pagarono con la vita il generoso impulso di fratellanza risorgimentale. Anche Cavallotti aveva espresso il proposito di partire per la Grecia, come aveva fatto il fratello Peppino per la Francia, ma ne fu impedito dagli importanti impegni politico - parlamentari.

Avvicinandosi le elezioni del 1797, rivendicò ancora una volta, in una lunga e bella lettera a Colajanni del 21 gennaio, il senso, il metodo, i contenuti di sempre della sua lotta politica "Per me che studio i fenomeni dell'aria italiana, e che vedo nella impunità trionfante la prima cagione di tanti guai del paese e la minaccia di tanti altri futuri, la campagna che ho combattuto finora non è finita, anzi non è giunta che a mezzo; e uno dei primi atti del proseguimento, anzi il primissimo - indispensabile al risanamento della vita italiana - era per me l'appello al paese. Perché io, caro Colajanni, le accademie le ho sempre detestate: e ho avuto sempre per regola di fare una battaglia alla volta, e di far gioco serrato, lotta serrata, pigliando l'avversario corpo a corpo, e non lasciandolo che…in terra, proprio quello che gli accademici, nelle loro lotte sublimi, ma inoffensive attraverso le nuvole, non amano. E bada che se tu poni mente all'opera mia da vari anni vedrai che non è che uno sforzo continuo febbrile per veder di scuotere la fibra del paese e per rialzarne le energie nei soli modi che credo possibili, perchè da un popolo che non si è rivoltato neppure dopo Abbagarina(Adua) è ridicolo sperare che si rialzi da sé col metodo rivoluzionario…la popolarità può essere una forza utile, ma bisogna anche avere il coraggio…di infischiarsene…obiettivi netti…questione morale, giustizia eguale per tutti i ladri alti e bassi, per tutti i delinquenti alti e bassi; abbandono dell'Africa; rinnovamento dei rapporti e trattati colla Francia; economie e sgravi tributari; risurrezione economica del paese, provvedimenti seri per la Sardegna, la Sicilia, la Puglia e le altre regioni; giustizie sociali, difesa delle libertà pubbliche, il diritto d'associazione compreso, e tutto il resto."(99)

Alle elezioni del marzo 1897 il gruppo dell'Estrema Sinistra aumentò di consensi, con circa ottanta deputati, ma inferiori al traguardo che avrebbe potuto portare Cavallotti a dare una svolta decisiva alla politica italiana e poi, con sua amarezza, si costituì un autonomo gruppo repubblicano, frutto di candidature distinte e opposte a quelle radicali, con ulteriori divisioni, e con un programma che era generico e arretrato nei confronti della vibrante, moderna concretezza del Patto di Roma. I repubblicani avevano diviso forze che avevano tanta strada da fare insieme.

Cavallotti si mise di nuovo al lavoro. A differenza dell'altra volta, non diede la fiducia al nuovo governo Di Rudinì. Riannodò il filo dei rapporti con Zanardelli (il più autorevole e illuminato esponente della Sinistra lombarda, dopo la scomparsa di Cairoli), si ebbero diversi contatti anche con lo stesso Giolitti, per le comuni posizioni anticrispine, l'avversione alle tendenze conservatrici e sempre più tendenzialmente reazionarie del ministero.

Così Giolitti ricorda Cavallotti" Per questi nostri contatti ebbi allora campo di conoscere bene il Cavallotti. Egli era uomo di molto e vivo ingegno; impetuoso di carattere, ma sinceramente interessato al bene del paese. Le mie relazioni con lui furono varie. Quando ero stato alla Presidenza del Consiglio, egli mi aveva combattuto; ma più tardi ci trovammo in pieno accordo nel combattere la reazione di Crispi, come pure nel combattere il Di Rudinì, quando prese un atteggiamento troppo conservatore, che lo portò alla proclamazione degli stati d'assedio. Non ho avuto mai a lagnarmi di lui, anche quando mi ha combattuto; anche quando aggrediva violentemente e alle volte passava i limiti era animato da passione politica e la sua condotta non era mai obliqua o sleale. Se fosse vissuto sarebbe certo pervenuto al governo."(100)

In questo nuovo clima, strinse amicizia politica col deputato giolittiano Galimberti, già compagno di studio nella Biblioteca della Camera.

Si pensava che i due gruppi della Sinistra - zanardelliani e giolittiani- insieme al gruppo radicale potessero costringere Di Rudinì a venire a patti. Ma l'iniziativa non ebbe seguito per l'ingresso del solo Zanardelli nel rimpasto di governo, con delusione di Cavallotti, che, di fronte alle buone intenzioni di lui, così rispondeva nella lettera dell'11 dicembre 1798 " la volontà degli uomini deve fare i conti colle cose; e dove queste siano le più forti, quella indarno si logora e si consuma…e come potrai tu importi, colla sola incontrastata autorità del tuo nome, se non vi aggiungi anche il peso del numero ?"(101) e che i programmi di Zanardelli "senza una maggioranza democratica sono utopie"(102). Egli guardò con attenzione ad una nuova prospettiva politica che avesse Giolitti come importante interlocutore, evento che si verificherà sul piano parlamentare agli inizi del secolo e che Turati, oltre il partito democratico radicale, ben capirono, muovendosi in un certo senso nel solco intuito da Cavallotti. Ma la linea cavallottiana era tuttavia sempre quella, più volte sottolineata, che il partito democratico radicale e l'Estrema dovessero entrare a far parte della maggioranza ed entrare anche nel governo, ma solo da una posizione di forza, come elemento determinante della situazione politica, condizionante, mai sottomessa, e quindi inefficace.

Nel bilancio delle battaglie portate avanti da Cavallotti nel corso della sua vita politica, alcune furono vinte, altre perdute, ma, come afferma efficacemente Galante Garrone "l'aver tenuta viva questa risorgente esigenza di riforme politiche, sociali, morali, e risvegliato nel paese energie e volontà tese a questo scopo, è un merito che, anche nel più freddo dei bilanci, non può non essergli riconosciuto. Qui è anche il segreto della immensa sua popolarità, che a lungo sopravvisse nella stria d'Italia. Egli fu, e a lungo rimase, agli occhi di molti, il campione di un'Italia pulita, civile, più moderna, più seria. E non fosse che per questo, gli possono essere perdonate tante intemperanze passionali e concitazioni retoriche e focose ingiustizie." (103)



La vertenza con il conte Ferruccio Macola, giornalista e deputato veneto (nato a Camposampiero, Padova nel 1861) concluse tragicamente la sua vita a cinquantasei anni . Lo sfidante aveva vent'anni meno di lui, alto di statura, con fama di esperto spadaccino, orgoglioso e freddo.

Dopo una giovanile ammirazione per Cavallotti, divenuto direttore della "Gazzetta di Venezia", organo dei moderati, si legò agli ambienti più conservatori del Veneto(diventando il loro rappresentante parlamentare). Incominciò a punzecchiare ingiustamente Cavallotti già al tempo di Crispi, attribuendogli una natura autoritaria non dissimile dal primo ministro, una posizione restrittiva sul tema dell'allargamento del suffragio, parzialità di comportamento in quanto esponente di rilievo dell'Associazione della Stampa; informò in maniera deformata sui rapporti tra Cavallotti e Giolitti. Si giunse alla falsità di attribuire a Cavallotti una pressione sulla Giunta parlamentare, incaricata di affrontare l'autorizzazione a procedere per una querela contro lo stesso Cavallotti, per diffamazione e ingiuria, fatta dal giornalista Morello, quando era stata la Giunta a chiedere autonomamente e liberamente l'audizione di Cavallotti. Egli, ormai esasperato, parlò di "mentitori di mestiere", a proposito dei giornalisti della " Gazzetta". Macola mandò i padrini a Cavallotti. Nel pomeriggio del 6 marzo 1898, partendo con l'amico Bizzoni (che fungeva da padrino), dall'alloggio romano di piazza Rondanini (dove è posta una bella lapide del 1904 dell'Unione Democratica Romana), affrontò calmo e serio il suo ultimo duello nel giardino della villa della contessa Cellere, fuori Porta Maggiore.

Come prima di ogni scontro, aveva lasciato il testamento delle cose più importanti da fare in caso di morte: la sollecitudine verso il figlio Peppino, il destino delle sue carte (ma, in modo accorto e quasi presago, aveva agevolato la pubblicazione completa delle sue opere), la sua sepoltura a Dagnente.

Bisogna dire che Cavallotti nei suoi precedenti 32 duelli non aveva mai colpito a morte nessuno.

L'uccisore ebbe la vita distrutta dalla vicenda. Quando rientrò alla Camera, sentì il gelo intorno a sé. Molti deputati uscirono in silenzio dall'aula, nessuno gli si avvicinò.

Morì a Merate, Como nel 1910 a 49 anni, isolato.

La morte di Cavallotti suscitò un'ondata di commozione popolare, quale mai si era avuta in Italia, se non con le scomparse di Mazzini e di Garibaldi, di cui Cavallotti aveva incarnato l'anima.

Dice uno dei biografi, Ferrario" I cantastorie della valle del Po raccontarono per molti anni di quel duello e concorsero a diffondere la credenza popolare che l'avversario di Cavallotti fosse in realtà uno spadaccino, prezzolato per togliere di mezzo l'uomo che più di ogni altro si era battuto contro l'autoritarismo, per la libertà di tutti."(104)

Gli ambienti di Corte, specialmente Margherita, si sentirono sollevati come da un incubo, avendolo sempre visto come il simbolo dell'eversione politica e sociale.

La Camera abbrunò per otto giorni il vessillo di Montecitorio e si farà promotrice in età giolittiana della pubblicazione dei suoi discorsi parlamentari, editi in due volumi nel 1914.

Un largo movimento d'opinione e proposte parlamentari dell'Estrema finirono per mettere in crisi irreversibile la superata istituzione del duello.

Fu commemorato nelle aule universitarie: da Giovanni Bovio a Napoli, da Carducci a Bologna.

Il commiato più significativo, più carico di futuro, fu quello dei socialisti, in particolar modo di Turati al Cimitero Monumentale di Milano il 9 marzo, dopo i discorsi belli e commossi di Romussi, De Andreis, Colajanni" egli era la protesta nostra, egli era il loro rimorso; doveva essere spento… qui non ad un uomo diciamo addio, ma ad una generazione di uomini, a quanto fu in essa di bello, di alto, di fiero…Ma le schiere, per le quali io parlo, sono testimoni alla storia, che la fiaccola che tu deponi, o poeta, non si è spenta con te; e sarà raccolta e tramandata ai venturi. Esse, che già più volte han pugnato al tuo fianco - che sentivano te - che tu sentivi - che, malgrado le fuggevoli ire del dì di tempesta, ti ammiravano, sciolto da pastoie di formule, prorompente incontro all'avvenire, immemore di te, con quella foga medesima con la quale balzavi contro il ferro avversario nelle singolari tenzoni - esse, reclinando oggi sulla tua bara la loro rossa bandiera, del colore che tu pure amavi, sanno che l'ombra sua non ti sarà molesta. Sanno che, allorquando la rocca dell'iniquità, a cui tu vibrasti da dentro così poderoso il piccone mentr'esse l'accerchiavano da fuori, cadrà smantellata - esulteranno le tue ossa, o poeta, o soldato ! …Suvvia, compagni: ripigliamo il lavoro !"(105)



La sua idea dell'Italia è ancora oggi, alla fine del secondo millennio, un monito ed una direzione per gli uomini liberi e democratici " Io da parecchi anni ammalato di una infermità che i medici chiamano il morbo dell'ideale, con in testa la fissazione caparbia di un'Italia quale sognava il mio generale(Garibaldi) che dorme laggiù in mezzo al mare, governata con metodi onesti, senza illegittime ingerenze di furfanti, di un Governo 'rigidamente' onesto, sinceramente democratico, che faccia servire le istituzioni al paese e non il paese alle istituzioni, di un'Italia ove la legge sia uguale per tutti, le pubbliche libertà siano per tutti rispettate, ove le urne dei suffragi non siano gioco frodolento di prefetti che il carcere reclama, ove la giustizia sia per tutti una sola, non renda urtante la giustizia stessa, quand'offre accademia di severità sui minori; un'Italia ove l'animo dei governanti si levi dagli scandali del dì e dallo studio affannoso di lavarli e continuarli sotto forme nuove, a un più alto e coscienzioso pensiero dei mali... che travagliano la nazione, e degli errori politici che ve la piombarono" (da una lettera del settembre 1893).(106) E più essenzialmente, nel discorso parlamentare del 20 giugno 1897, così indicava il suo ideale "il sogno di un Governo che risani le piaghe vive, sanguinanti, del mio paese, renda men dura la vita a milioni de’ suoi figli, lo avvii a prosperità materiale e grandezza morale, camminando sempre nelle vie della giustizia e della liberta’." (107)





Ottobre - Novembre 1998



Nicola Terracciano



NOTE



Per gli inquadramenti della figura di Cavallotti nella storia del suo tempo si rimanda fondamentalmente alle opere generali di Croce, Volpe, Mack-Smith, Seton-Watson, Scirocco, al vol. VI della ‘Storia dell’Italia moderna (1878-1896)’ di G.Candeloro, Milano, 1970 e al saggio di L.Valiani, L’Italia dal 1876 al 1915. La lotta sociale e l’avvento della democrazia, in AA.VV. Storia d’Italia, a cura di Nino Valeri, IV vol. UTET, Torino, 1965.

1) A.Galante Garrone, Felice Cavallotti, UTET, Torino, 1976, pp. 757, nella collana di biografie 'La vita sociale della nuova Italia' diretta da Nino Valeri.

La prima citazione si trova a pagina 3.

2) Ibidem, pp.22-23

3) Ibidem, p. 24

4) Ibidem, p.26

5) Ibidem, p.36

6) Ivi

7) Ibidem, p.41

8) Ibidem, p.45

9) Ivi

10) Ibidem, p. 55

11) F. Cavallotti, Lettere 1860 - 1898, introduzione e cura di Cristina Vernizzi, prefazione di A.Galante Garrone, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 394.

La citazione è a p.54.

12) A. Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit., p.87

13) Ibidem, p. 93

14) Ibidem, p.135

15) Ibidem, p. 141

16) Ibidem, p. 146

17) Ibidem, p. 150

18) Ibidem, p.152

19) Ibidem, p.

20) Ibidem, p.212

21) Ibidem, p.219

22) Ibidem, pp.252-253

23) Ibidem, p.252

24) Ibidem, p.253

25) Ibidem, p.259

26) Ibidem, p.271

27) Ibidem, pp.282- 283

28) Ibidem, p. 310

29) Ibidem, p. 321

30) Ivi

31) Ibidem, p. 323

32) G.Spadolini, I Radicali dell'Ottocento da Garibaldi a Cavallotti, Le Monnier, Firenze, 1982, p.7.

33) Ibidem, p.16.

34) Ibidem, p.19.

35) Ibidem, pp.30-31.

36) Ibidem, p.89

37) Ibidem, p.VIII

38) G.Spadolini, Radicali vecchi e nuovi, in 'L'Italia della ragione', Le Monnier, Firenze, 1978, pp.395 - 396

39) G.Spadolini, I Radicali dell'Ottocento da Garibaldi a Cavallotti, cit., p.XIX . Nella stessa direzione di rivendicazione storica va l'altro fondamentale volume di A. Galante Garrone, I radicali in Italia (1849-1925), Garzanti, Milano, 1973, pp.414, il quale sottolinea come l’ininterrotto impegno radicale trascende i limiti del partito risorgimentale e "s’incarna nei movimenti e negli uomini più diversi." (p.404), da Amendola a Salvemini, dal gruppo de ’Il Mondo’ di Cianca e Salvatorelli a ’Il Caffè’ di Bauer e Parri, al ‘Non mollare’, al gruppo di ‘Rivoluzione liberale’, a ‘Giustizia e Libertà’, al Partito d’Azione della clandestinità e della Resistenza, alla Democrazia del Lavoro del 1944- 1946 (con Bonomi e Ruini), alle correnti eterodosse del partito repubblicano e del partito socialista, a intellettuali come Omodeo e De Ruggiero.

40) A. Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit., p.333

41) Ibidem, p.340

42) Ibidem, p.338

43) Ibidem, pp.346-347

44) Ibidem, p. 347

45) Ibidem, p. 352

46) Ibidem, p.548

47) Ibidem, p.377

48) Ibidem, p.379

49) Ibidem, p. 401

50) G.Spadolini, I Radicali dell'Ottocento da Garibaldi a Cavallotti, cit.,pp. 49- 50

51) A. Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit.,p.409

52) Ibidem, p.413

53) Ivi

54) Ibidem, p.416

55) Ibidem, p.442

56) Ivi

57) Ibidem, p. 443

58) Ibidem, p. 471

59) Ibidem, pp. 470-471

60) Ibidem, p.399

61) Ibidem, p.487

62) Ibidem, p.491

63) Ibidem, p.477

64) Ibidem, p. 518

65) Ibidem, p.519

66) Ibidem, p. 527

67) Ibidem, pp. 498-499

68) G.Spadolini, I Radicali dell'Ottocento da Garibaldi a Cavallotti, cit., p.71

69) A.Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit p. 534

70) Ibidem, p. 535

71) Ibidem, pp. 535-536

72) Ibidem, p. 343

73) Ibidem, p. 544

74) Ivi

75) Ibidem, p.557

76) Ibidem, p.555

77) Ibidem, p.579

78) Ibidem, pp.586-588

79) Ibidem, p.594

80) Ivi

81) Ibidem, pp.595-596

82) Ibidem, pp.598-599

83) Ibidem, p.606

84) Ibidem, p.612

85) Ibidem, p.611

86) Ibidem, p.616

87) Ibidem, p.627

88) Ibidem, p.631

89) Ibidem, p.632

90) Ibidem, p.635

91) Ibidem, p.636

92) Ibidem, p.637

93) Ivi

94) Ibidem, p.650

95) Ibidem, p.656

96) A.Galante Garrone, L'Italia corrotta - 1895 -1996, Editori Riuniti, Roma,1996, p.31

97) A.Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit.,p.667

98) Ibidem, 674

99) F. Cavallotti, Lettere 1860 - 1898, cit.,pp.351-353

100) A.Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit, p.690

101) F. Cavallotti, Lettere 1860 - 1898, cit.,p.372

102) Ibidem, p.374

103) Ibidem, pp.332-333

104) C.Ferrario, Cavallotti, voce in AA.VV., Il movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma, vol. 1, 1975, p.556

105) A.Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit.,p.725

106) F. Cavallotti, Lettere 1860 - 1898,cit.,p.310

107) A.Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit., p.687



BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Oltre i testi citati:

- P. Bardazzi, Felice Cavallotti nella vita, nella politica e nell'arte, Milano-Palermo, 1898.

- B. Croce, Felice Cavallotti, in “La letteratura della nuova Italia”, vol. II, pagg. 167-177, Bari, 1914.

- L’Italia radicale. Carteggi di Felice Cavallotti(1867-1898), a cura di L.Dalle Nogare e S.Merli, Milano, 1959.

- Democrazia e socialismo. Carteggi di Napoleone Colajanni: 1878-1898, a cura di Salvatore Massimo Ganci, Milano, 1959.

- R. Colapietra, Felice Cavallotti e la democrazia radicale in Italia, Brescia, 1966.

- G. Orsina, Il partito radicale nell’età giolittiana, Carocci, Roma, 1998 (unico libro, per quanto consta al curatore, apparso nel centenario).



* L’unica manifestazione di ricordo di Cavallotti per il centenario della sua morte si è tenuta nel marzo di quest’anno ad Arona, su iniziativa del Comitato di Novara dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano.

Cyrus
30-04-09, 20:08
Felice Cavallotti
Scritto da Giancarlo Iacchini
martedì 17 ottobre 2006

Il suo nome non è popolare e circonfuso di leggenda come quelli di Garibaldi e Mazzini, eppure alla fine dell’Ottocento era unanimemente considerato il più degno erede dei due eroi risorgimentali. Parliamo di Felice Cavallotti, capo riconosciuto della “Estrema Sinistra” nel parlamento dell’Italia liberale pregiolittiana e fondatore (insieme ad Agostino Bertani) del Partito Radicale.

Felice CavallottiPoeta, giornalista e poi deputato combattivo e integerrimo attraverso dieci legislature, Cavallotti fu uno strenuo oppositore della politica autoritaria e conservatrice della Destra Storica, ma in seguito anche del trasformismo e del moderatismo della Sinistra Storica di Depretis.

Negli ultimi anni della sua vita si distinse nella lotta al leaderismo di Crispi nonché al malcostume e alla corruzione in cui stava scivolando la politica italiana; ed avrebbe senza dubbio contrastato duramente la stretta reazionaria e poliziesca di fine secolo se un deputato di destra, il direttore della “Gazzetta di Venezia” Ferruccio Macola, non l’avesse sfidato e ucciso con un colpo di sciabola nell’ultimo dei tanti duelli (a quanto pare addirittura 33) che l’incauto Cavallotti aveva affrontato a temeraria difesa della propria reputazione e dirittura morale.

Il capo della “democrazia radicale” italiana era nato a Milano il 6 ottobre 1842. A 18 anni decide di fuggire di casa per partecipare all’impresa dei Mille (la seconda spedizione “Medici”) unendosi in Sicilia a Garibaldi, che da quel momento lo considera come un figlio. Commenta l’epopea garibaldina per il giornale milanese “L’Unione” ed anche per il foglio napoletano “L’indipendente”, diretto da Alexandre Dumas padre. Nel ’66 partecipa alla terza guerra d’Indipendenza in Veneto e l’anno dopo lo troviamo ancora con Garibaldi all’assalto della Roma papalina, quando i patrioti italiani furono sconfitti dalle truppe francesi accorse in aiuto di Pio IX.

Nel 1873, all’età di 31 anni, viene eletto per la prima volta in Parlamento: «Abbiamo una sola parola d’ordine: onestà; una religione: giustizia ed eguaglianza, libertà e progresso; un’arma: il coraggio delle nostre opinioni». Molto battagliero nei confronti degli ultimi governi di Destra, non si fa troppe illusioni quando nel ’76 è la Sinistra a salire al potere: ed infatti il primo voto “di sfiducia” dell’Estrema nei confronti del nuovo governo, il 26 maggio del 1877, segna di fatto la nascita del Partito Radicale (di cui il primo “Patto di Roma” aveva gettato le basi fin dal 1872, poi costituitosi formalmente nel 1880 e di nuovo, col secondo “Patto di Roma”, nel 1990).

Felice Cavallotti - lapide commemorativa

Cavallotti resta quindi fieramente all’opposizione e denuncia con fervore il nascente trasformismo dei progressisti moderati: «Quando il popolo sente le stesse parole pronunciate da uomini di opposte convinzioni, finisce col non credere più in nulla e in nessuno; e s’infiltra in lui lo scetticismo, questa malaria dei popoli liberi, questa peste dei popoli giovani». Continua a definirsi un “garibaldino”, mentre diffida del dogmatismo dottrinario del “repubblicano puro” Mazzini, di cui pure apprezza il grande contributo alla causa democratica. E non manca mai di riaffermare la sua laica intransigenza nei confronti del clericalismo e delle intromissioni della Chiesa negli affari dello stato italiano. Si deve alla sua iniziativa se nel 1889 è possibile erigere a Roma, nella piazza di Campo dei Fiori, il famoso monumento a Giordano Bruno, opera dello scultore radicale Ettore Ferrari.

Quanto ai rapporti col nascente movimento socialista, Cavallotti nutriva rispetto e attenzione verso le nuove idee marxiste, pur non ritenendo utile un approccio rigidamente classista a quella “questione sociale” che anche lui denunciava con veemenza nei suoi discorsi alla Camera. «Senza tanto monopolizzare la parola – ebbe a dire una volta – credo che con me siano in fondo socialisti tutti gli uomini di mente e di cuore che studiano e intendono le miserie, le ingiustizie, i dolori onde sorge il problema sociale, e ne cercano e ne invocano le giustizie e i rimedi». Ma da parte dei primi capi del “Partito operaio” non ci fu, nei confronti della sinistra radicale di matrice “borghese”, una corrispondente benevolenza: Cavallotti (lui che già nel ’71 aveva salutato entusiasticamente la Comune di Parigi, primo esempio di “governo proletario” secondo Marx) fu mescolato, nella tonante propaganda socialista, a “quei farabutti della democrazia vile”, e fu questa ingiusta accusa di viltà a mandarlo su tutte le furie. Ma se nelle parole erano divisi, radicali e socialisti si ritrovavano insieme nei fatti: ad esempio, nelle lotte quotidiane per la libertà, la giustizia, l’emancipazione delle classi subalterne; o nell’opposizione all’incipiente colonialismo italiano: «Spedizioni sterili – sentenziò Cavallotti – come le sabbie che vanno a conquistare!».
Del resto, con buona pace delle ingiurie socialiste alla “sinistra borghese”, il primo operaio ad entrare in parlamento come deputato, nel 1882, fu il radicale Antonio Maffi. Ed è significativo della comune vicinanza al popolo ed ai suoi problemi ritrovare fianco a fianco, nella Napoli colpita dal colera, il socialista Costa, l’anarchico Malatesta e il radicale Cavallotti, tutti e tre al servizio delle vittime dell’epidemia del ’94 e della miseria endemica delle genti del Sud.
Anche nella sfera privata lo stile di vita del leader radicale era coerente con i suoi ideali. Fu ben felice di riconoscere i due figli (Maria e Giuseppe), nati al di fuori del matrimonio da altrettante “libere unioni”. Nonostante il carattere focoso e testardo – che lo portava tra l’altro ad accettare i famigerati duelli senza però mai ferire gravemente nessuno sfidante – fu sempre rispettoso della dignità di tutti in quanto persone e dedicò odi e poesie (la sua passione) perfino agli avversari politici. «Anche quando mi attaccava violentemente – ricordava Giolitti riferendosi al suo primo governo del 1892 – si capiva che non lo faveva mai in maniera sleale e che si accalorava perchè aveva molto a cuore i problemi del paese ed era animato da autentica passione politica».

Felice CavallottiNel 1990 chiamò a congresso quasi 500 associazioni radicali e democratiche provenienti da ogni parte della penisola: ne nacque il secondo “Patto di Roma”, base della (ri)fondazione – nello stesso anno – del Partito Radicale, primo vero partito politico dell’Italia moderna (il Partito Socialista fu costituito nel ’92). Ed ecco in sintesi il programma dei radicali di “estrema sinistra”, scritto in gran parte dallo stesso Cavallotti: nessuna ingerenza della Chiesa nello Stato e nessun concordato; abbattimento della burocrazia centralistica e decentramento amministrativo su base comunale, in una visione federalistica ripresa da Proudhon e Cattaneo che aveva come meta ideale gli “Stati Uniti d’Europa”; suffragio universale maschile e femminile; istruzione laica, obbligatoria e gratuita per tutti; abolizione della pena di morte; indipendenza della magistratura dal potere politico; un piano di lavori pubblici a beneficio della manodopera disoccupata; garanzie sociali per i lavoratori (pensioni, indennità, sussidi); riduzione dell’orario di lavoro; abbreviazione del servizio di leva; tassazione fortemente progressiva; emancipazione della donna in ambito lavorativo e sociale; opposizione al nazionalismo, all’imperialismo e al colonialismo – senza con ciò minimamente rinnegare quell’amor di patria che animò l’intera azione politica del “garibaldino” Cavallotti, ma senza neppure condividere il patriottismo mistico e religioso di Mazzini. E con una continua, inflessibile attenzione alla questione morale, tanto da definire il Partito Radicale come “il partito delle mani pulite”. Celebri le invettive contro la classe dirigente crispina: «Qui tutto puzza di porco!». E il suo sfogo nella “Lettera agli onesti di tutti i partiti” (1894): «Come si dimentica presto in Italia! Quest’oblio è il grande aiutatore dei disonesti scoperti». Un’amara considerazione che potrebbe benissimo applicarsi alla Tangentopoli italiana di un secolo dopo...

Sulla scia di questa fiera campagna moralizzatrice, e naturalmente della strenua battaglia per allargare i diritti civili e sociali, l’Estrema Sinistra arrivò a contare ben 80 deputati nel 1897, non tutti però disposti a seguire fino in fondo gli ideali del capo radicale, ormai leader riconosciuto dell’intera opposizione democratica: «Ci parlaste abbastanza di un’Italia una; ora parliamo un poco di un’Italia libera!», scandiva con piglio energico rivolto agli ex compagni risorgimentali ormai ripiegati verso un moderatismo pantofolaio. E contro l’ex garibaldino Crispi, ora emulo del cancelliere Bismarck e spietato repressore delle rivolte sociali: «I contadini meridionali chiedevano il pane, e voi gli avete dato il piombo!». Secondo lo storico Galante Garrone, la forza di Cavallotti era data «dalla coerenza, dalla fedeltà agli ideali, dal senso del limite, dall’impegno per riforme concrete senza sterili intransigenze e senza nessun cedimento alle lusinghe del potere».

Felice Cavallotti - lapide commemorativaNel momento della sua morte improvvisa ed “assurda”, il 6 marzo 1898, tutti poterono toccare con mano la stima e l’affetto popolare che mano a mano si era conquistato: grandi furono l’emozione e il cordoglio, innumerevoli le testimonianze di lutto e dolore (il fedele amico Giosuè Carducci pronunciò un appassionato discorso commemorativo all’Università di Bologna). Il suo “onorevole” assassino, che invocava a sua discolpa la regolarità del duello, fu circondato dal disprezzo dei deputati di sinistra e dal gelo dei colleghi conservatori, e la sua carriera giornalistica ne fu distrutta. Ma ciò che forse avrebbe fatto più piacere a Cavallotti furono le parole sincere e commosse pronunciate da Filippo Turati ai suoi funerali, quasi a cancellare anni di velenosi giudizi di parte socialista: «Caro Felice, recliniamo oggi sulla tua bara la nostra rossa bandiera, del colore che tu pure amavi, sapendo che la sua ombra non ti sarà molesta». Il feretro fu seguito da un corteo lungo tre chilometri. Felice Cavallotti è sepolto al cimitero di Dagnente, sul lago Maggiore. La statua che Milano ancora oggi gli dedica fu scolpita in pubblico e regalata dall’artista alla folla di militanti radicali che con emozione avevano seguito il lavoro. Altri tempi... Nonostante le tante, ripetute conferme che le sue idee politiche hanno ricevuto nel corso del Novecento, ed invece la caduta ingloriosa di altri “miti” e meteore, il centenario della sua morte nel 1998 è passato quasi inosservato. Speriamo che la memoria storica del ventunesimo secolo sappia essere un po’ più saggia e generosa.

Giancarlo Iacchini

Cyrus
30-04-09, 20:09
Felice Cavallotti, poeta anticesareo, giornalista, storico, drammaturgo, ma soprattutto uomo politico, nacque a Milano il 6 ottobre del 1842.

Iniziò giovanissimo a scrivere poesie e, già durante gli anni del liceo, mosse i primi passi nel giornalismo, scrivendo articoli di carattere patriottico sul giornale "Il Momento". Non ancora diciottenne, fuggì di casa per prendere parte alla spedizione di Giacomo Medici, che raggiunse Garibaldi in Sicilia.

Partecipò alla battaglia di Milazzo e contemporaneamente svolse il compito di corrispondente di guerra per la "Gazzetta del Popolo della Lombardia". Giunto a Napoli entrò nella redazione dell'«Indipendente» di cui era direttore Alessandro Dumas. Tornato a Milano intraprese stabilmente la carriera di giornalista.

Nel 1867 iniziò una collaborazione, che durò poi parecchi anni, con il "Gazzettino Rosa", giornale della Scapigliatura milanese, del quale assunse, a più riprese, la direzione. Subì alcuni arresti per via delle idee espresse nei propri articoli. In quegli anni scrisse anche volumi di poesie e di cronache e diverse opere per il teatro. Nel 1873 fu eletto per la prima volta deputato per l'Estrema Sinistra. Divenne un punto di riferimento di tutte le battaglie per il progresso e per la difesa dei ceti meno abbienti. La sua voce si alzò nell'aula di continuo, a denunciare soprusi e a chiedere cambiamenti.

Fu molto amato dal popolo e molto odiato dai conservatori e dalla casa reale. Rimase in parlamento fino al giorno della sua morte, eccetto alcuni mesi del 1892 (quando ne fu escluso con brogli talmente palesi che provocarono l'annullamento delle elezioni in alcuni collegi), alla guida del gruppo parlamentare Radicale da lui stesso fondato. Venne ucciso in duello il 6 marzo del 1898 dalla sciabola di Ferruccio Macola, direttore della "Gazzetta di Venezia", un tempo suo fervido ammiratore, passato in seguito, ben remunerato, nelle file dei conservatori.

La sua produzione letteraria è ingente, per brevità possiamo ricordare:

* "Storia della insurrezione di Roma nel 1867" (1869);
* "I Pezzenti" (1881);
* "Il romanzo del tutore" (1893).

Cyrus
30-04-09, 20:10
La singolar tenzone di Felice Cavallotti
Archiviato in: anniversari, cronaca — ealbertini @ 12:26 pm

Nei momenti difficili i buoni esempi aiutano sempre. E allora si faccia esercizio di memoria storica. Il 6 marzo 1898, al suo 33esimo duello, moriva Felice Cavallotti.

Figura giornalistica di spicco, giornalista impegnato. Ma anche poeta e drammaturgo. Un uomo dalle mille sfaccettature. Nato a Milano nel 1842, diciottenne raggiunse Garibaldi per la seconda fase decavallotti.jpglla spedizione dei Mille. Eletto per la prima volta nel parlamento del Regno d’Italia nel 1873, a soli 31 anni, viene considerato l’esponente più significativo dell’estrema sinistra del tempo.

Grazie alle sue denunce e alla sua attenzione per gli scandali del Paese si guadagnò l’appellativo di “bardo della democrazia” e fu uno strenuo oppositore non solo dei governi della Destra Storica, ma anche della stessa Sinistra che lui appoggiò, almeno inizialmente. Avversario della politica di Crispi ma anche del trasformismo di Depretis- sic!- ebbe anche il tempo di fondare il partito Radicale storico, che venne poi sciolto all’avvento del fascismo. Era un difensore dei diritti individuali, e fu rieletto nel parlamento fino all’anno della sua morte. Per far capire l’attualità di questo singolare personaggio basta ricordare che fu il più grande, e probabilmente primo nella storia dell’Italia unità, difensore della laicità dello stato contro le ingerenze della Chiesa.

Aveva un debole per i duelli, e proprio durante uno di questi- col direttore della “Gazzetta di Venezia” Ferruccio Macola- perse la vita. Era il suo 33esimo appunto, un numero che evidentemente non porta troppo bene. I suoi funerali si trasformarono in una manifestazione di popolo contro l’autoritarismo del re Umberto I, e anticiparono di due mesi i “moti del pane” duramente repressi dal generale Bava Beccaris. Carducci lo definì “l’ultimo dei romantici”, morì in tempo per non vedere la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo. Ve lo immaginate ora, nel suo banco dell’estrema sinistra del parlamento?

Cyrus
30-04-09, 20:10
la stanza di Montanelli
Felice Cavallotti, il " Bardo della Democrazia "

----------------------------------------------------------------- Felice Cavallotti, il "Bardo della Democrazia" Caro Montanelli, Pazientemente, come un maestro, ha risposto alla curiosita' di molti. Questa sua disponibilita' mi incoraggia a chiederle di esprimere un suo pensiero su un personaggio che io ho sempre ammirato e che da un secolo riposa sul lago Maggiore. Quel personaggio, odiato dagli avversari, scomunicato dalla Chiesa, la citta' di Intra lo ricorda con una grande statua di bronzo posta di fronte al lago: il nome di Felice Cavallotti e' scolpito nel piedistallo di granito sempre illuminato dal sole. Alla sua morte il rappresentante dei cattolici, Francesco Acri, lo aveva ricordato con stupende parole. Romano Bava, Verbania (No)


Caro Bava, Temo di deluderla perche' io non sono un grande e incondizionato ammiratore di Felice Cavallotti, come mi sembra che sia lei. Non discuto la sua onesta', certamente immacolata. E nemmeno la sua coerenza, anche se su uomini e avvenimenti cambio' spesso opinione passando dall'accusa alla difesa, dalla detrazione all'apologia, e sempre con lo stesso impetuoso piglio. Lei mi obbiettera' che anche questo testimonia la sua onesta', ed e' vero: solo le persone oneste hanno il coraggio di contraddirsi quando si accorgono di essersi sbagliate. Ma quello che di lui mi ha sempre sconcertato e' il chisciottismo, sinonimo nobilitante dell'esibizionismo e del gigionismo. Lo chiamavano, come lei sa, "il Bardo della Democrazia", e lui non perdeva mai occasione, ne' alla Camera ne' in piazza, di dimostrare quanto lo era. I suoi interminabili discorsi (una volta parlo' per sei ore di fila) erano autentiche cateratte ora di accuse, ora di difese, sempre pronunciate, le une e le altre, parecchi metri sopra le righe. Famosa la sua requisitoria contro Giolitti al tempo dello scandalo della Banca Romana. Lo accuso', in pieno parlamento, di mendacio e corruzione, per concluderla con un solenne impegno: "Mai piu', onorevole Giolitti, io le stringero' la mano!". E Giolitti, placido: "Me la stringera', onorevole Cavallotti, me la stringera'!". Infatti quando, di li' a qualche mese, l'inchiesta appuro' che il piu' coinvolto in quel crac, che aveva messo a soqquadro tutta l'Italia e segnato la rovina di migliaia di risparmiatori, non era Giolitti, ma Crispi, o meglio la moglie di Crispi, che pero' aveva compromesso e travolto anche il marito; il Bardo, che fin li' di Crispi era stato il grande amico e sostenitore per solidarieta' ideologica di Sinistra, si avvento' contro di lui col furore della buona fede ingannata e porse la mano a Giolitti che non solo giela strinse senza fargli minimamente pesare la passata ostilita', ma volle anche Cavallotti fra i cinque probi viri designati dal parlamento per indagare sul suo caso. Celebre per questi suoi sbalzi d'umore, Cavallotti lo fu anche per i duelli che questi eccessi verbali gli procuravano. Ne fece trentuno perche' non perdeva occasione di "scendere sul terreno", come allora si diceva. Il trentaduesimo gli fu fatale. In un assalto contro l'avversario, s'infilo', portato dallo slancio, a bocca aperta sulla punta della spada dell'avversario che gli spacco' il palato e gli penetro' nel cervello. Il compianto fu enorme. Cavallotti, che non aveva mai brigato ne' per il potere ne' per il denaro, aveva pero' brigato - instancabilmente - per la popolarita', di cui era avidissimo e accorto amministratore: l'occasione di strappare consensi e applausi non la trascurava mai e ne conosceva benissimo l'arte. Insomma, mescolata col galantomismo e la generosita', c'era in lui una componente d'istrioneria e teatralita' che smorza la mia ammirazione.

Montanelli Indro

Cyrus
30-04-09, 20:14
Ernesto Nathan
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Ernesto Nathan (Londra, 5 ottobre 1845 – 9 aprile 1921) è stato un politico italiano, ebreo di origine inglese, sindaco di Roma dal novembre 1907 al dicembre 1913.
Targa dedicata a Ernesto Nathan, nella casa in cui visse a via Torino, Roma:
ERNESTO NATHAN
(1845 - 1921)
SINDACO DI ROMA
IN QUESTA CASA
VISSE E MORÌ
+ S·P·Q·R·1994
Indice
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* 1 L'uomo
* 2 Sindaco di Roma
* 3 Bibliografia
* 4 Collegamenti esterni

L'uomo [modifica]

Inglese di nascita, cosmopolita, mazziniano, massone dal 1887 e profondamente laico e anticlericale, Ernesto Nathan fu il primo sindaco di Roma estraneo alla classe di proprietari terrieri (nobili e non) che aveva governato la città fino al 1907, anche dopo l'unità d'Italia.

Nathan nacque a Londra il 5 ottobre 1845 da Sara Levi e Mayer Moses Nathan, agente di cambio, che morì quando il ragazzo aveva quattordici anni. Visse l'adolescenza e la prima giovinezza tra Firenze, Lugano, Milano e la Sardegna, dove fu inviato ad amministrare un cotonificio che però fallì. L'influenza di Mazzini, amico di famiglia dai tempi londinesi, incise fortemente nella sua formazione e sul suo orientamento culturale e politico.

Giunse a Roma a 25 anni, nel 1870, per lavorare come amministratore al mazziniano “La Roma del Popolo”, ma presto si dedicò alla politica, con impronta fortemente laica e anticlericale. Dal 1879 aderì alla sinistra storica, nello schieramento di Francesco Crispi e nel 1888 ottenne la cittadinanza italiana onoraria dalla città natale della madre, Pesaro, dove ricoprì la carica di consigliere provinciale dal 1889 al 1895.

Nel 1887 entrò nella Massoneria, diventando nel 1895 Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia.

Sindaco di Roma [modifica]

Nell'aprile 1898 Nathan fu eletto consigliere al comune di Roma e più tardi nominato assessore all'Economato e ai Beni Culturali, un incarico amministrativo di grande rilievo mentre la capitale subiva una tumultuosa crescita edilizia e demografica. All'arrivo dei Savoia, nel 1871, Roma contava appena 226 mila abitanti che, trent'anni dopo, nel 1900, saranno raddoppiati. Le frenetiche attività edificatorie, sia per la realizzazione di grandi edifici pubblici e l'apertura di nuova viabilità, sia per la creazione di nuovi quartieri residenziali tenevano troppo spesso in scarso se non alcun conto l'affiorare, ad ogni scavo di fondazioni nei nuovi edifici e delle nuove strade, dei resti dell'immenso patrimonio archeologico cittadino. Fu in questo clima, acutamente descritto dall'ingegnere e archeologo Rodolfo Lanciani, che Nathan venne eletto sindaco nel 1907.

La sua amministrazione, durata fino al 1913, fu improntata ad un forte senso d'etica pubblica di dichiarata ispirazione mazziniana, ed ebbe come baricentro principalmente due questioni: lo sforzo di governare la gigantesca speculazione edilizia che si era aperta con il trasferimento della capitale a Roma, e un vasto piano vasto d'istruzione per l'infanzia e il sostegno alla formazione professionale pensati e realizzati in chiave assolutamente laica.

Si approvò, quindi, nel 1909 il primo piano regolatore della città, che definì le aree da urbanizzare fuori le mura, tenendo conto del fatto che il 55% delle aree edificabili era in mano a soli otto proprietari.

Si avviò anche una politica di opere pubbliche. Come si legge nel sito del comune di Roma [1], “Il cinquantenario dell'Unità d'Italia, nel 1911, fu l'occasione per Roma di avviare un programma urbanistico rinnovatore. Ernesto Nathan, sindaco in quegli anni, sfrutta tutti i finanziamenti possibili per realizzare edifici e opere che diventano i simboli di Roma capitale del regno. Sono inaugurati in quell'anno il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia - che i romani battezzano subito il "palazzaccio" -, la passeggiata archeologica (un grande comprensorio di verde pubblico, oltre 40.000 metri quadrati tra l'Aventino e il Celio) e lo stadio Nazionale, l'attuale Flaminio, il primo impianto moderno per manifestazioni sportive.”

Durante l'amministrazione Nathan furono inoltre aperti circa 150 asili comunali per l'infanzia, che fornivano anche la refezione. Un numero più che rispettabile, se si pensa che Roma ha, oggi, non più di 288 scuole materne comunali.

Un aneddoto ormai famoso narra che, neoeletto sindaco, a Nathan venne sottoposto il bilancio del comune per la firma. Nathan lo esaminò attentamente e, quando lesse la voce "frattaglie per gatti", chiese spiegazioni al funzionario che gli aveva portato il documento. Egli rispose che si trattava di fondi per il mantenimento di una nutrita colonia felina che serviva a difendere dai topi i documenti custoditi negli uffici e negli archivi capitolini. Nathan prese la penna e cancellò la voce dal bilancio, spiegando al suo esterrefatto interlocutore che d'ora in avanti i gatti del Campidoglio avrebbero dovuto sfamarsi con i roditori che avevano lo scopo di catturare e, che nel caso di topi non dovessero trovarne, sarebbe venuto a cessare anche lo scopo della loro presenza. Da questo episodio deriverebbe il detto romanesco Nun c'è trippa pe' gatti.

Ernesto Nathan morì nel 1921, a 76 anni.

Bibliografia [modifica]

* Maria Immacolata Macioti. Ernesto Nathan il sindaco che cambiò il volto di Roma : attualità di un'esperienza. Roma, Newton, 1995
* Maria Immacolata Macioti. Ernesto Nathan: un sindaco che non ha fatto scuola. Roma, Ianua, 1983. ISBN 88-7074-023-4
* Ernesto Nathan. Scritti politici di Ernesto Nathan (a cura di Anna Maria Isastia). Foggia, Bastogi, 1998. ISBN 88-8185-158-X
* Romano Ugolini. Ernesto Nathan tra idealità e pragmatismo. Roma, Edizioni dell'Ateneo, 2003. ISBN 88-8476-013-5
* Alessandro Levi. Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan. Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2006. ISBN 88-7246-746-2

Cyrus
30-04-09, 20:15
Ernesto Nathan
Scritto da Maria Barbalato
domenica 12 novembre 2006
Nato a Londra nel 1845 da Sara Levi, imparentata dal lato materno con la famiglia Rosselli, e da Meyer Moses, di nazionalità tedesca ma vissuto per molti anni a Parigi, ebbe occasione fin dall'infanzia di respirare aria europea e democratica. Nella sua casa, infatti, avevano accesso molti esuli italiani tra i quali Mazzini, Saffi, Campanella, Quadrio.

L'amicizia profonda che legava Mazzini alla famiglia Nathan influì sulla formazione del giovane Ernesto che ne condivise l'idealità, pur se contemperata da un maggiore pragmatismo. Dopo una breve permanenza a Londra, successiva ad un periodo trascorso a Pisa per seguire la famiglia dopo la morte del padre, Mazzini lo inviò a Roma, dopo il 20 settembre 1870, incaricandolo di amministrare il giornale "La Roma del Popolo", un mezzo attraverso cui formare la coscienza civile degli Italiani.

Ricordiamo che negli anni '70 il tasso di analfabetismo è del 69%, e il numero di elettori è pari al 2% circa. Tanto più significativa è in questi anni, quindi, l'azione mazziniana anche attraverso le Società di Mutuo Soccorso, che a Roma sono 50 con 8.500 iscritti e, che a metà degli anni '90 diventeranno 274 con 40.000 iscritti.
L'istruzione del popolo, legata strettamente all'educazione, come già per Mazzini, costituisce una delle convinzioni basilari su cui si fonda l'azione di Nathan: significativo il suo contributo ad edificare un istituto per corsi serali con biblioteca e sala di lettura, o quello per inaugurare, col patrocinio della Società di Mutuo Soccorso "Fratellanza operaia", una scuola serale in ricordo di Mazzini (venuto a mancare nel 1872).

Nel 1889 Nathan contribuisce alla fondazione della società "Dante Alighieri", istituita per tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiana e, intanto, in numerosi interventi, sottolinea e denuncia i vari problemi sociali riguardanti la condizione degli svantaggiati, trattando del lavoro minorile, della condizione della donna, della riforma carceraria, dell'aiuto agli emigranti, della prostituzione, dell'assistenza sanitaria.

Nel 1887 aderisce alla Massoneria, dove ricoprirà la carica di membro della Giunta Nazionale e Presidente della Commissione per gli studi sociali, e nel 1896 sarà eletto Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia.
In questo periodo si batte per sensibilizzare i cittadini sull'importanza dei contratti di mezzadria e sulla bonifica dell'Agro romano; propone azioni di emancipazione politica, culturale ed economica per sollevare il popolo rurale dal prepotere del clero delle campagne; si pone dalla parte dei radicali e dei ceti più deboli, insomma vuole che gli ideali di "libertà - uguaglianza - fratellanza", coniugati col fervore dell'apostolato mazziniano, divengano radicale pratica attuativa.
Il contesto storico è costituito dalla politica di Crispi e di Giolitti e dalla nascita del Partito Socialista (1892) e del Partito Repubblicano (1897), a cui si rivolgevano sempre più speranzose le masse popolari alla ricerca di un proprio riscatto. Un fermento sociale che preoccupava non poco papa Leone XIII, che nel 1891, allo scopo di arginare il diffondersi del socialismo, aveva promulgato l'Enciclica "Rerum Novarum", e continuava ad indire Convegni antisocialisti, antirepubblicani, anticomunisti, antinichilisti, antimassonici.

Nathan, che può esercitare i diritti politici poiché il Parlamento gli ha concesso la cittadinanza italiana, viene eletto Consigliere provinciale a Pesaro, dove dal 1889 al 1894 guida l'opposizione, e nel 1895 è al Consiglio Comunale di Roma come Assessore all'Economato e ai Beni patrimoniali. Nel 1895 si presenta, senza successo, come candidato dei radicali e dei repubblicani alla Camera dei Deputati impostando la sua campagna elettorale sull'allargamento del suffragio universale, sull'indipendenza della magistratura, sul restringimento del potere esecutivo. Attacca Crispi per lo scandalo della Banca Romana, che aveva concesso illegalmente crediti a uomini politici, e per sperpero del pubblico denaro; ma attacca anche politici, giudici e amministratori pubblici per smascherarne comportamenti contrari ai principi etici che debbono doverosamente appartenere a chi si occupi della "cosa pubblica".
Nel 1907 diviene Sindaco di Roma sostenuto dal cosiddetto "Blocco", una lista elettorale comprendente liberali, demo-costituzionali, repubblicani, radicali, socialisti che si caratterizzano come anticonservatori e anticlericali. La lista viene sostenuta anche dalla Camera del Lavoro.

Durante il suo mandato, che va dal 1907 al 1913, Ernesto Nathan continua a coniugare i principi ideali con l'azione politica. I suoi interventi sono incentrati a sancire il ruolo di Roma, capitale del nuovo Stato laico, allo scopo di operare cambiamenti strutturali che migliorassero la vita economica e culturale degli abitanti della città. Una vera e propria opera di svecchiamento, dunque, quella voluta dalla Giunta Nathan, che non può non scontrarsi con le mai deposte aspirazioni teocratiche di una Chiesa cattolica poco disposta a rinunciare ad esercitare il proprio potere politico, e di cui Nathan denuncia oscurantismo e dogmatismo. Famoso il suo discorso commemorativo del XX settembre, discorso lucido e rigoroso, tenuto nel 1910 a Porta Pia, dove il coraggioso Sindaco denunciava l'azione ecclesiastica "intesa a comprimere il pensiero" ed "eternare il regno dell'ignoranza" contro "uomini e associazioni desiderosi di conciliare le pratiche e i dettati della loro fede, con gli insegnamenti dell'intelletto, della vita vissuta, delle aspirazioni morali e sociali della civiltà". Le reazioni cattoliche furono molto forti, si mosse finanche il papa, e su "L'Ancora" del 29 settembre venne scritto: "E' il mondo cattolico che deve destituire il sindaco blasfemo e incosciente, e gridare da un punto all'altro dell'universo: rimandatelo al ghetto!". Non rinunciando così a rinfocolare gli atavici pregiudizi antisemiti che proprio il mondo cattolico aveva seminato nei secoli, e in nome dei quali aveva creato i ghetti per gli ebrei.

Quelli della Giunta Nathan sono anni di grande fermento innovativo. Ricordiamo alcuni dei suoi atti: organizza l'Esposizione d'Arte internazionale nel 1911; delibera per l'impianto municipale dell'energia elettrica che entrerà in funzione nel 1912; contrasta in ogni modo la speculazione edilizia e approva il nuovo Piano regolatore; provvede alla bonifica e al popolamento dell'Agro Romano dove vengono realizzati anche piani di edilizia scolastica e sanitaria; fa nascere linee tranviarie pubbliche; realizza alloggi popolari attraverso l'Istituto Case Popolari; costruisce Asili d'Infanzia e Scuole Elementari statali, dotati di refezione, laboratori, palestre, servizio sanitario, biblioteche.

Allo scoppio della rivoluzione russa del 1917, Nathan affronta il tema della difesa del diritto di proprietà e condanna la lotta di classe proponendo una linea economica basata sul cooperativismo e, quindi, sulla partecipazione di tutti i soggetti alla produzione e agli utili dell'impresa.
Ernesto Nathan muore il 9 aprile del 1921.

Maria Barbalato
(della sez. romana Associazione Nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno)

Cyrus
30-04-09, 20:16
Ernesto Nathan: un grande laico, un grande Sindaco
Di Maria Mantello - 28 agosto 2008

Ernesto NathanErnesto Nathan

“L’amministrazione popolare ha indicato il punto di partenza, il metodo; ad altri continuare per quella via, affaticarsi a risolverlo, per il bene di Roma e dell’Italia”. Ernesto Nathan

Ernesto Nathan costituisce un esempio straordinario nel panorama politico italiano per il suo rigore morale, improntato ad una profonda concezione laica dello Stato.

Negli anni in cui è stato Sindaco di Roma (dal 1907 al 1913), ha posto a fulcro del suo programma politico l’emancipazione dell’individuo e della società, scontrandosi con i centri affaristici di potere e realizzando una rivoluzione progressista: dalla scuola alla sanità, dall’edilizia alla municipalizzazione delle fonti energetiche, dal trasporto pubblico ai beni culturali. E tanto altro ancora.

Per Ernesto Nathan lo sviluppo dell’individuo nella libertà e nella giustizia è il fine. La pubblica amministrazione è il mezzo per perseguirlo e realizzarlo. In coerenza con queste prospettive, egli ha costruito e sviluppato la sua rigorosa azione politica, rivolgendo l’attenzione soprattutto a quei gruppi sociali da sempre soggiogati dall’ignoranza e dalla miseria.

Bisognava liberare le menti da dogmi e superstizioni educandole a pensare con la propria testa. Bisognava abituare all’esercizio dell’autonomia morale e alla gestione della libertà di scelta. Bisognava educare, insomma, all’etica laica della responsabilità, dove l’azione ha valore in se stessa e per le conseguenze individuali e sociali che implica.

Le basi della sua etica laica

Ebraismo, mazzinianesimo e massoneria, sono le tre nobili componenti intellettuali che interagiscono nella sua formazione e nel suo impegno politico.

Egli nasce a Londra il 5 ottobre 1845. I genitori, Sara Levi e Meyer Moses, sono entrambi ebrei. E dall’ebraismo apprende, fin da bambino, il dovere dell’impegno individuale a “costruire il paradiso sulla terra”.

A Londra, la famiglia Nathan diviene ben presto il punto di riferimento per tanti esuli politici italiani. Primo fra tutti, Giuseppe Mazzini.

Nathan, come noto, fino agli ultimi anni della sua vita, si è dedicato a raccogliere e diffondere gli scritti di Mazzini. Il pensiero del Maestro egli lo aveva “respirato” già in famiglia; ma lo studio e l’approfondimento sistematico avviene particolarmente quando, nel 1871, è lo stesso Mazzini ad inviarlo a Roma perché curi la “Roma del popolo”. E’ in questa occasione che Nathan si trova anche a “correggere”, per esigenze editoriali, gli articoli che Mazzini gli inviava da Londra.

“La riforma intuita e voluta da Mazzini –scrive Nathan in questi anni- investe tutta la sostanza della vita individuale, nazionale, umana; …Egli volle bandire una nuova fede, una religione civile che fosse norma di vita ai popoli; e nella nuova credenza, illuminata da coscienza e scienza, fondere il presente con l’avvenire”.

Il valore ebraico dell’impegno personale a migliorare se stessi e la società, si coniuga con gli ideali mazziniani in una formidabile mediazione dialettica tra conoscenza ed etica. Quando, nel 1872 l’Apostolo muore, Ernesto ottiene, che accanto alla sottoscrizione fortemente voluta da Campanella, Quadrio e Saffi per edificare monumenti, se ne promuova anche un’altra (per altro generosamente finanziata dalla famiglia Nathan) perché “si sparga l’istruzione tra il popolo”. La madre, Sarina, fonda a Trastevere la scuola elementare “Giuseppe Mazzini”, trasformata nei primi del ‘900 in scuola professionale femminile, dove lo stesso Ernesto terrà lezioni.

Promuovere l’educazione per l’emancipazione dell’individuo è un dovere, perché vi possa accedere soprattutto per chi ne era maggiormente escluso, come appunto le donne, per le quali Nathan voleva la parità di diritti. Fatto straordinario in tempi in cui l’unico diritto pubblicamente riconosciuto alle donne era quello di stare zitte e di fare figli.

La consapevolezza di migliorare se stessi e la società trova ulteriore linfa nell’incontro con la Massoneria, che aveva prodotto i grandi ideali di “libertà”, “uguaglianza”, “fratellanza”, base della rivoluzione americana e di quella francese. Nell’800, quegli ideali chiamano alla realizzazione di Nazioni libere sempre più improntate alla democrazia e alla giustizia sociale. La Massoneria rappresenta, allora, il naturale punto di riferimento progressista del Risorgimento contro i potentati della “sacramentata” alleanza trono-altare. Pertanto, la Chiesa cattolica, quando dovrà fare i conti con l’irreversibile perdita del suo potere temporale, addita la Massoneria come la responsabile massima della sua crisi, dichiarandosi vittima delle trame giudaico-massoniche, che affermano le “aberranti” idee del socialismo e propugnano la libertà di pensiero contro i dogmi cattolici. E’ particolarmente Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti, a gridare al complotto definendo la Massoneria: “Sinagoga di Satana”.

Mi limito a citare, a mo’ di esempio, due passi tratti dalla Civiltà Cattolica del 1880 e del 1881:

“(…)la gran setta massonica, che è la Chiesa di Satana, nell’unico intento di esterminare dalla faccia della terra il regno di Dio (…) gli artifizi che usa per far proseliti e dilatare il suo spirito dappertutto (…) comprovano che la immensa congiura dei nostri tempi, contro Dio e il suo Cristo, è suggerita promossa e aiutata da una forza superiore all’umana, la quale non può essere altra che la diabolica (1880, serie XI, vol. III, p.145) ”;

“Ed è, per fermo cosa portentosa e del tutto satanica, che l’odio anticristiano degli apostati cristiani si sia rassegnato a rendersi schiavo degli ebrei nella Massoneria ed in tutte le sette massoniche apparentemente politiche e in sostanza non altro che anticristiane, per riuscire così, in ultima analisi, a servire al Ghetto piuttosto che a Cristo” (1881, serie XI, vol.VI, p.482).

Ernesto Nathan entra a far parte della Massoneria nel 1887. Dal 1896 al 1903 e dal 1917 al 1919 ricoprirà anche il ruolo di Gran Maestro.

L’incontro con la Massoneria è per lui la sintesi di quell’educazione alla fratellanza universale, appresa dalla cultura ebraica ed alimentatisi nell’insegnamento mazziniano.

“La Massoneria -dice Nathan- il 21 aprile 1901 all’inaugurazione di palazzo Giustiniani- …vive e fiorisce per essersi di volta in volta tuffata nell’acqua lustrale del progresso, assimilando ogni nuova fase di civiltà, il più delle volte divenendone banditrice… Siamo noi, che in nome di quel principio di fratellanza, abbiamo iniziato, spinto innanzi il movimento per la pace e l’arbitrato… Siamo il germe dei vagheggiati Stati Uniti d’Europa.”

Il bene dell’individuo e la funzione pubblica della politica

Nell’Italia di fine ottocento, dove nel 1898 il generale Bava Beccaris faceva sparare colpi di cannone sull’inerme popolazione milanese che chiedeva pane, Ernesto Nathan ricerca l’unità delle forze progressiste liberali (liberali progressisti, radicali, repubblicani) per realizzare le riforme sociali.

Nel 1888 ha ottenuto la cittadinanza italiana, pertanto può candidarsi alle elezioni. Sceglie Pesaro, città natale della madre. Dal 1889 al 1894, ricopre la carica di consigliere comunale, non stancandosi mai di denunciare la scarsa attenzione delle istituzioni al sociale. Amministratore attento e scrupoloso, Nathan studia la situazione della città. E denuncia il nesso esistente tra malattia, emarginazione sociale, miseria. Rileva, ad esempio, che i ricoverati all’ospedale S. Benedetto sono contadini che la pellagra aveva portato alla demenza.

A Pesaro, come poi a Roma, si batte per promuovere l’istruzione, la sanità, l’edilizia popolare; per ridurre la giornata lavorativa ad otto ore; per calmierare il prezzo del pane mediante l’istituzione di spacci comunali.

Dal 1895 è consigliere al Comune di Roma: denuncia le cause economico-sociali che portano tante povere donne a prostituirsi; vuole la bonifica dell’agro romano per eliminare la malaria; lancia i suoi strali contro la speculazione edilizia e contro lo strapotere del Vaticano nel tenere imbrigliate le coscienze.

Dal 1907 e il 1913, finalmente, è Sindaco della Capitale

L’Unione liberale popolare (il famoso Blocco) formata da radicali, repubblicani e socialisti ha vinto le elezioni. I cattolici non hanno partecipato alla competizione elettorale, perché il “non expedit” del papa vietava loro l’accesso alle cariche istituzionali nel giovane Stato italiano, che aveva decretato la fine del potere temporale della Chiesa romana.

Nathan fa tremare il mondo affaristico clerico- nobiliare, che lucra grazie all’intreccio tra capitale finanziario e patrimonio fondiario, nell’immobilismo di una Roma della Rendita, dove le masse popolari sono tenute nell’alfabetismo e nella miseria.

“Civiltà Cattolica” lancia i suoi anatemi contro il Sindaco che scandalizzata definisce straniero, ebreo, repubblicano e massone: “ è il primo sindaco non romano dopo 37 anni, quanti ne sono corsi dal 1870, anzi nemmeno italiano, perchè di origine inglese, nativo di Londra. In ogni caso repubblicano, israelita, massone. La sua presenza a capo del comune romano è misura del livello a cui siamo discesi”.

Quello “straniero” che aveva abitato a Londra, a Parigi, a Lugano, era forse troppo scomodo per rettitudine morale e visione europeista.

Nel suo discorso programmatico del 2 dicembre 1907, all’atto dell’insediamento nella sua carica di Sindaco in Campidoglio, Ernesto Nathan diceva: “Guardiamo all’avvenire…a una grande Metropoli ove scienza e coscienza indirizzino…rinnovate attività artistiche, industriali, commerciali…perché guardiamo attraverso la breccia di Porta Pia.”

Il crollo del muro del totalitarismo teocratico cattolico, che la Breccia di Porta Pia rappresentava, era dunque indicato con chiarezza da Nathan come la strada maestra per lo sviluppo scientifico, economico e sociale dell’umanità intera. Il 20 settembre era festività nazionale, e tale rimase fino a quando Mussolini non la soppresse. Nathan, ogni 20 settembre, non mancava di sottolineare l’importanza dell’evento storico, con chiarezza e coraggio: “… per la breccia di Porta Pia, entrò nella città eterna il pensiero civile ed umano, la libertà di coscienza, abbattendo per sempre, muraglia di una Bastiglia morale, il potere temporale dei papi… Quella data… da nazionale diviene, nel suo alto significato filosofico, universale, e come tale la festa del popolo per i popoli”.

I principali interventi della Giunta Nathan

La scuola

“Le considerazioni di bilancio finanziario devono cedere il passo alle imperative esigenze del bilancio morale ed intellettuale. Le scuole devono moltiplicarsi, allargarsi, migliorarsi; rapidamente, energicamente, insieme col personale scolastico”, aveva detto Nathan nel suo discorso programmatico. E lo mantenne.

Nell’agro romano le scuole rurali, che nel 1907 erano 27, nel 1911 divengono 46 e il numero degli alunni da 1183 passa a 1743. Le scuole urbane hanno un incremento di ben sedici edifici, e gli alunni, che nel 1907 erano 35.963, nel 1912 sono divenuti 42.925.

Le scuole statali, come sosteneva il coraggioso sindaco, hanno il compito: “d’insegnare per sviluppare l’intelletto, d’educare per sviluppare il cuore, addestrando all’esercizio della virtù quale dovere civile. Quindi insegnamento laico fondato su educazione morale”.

Nathan si avvale di pedagogisti, medici, scienziati, specialisti nella cura della malaria (imperversava nell’agro romano). Alcuni nomi: Maria Montessori, Sibilla Aleramo, Carlo Segrè, Giovanni Cena, Alessandro Marcucci, Alessandro Postempski, Angelo Lolli.

La giunta Nathan eroga fondi perché le scuole elementari siano dotate di refezione, di piccole biblioteche, di essenziali laboratori scientifici, di cinematografo…; ma assolvano anche al fondamentale servizio di medicina preventiva. Nei quartieri popolari, come ad esempio Testaccio e S. Lorenzo, sono costituite le sezioni estive, per sostenere i più deboli nell’apprendimento. L’impegno di Nathan nella creazione di scuole pubbliche si allarga finanche agli asili: nascono i “giardini d’infanzia” comunali in Via Appia Nuova, Via Galvani, Via Regina Margherita, Via Novara; al Portico d’Ottavia e a Borgo s. Spirito. E le loro sezioni si triplicano: nel 1907 sono 50, nel 1911 ben 154.

“Più scuole e meno chiese” -ripeteva Nathan- che a conclusione del suo mandato poteva affermare con orgoglio: “Là dove in passato necessitava ricorrere alle scuole confessionali, oggi il Comune ha reso la deleteria loro opera inutile”.

I servizi pubblici

“Sottrarre i pubblici servizi dal monopolio privato; renderli soggetti alla sorveglianza, alla revisione, all’approvazione del Consiglio…preparare la via al più assoluto controllo che la cittadinanza deve acquisire su quei gelosi elementi primordiali di ogni civiltà urbana”. Così si era espresso Ernesto Nathan nel discorso programmatico del 2 dicembre 1907. Pensava alla municipalizzazione di luce, gas, acqua; pensava alla realizzazione di linee tranviarie pubbliche. Vale appena ricordare, ad esempio, che prima di Nathan, l’acqua Marcia era un fondo del Vaticano, che proprio in quegli anni stava cercando di accaparrarsi anche il controllo dell’acqua Vergine.

Acqua, luce, gas, linee di trasporto sono beni di tutti, quindi solo un organismo statale, come il Comune, può gestirli in nome dell’interesse collettivo. E Nathan chiama la cittadinanza a scegliere tra gestione privata e gestione pubblica. Una giunta popolare può reggersi solo sull’appoggio popolare, era solito affermare il Sindaco, che per la prima volta in Italia, il 20 settembre 1909, in concomitanza della ricorrenza di Porta Pia, chiama i romani a votare. Dei 44.595 aventi diritto, si recano alle urne in 21.460. I contrari alla gestione comunale dei servizi sono poco più di trecento.

Nascono così l’Azienda elettrica municipale (AEM) e L’Azienda Autonoma Tranvie Municipali. Le zone del Centro, del Salario, di Porta Pia, di Santa Croce in Gerusalemme e di San Giovanni, sono attraversate da ben 200 tram. Per tutto questo fondamentale è l’apporto professionale dell’ingegner Giovanni Montemartini, che dirigeva l’Ufficio Servizi Tecnologici.

Tra i servizi urbani, “gelosi elementi primordiali di ogni civiltà”, come Nathan li aveva definitivi, rientrano la centrale del latte, il mattatoio, l’acquario, i mercati e i magazzini generali. Le nuove strutture garantiscono igiene alimentare, ma anche risparmio economico, come ricordava Giggi Pea in una sua canzone popolare a proposito del mercato del pesce:

“Er mercato der pesce è ‘na risorsa, / questi so’ fatti, mica so’ parole…/ …si ne voi ‘na prova/ ar sinnico tu chiedi un baccalà/ nemmeno vorta l’occhi e te lo trova/ e nun lo paghi manco la metà”.

Ma occorre cibo anche per la mente. Così, oltre alle scuole, Nathan si impegna a sviluppare i beni museali per la cittadinanza.

Nel discorso tenuto in occasione dell’Esposizione internazionale del 1911, voluta per il 50° anniversario di Roma capitale (il palazzo delle Esposizioni a via Nazionale a Roma ne è ancora la tangibile testimonianza), è il Sindaco stesso a ricordare questi interventi culturali: Castel S. Angelo, trasformato da fortezza papalina in “museo di ricordi d’arte medievale per insegnamento ed affinamento dei cittadini”; le Terme di Diocleziano “ridotte a fienili, magazzini e sconci abituri. Ora si circonda di giardini e ritorna in vita (…) impareggiabile Museo Nazionale”; il palazzo di Valle Giulia, “acquistato dal Comune perché divenga Galleria d’arte contemporanea”.

La Salute e la Casa

“Molto è da fare per perfezionare l’assistenza sanitaria, coordinarla ad una rigorosa osservanza dei precetti igienici contemplati dalla scienza (…) adoperarsi affinché tanto nella città, come fuori dalle mura, sia provveduto alla pronta assistenza, sia prevenuta dall’igiene la terapeutica. Né in questo doveroso ufficio di umana civiltà (…) anteporre interessi e lucri”. Ecco cosa aveva affermato il 2 dicembre 1907 nel suo discorso programmatico. Obbiettivo prioritario sono i quartieri poveri e le borgate. L’agro romano, con i suoi rifugi malsani, desta le maggiori preoccupazioni. “Vivono in capanne senza pavimento –aveva scritto Sibilla Aleramo- sembrano anche loro di fango…attoniti bimbi e vecchi”. Bisogna dettare quindi norme igieniche di abitabilità (decreto 25 giugno 1908) perché non sia più possibile che i latifondisti continuino a destinare porticati, grotte, capanne con tetti fatti con paglia o con foglie di granturco ad uso abitativo per contadini e braccianti.

Nell’agro romano nascono case cantoniere e presidi medici che forniscono assistenza gratuita

Nella città sono istituite pubbliche guardie ostetriche, presidi per l’assistenza sanitaria e la profilassi delle malattie infettive. La salute con Nathan non è più cosa per i ricchi o assistenza caritatevole, ma un pubblico dovere. L’Assessore alla Sanità era il dott. Achille Ballori, primario dell’ospedale Santo Spirito.

Abbiamo lasciati per ultimi gli interventi edilizi, perché proprio su questi la giunta Nathan dovette combattere la più dura battaglia. Il Sindaco fu anche minacciato fisicamente. “Hanno tentato di tutto” -affermerà Nathan alla fine del suo mandato- “ma una cosa non hanno mai osato: offrirmi denaro”.

A Roma prima di Nathan il sommario piano regolatore del 1883, era continuamente eluso dalle “convenzioni fuori piano”. Così, la già ricca proprietà fondiaria continuava a fare affari d’oro. “Bisogna promuovere, organizzare, integrare le diverse iniziative”- aveva detto Nathan nel suo discordo programmatico- “…né potremo plaudire ad un piano regolatore che raddoppia l’estensione della città senza esattezza di tracciato e senza la scorta indispensabile dei provvedimenti atti a salvare il vastissimo demanio fabbricabile dalle sapienti astuzie dell’aggiotaggio edilizio”.

L’Ufficio edilizio è diretto personalmente dal Sindaco, che può contare sulla professionalità dell’architetto Sanjust di Teulada. E’ questi l’autore del nuovo piano regolatore cittadino del 10 febbraio 1909, improntato alla varietà edilizia (fabbricati, villini, aree di verde pubblico). I fabbricati non possono superare i 24 metri d’altezza; i villini, costituiti da un pianterreno con giardinetto, non possono superare i due piani.

Ma è la Rendita fondiaria che Nathan colpisce: impone tasse sulle aree fabbricabili e procede agli espropri, applicando quanto il governo Giolitti aveva già stabilito a livello statale. Nathan aveva anche ottenuto grazie a quello che va sotto il nome di seconda legge Giolitti in materia (legge n°502, 11 luglio 1907), che la città di Roma elevi la tassa sulle aree fabbricabili dall’1 % al 3%. La coraggiosa Giunta Nathan prevede che il valore di ogni area sia stabilito dallo stesso proprietario, che pagherà l’imposta su quanto dichiarato, e su questa base verrà risarcito in caso di esproprio da parte del Comune. Una norma chiara ed onesta. Ma la rivolta dei proprietari terrieri non si fa attendere: uniscono le loro forze fondando l’Associazione dei proprietari delle aree fabbricabili, risultante dall’unione della Società italiana per le imprese fondiarie, del Vaticano, con la Società gianicolense, della famiglia Medici del Vascello, proprietaria di ben 142.000 mq. di terreno edificabile. Ma, nonostante la virulenta opposizione dei potentati della rendita, che intanto hanno avviato contro il Comune una miriade di ricorsi contro gli espropri, la giunta Nathan avvia il primo piano di edilizia economica e popolare. Case igieniche e dignitose con cortile e giardinetto interno sorgono a S. Giovanni, a Porta Metronia, a Testaccio, ma anche nelle campagne dell’Agro romano.

Dopo Nathan, tutto tornerà come prima

Decaduto il non expedit del papa, grazie all’accordo in funzione antisocialista di Giolitti con Ottorino Gentiloni (patto Gentiloni del 1913), i cattolici sono eletti nelle liste dei Liberali. In nome della nuova alleanza tra liberali e cattolici, si consuma anche il sacrificio politico del nostro Sindaco.

A Roma, il 14 giugno 1914, la cattolica “Unione romana” vince.

Il principe Prospero Colonna, esponente di spicco della rendita immobiliare romana, subentra a Nathan.

La tassa sulle aree fabbricabili, coraggiosamente applicata da Nathan, sarà progressivamente ridotta fino alla sua definitiva abolizione con Mussolini (regio decreto n° 2538, 18 novembre 1923).

Nel 1915, la Società italiana per le Imprese fondiarie del Vaticano giunge a possedere azioni per quasi due milioni di valore nominale. E tra il 1918 e il 1919, amplia straordinariamente il suo giro d’affari attraverso la Società Immobiliare. Proprio quella che, negli anni ’60, è divenuta tristemente famosa per la selvaggia speculazione edilizia della Capitale: il “Sacco di Roma”. Grazie a deroghe, variabili ed abusivismo, da sanare di volta in volta con la provvidenziale pratica del “condono”, usata ed abusata fino ai giorni nostri in tutta Italia.

Cyrus
30-04-09, 20:17
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ERNESTO NATHAN: IL SINDACO DELLA MODERNITA’
“A oltre cento anni dalla sua elezione a Sindaco di Roma, per ricordare l’uomo, il suo
impegno politico, la sua fede mazziniana.”
Un fervente Mazziniano, ebreo e massone, Ernesto
Nathan, fu il primo sindaco laico di Roma dal 1907 al
1913, secondo gli storici, il miglior sindaco della
capitale d’Italia sino a oggi.
Le caratteristiche di questo illustre uomo sono
molteplici: mazziniano, repubblicano, laico, ebreo,
massone, anticlericale e anticonformista.
Ernesto Nathan fu cittadino inglese fino all’età di 43
anni e, oltre che sindaco di Roma, per due volte (dal
1896 al 1904 e dal 1917 al 1919) fu Gran Maestro
della Massoneria italiana.
Ernesto nasce a Londra, quinto di ben dodici figli, il 5
ottobre 1845 da genitori ebrei: Sara (detta “Sarina”)
Levi, originaria di Pesaro, e Meyer Moses Nathan,
agente di cambio di origine tedesca.
La famiglia Nathan si era trasferita a Londra dopo
aver trascorso alcuni anni a Parigi.
Secondo lo storico ebreo Alessandro Levi, tramite la
famiglia Nathan e i loro intimi amici Rosselli,
sarebbero giunte a Giuseppe Mazzini importanti
informazioni politiche.
La madre di Ernesto aprirà per molti anni le porte
delle proprie case all’emigrazione patriottica italiana,
soprattutto dopo che si stabilirono forti legami di
stima e affetto di tutti i componenti della famiglia con Mazzini.
Morto prematuramente il padre, la famiglia Nathan, si trasferisce in Italia dove, sia Ernesto sia i
suoi fratelli, stringono amicizie e solidarietà politiche con Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Marcora e
Agostino Bertani.
La madre Sarina vive anche in Svizzera, a Lugano, in una piccola villa (“La Tanzina”) che ospiterà
un altro illustre esule italiano, Carlo Cattaneo.
Il ruolo dirigenziale della numerosa famiglia, fino alla morte, sarà sempre della madre, che vedremo
fortemente impegnata nelle attività di soccorso agli esuli italiani e di promozione della causa
patriottica verso altri paesi europei.
La passione di Ernesto e dei suoi fratelli (soprattutto Giuseppe e Giannetta) per la politica inizia in
quel periodo, vivendo a contatto con gli uomini più illustri del nostro Risorgimento, che trasmisero
loro la magistrale lezione etica e repubblicana di Giuseppe Mazzini (che il 10 marzo 1872 morì
nella casa della sorella Giannetta a Pisa).
Sarà, appunto, Giuseppe Mazzini a convincere Ernesto, da poco sposato con la livornese Virginia
Mieli, a impegnarsi nell’attività politica italiana.
La sua attività nella pubblica amministrazione si svolgerà, essenzialmente, in due città: Pesaro e
Roma.
Pesaro, città natale dell’amatissima madre, gli offrirà, nel 1889, la “cittadinanza onoraria” e dal
1889 al 1895 farà parte del Consiglio Provinciale, occupandosi prevalentemente del bilancio.
A Pesaro Nathan riuscì a dare un decisivo impulso al rafforzamento dei gruppi repubblicani e
radicali locali.
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A Roma tra il 1871 e il 1872 diresse “La Roma del Popolo” e nel 1889 sarà Consigliere Comunale e
Assessore (prima supplente e poi effettivo) durante il sindacato di Armellini.
Nel 1890, insieme ad Aurelio Saffi, Ruggero Borghi, Giuseppe Chiarini, Giosuè Carducci e
Francesco Domenico Guerrazzi, fu tra i fondatori della “Società Dante Alighieri”, con il fine di
diffondere la lingua italiana e le scuole all’estero per i figli dei nostri emigranti.
Ernesto Nathan raggiungerà il massimo livello della sua attività pubblica nel periodo 1907-1913
quando operò come Sindaco di Roma.
È importante ricordare che all’inizio del ‘900 Roma era dominata da un fortissimo gruppo “feudale
- clericale” di speculatori fondiari senza scrupoli provenienti, soprattutto, dalla cosiddetta
“aristocrazia nera”, legata strettamente al Vaticano e che imponeva i suoi uomini, sia nelle banche
sia nelle istituzioni pubbliche della città.
La candidatura di Nathan fu appoggiata da una coalizione costituita da: Unione Socialista Romana,
Federazione delle Associazioni Costituzionali, Partito Repubblicano, Unione Democratica Romana,
Camera del Lavoro e varie Organizzazioni economiche.
Quest’alleanza, denominata “Blocco Popolare”, passerà alla storia come “Blocco Nathan”.
Un ruolo decisivo nella vittoria del “Blocco Nathan” lo svolse il quotidiano “Il Messaggero” che
riconobbe a Nathan le qualità e la modernità del suo programma.
Eletto Sindaco con una grande maggioranza (60° voti a favore e 12 astensioni) e con una giunta
“laico-progressista”, Ernesto Nathan amministrerà Roma con metodologie moderne, ispirandosi
soprattutto al sistema politico inglese ed introducendo importanti e innovativi elementi scientifici e
tecnologici nell’attività amministrativa.
Il programma della giunta Nathan doveva risultare “Chiaro, Semplice e Radicale”; pochi e chiari i
punti qualificanti: Istruzione Pubblica, Assistenza Sanitaria, Piano Urbanistico e Case Popolari.
La lucida ed inflessibile laicità del pensiero di Nathan troverà immediata espressione quando la sua
giunta si trovò ad affrontare il difficile e controverso (ed ancora attuale!) problema relativo
all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, richiamandosi al suo intervento
programmatico: “Non ha limite il nostro rispetto, la nostra tolleranza, per ogni convinzione
religiosa. Non ha del pari limite la nostra incrollabile resistenza a pressioni od imposizioni da
qualunque parte dovessero venire”.
Per il sindaco laico-mazziniano Ernesto Nathan niente “compromessi storici”, niente “associazioni
tra laici ed integralisti cattolici”, ma solo coalizioni tra forze politiche omogenee unite dalla
condivisione di pochi e fondamentali punti programmatici, nel rispetto del voto degli elettori.
Le decisioni prese dal sindaco Nathan e dai suoi assessori lasciarono il segno e le sue scelte
amministrative si scontrarono, molto presto, con gli interessi (per niente spirituali!) del Vaticano,
dei proprietari terrieri, del “Banco di Roma” e della potentissima “Società Generale Immobiliare”.
Infatti, quando Nathan si scontrò con gli interessi economici del Vaticano e dei suoi amici romani, il
sindaco “Ebreo e Massone” fu preso di petto dai “Gesuiti” che, nella loro pubblicazione “Civiltà
Cattolica”, lo definirono sprezzantemente “Giudeo”.
Sempre i Gesuiti gli rimproverarono ferocemente il discorso commemorativo della storica “Breccia
di Porta Pia”, tenuto il 20 settembre 1910.
Di quello straordinario discorso riportiamo: “…Nella Roma di un tempo non bastavano mai le
chiese per pregare, mentre invano si chiedevano le scuole: oggi le chiese sovrabbondano,
esuberano, e le scuole non bastano mai! Ecco il significato della breccia, o cittadini! Nessuna
chiesa senza scuola! Illuminata coscienza per ogni fede, ecco il significato della Roma d’oggi”.
Appoggiata inizialmente da Giovanni Giolitti, la giunta Nathan cadde nel momento in cui lo stesso
Giolitti volle ricucire i rapporti con il Vaticano liquidando, ad esempio, il “progetto di legge sul
divorzio”, fiore all’occhiello del programma politico-sociale di Nathan.
La battaglia principale, però, non fu persa per motivi religiosi, bensì economici, quando il sindaco
Nathan si scontrò contro i grandi proprietari terrieri ed immobiliari e, soprattutto, quando decise di
applicare le “tasse sulle aree fabbricabili” e quando presentò il “piano edilizio”, nel tentativo di
evitare la cosiddetta “macchia d’olio”, ossia lo sviluppo incontrollato delle costruzioni secondo le
direttrici dell’interesse speculativo legato al Vaticano.
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Il “blocco Nathan” si indebolirà a partire dalle elezioni politiche del 1909 che videro un massiccio e
diffuso intervento delle forze clericali, dalla fuoriuscita dei socialisti nel 1912 e dall’avanzata del
Movimento Nazionalista (irrazionalista) di Federazioni e Medici del Vascello.
In consiglio comunale Nathan rimase sempre più solo e nel 1913 fu costretto alle dimissioni.
Ritiratosi a vita privata, volle arruolarsi, all’età di 70 anni, quando scoppiò la 1ª Guerra Mondiale, e
combatté sul Carso con il grado di tenente.
Muore il 9 aprile 1921 nello stesso letto sul quale, anni prima, aveva riposato il suo grande maestro
Giuseppe Mazzini, nella casa di sua madre Sarina a Lugano, ed appena 17 anni prima della grande
vergogna fascista delle leggi razziali e dello sterminio degli ebrei europei.
Similmente alla sua amatissima madre, Ernesto Nathan dichiarò, morendo, di “non volere
intermediari tra se e Dio” e chiese ed ottenne funerali civili.
Al suo funerale si osservò un mare di garofani rossi, deposti dalle allieve della famosa “Scuola
Giuseppe Mazzini”, fondata e finanziata dalla madre e dove Ernesto aveva passato i momenti più
belli della sua vita: quelli di educatore e di riformatore laico-progressista.
Alla sua morte la città di Roma decise di intitolargli una scuola ma, con l’avvento del fascismo,
quella scuola cambiò nome e venne intitolata a “Padre Reginaldo Giuliani”, un fanatico fascista e
feroce antisemita che partecipò alla marcia su Roma come cappellano delle camicie nere.
Solo nel 1995 il sindaco Rutelli s’impegnò affinché venisse ripristinata la denominazione originaria
ad Ernesto Nathan.
Anche la morte è stata per Ernesto Nathan un momento per dichiarare la sua ammirazione e la sua
gratitudine al suo maestro.
Sulla sua tomba, infatti, si legge:
“… MUOIO COME HO VISSUTO, NELLA FEDE DI GIUSEPPE MAZZINI, SERENAMENTE
SODDISFATTO SE, ATTRAVERSO LA VITA, FINO AGLI ULTIMI GIORNI, HO POTUTO
DARNE TESTIMONIANZA”.
Cesare Baccini
Ravenna, novembre 2008

Cyrus
30-04-09, 20:18
Sindaco per Roma: Ernesto Nathan nella memoria.
Apr 20th, 2008
by Lawrence d'Arabia.

Nel giorno in cui inizia la volata finale tra Rutelli ed Alemanno, vorri ricordare quello che è stato un Sindaco “anomalo per Roma, perché inglese di nascita, ebreo e massone. Impresse alla sua attività di amministratore i tratti di una integrità morale che gli veniva riconosciuta da amici e avversari”. Non è mia questa definizione, ma porta la firma di Walter Veltroni.
Nathan era un estraneo: cosmopolita (visse tra Londra, Firenze, Lugano, Milano la Sardegna e Roma) e mazziniano profondamente laico, così distante da quella Roma clericale di inizio secolo di cui fu eletto sindaco. Era nato all’estero. Era ebreo. Era massone, e che massone! visto che nel 1895 fu nominato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.

Il livello della persona era alto, altissimo: nessuno mise mai in dubbio il suo forte senso d’etica pubblica e la capacità di perseguire sempre gli obiettivi politici in conformità agli ideali che lo muovevano.
Insomma, nel 1907 fu eletto sindaco di Roma, nuova capitale del nuovo Stato laico.
Tre priorità sulla sua agenda:

* sancire il ruolo della città fulcro d’Italia
* governare la gigantesca speculazione edilizia
* supportare un vasto piano vasto d’istruzione per l’infanzia e il sostegno alla formazione professionale pensati e realizzati in chiave assolutamente laica.

Sarebbe bello che Rutelli ed Alemanno potessero avere idee altrettanto progressiste.

Nathan non potè fare a meno di scontrarsi con le mai deposte aspirazioni teocratiche di una Chiesa cattolica poco disposta a rinunciare ad esercitare il proprio potere politico, e di cui Nathan denuncia oscurantismo e dogmatismo. E’ opportuno ricordare che la massoneria, come ha ricordato Di Bernardo (a sua volta Maestro del Grande Oriente d’Italia, oltre che mio orgoglioso Professore) nell’intervista di qualche anno fa a Luttazzi, accetta l’idea di un Dio, e anzi la fa propria. in altre parole, la massoneria non ha nulla a che vedere con molte delle etichette che le sono state attribuite (satanista, amorale, esclusivamente umanista, tecnocratica e via dicendo).

In un discorso tenuto a Porta Pia, Nathan arrivò a denunciare l’azione ecclesiastica “intesa a comprimere il pensiero” ed “eternare il regno dell’ignoranza“contro “uomini e associazioni desiderosi di conciliare le pratiche e i dettati della loro fede, con gli insegnamenti dell’intelletto, della vita vissuta, delle aspirazioni morali e sociali della civiltà“.

Ve l’immaginate oggi un discorso del genere fatto, non dico dalla destra (mettiamo: Casini) ma da quella sinistra dei Veltroni, dei Prodi e perfino dei Fassino?

Le reazioni cattoliche ovviamente non tardarono: su “L’Ancora” del 29 settembre venne scritto: “E’ il mondo cattolico che deve destituire il sindaco blasfemo e incosciente, e gridare da un punto all’altro dell’universo: rimandatelo al ghetto!“. Non rinunciando così a rinfocolare gli atavici pregiudizi antisemiti che proprio il mondo cattolico aveva seminato nei secoli, e in nome dei quali aveva creato i ghetti per gli ebrei.
La Chiesa non aveva compreso che Nathan era superiore alle ideologie. Allo scoppio della rivoluzione russa del 1917, egli condannò infatti la lotta di classe.

Relativamente agli altri due punti del programma: nel 1909 Nathan inaugurò il primo piano regolatore della città, che definì le aree da urbanizzare fuori le mura - tenendo conto del fatto che il 55% delle aree edificabili era in mano a 8 proprietari. Sull’istruzione: oggi Roma ha non più di 288 scuole materne comunali: più della metà sono state edificate proprio nel periodo del govero di Nathan.

Ci sarebbero molte altre opere da ricordare. Ma qui è forse più divertente l’aneddoto che lo vide coinvolto al momento dell’approvazione per il bilancio del comune. Nathan lo esaminò attentamente e, quando lesse la voce “frattaglie per gatti”, chiese spiegazioni al funzionario che gli aveva portato il documento. Egli rispose che si trattava di fondi per il mantenimento di una nutrita colonia felina che serviva a difendere dai topi i documenti custoditi negli uffici e negli archivi capitolini. Nathan prese la penna e cancellò la voce dal bilancio, spiegando al suo esterrefatto interlocutore che d’ora in avanti i gatti del Campidoglio avrebbero dovuto sfamarsi con i roditori che avevano lo scopo di catturare e, che nel caso di topi non dovessero trovarne, sarebbe venuto a cessare anche lo scopo della loro presenza. “Non c’è trippa pe’ gatti!” , esclamò allora il Sindaco, con una frase divenuta proverbiale. Oggi forse, di trippa ce n’è fin troppa per tutti quanti.

Cyrus
30-04-09, 20:18
Ernesto Nathan

Dario Chiarino
January 28, 2008 12:36 AM
Pro memoria

Ernesto Nathan
Circa 100 anni fa si insediava in Campidoglio Ernesto Nathan. Walter Veltroni, nella sua prefazione ad una nuova biografia l'ha definito un Sindaco “anomalo per Roma, perché inglese di nascita, ebreo e massone, impresse alla sua attività di amministratore i tratti di una integrità morale che gli veniva riconosciuta da amici e avversari”.
Nato a Londra il 5 ottobre 1845, figlio di un agente di cambio, la cui casa era frequentatata da Giuseppe Mazzini durante il suo esilio londinese, Nathan arrivò a Roma nel 1870, come amministratore del giornale mazziniano La Roma del popolo e nel 1879 aderì alla sinistra storica con Crispi.
Nel 1888 acquistò la cittadinanza italiana e nell'aprile dell'anno successivo fu eletto consigliere comunale e poi assessore all'economato e ai beni culturali.
Fu eletto Sindaco di Roma il 25 novembre 1907 con 60 voti favorevoli e l'astensione di 12 democratici costituzionali e restò in carica fino al dicembre 1913.
Nel discorso di insediamento in Campidoglio il 2 dicembre 1907 affermò che l'obiettivo principale della sua amministrazione doveva essere “il progresso civile di Roma, capitale della Terza Italia” secondo il progetto di Mazzini.
La questione della pubblica istruzione era da Nathan considerata prioritaria: “il bilancio e il suo pareggio sono la legittima preoccupazione di ogni prudente amministratore; ma fino a quando vi sia un solo scolaro il quale non possa ricevere istruzione ed educazione civile, le considerazioni del bilancio finanziario devono cedere il passo alle imperative esigenze del bilancio morale e intellettuale”.
Nel 1911, cinquantenario dell'unità d'Italia s'inaugurarono il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia, la passeggiata archeologica e lo stadio Flaminio. Ma il bilancio e il suo pareggio erano per Nathan un impegno non meno impellente.
“Non c'è trippa per gatti!” , esclamò, con una frase divenuta proverbiale, quando scoprì che fra le voci di spesa del Comune c'era l'acquisto di frattaglie destinate ai gatti ai quali si attribuiva la difesa degli archivi dai topi.
È opinione diffusa che oggi ci sia trippa per tutti…

Dario Chiarino

edera rossa
01-05-09, 00:52
ma Nathan , CavaLlotti, Valiani , fino a che punto possono essere collegati al partito radicale e quanto ad una più ampia "scuola democratica"? Il partito radicale dell'ottocento non si considerava sinistra liberale , ma componente della sinostra democratyica, molti di esi eranpo di formazione ,mazziniana, cattanana, ed ex garibaldini. Quanto al sindaco di Roma i suoi collegamenti col mazzinianesimo e col pensero democratico in genere sono sempre stati riconosciuti. Il problema oltre che storico è attuale Il partito radicale in che misura è riuscito a creare una cultura a cavallo tra liberalesimo e dimocrazia ed in che misura questo tentativo è costato alla democrazia italiana questa lungamente rimandata e non ancora risolta scelta della scuola democratica come principale riferimento per la sua azione politica?

zulux
01-05-09, 00:56
... giustissima osservazione... il termine radicale fu riesumato da pannunzio e da quelli del mondo a metà degli anni cinquanta.... nell'ottocento aveva un significato diverso... da questo punto di vista repubblicani radicali e altri ancora hanno tutti la stessa origine che è proprio in quella scuola democratica a cui accenni....

ConteMax
04-05-09, 20:18
ma Nathan , CavaLlotti, Valiani , fino a che punto possono essere collegati al partito radicale e quanto ad una più ampia "scuola democratica"? Il partito radicale dell'ottocento non si considerava sinistra liberale , ma componente della sinostra democratyica, molti di esi eranpo di formazione ,mazziniana, cattanana, ed ex garibaldini. Quanto al sindaco di Roma i suoi collegamenti col mazzinianesimo e col pensero democratico in genere sono sempre stati riconosciuti. Il problema oltre che storico è attuale Il partito radicale in che misura è riuscito a creare una cultura a cavallo tra liberalesimo e dimocrazia ed in che misura questo tentativo è costato alla democrazia italiana questa lungamente rimandata e non ancora risolta scelta della scuola democratica come principale riferimento per la sua azione politica?

Si, è una giusta osservazione. Una osservazione analoga la si potrebbe fare anche per Cesare Battisti.

Giusta l'osservazione che la tradizione radicale era la stessa di quel filone democratico/socialista/repubblicano postrisorgimentale. Come è anche giusto che da quella tradiione si originò il primo Partito radicale di Felice Cavalloti e quello del 1955 orto dalla scissione a sinistra del PLI.

Interessantissima intervista di Radio Radicale allo storico Cesare Biguzzi sul suo libro sull'irridentista trentino Cesare Battisti, impiccato dagli austriaci nel 1916.

Il libro ci svela un ritratto misconosciuto di Cesare Battisti, al di là della retorica fascista e nazionalista.

Esce fuori il vero carattere socialista e anticlericale di Cesare Battisti, contrapposto al cattolicesimo filoaustriaco e antisemita di cui Alcide De Gasperi fu massimo rappresentante in trentino.

Interessante anche il ritratto di Alcide De Gasperi antisemita, che appoggiò le leggi antisemite del nazismo in Austria.

Chi ha a disposizione Real Player può ascoltare direttamente da questo link l'intervista: http://www.radioradicale.it/scheda/262848/...stefano-biguzzi

edera rossa
06-05-09, 02:31
Si, è una giusta osservazione. Una osservazione analoga la si potrebbe fare anche per Cesare Battisti.

Giusta l'osservazione che la tradizione radicale era la stessa di quel filone democratico/socialista/repubblicano postrisorgimentale. Come è anche giusto che da quella tradiione si originò il primo Partito radicale di Felice Cavalloti e quello del 1955 orto dalla scissione a sinistra del PLI.

Interessantissima intervista di Radio Radicale allo storico Cesare Biguzzi sul suo libro sull'irridentista trentino Cesare Battisti, impiccato dagli austriaci nel 1916.

Il libro ci svela un ritratto misconosciuto di Cesare Battisti, al di là della retorica fascista e nazionalista.

Esce fuori il vero carattere socialista e anticlericale di Cesare Battisti, contrapposto al cattolicesimo filoaustriaco e antisemita di cui Alcide De Gasperi fu massimo rappresentante in trentino.

Interessante anche il ritratto di Alcide De Gasperi antisemita, che appoggiò le leggi antisemite del nazismo in Austria.

Chi ha a disposizione Real Player può ascoltare direttamente da questo link l'intervista: http://www.radioradicale.it/scheda/262848/...stefano-biguzzi

Cesare Battisti, come geografo era vicino a quella scuola antropogeografica che ebbe come maestro il repubblicano Arcangelo Ghisleri ( studioso di formazione cattaneana) e che incise anche nel federalismo salveminiano. La famiglia di Cesare Battisti non si prestò mai alla pagliacciate del fascismo ed il figlio Luigino fu nella Resistenza.
Posizione diversa ebbe il figlio di Sauro. Ma Nazario Sauro fu decisamente laico, repubblicano e massone. A Venezia passò anche una notte al frasco assieme a Silvio Stringari (poi esule antifascista e rifondatore della massoneria veneziana nel dopoguerra) per aver chiesto a gran voce, in piazza S. Marco, l'inno di Garibaldi come segno di sfida all'Austria. Finita la guerra , negli anni venti, Stringari ( decorato del 15-18) ebbe nottetempo la visita della polizia che voleva indagare sui documenti in possesso di un pericoloso nemico del fascismo e quindi si un nemico della patria ed in casa del pericoloso sovverisvo furono trovate le medaglie alleate e le fraterne lettere di Nazario Sauro. Ma i Stringari, i Rossi, i Salvemini, i Trentin, i Parri, i Rosselli, ricordavano agli italiani che gli eredi del risorgimento e dell'interventismo democratico erano dalla parte opposta a quella del fascismo e . pertanto, più pericolosi di anarchici e comunisti.l

Cyrus
11-05-09, 21:52
ma Nathan , CavaLlotti, Valiani , fino a che punto possono essere collegati al partito radicale e quanto ad una più ampia "scuola democratica"? Il partito radicale dell'ottocento non si considerava sinistra liberale , ma componente della sinostra democratyica, molti di esi eranpo di formazione ,mazziniana, cattanana, ed ex garibaldini. Quanto al sindaco di Roma i suoi collegamenti col mazzinianesimo e col pensero democratico in genere sono sempre stati riconosciuti. Il problema oltre che storico è attuale Il partito radicale in che misura è riuscito a creare una cultura a cavallo tra liberalesimo e dimocrazia ed in che misura questo tentativo è costato alla democrazia italiana questa lungamente rimandata e non ancora risolta scelta della scuola democratica come principale riferimento per la sua azione politica?
beh, sicuramente nathan e cavallotti, che però possono essere definiti dei proto-radicali. nathan era sicuramente vicino al pensiero di mazzini. non capisco invece cosa vuoi dire sui radicali di oggi. dovrebbero creare, e in buona parte lo hanno fatto, una cultura a cavallo fra liberalismo liberismo e liberalsocialismo sicuramente democratico, non una "a cavallo fra liberalesimo e democrazia". questa è la mia opinione.

Cyrus
11-05-09, 21:55
Si, è una giusta osservazione. Una osservazione analoga la si potrebbe fare anche per Cesare Battisti.

Giusta l'osservazione che la tradizione radicale era la stessa di quel filone democratico/socialista/repubblicano postrisorgimentale. Come è anche giusto che da quella tradiione si originò il primo Partito radicale di Felice Cavalloti e quello del 1955 orto dalla scissione a sinistra del PLI.

Interessantissima intervista di Radio Radicale allo storico Cesare Biguzzi sul suo libro sull'irridentista trentino Cesare Battisti, impiccato dagli austriaci nel 1916.

Il libro ci svela un ritratto misconosciuto di Cesare Battisti, al di là della retorica fascista e nazionalista.

Esce fuori il vero carattere socialista e anticlericale di Cesare Battisti, contrapposto al cattolicesimo filoaustriaco e antisemita di cui Alcide De Gasperi fu massimo rappresentante in trentino.

Interessante anche il ritratto di Alcide De Gasperi antisemita, che appoggiò le leggi antisemite del nazismo in Austria.

Chi ha a disposizione Real Player può ascoltare direttamente da questo link l'intervista: http://www.radioradicale.it/scheda/262848/...stefano-biguzzi

sia nathan che valiani sono sempre stati compresi nella storia del pensiero radicale, anticipatrice del partito nato negli cinquanta, proprio sulla scorta di quei pensatori e di quella filosofia politica. interessante riferimento a cesare battisti, posterò a breve qualcosa su di lui.

Cyrus
11-05-09, 21:57
Ernesto Rossi (Caserta, 25 agosto 1897 – Roma, 9 febbraio 1967) è stato un politico, giornalista e antifascista italiano che ha operato nell'ambito del Partito d'Azione e del successivo Partito Radicale.

Con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni è, in Italia, il massimo promotore dell'Europeismo. Il Manifesto di Ventotene, di cui condivise la stesura con Spinelli e che fu pubblicato e curato da Colorni, è il suo libro più importante e il suo testamento morale.
Indice
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* 1 Biografia
* 2 La morte di Ernesto Rossi
* 3 L'anticlericalismo di Ernesto Rossi
* 4 Azione laicista e pensiero anticlericale. Ernesto Rossi: Il Sillabo e dopo
* 5 L'elaborazione federalista di Rossi e Spinelli: il Manifesto di Ventotene[9]
* 6 Contro il capitalismo inquinato e i parassitismi monopolistici
o 6.1 La questione "Federconsorzi"
* 7 Il “Mondo” di Ernesto Rossi
* 8 Note
* 9 Fonti
* 10 Bibliografia
o 10.1 Opere di Ernesto Rossi
o 10.2 Bibliografia su Ernesto Rossi
o 10.3 Recenti pubblicazioni e ri-pubblicazioni
* 11 Collegamenti esterni
o 11.1 Testi di Ernesto Rossi
o 11.2 Biografia di Ernesto Rossi
o 11.3 Altri siti
o 11.4 Per non dimenticare

Biografia [modifica]

Non ancora diciannovenne partecipò volontario alla prima guerra mondiale. Nel dopoguerra, mosso dalla opposizione all'atteggiamento dei socialisti di ostilità nei confronti dei reduci e dei loro sacrifici e dal disprezzo della classe politica incapace di slanci ideali, si avvicinò ai nazionalisti del "Popolo d'Italia" diretto da Benito Mussolini, giornale con il quale collaborò dal 1919 al 1922.

In quel periodo però conobbe Gaetano Salvemini con il quale iniziò un lungo legame di stima e di amicizia e si allontanò definitivamente e radicalmente dalle posizioni che lo stavano portando all'ideologia fascista.

A Salvemini, Ernesto Rossi si legò fin da subito e il vincolo dell'amicizia, oltre che dall'ammirazione e dall'affetto, venne ben presto cementato dalla piena intesa intellettuale. "Se non avessi incontrato sulla mia strada" - scrisse Ernesto Rossi - al momento giusto Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialità dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci da combattimento".

Da allora, il suo percorso non ebbe deviazioni né perplessità. Vibrò sempre una certezza affermativa nelle sue opere, e tutto - l'intrepida moralità, la causticità sibilante, l'astuzia affilata - tutto, proprio tutto, venne posto al servizio di questa certezza, che poi era la consapevolezza di dover difendere comunque e ad ogni costo la libertà.

Nel 1925 con il gruppo dei salveminiani (Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli) dà vita al giornale clandestino "Non Mollare". Da questo deriva l'implacabile determinazione con cui si oppose il regime fascista. Fu dirigente, insieme con Riccardo Bauer, dell'organizzazione interna di "Giustizia e Libertà", e quindi pagò la sua intransigente attività antifascista con venti anni di carcere, inflittigli dal Tribunale Speciale, dei quali nove furono scontati nelle "patrie galere" e gli altri quattro al confino nell'isola di Ventotene. Qua, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni maturò più compiutamente quelle idee federalistiche che nel 1941 ricevettero il loro suggello nel famoso Manifesto di Ventotene.

Dopo la Liberazione, come rappresentante del Partito d'Azione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell'ARAR (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958.

Dopo che fu sciolto il Partito d'Azione aderì al Partito Radicale guidato da Pannunzio e da Villabruna nel quale, sentendosi come "un cane in chiesa" (sono parole sue), rifiutò incarichi di direzione anche perché preferì dedicarsi alla scrittura di libri e al giornalismo d'inchiesta su "Mondo".

La collaborazione al "Mondo", iniziata sotto i migliori auspici nel 1949 (quando Mario Pannunzio, proprio lui, il direttore dalla vigilanza occhiuta e minuziosa, gli promise che i suoi articoli li avrebbe letti "solo dopo pubblicati"), la collaborazione al "Mondo", dicevamo, iniziata nel 1949, continuò ininterrotta per tredici anni, fino al 1962.

Fu la stagione d'oro di Ernesto Rossi, durante la quale egli poté assecondare il genio profondo che lo agitava dentro, quello che lo traeva a tirare per il bavero anche le barbe più venerande, denunciandone le malefatte, irridendone le asinerie, sbugiardandone le falsità.

I suoi articoli migliori Ernesto Rossi li raccolse in volumi dai titoli famosissimi, così famosi da diventare patrimonio della lingua comune. Due per tutti: I padroni del vapore (Bari, 1956) e Aria fritta (Bari, 1955). Dal 1962 in avanti svolse la sua attività di pubblicista su "L'Astrolabio" di Ferruccio Parri. Nel 1966, quando la strada della sua vita andava ormai discendendo, gli fu conferito il premio "Francesco Saverio Nitti", che molto lo confortò e, in parte, lo ripagò di un'esistenza scontrosa che gli era stata assai avara di riconoscimenti accademici.

La morte di Ernesto Rossi [modifica]

Il 9 febbraio 1967 moriva Ernesto Rossi. «Ernesto - racconta Marco Pannella - era stato operato nei giorni precedenti. L'avevo visto il 7, e lui, che era sarcastico verso chi non credeva all'Anno anticlericale che avevamo lanciato, era allegro perché un'infermiera gli aveva detto: "Bè, se lei presiede questa cosa, verrò anch'io all'Adriano". Ernesto, abituato come eravamo spesso noi radicali al Ridotto dell'Eliseo, aveva soggiunto: "L'ho detto anche a Ada: ma vuoi vedere che questa volta quel matto di Pannella ha avuto ragione!". L'operazione era andata benissimo, il medico era Valdoni, tuttavia le conseguenze non furono controllate e all'improvviso Ernesto se ne andò. Di lì a trentasei ore avrebbe dovuto presiedere una prima grande manifestazione della religiosità anticlericale, della religione della libertà di tutti i credenti».

Qualche mese prima aveva scritto, in una lettera a Riccardo Bauer, parole presaghe che vibrano di un'accensione poetica: "se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finché il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe". E ancora: "Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre sembrata una funzione naturale, inspiegabile com'è inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po' prima o un po' dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all'eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della "cattiva morte" ".

L'anticlericalismo di Ernesto Rossi [modifica]

Ernesto Rossi il «democratico ribelle», come lo definisce Giuseppe Armani nel testo dedicato alla sua figura di politico ed intellettuale, ha sempre manifestato un'indole polemica e intransigente, dedito all'invettiva contro i vizi del potere, impegnato nel combattere gli interessi corporativi e clientelari dei “padroni del vapore”, attivo nei confronti dei grandi assetti monopolistici, testimone esemplare di un pensiero laico e liberale che, inevitabilmente, si è esplicitato in un'aperta dichiarazione di anticlericalismo in nome della difesa di un mondo libero dalle costrizioni ideologiche delle gerarchie ecclesiastiche e del regime fascista con cui la chiesa, a partire dagli anni Venti, non mancava d'intessere relazioni.

Nel Manganello e l'aspersorio[1], prende corpo la denuncia di questa forma di collusione tra “l'altare” e il regime fascista antiliberale che con Mussolini si era instaurato al governo: polemica appassionata che investe contemporaneamente, dispiegando lo stesso impegno, e la stessa carica dissacrante, sia il dominio della politica, sia quello della religione e dell'economia. Parimenti ai grandi monopoli dello zucchero e dell'elettricità, e alle forme di regime politico illiberali e antiliberali, l'inclinazione alla conquista di zone d'influenza e di ambiti di potere sempre più vasti e pervasivi si rivela connaturata alla natura coercitiva e dogmatica della chiesa: «Pochi italiani conoscono quale centro di coordinamento e di guida delle forze più reazionarie è il Vaticano, e quale fattore di corruzione esso costituisce nella nostra vita pubblica [...] con l'insegnamento della cieca obbedienza ai governanti, comunque delinquenti e in qualsiasi modo arrivati al potere, purché prestino l'ossequio dovuto al Santo Padre. [...]. Approfondendo l'argomento, oggi mi sono dovuto convincere che la soluzione di tutti i problemi – anche di quelli che riteniamo più spiccatamente economici e tecnici- dalla convivenza civile, è in funzione del modo in cui si riesce a risolvere il problema della libertà di coscienza, cioè del modo in cui vengono regolati i rapporti tra lo Stato e la Chiesa»[2].

L'indignazione di Rossi nei confronti della chiesa, e segnatamente della pretesa di espandere capillarmente il suo controllo sulla società, raggiunge il suo apice nel momento in cui si trova ad analizzare la natura ancipite del rapporto di Mussolini con il potere ecclesiastico: ateo e “sboccatamente” anticlericale, avverso ai valori diffusi dal cattolicesimo sin dalle prime prese di posizione giovanili, si dimostrerà – a partire dalla seconda metà degli anni Venti, con la firma l'11 febbraio 1929 dei Patti Lateranensi – un fervido e ossequioso sostenitore della politica del Vaticano, tanto da guadagnarsi l'appellativo di “Uomo della Provvidenza”, confermando, da un lato, l’intenzione esclusivamente strumentale che Mussolini aveva circa l’uso del potere, e dall’altro lato, l’oblio della chiesa riguardo i trascorsi ateo-socialisti del duce non fanno che ribadire il disegno politico del Vaticano perseguito attraverso calcoli macchinosi e continui regolamenti di conti.
Per disegnare correttamente la parabola intellettuale di Ernesto Rossi, non bisogna però trascurare le oscillazioni che si avvertono nelle sue prese di posizione nei primi anni venti con l’avvento del fascismo: Rossi dal 29 marzo 1919, al 29 novembre 1922 collabora con "Il Popolo d'Italia". In questo periodo di collaborazione al quotidiano Rossi si attesta su posizioni antisocialiste per ragioni che esulano dalle riflessioni teoriche sul marxismo, riguardando piuttosto il disprezzo manifestato dai socialisti nei confronti degli ufficiali reduci di guerra, che «offendevano la memoria dei nostri morti e sputavano sui nostri sacrifici» – Rossi, il “non interventista intervenuto”[3], arriva sulla linea del basso Isonzo nell’ottobre del 1916 e dovranno trascorrere più di due anni prima che egli possa prendere congedo dagli orrori della guerra - . Ma, poco prima della marcia su Roma, Rossi cambia decisamente fronte: intensifica il suo rapporto epistolare con Gaetano Salvemini, “padre intellettuale” del giovane Rossi e, nel novembre 1922, propone di pubblicare i suoi articoli a Piero Gobetti su «La Rivoluzione liberale», recidendo drasticamente con gli ambienti filofascisti. Sarà egli stesso a riconoscere la portata salvifica dell’incontro con Salvemini: «Se non avessi incontrato sulla mia strada, al momento giusto, Gaetano Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti delle passioni suscitate dalle bestialità dei socialisti e dalle menzogne della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch’io nel fascismo»[4]. E, a proposito dei sui debiti intellettuali, riconosce di essere approdato ad una maggiore consapevolezza circa l’effettiva realizzazione di nuove forme di giustizia sociale, nel corso delle sue discussioni con Salvemini sulla chiarezza e il rigore logico del metodo scientifico di Pareto (autore a cui Rossi aveva dedicato i suoi studi giovanili di filosofia del diritto, nonché la sua tesi di laurea: “l’evoluzione sociale secondo Pareto”).

L'impegno intellettuale di Rossi nella lotta contro l'oscurantismo e gli abusi del clero affonda le sue radici in una delle idee guida del Risorgimento italiano: "libera Chiesa in libero Stato". La questione della conflittualità dei rapporti tra la Santa Sede, con la sua pretesa di conservare il potere temporale, e il ceto dirigente liberale italiano si era posta fin dai tempi di Cavour e Mazzini, assumendo i toni di un contrasto ideologico tra la volontà di modernizzare il Paese e il bisogno di mantenersi nella tradizione, tra i processi d'innovazione politica e le "clericali" battute d'arresto. Secondo Rossi, la porzione di libertà e autonomia guadagnata dallo stato laico attraverso le lotte risorgimentali, culminate il 20 settembre 1870, si dissolve l' 11 febbraio 1929, giorno infausto, in cui la società civile perdeva le speranze di potersi definitivamente affrancare dal potere della Chiesa.

Azione laicista e pensiero anticlericale. Ernesto Rossi: Il Sillabo e dopo [modifica]

L'atteggiamento assunto da Rossi di schietto anticlericalismo e di rigoroso attaccamento etico alla norma nella gestione di uno stato che voleva essere riconosciuto liberale, democratico e antiprotezionista, lo spinsero inevitabilmente verso un “isolamento” radicale nei confronti dei benpensanti di tutti i partiti – dal partito liberale a quello comunista –[5] , che consideravano scomodo «fuori dal senso della storia» e oltremodo pessimista il suo atteggiamento polemico e il suo carattere “eccentrico”. Questa scelta di campo, che illuminava l’“integrità” del suo pensiero liberale, ovviamente, da parte del regime fascista non poteva non dimostrarsi insidiosa ed ingombrante. Così Rossi, nel maggio 1940 dal confino di Ventotene, luogo del suo isolamento effettivo, si rivolgeva alla moglie Ada: « […] È in gioco la vita della civiltà moderna, così come noi la consideriamo. In tutti i modi, però, non bisogna mai lasciarsi prendere dall’angoscia e dalla disperazione. Io sono forse più pessimista di te rispetto all’immediato futuro, ma so che la storia è una rappresentazione che continua oltre le nostre vite […] Per mio conto non mi sono mai preoccupato di sembrare straniero nel mio paese, o “superato” rispetto ai miei contemporanei. Non ho bisogno di trovare negli avvenimenti delle prove di bontà delle mie convinzioni. Mi basta la mia coscienza e il debole lume della mia ragione»[6].

Nella rilettura del Sillabo di papa Pio IX, promulgato nel 1864 assieme all’enciclica Quanta Cura che denunciava gli “errori del secolo” e le “nefande macchinazioni di uomini iniqui”, Rossi dà voce alle sue idee anticlericali in modo da difendere la causa della laicità attraverso un metodo rigoroso e puntualmente documentato: compiendo un uso sapiente di citazioni testuali tratte da documenti vaticani, encicliche, lettere pastorali, allocuzioni, giunge alla confutazione delle tesi della chiesa circa la libertà di stampa e d’insegnamento, dei rapporti tra poteri civili ed ecclesiastici e tutto il resto delle dinamiche di potere che costituiscono il fulcro della società contemporanea; sono il pontefice e la chiesa stessa a parlare di sé, della propria realtà attraverso i documenti da loro stessi promulgati: « Questo è un libro anticlericale. La sua singolarità consiste soltanto nel fatto che non è stato scritto da un anticlericale, ma dagli otto pontefici che si sono succeduti, durante l’ultimo secolo, sulla “cattedra di S. Pietro”: Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI»[7].

Questa forma di anticlericalismo di Rossi non degenera mai in un atteggiamento irrispettoso o addirittura blasfemo nei confronti della religione, non indulge mai alle offese o al dileggio nei confronti dei credenti, ma si concentra esclusivamente sui privilegi e la corruzione della chiesa e del papato. Soffermandosi sul significato attribuito dalla Chiesa, e in modo specifico da Pio X nel 1909 e da Pio XI nell’enciclica Quas primas del 1925, al precetto evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di , dimostra come la chiesa perverta l’originale messaggio del Vangelo affermando la necessità di sottoporre alla Chiesa e all’ufficio assegnatole da Dio, tanto l’ordine sociale, quanto quello economico: « Quel che è di Dio, dunque, è della Chiesa perché la Chiesa è il corpo mistico di Gesù, e quel che è di Cesare è pure della Chiesa perché l’uomo è una creatura di Dio e, fine ultimo dello Stato, deve essere quello di far osservare la legge di Dio per condurre gi uomini alla beatitudine eterna»[8]. Come si può notare da questo passo tratto dal Sillabo e dopo, ciò che Rossi mira a denunciare è la volontà della Chiesa di accrescere sempre più la sua ricchezza, di attestarsi come una tra le maggiori potenze finanziarie, e di investire i suoi capitali nei titoli delle imprese più rilevanti (gruppi monopolistici minerari e saccariferi, società concessionarie di sevizi pubblici ecc.). Rossi non manca di sottolineare il legami della Chiesa con il fascismo sotto il profilo delle reciproche concessioni economiche; uno dei primi provvedimenti con i quali, a seguito della “marcia su Roma”, Mussolini si assicurò l’appoggio della Santa Sede fu il decreto del dicembre 1922 che abolì la legge sulla nominatività obbligatoria dei titoli; provvedimento che permetteva alla chiesa di sfuggire più facilmente al controllo pubblico e di evadere il sistema della imposte.

L'elaborazione federalista di Rossi e Spinelli: il Manifesto di Ventotene[9] [modifica]

Il Manifesto di Ventotene, viene scritto da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel 1941 quando si trovano confinati nell'isola di Ventotene. Il Manifesto circola prima in forma ciclostilata e successivamente viene pubblicato clandestinamente a Roma nel gennaio 1944, il volume viene prima intitolato Problemi della federazione europea, reca le sigle A.S. (Altiero Spinelli), E.R. (Ernesto Rossi) ed è curato e prefato da Eugenio Colorni. Grazie alla corrispondenza tra Rossi e Luigi Einaudi, era pervenuta a Ventotene una vera e propria letteratura federalista sconosciuta alla gran parte della cultura politica italiana. L’idea di guardare al modello statunitense nell’elaborazione di un progetto federalista per l’Europa si nutre, in gran parte, di questa apertura di orizzonti dal punto di vista teorico, ma il grande passaggio compiuto nel Manifesto è il passaggio ad un vero e proprio programma d’azione che, mettendo in luce la crisi dello stato nazionale, permettesse di ripensare l’assetto geopolitico internazionale. Nella prefazione Eugenio Colorni afferma: «Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes»[10]. Attribuendo, dunque, come causa prima dell’imperialismo e delle guerre mondiali la teoria della ragion di stato e l’esercizio della sovranità statale, il Manifesto e la sua visione politica federalista, irrompe in modo del tutto alternativo sullo scenario rappresentato dal sistema degli stati nazionali, auspicando una strategia politica-economica completamente autonoma e innovativa rispetto ai precedenti assetti. In primo luogo il Manifesto pone con urgenza la prerogativa di realizzare una Federazione europea: obiettivo nient'affatto utopico considerando la crisi post-bellica dello stato nazionale e, anzi, la realizzazione di questa prima tappa non dovrà essere che il preludio ad una Federazione mondiale di stati. Problema prioritario di questo nuovo ordinamento internazionale sarà quello di oltrepassare l’anarchia internazionale nell’ambito della risoluzione dei conflitti, di frenare l’impulso di ciascuno stato ad accrescere il proprio potere e prestigio internazionale, evitando in tal modo che la libertà politica e le problematiche istituzionali, sociali ed economiche vengano relegate sullo sfondo privilegiando la sicurezza militare e le spese belliche.
Cadranno, pertanto, tutte le vecchie linee di demarcazione formale tra progressisti e reazionari, tra i fautori dell’istituzione di una minore o maggiore democrazia interna al singolo stato, tra la necessità che questo si costituisca o meno con una solida cultura socialista: la netta divisione sarà marcata da coloro che continueranno a promuovere una forma stantia di lotta politica a sostegno del potere nazionale e, al contrario, coloro che coopereranno per dar vita ad una solida unità internazionale.

Contro il capitalismo inquinato e i parassitismi monopolistici [modifica]

Nei Padroni del vapore Ernesto Rossi, analizza la politica economica e l'atteggiamento di alcuni ambienti industriali prima e durante il fascismo, estendendo a questo periodo critiche ed appunti che aveva elaborato con riferimento alla situazione presente. Quando, nel 1955, Angelo Costa, presidente di Confindustria, scriveva a Ernesto Rossi proponendogli un contraddittorio nel quale si sarebbe fatto il possibile per far conoscere la verità sull'industria italiana all'opinione pubblica, Rossi accettando di buon grado, offrì la possibilità di dare origine ad un dibattito pubblico di fondamentale importanza per comprendere l'attualità e le istanze principali del suo pensiero liberista, contraddistinto da una netta avversione nei confronti di taluni assetti monopolistici, di cartelli privati, dei consorzi autarchici e di tutti quei meccanismi di potere tesi ad "inquinare" il capitalismo e a svolgere un ruolo di consolidamento nei confronti dei regimi autoritari che tendenzialmente sono volti a fiancheggiare. Il tema del dibattito con Costa aveva come titolo "gli industriali italiani", ossia i Padroni del vapore, i grandi capitani dell'industria italiana e tutti coloro che hanno come diretto referente la Confindustria.

Rossi, criticando il capitalismo nelle forme “statalizzate” che ha assunto in Italia, non manca di manifestare il suo entusiasmo per il capitalismo americano dove la situazione concorrenziale non attende aiuti statali e s’indirizza verso un cammino indipendente da quello del potere politico. L’altro bersaglio polemico di Rossi, indagato nella sezione dedicata alla Critica del sindacalismo, è il sindacato monopolistico e tutti gli assetti di potere in mano alle leghe sindacali, che rendono invasivo il ruolo di controllo dello stato e compromettono la libera formazione dei prezzi sul mercato. La polemica liberale contro il capitalismo è dunque volta a porre sia dei limiti ad uno sfrenato laissez faire che non interviene a ricucire le falle e le inefficienze generate dal mercato, sia a frenare gli interventi diretti di assistenza e l’estensione del lavoro sindacalizzato. La pars costruens della sua Critica alle costituzioni economiche si propone come obbiettivo quello di Abolire la miseria: imponendo delle riforme di fondamentale importanza – riforma agraria, terra a chi la coltiva – ed estendendo servizi pubblici e bisogni essenziali – cibo, alloggio, istruzione, assistenza sanitaria – a tutte le categorie sociali, la “striscia” delle miseria tenderebbe ad accorciarsi, rendendo meno eclatanti talune storture del capitalismo. Secondo Eugenio Scalfari, nella prefazione di Capitalismo inquinato, la posizione di Rossi sul capitalismo italiano coincideva in almeno sei punti con quella dei liberali sinistra: « Il libero mercato non è uno stato di natura, la libera concorrenza e la libertà di accesso al mercato sono situazioni perennemente a rischio, che debbono essere create e mantenute da apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e sanzione. L’economia mista, si risolve di fatto in una privatizzazione dei profitti e in una pubblicizzazione delle perdite[…] favorendo il diffondersi nel sistema di un elevato grado di corruttela»[11].

Se, dunque, la genesi del capitalismo italiano a causa di una ristrettezza iniziale di capitali e della mancata compattezza di sviluppo tra nord e sud, è riconducibile alla dipendenza e alla protezione di gruppi bancari, industriali e politici, inevitabilmente le caratteristiche del suo sistema sono sempre state la difficile concorrenza, la mancanza di regole di controllo, lo sviluppo massiccio di cartelli e monopoli. Esclusivamente un’azione di netta discontinuità con la politica delle partecipazioni statali e del protezionismo doganale può, secondo Rossi, riformare e restituire trasparenza all’intero sistema. Dunque applicare il settimo comandamento: non rubare. Questa è l’esortazione che Rossi rivolge al presidente di Confindustria Costa e agli imprenditori italiani. « Ma io non mi sono mai preoccupato che gli industriali guadagnassero troppo; mi sono preoccupato che rubassero troppo; e, mettendo in luce questa consuetudine di alcuni di loro, ho sempre creduto di scrivere in difesa del bene comune». Gli strali lanciati da Rossi contro la corruzione del sistema capitalista sono indirizzati non alla pretesa di aumento del profitto degli industriali, quanto piuttosto alle licenze, alle concessioni esclusive, ai favoritismi messi in atto dall’imprenditoria nel finanziamento dei giornali, dei partiti politici, delle campagne elettorali, consentendo a uomini di loro fiducia d'inserirsi nei gangli vitali delle istituzioni. Per poter cogliere l'autentico contributo politico-culturale fornito da Ernesto Rossi attraverso le sue riflessioni sulla situazione economica italiana, non è necessario interrogarsi se vi fu da parte sua una netta scelta di campo tra socialismo e liberalismo, bisogna piuttosto individuare il bersaglio polemico delle sue critiche: da un lato il regime individualistico che garantisce la proprietà privata su gran parte degli strumenti materiali di produzione, incurante della miseria diffusa in larghi strati della popolazione; dall'altro lato le sue critiche si rivolgono al monopolio statale di tutti i mezzi di produzione, alla burocratizzazione di tutta la vita economica.

Dunque, secondo Rossi, la molla propulsiva dell'economia deve essere rintracciata in un dinamismo economico che permetta di aumentare i mezzi materiali per la soddisfazione dei bisogni umani. Come afferma in Abolire la miseria: « L'eroe di questa grandiosa rivoluzione economica non è il "fedele servitore dello stato" mosso dal senso del dovere. È l'imprenditore, che non ha lo stipendio sicuro alla fine del mese, comunque vadano le cose; [...] è l'imprenditore, che costruisce la sua baracca sempre più avanti, se scopre la possibilità di un nuovo guadagno, dove neppure arriva la tutela della legge». Questo eroe è, dunque, colui che ha avuto l'audacia di avventurarsi in territori ancora inesplorati dai monopoli e che ha segnato le prime tracce di un cammino che ha poi permesso a tutta l'umanità di procedere sicura.

Cyrus
11-05-09, 21:58
La questione "Federconsorzi" [modifica]

Un secondo ambito di attività di Ernesto Rossi nella lotta contro i monopoli parassitari fu la questione della Federconsorzi, ente statale che aveva ereditato dalla gestione ammassi, esercitata dal regime fascista durante la "battaglia del grano", e dal successivo periodo del tesseramento annonario, una struttura molto efficiente per l'importazione, lo stoccaggio e la distribuzione del grano.

Ernesto Rossi denunciò con fermezza che sotto la gestione di Bonomi questa stessa struttura era diventata una "macchina" per gestire il consenso delle campagne a favore di precise correnti della Democrazia Cristiana. La gestione ammassi lasciava, sempre a parere di Rossi, margini spropositati, a carico dei contribuenti e che erano impiegati per operazioni di corruzione politica.

Significativi in questo senso i titoli dei volumi pubblicati sull'argomento: La Federconsorzi e lo Stato e Viaggio nel feudo di Bonomi.

Il “Mondo” di Ernesto Rossi [modifica]

Attraverso la rivista «Il Mondo» è possibile offrire uno spaccato della prima repubblica compreso in un arco di tempo che si estende dal 1949 al 1966. «Il Mondo», come ricorda Antonio Cardini, «consente di osservare attraverso una privilegiata fonte un periodo di cui raccoglie e descrive come documenti le tensioni sociali, gli slanci economici, le istanze culturali, gli equilibri politici, gli sviluppi ideologici, le carenze istituzionali, le vicende di cronaca e di costume»[12].

Nel corso della sua attività di polemista ed intellettuale, Ernesto Rossi partecipa numerose testate giornalistiche – «L’Italia Libera», «L'Italia Socialista», «Corriere della sera», «La Stampa», «Il Giorno» - ma, il suo nome resterà indissolubilmente legato al «Il Mondo», diretto e fondato dall’intellettuale lucchese Mario Pannunzio. Quando nel febbraio 1949 esce il primo numero de «Il Mondo», lo sconcerto di Gaetano Salvemini nei confronti della nuova testata si fa presto sentire. Ancora esule in America scriverà a questo proposito a Rossi: «Temo che parteciperemo ad una nuova mistificazione, destinata a impedire il coagularsi di qualunque primo nucleo intorno a cui possa cristallizzarsi un movimento di sinistra non solo indipendente dai comunisti, ma anche e soprattutto ostile ai liberali di destra». Rossi prontamente replicherà: «La direttiva generale de «Il Mondo» è quella “terza forza”, né comunista, né repubblicana; presa di posizione ben netta contro il fascismo e la monarchia, critica nei confronti dei privilegi, delle camorre e degli sperperi. La nostra collaborazione (Altiero Spinelli, Ignazio Silone, Alessandro Levi, Cesare Musatti) spero riuscirà a dare anche al giornale un contenuto sempre più federalista»[13]. La prima sede del giornale era in via Campo Marzio, solo in seguitosi trasferiranno in via della Colonna Antonina, e gli unici in redazione a possedere una “stanza tutta per sé” sono Rossi e il direttore Mario Pannunzio. Da questo “salotto” privilegiato e separato dagli altri collaboratori Ernesto Rossi, per tredici anni, persegue la sua battaglia di critica costante della realtà presente: dal fascismo alla monarchia, dal monopolio dei “Grandi Baroni” dell’industria al Vaticano «la più grande forza reazionaria esistente in Italia».

Gli “Amici del Mondo” e il Partito Radicale – fondato dalla sinistra liberale nel 1955 – condividono, ad un primo sguardo, un orizzonte comune di problematiche, percorsi e obiettivi politico-sociali. Le istanze di maggior vicinanza sono ravvisabili, in primo luogo, nella necessità di abrogare talune leggi fasciste ancora presenti all’interno della nostra Costituzione, in seguito la realizzazione della Federazione europea, l’approvazione di leggi antitrust, la difesa di una cultura e di un pensiero laico soprattutto all’interno della scuola statale, “l’abolizione della miseria”, l’urgenza di normare gli ambiti relativi al divorzio e al riconoscimento dei figli illegittimi… Nel Taccuino. Il resto è silenzio, apparso nel dicembre 1955 su «Il Mondo», circa la comunione d’intenti tra uomini di salda cultura liberale – come Rossi, Riccardo Bauer, Aldo Garosci - e i “nuovi radicali” - Bruno Villabruna, Mario Pannunzio, Nicolò Carandini, Franco Libonati... – verrà scritto: «Accomunati dal vincolo fraterno delle amare esperienze non rassegnati, non perplessi, si accingono a costituire una nuova larga formazione politica che s’ispiri ad una concezione moderna e civile del liberalismo, a quella concezione che Benedetto Croce ebbe a definire ad una parola radicale [...] In questo campo, i padroni del vapore non troveranno certo mercenari e staffieri pronti a vender le idee per un assegno mensile»[14]. Durante il VII Congresso, svoltosi dal 9 all'11 dicembre 1955 al Palacongressi dell’Eur, gli “Amici del Mondo” – composti da un gruppo di secessionisti del PLI, da una frangia moderata (Villabruna, Olivetti, Carandini, Libonati) e da una parte più progressista che vedeva tra i suoi militanti Mario Pannunzio, Benedetti e Eugenio Scalfari - daranno inizio all’avventura del Partito Radicale. Rossi, in un primo momento, si mostra titubante circa l’adesione al Partito ma, in occasione della prima costituente – 20 gennaio 1956 - sarà egli stesso a cercare di convincere, in ambiente progressista, Giorgio Agosti e Manlio Rossi Doria ad aderire alla nuova iniziativa politica.

Sebbene il Partito Radicale si ponesse come alternativa alle forze politiche tradizionali, intendendo la democrazia in senso laico, socialista e riformista, contribuendo a sbloccare una situazione politica imbrigliata - come sosteneva Nicolò Carandini - tra il timore comunista da una parte e le istanze clericali dall'altra, e dunque mostrando caratteristiche che senza dubbio erano perfettamente aderenti al pensiero di Rossi, il suo atteggiamento iniziale di scarsa risolutezza può essere attribuito all'ostilità che aveva sempre nutrito nei confronti dei partiti politici "mere macchine per fabbricare deputati e senatori". In ogni caso sentiva la necessità di fare tutto ciò che era in suo potere per scalzare via la presenza sempre più invadente del clero all'interno della vita pubblica e di non lasciare ai comunisti questo arduo compito. Decide pertanto di entrare a far parte del Comitato Provvisorio, che avrebbe dato poi vita al Partito Radicale, insieme a Bruno Villabruna, Calogero, Eugenio Scalfari e Leo Valiani, rinunciando però alla proposta di entrare nella direzione del partito, affermando di provare disgusto nei confronti dei congressi e delle assemblee di partito. Contribuì alla stesura dei punti di orientamento del partito con "concretismo salveminiano" imprimendo la sua voglia di rinnovamento democratico del Paese contro le alleanze "clerico-fasciste aperte e mascherate".

La rottura del forte sodalizio tra Rossi e Mario Pannunzio, che si era cementato nel corso della loro reciproca collaborazione a «Il Mondo», avviene nel 1962 – a seguito della scissione interna al Partito fra gli alternativisti, coloro che intendevano costituire la “sinistra radicale” (Gianfranco Spadaccia, Marco Pannella, Roccella, Mellini, Angiolo Bandinelli, Massimo Teodori) e i filo-lamalfiani (Giovanni Ferrara, Stefano Rodotà, Piero Craveri) – lo stesso anno in cui il gruppo degli “Amici del Mondo” si lacera e vede scindersi dal suo interno personalità quali Pannunzio, Carandini e Cattani. A provocare la rottura definiva tra Rossi e Pannunzio fu in modo peculiare il "caso Piccardi". Lo storico Renzo De Felice aveva scoperto nel corso delle sue ricerche sul razzismo in Italia, che Leopoldo Piccardi, in qualità di consigliere di stato, aveva partecipato a due convegni giuridici italo-tedeschi destinati ad essere il luogo dell'elaborazione teorica delle leggi razziali. Mentre Pannunzio e altri “ Amici del Mondo” condannarono irrevocabilmente Leopoldo Piccardi, Rossi, che aveva sulle spalle anni di collaborazione con “l’amico del Mondo”, fu solidale, insieme a Ferruccio Parri, con Piccardi; Parri e Rossi avviano da quel momento un sodalizio intellettuale che li vede collaborare sulle colonne del settimanale "L' Astrolabio".

Gianfranco Spadaccia nel suo ritratto dedicato ad Ernesto Rossi “radicale” ricorda: «Noi, con la guida e la tenace ostinazione di Marco Pannella, invece raccogliemmo l’eredità organizzativa e politica del Partito Radicale ridotto ormai a poche decine di iscritti ma avemmo l’insperato sostegno di Elio Vittorini che accettò di esserne il presidente del consiglio nazionale. Anche con Ernesto ci fu dunque una separazione organizzativa. Il suo scetticismo nei confronti dello strumento partito fu rafforzato dalle vicende traumatiche che il PR aveva subito. Non vi fu mai invece separazione personale e dissenso politico»[15].

Note [modifica]

1. ^ E.Rossi, Il Manganello e l'aspersorio, Bari, Laterza, 1968
2. ^ E.Rossi, Il manganello e l'aspersorio", Bari, Laterza p. 10-11,1968
3. ^ Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi, Einaudi, Torino 1997, p. 19
4. ^ Carteggio Salvemini Rossi 1921-1925. L’amico dei giovani, «Il Mondo», gennaio 1960
5. ^ Cfr. E. Rossi, Pagine Anticlericali, Roma, Samonà e Savelli 1966, p.X.
6. ^ E. Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene 1939-1943, Feltrinelli, Milano 1981, pp.51-52
7. ^ E.Rossi, Il Sillabo e dopo, Kaos Milano 2000, p.17
8. ^ E.Rossi, Il Sillabo e dopo, Kaos Milano 2000, p.36
9. ^ Ernesto Rossi, Altiero Spinelli Manifesto di VentoteneVentotene, 1941
10. ^ L.Levi, Il “Manifesto di Ventotene” fra Rossi e Spinelli, in Lorenzo Strik Lievers, Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, cit., p. 105
11. ^ E. Rossi, Capitalismo Inquinato, a cura di R. Petrini prefazione di E. Scalfari, Laterza Roma-Bari 1993, p. IX
12. ^ A. Cardini, Il partito de «Il Mondo»: liberali, “terza forza”, sinistra democratica, radicali; in I partiti politici nell’Italia repubblicana, a cura di G. Nicolosi, Rubbettino 2006, pp. 313-314
13. ^ Cfr., Giuseppe Fiori, Una Storia italiana, p.247
14. ^ Cfr., Giuseppe Fiori, Una Storia italiana, p.260
15. ^ Gianfranco Spadaccia, Ernesto Rossi, un radicale, in Lorenzo Strik Lievers, Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, cit., p. 178

Fonti [modifica]

* Nello Ajello, Ernesto Rossi. Il sogno europeista di un pazzo malinconico, La Repubblica, 11 gennaio 2007.

* Guido Gentili, Rileggiamo Rossi sugli intrecci politico-economici, Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2007.

* Quando a Ernesto Rossi non piaceva J. F. Kennedy, La Voce Repubblicana, 24 gennaio 2007.

* Pier Vincenzo Uleri, A proposito di commemorazioni, celebrazioni e ricordi di Ernesto Rossi. In riferimento a una lettera di Angiolo Bandinelli…, Notizie Radicali, 12 febbraio 2007.

* Gualtiero Vecellio, Le lettere di Ernesto Rossi, il più politico di tutti, Notizie Radicali, 12 febbraio 2007.

Bibliografia [modifica]

Opere di Ernesto Rossi [modifica]

* Rossi Ernesto (a cura), No al fascismo, Torino 1957
* Rossi Ernesto (a cura), Sillabo, Parenti, Firenze 1957
* Rossi Ernesto, A.De Viti De Marco uomo civile, Laterza, Bari 1948
* Rossi Ernesto, Abolire la miseria, Laterza, Bari 1977
* Rossi Ernesto, Aria fritta, Laterza, Bari 1956
* Rossi Ernesto, Banderillas, Ediz. La Comunita', Milano 1947
* Rossi Ernesto, Borse e borsaioli, Laterza, Bari 1961
* Rossi Ernesto, Capitalismo inquinato (a cura di R.Petrini, prefazione E.Scalfari), Laterza, Bari 1993 [raccolta di alcuni articoli di Rossi su "Il Mondo" gia' pubblicati in: Settimo non rubare, e Il Magoverno.
* Rossi Ernesto, Critica del capitalismo, Ediz. La Comunita', Milano 1948
* Rossi Ernesto, Critica del sindacalismo, La Fiaccola, Milano 1945
* Rossi Ernesto, Critica delle costituzioni economiche, Ediz. La Comunita', Milano 1965
* Rossi Ernesto, Elettricità senza baroni, Laterza, Bari 1962
* Rossi Ernesto, Elogio della galera, lettere dal carcere 1930-1943, Laterza, Bari 1968
* Rossi Ernesto, Guerra e dopoguerra. Lettere (1915-1930). A cura di G. Armani, Nuova Italia, Firenze 1978
* Rossi Ernesto, I nostri quattrini, Laterza, Bari 1964
* Rossi Ernesto, I padroni del vapore, Laterza, Bari 1955
* Rossi Ernesto, Il Malgoverno, Laterza, Bari 1954 [raccolta completa degli articoli apparsi su "Il Mondo" e "Stato Socialista" (1950-1954)]
* Rossi Ernesto, Il manganello e l'aspersorio, Parenti, Firenze 1958 [anche: Laterza, Bari 1968]
* Rossi Ernesto, Il Sillabo e dopo, Editori Riuniti, Roma 1965
* Rossi Ernesto, Io e Garibaldi. A cura di G. Armani, Tecnostampa, Reggio Emilia 1982
* Rossi Ernesto, L'Europa di domani. In: Federazione Europea ...., Firenze 1948
* Rossi Ernesto, L'Europe de demain, Movimento Federalista Europeo, Roma 1948
* Rossi Ernesto, La Federconsorzi e lo Stato, Nuova Italia, Firenze 1963
* Rossi Ernesto, Viaggio nel feudo di Bonomi, Editori Riuniti, Roma 1965
* Rossi Ernesto, La pupilla del Duce, Guanda, Bologna 1956 [l'O.V.R.A.]
* Rossi Ernesto, Lo Stato cinematografaro, Parenti, Firenze 1959
* Rossi Ernesto, Lo stato industriale, Laterza, Bari 1953
* Rossi Ernesto, Miseria e splendori del confino di polizia. Lettere (1939-1949), Feltrinelli, Milano 1981
* Rossi Ernesto, Non mollare, Firenze 1955
* Rossi Ernesto, Padroni del vapore e fascismo, Laterza, Bari 1966
* Rossi Ernesto, Pagine anticlericali, Samonà e Savelli, Roma 1966
* Rossi Ernesto, Salvemini il non conformista, Tecnostampa, Reggio Emilia 1971
* Rossi Ernesto, Settimo: non rubare, Laterza, Bari 1953 [raccolta completa degli articoli apparsi su "Il Mondo" (1949-1952)]
* Rossi Ernesto, Un democratico ribelle. Cospirazione antifascista, carcere, confino. Scritti e testimonianze a cura di G. Armani, Guanda, Parma 1975
* Rossi Ernesto, Viaggio nel feudo di Bonomi, Editori Riuniti, Roma 1965 [Federconsorzi]

Bibliografia su Ernesto Rossi [modifica]

* Gian Paolo Nitti Appunti bio-bibliografici su Ernesto Rossi, in Il movimento di liberazione in Italia, nn.86-87, gennaio-giugno 1967.
* Gaetano Pecora Ernesto Rossi: un maestro di vita e di pensiero, in Uomini della democrazia (ESI, Napoli 1986)
* AA.VV. Ernesto Rossi. Una utopia concreta, a cura di Piero Ignazi (Comunità, Milano 1991); la godibile biografia di Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi (Einaudi, Torino 1997).
* Livio Ghersi, Ernesto Rossi, in "Pratica della libertà", Anno I, numero 4, ottobre-dicembre 1997.
* Giuseppe Fiori, Una storia italiana - Vita di Ernesto Rossi -, Einaudi Torino 1997

Recenti pubblicazioni e ri-pubblicazioni [modifica]

* «Ernesto Rossi, Nove anni sono molti – Lettere dal carcere 1930-39», Torino, Bollati e Boringhieri, 2001, nuova edizione delle lettere dal carcere. [Un altro epistolario era stato curato da Manlio Magini e pubblicato dalla casa editrice Laterza con un titolo che è certamente caro ai meno giovani come chi scrive «Elogio della galera – Lettere 1930/1943», Bari, 1968.]
* «Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini, Dall'esilio alla Repubblica – Lettere 1944-1957», Torino, Bollati e Boringhieri, 2004.
* «"Non Mollare" (1925) – Riproduzione fotografica – Con saggi di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei», Torino, Bollati e Boringhieri, 2005 (la prima edizione era stata pubblicata a Firenze da La Nuova Italia).
* «Ernesto Rossi, Una spia del regime», Torino, Bollati e Boringhieri, 2000.
* «Ernesto Rossi, Il manganello e l'aspersorio, Milano, Kaos, 2000.
* «Ernesto Rossi, Nuove pagine anticlericali, Milano, Kaos, 2002.
* «Ernesto Rossi, Settimo: non rubare; Milano : Kaos, 2002.

* Antonella Braga, «Un federalista giacobino – Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d'Europa», Bologna, il Mulino, 2007.
* Simonetta Michelotti, « Ernesto Rossi contro il clericalismo. Una battaglia per la democrazia liberale», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.
* Giuseppe Armani, La forza di non mollare: Ernesto Rossi dalla grande guerra a Giustizia e libertà, Milano, Franco Angeli, 2004 (presentazione di Arturo Colombo).

Cyrus
11-05-09, 21:59
Ernesto Rossi
Scritto da Michele Lembo

Ernesto Rossi










Ernesto Rossi nasce a Caserta nel 1897.
Ancora ventenne conosce Gaetano Salvemini. Tra i due inizia subito una sincera amicizia che sfocia poi nella collaborazione e nella stima reciproca.
Rossi negli anni del fascismo, dopo un iniziale momento di incertezza, diventa uno dei protagonisti del movimento “Giustizia e Libertà”.
È tra gli organizzatori del gruppo che dà vita al foglio clandestino “Non Mollare!”.
In questa iniziativa è con Carlo e Nello Rosselli e Gaetano Salvamini. La sua attività solleva ben presto le attenzioni del tribunale speciale fascista che lo condanna a venti anni di carcere, di cui nove li sconta in carcere e quattro al confino sull’isola di Ventotene, al largo delle coste del Lazio.
Qui, sull’isola, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni matura compiutamente quelle idee che nel 1941 dovevano ricevere il loro suggello nel Manifesto di Ventotene.
Nel 1943 fonda con Altiero Spinelli il Movimento Federalista Europeo e aderisce in seguito al Partito d’Azione.
Con la Liberazione nel 1945, in rappresentanza del Partito d’Azione, diviene sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell’Arar (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958.
Nel dicembre del 1955 è tra i fondatori del Partito radicale, insieme a Leo Valiani, Guido Calogero, Francesco Compagna, Giovanni Ferrara, Felice Ippolito, Franco Libonati, Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Rosario Romeo, Nina Ruffini, Eugenio Scalfari, Paolo Ungari.
Si dedica contemporaneamente alla ricerca e al giornalismo d’inchiesta sul “Mondo”.
Dal 1962 in avanti svolge la sua attività di pubblicista anche su “L’Astrolabio” di Ferruccio Parri.
Muore il 9 febbraio del 1967, a Roma.
Di lì a pochi giorni avrebbe dovuto presiedere l’iniziativa del Partito Radicale per l’Anno Anticlericale, al Teatro Adriano.

( tratto da Giustizia e Libertà )

Cyrus
11-05-09, 21:59
Due discorsi di Gaetano Salvemini a cura di Ernesto Rossi
Stati Uniti, 6 gennaio 1941 - 01:00
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Grazie al lavoro di Ernesto Rossi fu possibile alla fine degli anni 50 recuperare gli unici due documenti sonori relativi a discorsi di Gaetano Salvemini. Il primo documento (prima parte della registrazione) è un discorso commemorativo che Salvemini tenne nel 1955 su Gobetti. Il secondo documento fu realizzato il 6 gennaio del 1941 negli Stati Uniti: si tratta di un'intervista radiofonica in inglese in cui Salvemini commenta l'ottenimento della cittadinanza americana.
http://www.radioradicale.it/scheda/218130/due-discorsi-di-gaetano-salvemini-a-cura-di-ernesto-rossi

Cyrus
11-05-09, 22:00
[206812] - Un ricordo di Ernesto Rossi - org. dall'Associazione radicale della Campania (c/o sala consiliare del Comune di Caserta)
CASERTA , 16 febbraio 2001 - 00:00
» playlist, Invia a un amico, Stampa
Un ricordo di Ernesto Rossi - org. dall'Associazione radicale della Campania (c/o sala consiliare del Comune di Caserta)
http://www.radioradicale.it/scheda/132689

Cyrus
11-05-09, 22:01
Ernesto Rossi

“Ho insegnato cinque anni all’Istituto non dando molto peso alle pedanterie, ma cercando di insegnare a ragionare e sviluppando il loro senso critico. E questi cinque anni mi erano molto giovati, perché anch’io avevo imparato l’economia più discutendo con gli studenti che sui libri.” - Lettera di Ernesto Rossi dal carcere “AGLI STUDENTI DI BERGAMO”
Le idee politiche e il manifesto di Ventotene

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Ernesto Rossi nacque a Caserta nel 1897. Di ritorno dal fronte, l’ostilità per i socialisti condusse Ernesto Rossi ad accarezzare le stesse speranze e i medesimi obiettivi dei nazionalisti prima e dei fascisti poi. Fu precisamente in quel periodo, tra il 1919 e il 1922, che egli conobbe Gaetano Salvemini a cui Ernesto Rossi si legò fin da subito in un’amicizia basata sulla piena intesa intellettuale, a cominciare dal giudizio via via sempre più spietato sul nascente regime.

Di qui discende l’implacabile determinazione con la quale Rossi combatté la dittatura ricevendo una condanna a venti anni di carcere. A Ventotene, dove dovette scontare la condanna, Ernesto Rossi maturò più compiutamente quelle idee federalistiche che nel 1941 ricevettero il loro suggello nel celebre Manifesto di Ventotene. All’indomani della Liberazione, in rappresentanza del Partito d’Azione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri.

Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione aderì al Partito radicale, di cui però, sentendosi come “un cane in chiesa” (sono parole sue), rifiutò ogni incarico direttivo preferendo dedicarsi al giornalismo di inchiesta sul “Mondo” di Mario Pannunzio.
I rapporti con i gruppi politici

ernesto_rossi_al_lavoro_totaleFu la stagione d’oro di Ernesto Rossi, durante la quale egli assecondò il genio profondo che lo agitava dentro e che lo portava a tirare per il bavero anche le barbe più venerande, denunciandone le malefatte, irridendone le asinerie, sbugiardandone le falsità. Da qui la solitudine che lo accompagnò per tutta la vita. Ernesto Rossi fu un uomo solo ma libero. Non ebbe paura della propria libertà e si avvalse di essa per lanciare i suoi strali di polemista arguto e puntuto nelle più diverse direzioni, in primis verso il cattolicesimo, di cui respingeva l’ideale di una società controllata e ubbidiente, e al quale imputava l’allentamento della fibra morale degli italiani. Inoltre si scagliò contro il comunismo, che egli aborriva per il suo programma economico e al quale rimproverava la stessa religione dei cattolici, sia pure nella versione del marxismo-leninismo. Ma neppure ai liberali e ai socialisti lesinava i suoi taglienti giudizi (sempre suffragati dai fatti e confortati dalle cifre). Dei liberali – del “liberaloni con la tuba”, come li chiamava – denunziava i sofismi con i quali essi tradivano i principi della libertà – anche di quella economica – e accreditavano come collettivi quelli che invece erano asfittici interessi di gruppo. Dei socialisti – di questi “comunisti mal riusciti”, come ebbe a battezzarli – sottolineava causticamente il comportamento ambivalente, sempre combattuto tra l’alternativa: o ci fate ministri o diventiamo rivoluzionari.
Se è vero perciò che Ernesto Rossi distribuiva le sue bastonate a destra a manca, contro il coriaceo antiliberalismo dei cattolici e dei comunisti e quello più subdolo degli imprenditori e dei sindacati, si capisce bene perché fino ad ieri pochi c’erano che fossero interessati al suo lascito intellettuale. Oggi però che le cose sono cambiate e che le idealità liberali sembrano meno remote all’orientamento degli spiriti è lecito attendersi una maggiore attenzione per un pensiero che non è vecchio. Antico sì, magari; ma vecchio no. Non ancora. E che forse mai riuscirà vecchio per chi è sollecito della dignità del suo prossimo, specie se umile e indifeso. Quella stessa sollecitudine, quella medesima ansia di riscatto che fermenta nell’epistolario di Rossi e cioè nell”Elogio della galera” e in “Nove anni sono molti” la cui lettura veramente potrebbe segnare per sempre i giovani e i giovanissimi. In ogni caso, i migliori tra loro.
Su di lui

Ernesto Rossi morì a Roma, il 9 febbraio del 1967. Pochi mesi prima, aveva scritto parole che corrono sulla linea di un pessimismo sereno e distaccato: “se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su se stessi come trottole, finché il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe”. E poi: “Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre sembrata una funzione naturale, inspiegabile com’è inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po’ prima o un po’ dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all’eternità, che non sappiamo neppure immaginare. Ma ho sempre avuto timore della “cattiva morte”.
Sia consentito aggiungere che se la “cattiva morte” è di chi non ha saputo vivere della tranquillità della propria coscienza, è assolutamente da escludere che la morte possa essere stata “cattiva” con Ernesto Rossi.

(Gaetano Pecora)

Cyrus
11-05-09, 22:04
ERNESTO ROSSI NEL PAESE DEI MANEGGIONI

Repubblica — 25 settembre 1997 pagina 35 sezione: CULTURA
Roma Un guastafeste, la buonanima di Ernesto Rossi. Lo fu in vita, con quella sua intransigenza sarcastica e la congenita incapacità di marciare "intruppato" con chicchessia; e lo è adesso, a trent' anni dalla morte. Uscendo dall' ombra in cui era stato ingiustamente relegato, il suo fantasma riprende prepotentemente la scena e continua a sprizzare scintille, a scatenare polemiche che, si badi bene, hanno a che fare con l' oggi, mica con il Passato e i bei tempi andati. E' bastato che uscisse la bella biografia di Giuseppe Fiori, Una storia italiana, già recensita su queste pagine da Nello Ajello, perché Ernesto Galli Della Loggia annusasse nello slogan adottato dalla Einaudi per lanciare il libro, "Vita di un liberale onesto", la puzza dello stalinismo mai sopito della sinistra italiana. Se poi, per presentare il libro di Fiori, come è successo ieri a Roma, si riuniscono attorno a un tavolo Innocenzo Cipolletta, Giorgio Napolitano, Paolo Sylos Labini, Eugenio Scalfari e Giuliano Urbani, è inevitabile che il tema del liberalismo di ieri e di oggi sia al centro della riflessione, che ci si scambi colpi di fioretto e perfino qualche "affondo" sull' eredità tradita di Ernesto Rossi e del gruppo che finì per riunirsi attorno al Mondo di Mario Pannunzio.
Battitore libero, solitario, irregolare. Ernesto Rossi fu certamente un pensatore e un uomo d' azione anomalo, poco inquadrabile in schemi. Perciò ognuno tira per la giacca il suo pensiero. Cipolletta ne riconosce, sì, la grandezza, ma accusa Rossi di aver "demonizzato la grande impresa", di aver favorito, lui convinto antimonopolista, il monopolio pubblico. Il risultato? Uno scenario, quello dell' Italia degli anni Novanta, che non piacerebbe nemmeno a lui, in cui il sistema produttivo è troppo parcellizzato e il mercato è regolato direttamente dalla presenza dello Stato. Sembra non raccogliere la provocazione, il ministro dell' Interno, Giorgio Napolitano: rievoca i Convegni degli Amici del Mondo, Altiero Spinelli, Giorgio Amendola, i rapporti non sempre felici con il Pci dell' epoca, e poi, all' improvviso conclude invocando la superiorità del liberismo di Rossi sui "raffazzonati, strumentali e massimalisti liberismi dei nostri giorni". Chi ha orecchie per intendere, intenda. Ma Giuliano Urbani non è un "falco", e risponde pacatamente. Nelle contraddizioni di cui Rossi era portatore, l' esponente di Forza Italia vede uno spaccato quasi antropologico delle virtù e dei difetti nazionali, eppure, in quel tipo di liberali, Urbani non riconosce la poliedricità a cui dovrebbe ispirarsi chi si richiama a quella ideologia: "Avevano una sola, una sola faccia, anzi una monomania. Erano loro, i massimalisti". In sala lo sanno tutti che il professor Sylos Labini è un tipo sanguigno, ma lui si dice speranzoso: prima o poi riuscirà a convincere Giuliano Urbani, magari con l' aiuto e l' esempio di Ernesto Rossi, che un vero liberale non può accettare che, al vertice del Polo delle Libertà, ci sia un illiberale come il Cavaliere.
Quelli di allora, sì, che erano liberali doc, appoggiati perfino da Einaudi. Insomma, cosa avrebbe pensato Ernesto Rossi dell' Italia di oggi, lui che in una lettera del 1944 scrisse a Salvemini, il suo vero maestro: "Noi siamo sempre stati fregati dagli 'abili' ". Gli abili, i furbi, i maneggioni che pullulano ancora nel nostro paese.
Era questo il suo vero bersaglio. E fu questa integrità morale e questa inimicizia nei confronti dei privilegi che, per Eugenio Scalfari, riuscì, almeno per un periodo, a tenere insieme lui e Pannunzio, l' ala radicale e quella crociana del liberalismo. "Erano diversissimi, anche nell' esperienza di vita. Pannunzio e gli altri avevano fatto la fronda al fascismo, Rossi e i suoi avevano conosciuto la clandestinità e le galere. I liberali che 'andavano in via Veneto' , attenti al giusto risvolto dei pantaloni, a Rossi davano noia. Eppure, avevano un punto forte in comune: il compromesso, sia pure il più trasparente, non faceva parte dei loro orizzonti. Non accettavano il commercio degli interessi. Erano due mondi, sì, ma erano anche le due metà di una stessa mela. Dove vedevano posizioni di forza cresciute su un qualunque privilegio, attaccavano". Quanto all' antimonopolismo, Scalfari ricorda a Cipolletta le battaglie di cui Rossi e Il mondo furono protagonisti, dall' Antitrust alla Consob alla trasparenza dei bilanci societari.
Battaglie che sono state vinte venti, trenta, a volte anche quarant' anni dopo. "La loro onestà", dice Scalfari, non era soltanto privata, ma faceva parte di una visione etico-politica complessiva che aveva di mira il bene comune. Erano 'anime pure' , anche se oggi sembra ridicolo dirlo". Già, tempi tristi, per le anime pure. Ma Rossi sembrava saperlo. Il suo destino, anche postumo, gli era perfettamente chiaro. Lo scrisse, una volta: "Ai conservatori sembrerò sempre un sovversivo e ai sovversivi un conservatore". - Bruno Arpaia

Cyrus
11-05-09, 22:05
Ernesto Rossi

Ernesto Rossi (Caserta, 25 agosto 1897 - Roma, 9 febbraio 1967) è stato un politico, giornalista e antifascista italiano che ha operato nell'ambito del Partito d'Azione e del successivo Partito Radicale.

Con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni è, in Italia, il massimo promotore dell'Europeismo. Il Manifesto di Ventotene, di cui condivise la stesura con Spinelli e che fu pubblicato e curato da Colorni, è il suo libro più importante e il suo testamento morale.

Indice:
1. Biografia
2. La morte di Ernesto Rossi
3. L' anticlericalismo di Ernesto Rossi
4. Azione laicista e pensiero anticlericale. Ernesto Rossi: Il Sillabo e dopo
5. L'elaborazione federalista di Rossi e Spinelli: il Manifesto di Ventotene [9]
6. Contro il capitalismo inquinato e i parassitismi monopolistici
7. Il “Mondo” di Ernesto Rossi
8. Note
9. Fonti
10. Bibliografia
11. Collegamenti esterni
1. Biografia

Non ancora diciannovenne partecipò volontario alla prima guerra mondiale. Nel dopoguerra, mosso dalla opposizione all'atteggiamento dei socialisti di ostilità nei confronti dei reduci e dei loro sacrifici e dal disprezzo della classe politica incapace di slanci ideali, si avvicinò ai nazionalisti del "Popolo d'Italia" diretto da Benito Mussolini, giornale con il quale collaborò dal 1919 al 1922.

In quel periodo però conobbe Gaetano Salvemini con il quale iniziò un lungo legame di stima e di amicizia e si allontanò definitivamente e radicalmente dalle posizioni che lo stavano portando all'ideologia fascista.

A Salvemini, Ernesto Rossi si legò fin da subito e il vincolo dell'amicizia, oltre che dall'ammirazione e dall'affetto, venne ben presto cementato dalla piena intesa intellettuale. "Se non avessi incontrato sulla mia strada" - scrisse Ernesto Rossi - al momento giusto Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialità dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci da combattimento".

Da allora, il suo percorso non ebbe deviazioni né perplessità. Vibrò sempre una certezza affermativa nelle sue opere, e tutto - l'intrepida moralità, la causticità sibilante, l'astuzia affilata - tutto, proprio tutto, venne posto al servizio di questa certezza, che poi era la consapevolezza di dover difendere comunque e ad ogni costo la libertà.

Nel 1925 con il gruppo dei salveminiani (Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli) dà vita al giornale clandestino "Non Mollare". Da questo deriva l'implacabile determinazione con cui si oppose il regime fascista. Fu dirigente, insieme con Riccardo Bauer, dell'organizzazione interna di "Giustizia e Libertà", e quindi pagò la sua intransigente attività antifascista con venti anni di carcere, inflittigli dal Tribunale Speciale, dei quali nove furono scontati nelle "patrie galere" e gli altri quattro al confino nell'isola di Ventotene. Qua, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni maturò più compiutamente quelle idee federalistiche che nel 1941 ricevettero il loro suggello nel famoso Manifesto di Ventotene.

Dopo la Liberazione, come rappresentante del Partito d'Azione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell'ARAR (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958.

Dopo che fu sciolto il Partito d'Azione aderì al Partito Radicale guidato da Pannunzio e da Villabruna nel quale, sentendosi come "un cane in chiesa" (sono parole sue), rifiutò incarichi di direzione anche perché preferì dedicarsi alla scrittura di libri e al giornalismo d'inchiesta su "Mondo".

La collaborazione al "Mondo", iniziata sotto i migliori auspici nel 1949 (quando Mario Pannunzio, proprio lui, il direttore dalla vigilanza occhiuta e minuziosa, gli promise che i suoi articoli li avrebbe letti "solo dopo pubblicati"), la collaborazione al "Mondo", dicevamo, iniziata nel 1949, continuò ininterrotta per tredici anni, fino al 1962.

Fu la stagione d'oro di Ernesto Rossi, durante la quale egli poté assecondare il genio profondo che lo agitava dentro, quello che lo traeva a tirare per il bavero anche le barbe più venerande, denunciandone le malefatte, irridendone le asinerie, sbugiardandone le falsità.

I suoi articoli migliori Ernesto Rossi li raccolse in volumi dai titoli famosissimi, così famosi da diventare patrimonio della lingua comune. Due per tutti: I padroni del vapore (Bari, 1956) e Aria fritta (Bari, 1955). Dal 1962 in avanti svolse la sua attività di pubblicista su "L'Astrolabio" di Ferruccio Parri. Nel 1966, quando la strada della sua vita andava ormai discendendo, gli fu conferito il premio "Francesco Saverio Nitti", che molto lo confortò e, in parte, lo ripagò di un'esistenza scontrosa che gli era stata assai avara di riconoscimenti accademici.
2. La morte di Ernesto Rossi

Il 9 febbraio 1967 moriva Ernesto Rossi. «Ernesto - racconta Marco Pannella - era stato operato nei giorni precedenti. L'avevo visto il 7, e lui, che era sarcastico verso chi non credeva all'Anno anticlericale che avevamo lanciato, era allegro perché un'infermiera gli aveva detto: "Bè, se lei presiede questa cosa, verrò anch'io all'Adriano". Ernesto, abituato come eravamo spesso noi radicali al Ridotto dell'Eliseo, aveva soggiunto: "L'ho detto anche a Ada: ma vuoi vedere che questa volta quel matto di Pannella ha avuto ragione!". L'operazione era andata benissimo, il medico era Valdoni, tuttavia le conseguenze non furono controllate e all'improvviso Ernesto se ne andò. Di lì a trentasei ore avrebbe dovuto presiedere una prima grande manifestazione della religiosità anticlericale, della religione della libertà di tutti i credenti».

Qualche mese prima aveva scritto, in una lettera a Riccardo Bauer, parole presaghe che vibrano di un'accensione poetica: "se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finché il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe". E ancora: "Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre sembrata una funzione naturale, inspiegabile com'è inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po' prima o un po' dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all'eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della "cattiva morte" ".
3. L' anticlericalismo di Ernesto Rossi

Ernesto Rossi il «democratico ribelle», come lo definisce Giuseppe Armani nel testo dedicato alla sua figura di politico ed intellettuale, ha sempre manifestato un'indole polemica e intransigente, dedito all'invettiva contro i vizi del potere, impegnato nel combattere gli interessi corporativi e clientelari dei “padroni del vapore”, attivo nei confronti dei grandi assetti monopolistici, testimone esemplare di un pensiero laico e liberale che, inevitabilmente, si è esplicitato in un'aperta dichiarazione di anticlericalismo in nome della difesa di un mondo libero dalle costrizioni ideologiche delle gerarchie ecclesiastiche e del regime fascista con cui la chiesa, a partire dagli anni Venti, non mancava d'intessere relazioni.

Nel Manganello e l'aspersorio[1], prende corpo la denuncia di questa forma di collusione tra “l'altare” e il regime fascista antiliberale che con Mussolini si era instaurato al governo: polemica appassionata che investe contemporaneamente, dispiegando lo stesso impegno, e la stessa carica dissacrante, sia il dominio della politica, sia quello della religione e dell'economia. Parimenti ai grandi monopoli dello zucchero e dell'elettricità, e alle forme di regime politico illiberali e antiliberali, l'inclinazione alla conquista di zone d'influenza e di ambiti di potere sempre più vasti e pervasivi si rivela connaturata alla natura coercitiva e dogmatica della chiesa: «Pochi italiani conoscono quale centro di coordinamento e di guida delle forze più reazionarie è il Vaticano, e quale fattore di corruzione esso costituisce nella nostra vita pubblica [...] con l'insegnamento della cieca obbedienza ai governanti, comunque delinquenti e in qualsiasi modo arrivati al potere, purché prestino l'ossequio dovuto al Santo Padre. [...]. Approfondendo l'argomento, oggi mi sono dovuto convincere che la soluzione di tutti i problemi - anche di quelli che riteniamo più spiccatamente economici e tecnici- dalla convivenza civile, è in funzione del modo in cui si riesce a risolvere il problema della libertà di coscienza, cioè del modo in cui vengono regolati i rapporti tra lo Stato e la Chiesa»[2].

L'indignazione di Rossi nei confronti della chiesa, e segnatamente della pretesa di espandere capillarmente il suo controllo sulla società, raggiunge il suo apice nel momento in cui si trova ad analizzare la natura ancipite del rapporto di Mussolini con il potere ecclesiastico: ateo e “sboccatamente” anticlericale, avverso ai valori diffusi dal cattolicesimo sin dalle prime prese di posizione giovanili, si dimostrerà - a partire dalla seconda metà degli anni Venti, con la firma l'11 febbraio 1929 dei Patti Lateranensi - un fervido e ossequioso sostenitore della politica del Vaticano, tanto da guadagnarsi l'appellativo di “Uomo della Provvidenza”, confermando, da un lato, l’intenzione esclusivamente strumentale che Mussolini aveva circa l’uso del potere, e dall’altro lato, l’oblio della chiesa riguardo i trascorsi ateo-socialisti del duce non fanno che ribadire il disegno politico del Vaticano perseguito attraverso calcoli macchinosi e continui regolamenti di conti. Per disegnare correttamente la parabola intellettuale di Ernesto Rossi, non bisogna però trascurare le oscillazioni che si avvertono nelle sue prese di posizione nei primi anni venti con l’avvento del fascismo: Rossi dal 29 marzo 1919, al 29 novembre 1922 collabora con "Il Popolo d'Italia". In questo periodo di collaborazione al quotidiano Rossi si attesta su posizioni antisocialiste per ragioni che esulano dalle riflessioni teoriche sul marxismo, riguardando piuttosto il disprezzo manifestato dai socialisti nei confronti degli ufficiali reduci di guerra, che «offendevano la memoria dei nostri morti e sputavano sui nostri sacrifici» - Rossi, il “non interventista intervenuto”[3], arriva sulla linea del basso Isonzo nell’ottobre del 1916 e dovranno trascorrere più di due anni prima che egli possa prendere congedo dagli orrori della guerra - . Ma, poco prima della marcia su Roma, Rossi cambia decisamente fronte: intensifica il suo rapporto epistolare con Gaetano Salvemini, “padre intellettuale” del giovane Rossi e, nel novembre 1922, propone di pubblicare i suoi articoli a Piero Gobetti su «La Rivoluzione liberale», recidendo drasticamente con gli ambienti filofascisti. Sarà egli stesso a riconoscere la portata salvifica dell’incontro con Salvemini: «Se non avessi incontrato sulla mia strada, al momento giusto, Gaetano Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti delle passioni suscitate dalle bestialità dei socialisti e dalle menzogne della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch’io nel fascismo»[4]. E, a proposito dei sui debiti intellettuali, riconosce di essere approdato ad una maggiore consapevolezza circa l’effettiva realizzazione di nuove forme di giustizia sociale, nel corso delle sue discussioni con Salvemini sulla chiarezza e il rigore logico del metodo scientifico di Pareto (autore a cui Rossi aveva dedicato i suoi studi giovanili di filosofia del diritto, nonché la sua tesi di laurea: “l’evoluzione sociale secondo Pareto”).

L'impegno intellettuale di Rossi nella lotta contro l'oscurantismo e gli abusi del clero affonda le sue radici in una delle idee guida del Risorgimento italiano: "libera Chiesa in libero Stato". La questione della conflittualità dei rapporti tra la Santa Sede, con la sua pretesa di conservare il potere temporale, e il ceto dirigente liberale italiano si era posta fin dai tempi di Cavour e Mazzini, assumendo i toni di un contrasto ideologico tra la volontà di modernizzare il Paese e il bisogno di mantenersi nella tradizione, tra i processi d'innovazione politica e le "clericali" battute d'arresto. Secondo Rossi, la porzione di libertà e autonomia guadagnata dallo stato laico attraverso le lotte risorgimentali, culminate il 20 settembre 1870, si dissolve l' 11 febbraio 1929, giorno infausto, in cui la società civile perdeva le speranze di potersi definitivamente affrancare dal potere della Chiesa.
4. Azione laicista e pensiero anticlericale. Ernesto Rossi: Il Sillabo e dopo

L'atteggiamento assunto da Rossi di schietto anticlericalismo e di rigoroso attaccamento etico alla norma nella gestione di uno stato che voleva essere riconosciuto liberale, democratico e antiprotezionista, lo spinsero inevitabilmente verso un “isolamento” radicale nei confronti dei benpensanti di tutti i partiti - dal partito liberale a quello comunista -[5] , che consideravano scomodo «fuori dal senso della storia» e oltremodo pessimista il suo atteggiamento polemico e il suo carattere “eccentrico”. Questa scelta di campo, che illuminava l’“integrità” del suo pensiero liberale, ovviamente, da parte del regime fascista non poteva non dimostrarsi insidiosa ed ingombrante. Così Rossi, nel maggio 1940 dal confino di Ventotene, luogo del suo isolamento effettivo, si rivolgeva alla moglie Ada: « […] È in gioco la vita della civiltà moderna, così come noi la consideriamo. In tutti i modi, però, non bisogna mai lasciarsi prendere dall’angoscia e dalla disperazione. Io sono forse più pessimista di te rispetto all’immediato futuro, ma so che la storia è una rappresentazione che continua oltre le nostre vite […] Per mio conto non mi sono mai preoccupato di sembrare straniero nel mio paese, o “superato” rispetto ai miei contemporanei. Non ho bisogno di trovare negli avvenimenti delle prove di bontà delle mie convinzioni. Mi basta la mia coscienza e il debole lume della mia ragione»[6].

Nella rilettura del Sillabo di papa Pio IX, promulgato nel 1864 assieme all’enciclica Quanta Cura che denunciava gli “errori del secolo” e le “nefande macchinazioni di uomini iniqui”, Rossi dà voce alle sue idee anticlericali in modo da difendere la causa della laicità attraverso un metodo rigoroso e puntualmente documentato: compiendo un uso sapiente di citazioni testuali tratte da documenti vaticani, encicliche, lettere pastorali, allocuzioni, giunge alla confutazione delle tesi della chiesa circa la libertà di stampa e d’insegnamento, dei rapporti tra poteri civili ed ecclesiastici e tutto il resto delle dinamiche di potere che costituiscono il fulcro della società contemporanea; sono il pontefice e la chiesa stessa a parlare di sé, della propria realtà attraverso i documenti da loro stessi promulgati: « Questo è un libro anticlericale. La sua singolarità consiste soltanto nel fatto che non è stato scritto da un anticlericale, ma dagli otto pontefici che si sono succeduti, durante l’ultimo secolo, sulla “cattedra di S. Pietro”: Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI»[7].

Questa forma di anticlericalismo di Rossi non degenera mai in un atteggiamento irrispettoso o addirittura blasfemo nei confronti della religione, non indulge mai alle offese o al dileggio nei confronti dei credenti, ma si concentra esclusivamente sui privilegi e la corruzione della chiesa e del papato. Soffermandosi sul significato attribuito dalla Chiesa, e in modo specifico da Pio X nel 1909 e da Pio XI nell’enciclica Quas primas del 1925, al precetto evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di , dimostra come la chiesa perverta l’originale messaggio del Vangelo affermando la necessità di sottoporre alla Chiesa e all’ufficio assegnatole da Dio, tanto l’ordine sociale, quanto quello economico: « Quel che è di Dio, dunque, è della Chiesa perché la Chiesa è il corpo mistico di Gesù, e quel che è di Cesare è pure della Chiesa perché l’uomo è una creatura di Dio e, fine ultimo dello Stato, deve essere quello di far osservare la legge di Dio per condurre gi uomini alla beatitudine eterna»[8]. Come si può notare da questo passo tratto dal Sillabo e dopo, ciò che Rossi mira a denunciare è la volontà della Chiesa di accrescere sempre più la sua ricchezza, di attestarsi come una tra le maggiori potenze finanziarie, e di investire i suoi capitali nei titoli delle imprese più rilevanti (gruppi monopolistici minerari e saccariferi, società concessionarie di sevizi pubblici ecc.). Rossi non manca di sottolineare il legami della Chiesa con il fascismo sotto il profilo delle reciproche concessioni economiche; uno dei primi provvedimenti con i quali, a seguito della “marcia su Roma”, Mussolini si assicurò l’appoggio della Santa Sede fu il decreto del dicembre 1922 che abolì la legge sulla nominatività obbligatoria dei titoli; provvedimento che permetteva alla chiesa di sfuggire più facilmente al controllo pubblico e di evadere il sistema della imposte.

Cyrus
11-05-09, 22:05
5. L'elaborazione federalista di Rossi e Spinelli: il Manifesto di Ventotene [9]

Il Manifesto di Ventotene, viene scritto da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel 1941 quando si trovano confinati nell'isola di Ventotene. Il Manifesto circola prima in forma ciclostilata e successivamente viene pubblicato clandestinamente a Roma nel gennaio 1944, il volume viene prima intitolato Problemi della federazione europea, reca le sigle A.S. (Altiero Spinelli), E.R. (Ernesto Rossi) ed è curato e prefato da Eugenio Colorni. Grazie alla corrispondenza tra Rossi e Luigi Einaudi, era pervenuta a Ventotene una vera e propria letteratura federalista sconosciuta alla gran parte della cultura politica italiana. L’idea di guardare al modello statunitense nell’elaborazione di un progetto federalista per l’Europa si nutre, in gran parte, di questa apertura di orizzonti dal punto di vista teorico, ma il grande passaggio compiuto nel Manifesto è il passaggio ad un vero e proprio programma d’azione che, mettendo in luce la crisi dello stato nazionale, permettesse di ripensare l’assetto geopolitico internazionale. Nella prefazione Eugenio Colorni afferma: «Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes»[10]. Attribuendo, dunque, come causa prima dell’imperialismo e delle guerre mondiali la teoria della ragion di stato e l’esercizio della sovranità statale, il Manifesto e la sua visione politica federalista, irrompe in modo del tutto alternativo sullo scenario rappresentato dal sistema degli stati nazionali, auspicando una strategia politica-economica completamente autonoma e innovativa rispetto ai precedenti assetti. In primo luogo il Manifesto pone con urgenza la prerogativa di realizzare una Federazione europea: obiettivo nient'affatto utopico considerando la crisi post-bellica dello stato nazionale e, anzi, la realizzazione di questa prima tappa non dovrà essere che il preludio ad una Federazione mondiale di stati. Problema prioritario di questo nuovo ordinamento internazionale sarà quello di oltrepassare l’anarchia internazionale nell’ambito della risoluzione dei conflitti, di frenare l’impulso di ciascuno stato ad accrescere il proprio potere e prestigio internazionale, evitando in tal modo che la libertà politica e le problematiche istituzionali, sociali ed economiche vengano relegate sullo sfondo privilegiando la sicurezza militare e le spese belliche. Cadranno, pertanto, tutte le vecchie linee di demarcazione formale tra progressisti e reazionari, tra i fautori dell’istituzione di una minore o maggiore democrazia interna al singolo stato, tra la necessità che questo si costituisca o meno con una solida cultura socialista: la netta divisione sarà marcata da coloro che continueranno a promuovere una forma stantia di lotta politica a sostegno del potere nazionale e, al contrario, coloro che coopereranno per dar vita ad una solida unità internazionale.
6. Contro il capitalismo inquinato e i parassitismi monopolistici

Nei Padroni del vapore Ernesto Rossi, analizza la politica economica e l'atteggiamento di alcuni ambienti industriali prima e durante il fascismo, estendendo a questo periodo critiche ed appunti che aveva elaborato con riferimento alla situazione presente. Quando, nel 1955, Angelo Costa, presidente di Confindustria, scriveva a Ernesto Rossi proponendogli un contraddittorio nel quale si sarebbe fatto il possibile per far conoscere la verità sull'industria italiana all'opinione pubblica, Rossi accettando di buon grado, offrì la possibilità di dare origine ad un dibattito pubblico di fondamentale importanza per comprendere l'attualità e le istanze principali del suo pensiero liberista, contraddistinto da una netta avversione nei confronti di taluni assetti monopolistici, di cartelli privati, dei consorzi autarchici e di tutti quei meccanismi di potere tesi ad "inquinare" il capitalismo e a svolgere un ruolo di consolidamento nei confronti dei regimi autoritari che tendenzialmente sono volti a fiancheggiare. Il tema del dibattito con Costa aveva come titolo "gli industriali italiani", ossia i Padroni del vapore, i grandi capitani dell'industria italiana e tutti coloro che hanno come diretto referente la Confindustria.

Rossi, criticando il capitalismo nelle forme “statalizzate” che ha assunto in Italia, non manca di manifestare il suo entusiasmo per il capitalismo americano dove la situazione concorrenziale non attende aiuti statali e s’indirizza verso un cammino indipendente da quello del potere politico. L’altro bersaglio polemico di Rossi, indagato nella sezione dedicata alla Critica del sindacalismo, è il sindacato monopolistico e tutti gli assetti di potere in mano alle leghe sindacali, che rendono invasivo il ruolo di controllo dello stato e compromettono la libera formazione dei prezzi sul mercato. La polemica liberale contro il capitalismo è dunque volta a porre sia dei limiti ad uno sfrenato laissez faire che non interviene a ricucire le falle e le inefficienze generate dal mercato, sia a frenare gli interventi diretti di assistenza e l’estensione del lavoro sindacalizzato. La pars costruens della sua Critica alle costituzioni economiche si propone come obbiettivo quello di Abolire la miseria: imponendo delle riforme di fondamentale importanza - riforma agraria, terra a chi la coltiva - ed estendendo servizi pubblici e bisogni essenziali - cibo, alloggio, istruzione, assistenza sanitaria - a tutte le categorie sociali, la “striscia” delle miseria tenderebbe ad accorciarsi, rendendo meno eclatanti talune storture del capitalismo. Secondo Eugenio Scalfari, nella prefazione di Capitalismo inquinato, la posizione di Rossi sul capitalismo italiano coincideva in almeno sei punti con quella dei liberali sinistra: « Il libero mercato non è uno stato di natura, la libera concorrenza e la libertà di accesso al mercato sono situazioni perennemente a rischio, che debbono essere create e mantenute da apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e sanzione. L’economia mista, si risolve di fatto in una privatizzazione dei profitti e in una pubblicizzazione delle perdite[…] favorendo il diffondersi nel sistema di un elevato grado di corruttela»[11].

Se, dunque, la genesi del capitalismo italiano a causa di una ristrettezza iniziale di capitali e della mancata compattezza di sviluppo tra nord e sud, è riconducibile alla dipendenza e alla protezione di gruppi bancari, industriali e politici, inevitabilmente le caratteristiche del suo sistema sono sempre state la difficile concorrenza, la mancanza di regole di controllo, lo sviluppo massiccio di cartelli e monopoli. Esclusivamente un’azione di netta discontinuità con la politica delle partecipazioni statali e del protezionismo doganale può, secondo Rossi, riformare e restituire trasparenza all’intero sistema. Dunque applicare il settimo comandamento: non rubare. Questa è l’esortazione che Rossi rivolge al presidente di Confindustria Costa e agli imprenditori italiani. « Ma io non mi sono mai preoccupato che gli industriali guadagnassero troppo; mi sono preoccupato che rubassero troppo; e, mettendo in luce questa consuetudine di alcuni di loro, ho sempre creduto di scrivere in difesa del bene comune». Gli strali lanciati da Rossi contro la corruzione del sistema capitalista sono indirizzati non alla pretesa di aumento del profitto degli industriali, quanto piuttosto alle licenze, alle concessioni esclusive, ai favoritismi messi in atto dall’imprenditoria nel finanziamento dei giornali, dei partiti politici, delle campagne elettorali, consentendo a uomini di loro fiducia d'inserirsi nei gangli vitali delle istituzioni. Per poter cogliere l'autentico contributo politico-culturale fornito da Ernesto Rossi attraverso le sue riflessioni sulla situazione economica italiana, non è necessario interrogarsi se vi fu da parte sua una netta scelta di campo tra socialismo e liberalismo, bisogna piuttosto individuare il bersaglio polemico delle sue critiche: da un lato il regime individualistico che garantisce la proprietà privata su gran parte degli strumenti materiali di produzione, incurante della miseria diffusa in larghi strati della popolazione; dall'altro lato le sue critiche si rivolgono al monopolio statale di tutti i mezzi di produzione, alla burocratizzazione di tutta la vita economica.

Dunque, secondo Rossi, la molla propulsiva dell'economia deve essere rintracciata in un dinamismo economico che permetta di aumentare i mezzi materiali per la soddisfazione dei bisogni umani. Come afferma in Abolire la miseria: « L'eroe di questa grandiosa rivoluzione economica non è il "fedele servitore dello stato" mosso dal senso del dovere. È l'imprenditore, che non ha lo stipendio sicuro alla fine del mese, comunque vadano le cose; [...] è l'imprenditore, che costruisce la sua baracca sempre più avanti, se scopre la possibilità di un nuovo guadagno, dove neppure arriva la tutela della legge». Questo eroe è, dunque, colui che ha avuto l'audacia di avventurarsi in territori ancora inesplorati dai monopoli e che ha segnato le prime tracce di un cammino che ha poi permesso a tutta l'umanità di procedere sicura.
6. 1. La questione " Federconsorzi "

Un secondo ambito di attività di Ernesto Rossi nella lotta contro i monopoli parassitari fu la questione della Federconsorzi, ente statale che aveva ereditato dalla gestione ammassi, esercitata dal regime fascista durante la "battaglia del grano", e dal successivo periodo del tesseramento annonario, una struttura molto efficiente per l'importazione, lo stoccaggio e la distribuzione del grano.

Ernesto Rossi denunciò con fermezza che sotto la gestione di Bonomi questa stessa struttura era diventata una "macchina" per gestire il consenso delle campagne a favore di precise correnti della Democrazia Cristiana. La gestione ammassi lasciava, sempre a parere di Rossi, margini spropositati, a carico dei contribuenti e che erano impiegati per operazioni di corruzione politica.

Significativi in questo senso i titoli dei volumi pubblicati sull'argomento: La Federconsorzi e lo Stato e Viaggio nel feudo di Bonomi.
7. Il “Mondo” di Ernesto Rossi

Attraverso la rivista «Il Mondo» è possibile offrire uno spaccato della prima repubblica compreso in un arco di tempo che si estende dal 1949 al 1966. «Il Mondo», come ricorda Antonio Cardini, «consente di osservare attraverso una privilegiata fonte un periodo di cui raccoglie e descrive come documenti le tensioni sociali, gli slanci economici, le istanze culturali, gli equilibri politici, gli sviluppi ideologici, le carenze istituzionali, le vicende di cronaca e di costume»[12].

Nel corso della sua attività di polemista ed intellettuale, Ernesto Rossi partecipa numerose testate giornalistiche - «L’Italia Libera», «L'Italia Socialista», «Corriere della sera», «La Stampa», «Il Giorno» - ma, il suo nome resterà indissolubilmente legato al «Il Mondo», diretto e fondato dall’intellettuale lucchese Mario Pannunzio. Quando nel febbraio 1949 esce il primo numero de «Il Mondo», lo sconcerto di Gaetano Salvemini nei confronti della nuova testata si fa presto sentire. Ancora esule in America scriverà a questo proposito a Rossi: «Temo che parteciperemo ad una nuova mistificazione, destinata a impedire il coagularsi di qualunque primo nucleo intorno a cui possa cristallizzarsi un movimento di sinistra non solo indipendente dai comunisti, ma anche e soprattutto ostile ai liberali di destra». Rossi prontamente replicherà: «La direttiva generale de «Il Mondo» è quella “terza forza”, né comunista, né repubblicana; presa di posizione ben netta contro il fascismo e la monarchia, critica nei confronti dei privilegi, delle camorre e degli sperperi. La nostra collaborazione (Altiero Spinelli, Ignazio Silone, Alessandro Levi, Cesare Musatti) spero riuscirà a dare anche al giornale un contenuto sempre più federalista»[13]. La prima sede del giornale era in via Campo Marzio, solo in seguitosi trasferiranno in via della Colonna Antonina, e gli unici in redazione a possedere una “stanza tutta per sé” sono Rossi e il direttore Mario Pannunzio. Da questo “salotto” privilegiato e separato dagli altri collaboratori Ernesto Rossi, per tredici anni, persegue la sua battaglia di critica costante della realtà presente: dal fascismo alla monarchia, dal monopolio dei “Grandi Baroni” dell’industria al Vaticano «la più grande forza reazionaria esistente in Italia».

Gli “Amici del Mondo” e il Partito Radicale - fondato dalla sinistra liberale nel 1955 - condividono, ad un primo sguardo, un orizzonte comune di problematiche, percorsi e obiettivi politico-sociali. Le istanze di maggior vicinanza sono ravvisabili, in primo luogo, nella necessità di abrogare talune leggi fasciste ancora presenti all’interno della nostra Costituzione, in seguito la realizzazione della Federazione europea, l’approvazione di leggi antitrust, la difesa di una cultura e di un pensiero laico soprattutto all’interno della scuola statale, “l’abolizione della miseria”, l’urgenza di normare gli ambiti relativi al divorzio e al riconoscimento dei figli illegittimi… Nel Taccuino. Il resto è silenzio, apparso nel dicembre 1955 su «Il Mondo», circa la comunione d’intenti tra uomini di salda cultura liberale - come Rossi, Riccardo Bauer, Aldo Garosci - e i “nuovi radicali” - Bruno Villabruna, Mario Pannunzio, Nicolò Carandini, Franco Libonati... - verrà scritto: «Accomunati dal vincolo fraterno delle amare esperienze non rassegnati, non perplessi, si accingono a costituire una nuova larga formazione politica che s’ispiri ad una concezione moderna e civile del liberalismo, a quella concezione che Benedetto Croce ebbe a definire ad una parola radicale [...] In questo campo, i padroni del vapore non troveranno certo mercenari e staffieri pronti a vender le idee per un assegno mensile»[14]. Durante il VII Congresso, svoltosi dal 9 all'11 dicembre 1955 al Palacongressi dell’Eur, gli “Amici del Mondo” - composti da un gruppo di secessionisti del PLI, da una frangia moderata (Villabruna, Olivetti, Carandini, Libonati) e da una parte più progressista che vedeva tra i suoi militanti Mario Pannunzio, Benedetti e Eugenio Scalfari - daranno inizio all’avventura del Partito Radicale. Rossi, in un primo momento, si mostra titubante circa l’adesione al Partito ma, in occasione della prima costituente - 20 gennaio 1956 - sarà egli stesso a cercare di convincere, in ambiente progressista, Giorgio Agosti e Manlio Rossi Doria ad aderire alla nuova iniziativa politica.

Sebbene il Partito Radicale si ponesse come alternativa alle forze politiche tradizionali, intendendo la democrazia in senso laico, socialista e riformista, contribuendo a sbloccare una situazione politica imbrigliata - come sosteneva Nicolò Carandini - tra il timore comunista da una parte e le istanze clericali dall'altra, e dunque mostrando caratteristiche che senza dubbio erano perfettamente aderenti al pensiero di Rossi, il suo atteggiamento iniziale di scarsa risolutezza può essere attribuito all'ostilità che aveva sempre nutrito nei confronti dei partiti politici "mere macchine per fabbricare deputati e senatori". In ogni caso sentiva la necessità di fare tutto ciò che era in suo potere per scalzare via la presenza sempre più invadente del clero all'interno della vita pubblica e di non lasciare ai comunisti questo arduo compito. Decide pertanto di entrare a far parte del Comitato Provvisorio, che avrebbe dato poi vita al Partito Radicale, insieme a Bruno Villabruna, Calogero, Eugenio Scalfari e Leo Valiani, rinunciando però alla proposta di entrare nella direzione del partito, affermando di provare disgusto nei confronti dei congressi e delle assemblee di partito. Contribuì alla stesura dei punti di orientamento del partito con "concretismo salveminiano" imprimendo la sua voglia di rinnovamento democratico del Paese contro le alleanze "clerico-fasciste aperte e mascherate".

La rottura del forte sodalizio tra Rossi e Mario Pannunzio, che si era cementato nel corso della loro reciproca collaborazione a «Il Mondo», avviene nel 1962 - a seguito della scissione interna al Partito fra gli alternativisti, coloro che intendevano costituire la “sinistra radicale” (Gianfranco Spadaccia, Marco Pannella, Roccella, Mellini, Angiolo Bandinelli, Massimo Teodori) e i filo-lamalfiani (Giovanni Ferrara, Stefano Rodotà, Piero Craveri) - lo stesso anno in cui il gruppo degli “Amici del Mondo” si lacera e vede scindersi dal suo interno personalità quali Pannunzio, Carandini e Cattani. A provocare la rottura definiva tra Rossi e Pannunzio fu in modo peculiare il "caso Piccardi". Lo storico Renzo De Felice aveva scoperto nel corso delle sue ricerche sul razzismo in Italia, che Leopoldo Piccardi, in qualità di consigliere di stato, aveva partecipato a due convegni giuridici italo-tedeschi destinati ad essere il luogo dell'elaborazione teorica delle leggi razziali. Mentre Pannunzio e altri “ Amici del Mondo” condannarono irrevocabilmente Leopoldo Piccardi, Rossi, che aveva sulle spalle anni di collaborazione con “l’amico del Mondo”, fu solidale, insieme a Ferruccio Parri, con Piccardi; Parri e Rossi avviano da quel momento un sodalizio intellettuale che li vede collaborare sulle colonne del settimanale "L' Astrolabio".

Gianfranco Spadaccia nel suo ritratto dedicato ad Ernesto Rossi “radicale” ricorda: «Noi, con la guida e la tenace ostinazione di Marco Pannella, invece raccogliemmo l’eredità organizzativa e politica del Partito Radicale ridotto ormai a poche decine di iscritti ma avemmo l’insperato sostegno di Elio Vittorini che accettò di esserne il presidente del consiglio nazionale. Anche con Ernesto ci fu dunque una separazione organizzativa. Il suo scetticismo nei confronti dello strumento partito fu rafforzato dalle vicende traumatiche che il PR aveva subito. Non vi fu mai invece separazione personale e dissenso politico»[15].

Cyrus
11-05-09, 22:06
8. Note

1. E.Rossi, Il Manganello e l'aspersorio, Bari, Laterza, 1968
2. E.Rossi, Il manganello e l'aspersorio", Bari, Laterza p. 10-11,1968
3. Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi, Einaudi, Torino 1997, p. 19
4. Carteggio Salvemini Rossi 1921-1925. L’amico dei giovani, «Il Mondo», gennaio 1960
5. Cfr. E. Rossi, Pagine Anticlericali, Roma, Samonà e Savelli 1966, p.X.
6. E. Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene 1939-1943, Feltrinelli, Milano 1981, pp.51-52
7. E.Rossi, Il Sillabo e dopo, Kaos Milano 2000, p.17
8. E.Rossi, Il Sillabo e dopo, Kaos Milano 2000, p.36
9. Ernesto Rossi, Altiero Spinelli Manifesto di VentoteneVentotene, 1941
10. L.Levi, Il “Manifesto di Ventotene” fra Rossi e Spinelli, in Lorenzo Strik Lievers, Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, cit., p. 105
11. E. Rossi, Capitalismo Inquinato, a cura di R. Petrini prefazione di E. Scalfari, Laterza Roma-Bari 1993, p. IX
12. A. Cardini, Il partito de «Il Mondo»: liberali, “terza forza”, sinistra democratica, radicali; in I partiti politici nell’Italia repubblicana, a cura di G. Nicolosi, Rubbettino 2006, pp. 313-314
13. Cfr., Giuseppe Fiori, Una Storia italiana, p.247
14. Cfr., Giuseppe Fiori, Una Storia italiana, p.260
15. Gianfranco Spadaccia, Ernesto Rossi, un radicale, in Lorenzo Strik Lievers, Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, cit., p. 178

9. Fonti

* Nello Ajello, Ernesto Rossi. Il sogno europeista di un pazzo malinconico, La Repubblica, 11 gennaio 2007.

* Guido Gentili, Rileggiamo Rossi sugli intrecci politico-economici, Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2007.

* Quando a Ernesto Rossi non piaceva J. F. Kennedy, La Voce Repubblicana, 24 gennaio 2007.

* Pier Vincenzo Uleri, A proposito di commemorazioni, celebrazioni e ricordi di Ernesto Rossi. In riferimento a una lettera di Angiolo Bandinelli…, Notizie Radicali, 12 febbraio 2007.

* Gualtiero Vecellio, Le lettere di Ernesto Rossi, il più politico di tutti, Notizie Radicali, 12 febbraio 2007.

10. Bibliografia
10. 1. Opere di Ernesto Rossi

* Rossi Ernesto (a cura), No al fascismo, Torino 1957
* Rossi Ernesto (a cura), Sillabo, Parenti, Firenze 1957
* Rossi Ernesto, A.De Viti De Marco uomo civile, Laterza, Bari 1948
* Rossi Ernesto, Abolire la miseria, Laterza, Bari 1977
* Rossi Ernesto, Aria fritta, Laterza, Bari 1956
* Rossi Ernesto, Banderillas, Ediz. La Comunita', Milano 1947
* Rossi Ernesto, Borse e borsaioli, Laterza, Bari 1961
* Rossi Ernesto, Capitalismo inquinato (a cura di R.Petrini, prefazione E.Scalfari), Laterza, Bari 1993 [raccolta di alcuni articoli di Rossi su "Il Mondo" gia' pubblicati in: Settimo non rubare, e Il Magoverno.
* Rossi Ernesto, Critica del capitalismo, Ediz. La Comunita', Milano 1948
* Rossi Ernesto, Critica del sindacalismo, La Fiaccola, Milano 1945
* Rossi Ernesto, Critica delle costituzioni economiche, Ediz. La Comunita', Milano 1965
* Rossi Ernesto, Elettricità senza baroni, Laterza, Bari 1962
* Rossi Ernesto, Elogio della galera, lettere dal carcere 1930-1943, Laterza, Bari 1968
* Rossi Ernesto, Guerra e dopoguerra. Lettere (1915-1930). A cura di G. Armani, Nuova Italia, Firenze 1978
* Rossi Ernesto, I nostri quattrini, Laterza, Bari 1964
* Rossi Ernesto, I padroni del vapore, Laterza, Bari 1955
* Rossi Ernesto, Il Malgoverno, Laterza, Bari 1954 [raccolta completa degli articoli apparsi su "Il Mondo" e "Stato Socialista" (1950-1954)]
* Rossi Ernesto, Il manganello e l'aspersorio, Parenti, Firenze 1958 [anche: Laterza, Bari 1968]
* Rossi Ernesto, Il Sillabo e dopo, Editori Riuniti, Roma 1965
* Rossi Ernesto, Io e Garibaldi. A cura di G. Armani, Tecnostampa, Reggio Emilia 1982
* Rossi Ernesto, L'Europa di domani. In: Federazione Europea ...., Firenze 1948
* Rossi Ernesto, L'Europe de demain, Movimento Federalista Europeo, Roma 1948
* Rossi Ernesto, La Federconsorzi e lo Stato, Nuova Italia, Firenze 1963
* Rossi Ernesto, Viaggio nel feudo di Bonomi, Editori Riuniti, Roma 1965
* Rossi Ernesto, La pupilla del Duce, Guanda, Bologna 1956 [l'O.V.R.A.]
* Rossi Ernesto, Lo Stato cinematografaro, Parenti, Firenze 1959
* Rossi Ernesto, Lo stato industriale, Laterza, Bari 1953
* Rossi Ernesto, Miseria e splendori del confino di polizia. Lettere (1939-1949), Feltrinelli, Milano 1981
* Rossi Ernesto, Non mollare, Firenze 1955
* Rossi Ernesto, Padroni del vapore e fascismo, Laterza, Bari 1966
* Rossi Ernesto, Pagine anticlericali, Samonà e Savelli, Roma 1966
* Rossi Ernesto, Salvemini il non conformista, Tecnostampa, Reggio Emilia 1971
* Rossi Ernesto, Settimo: non rubare, Laterza, Bari 1953 [raccolta completa degli articoli apparsi su "Il Mondo" (1949-1952)]
* Rossi Ernesto, Un democratico ribelle. Cospirazione antifascista, carcere, confino. Scritti e testimonianze a cura di G. Armani, Guanda, Parma 1975
* Rossi Ernesto, Viaggio nel feudo di Bonomi, Editori Riuniti, Roma 1965 [Federconsorzi]

10. 2. Bibliografia su Ernesto Rossi

* Gian Paolo Nitti Appunti bio-bibliografici su Ernesto Rossi, in Il movimento di liberazione in Italia, nn.86-87, gennaio-giugno 1967.
* Gaetano Pecora Ernesto Rossi: un maestro di vita e di pensiero, in Uomini della democrazia (ESI, Napoli 1986)
* AA.VV. Ernesto Rossi. Una utopia concreta, a cura di Piero Ignazi (Comunità, Milano 1991); la godibile biografia di Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi (Einaudi, Torino 1997).
* Livio Ghersi, Ernesto Rossi, in "Pratica della libertà", Anno I, numero 4, ottobre-dicembre 1997.
* Giuseppe Fiori, Una storia italiana - Vita di Ernesto Rossi -, Einaudi Torino 1997

10. 3. Recenti pubblicazioni e ri-pubblicazioni

* «Ernesto Rossi, Nove anni sono molti - Lettere dal carcere 1930-39», Torino, Bollati e Boringhieri, 2001, nuova edizione delle lettere dal carcere. [Un altro epistolario era stato curato da Manlio Magini e pubblicato dalla casa editrice Laterza con un titolo che è certamente caro ai meno giovani come chi scrive «Elogio della galera - Lettere 1930/1943», Bari, 1968.]
* «Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini, Dall'esilio alla Repubblica - Lettere 1944-1957», Torino, Bollati e Boringhieri, 2004.
* «"Non Mollare" (1925) - Riproduzione fotografica - Con saggi di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei», Torino, Bollati e Boringhieri, 2005 (la prima edizione era stata pubblicata a Firenze da La Nuova Italia).
* «Ernesto Rossi, Una spia del regime», Torino, Bollati e Boringhieri, 2000.
* «Ernesto Rossi, Il manganello e l'aspersorio, Milano, Kaos, 2000.
* «Ernesto Rossi, Nuove pagine anticlericali, Milano, Kaos, 2002.
* «Ernesto Rossi, Settimo: non rubare; Milano : Kaos, 2002.

* Antonella Braga, «Un federalista giacobino - Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d'Europa», Bologna, il Mulino, 2007.
* Simonetta Michelotti, « Ernesto Rossi contro il clericalismo. Una battaglia per la democrazia liberale», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.
* Giuseppe Armani, La forza di non mollare: Ernesto Rossi dalla grande guerra a Giustizia e libertà, Milano, Franco Angeli, 2004 (presentazione di Arturo Colombo).

11. Collegamenti esterni
11. 1. Testi di Ernesto Rossi

* Su un suo libro intitolato: Abolire la Miseria
* www.kaosedizioni.com: catalogo
* Analisi del Manifesto di Ventotene

11. 2. Biografia di Ernesto Rossi

* [1]

11. 3. Altri siti

* [2]
* [3]
* [4]

Un testo di Ernesto Rossi sul sogno della Federazione Europea (per il quale si rimanda alla voce Movimento Federalista Europeo)

Cyrus
11-05-09, 22:25
DIBATTITI Sul " liberale onesto " dopo Galli della Loggia intervengono Fiori, Antiseri e Vittorio Bo
Ernesto Rossi, lo slogan della discordia

----------------------------------------------------------------- DIBATTITI Sul "liberale onesto" dopo Galli della Loggia intervengono Fiori, Antiseri e Vittorio Bo Ernesto Rossi, lo slogan della discordia "L'avventura pubblica e privata di un liberale onesto". In queste parole, utilizzate dalla casa editrice Einaudi per fare pubblicita' sui giornali alla bella biografia che Giuseppe Fiori ha dedicato a Ernesto Rossi, "Una storia italiana", Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri ha visto il sintomo di un vecchio vizio della sinistra. Cosa vuol dire definire "onesto" il liberale Rossi, di cui quest'anno ricorrono il trentennale della morte e il centenario della nascita? Forse che non erano onesti Carandini e Pannunzio, Cattani e Libonati? Questo uso apparentemente pleonastico di un aggettivo nasconde, secondo Galli della Loggia, qualcosa di piu' di un tic lessicale. Per cui "il democratico", "l'antifascista", "l'amante della pace" doveva sempre essere fino a pochi anni fa "onesto" o, se si preferiva, "sincero". Un ammiccamento per far capire agli elettori che il personaggio in questione era uomo di fiducia. Gradito alla sinistra e in particolare al Pci. Oggi tutti si dicono liberali, ma i vecchi tic fanno affiorare la tradizione e cosi' l'Einaudi, secondo Galli della Loggia, si rivolge al suo pubblico, di sinistra, con questo messaggio allusivo: Ernesto Rossi non era un liberale e basta, ma un liberale "onesto". Vittorio Bo, direttore editoriale dell'Einaudi, risponde sinteticamente alla critica di Galli della Loggia: "E' vero, abbiamo forzato pubblicitariamente la presentazione del libro su Ernesto Rossi. Abbiamo scritto "liberale onesto". Per dire, con un gesto lessicale, che "liberale" e' una bandiera buona quanto altre (non tutte), e non un ombrello sotto cui possa ripararsi chiunque. La vita di Ernesto Rossi sta li' a dimostrarlo". Cosa risponde invece l'autore del libro su Ernesto Rossi, Giuseppe Fiori, giornalista di grande esperienza, ex parlamentare della sinistra indipendente e autore di altre importanti biografie (fra tutte, quelle di Antonio Gramsci e di Silvio Berlusconi)? "L'altro giorno - dice Fiori - ho letto sull'Avvenire un'intera pagina, dedicata al nuovo libro di Nello Ajello, costruita soltanto sulla scheda per i librai. Adesso leggo sul Corriere un lungo editoriale di uno storico importante come Galli della Loggia interamente costruito su una frase pubblicitaria. Ma, professore, legga per favore il mio libro, cui ho lavorato molti anni e che non racconta soltanto un singolo personaggio ma un intero gruppo di liberali, quelli da lei stesso citati, Carandini, Cattani e Pannunzio, e i maestri di Rossi, Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini. E' la storia di un gruppo di liberali perbene. Non capisco perche' non possa essere definito onesto un liberale come Rossi, che da presidente dell'Arar ha amministrato migliaia di miliardi e a differenza di altri manager pubblici e' morto povero. L'Einaudi non ha sostenuto che Ernesto Rossi e' stato il "solo liberale onesto", ma ha semplicemente sottolineato una delle sue tante qualita". Dario Antiseri, studioso di Karl Popper e preside alla Luiss di Roma, e' invece completamente d'accordo con Galli della Loggia. E rincara la dose: "E' caduto il Muro di Berlino ma, gratta gratta, nella cultura sono rimasti i vecchi pregiudizi. Tutti a parole si dicono liberali, ma poi al centro, a destra e a sinistra si contraddicono nei fatti. Vedi il caso della scuola. Questo pero' e' un altro discorso. Tornando all'editoria, e' nota la vicenda del libro di Popper, "La societa' aperta e i suoi nemici", un classico del pensiero liberale, pubblicato in Italia da Armando Armando soltanto nel '74, dopo le traduzioni in turco e in giapponese. Norberto Bobbio, grande consulente dell'Einaudi, ha scritto due anni fa in un suo libro che aveva dato parere sfavorevole. Trovo poi grave, per non parlare soltanto dell'Einaudi, che una casa editrice come Mondadori, controllata dal liberale Berlusconi, pubblichi i libri di D'Alema, di Curzi e della Parietti e ignori invece i classici del pensiero liberale". *

Messina Dino

Pagina 33
(16 settembre 1997) - Corriere della Sera

Cyrus
11-05-09, 22:28
L’attualità di Ernesto Rossi a 40 anni dalla scomparsa

Ernesto_rossiUniversità degli Studi di Siena
Tavola Rotonda-Dibattito (31 maggio-1° giugno 2007)
Aula Magna del Rettorato, Via Banchi di Sotto 55

Economista, storico, polemista, giornalista d’inchiesta tra i più efficaci, Ernesto Rossi (1897-1967) fu tra i fondatori di «Giustizia e Libertà» e pagò la sua opposizione al regime fascista con nove anni di galera e quattro di confino sull’isola di Ventotene, dove elaborò con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni il Manifesto del federalismo europeo. Nel dopoguerra divenne paladino di un’Italia laica, liberale, anticomunista, capofila del processo di unificazione europea in senso federalista. Amico dei fratelli Rosselli, discepolo di Gaetano Salvemini e interlocutore privilegiato di Luigi Einaudi, Ernesto Rossi fu implacabile nel denunciare con i suoi libri e dalle pagine de «Il Mondo» e «L’Astrolabio» le commistioni tra politica ed economia, il potere monopolistico della grande industria e dell’alta finanza, il conservatorismo dei sindacati, la corruzione amministrativa, le ingerenze clericali nello Stato. Ma seppe anche offrire un modello di sana e oculata gestione pubblica negli anni in cui diresse l’Azienda Rilievo Alienazione Residuati bellici (ARAR), tra il 1945 e il 1958. Nel 1955 partecipò alla fondazione del Partito radicale. Morì a Roma il 9 febbraio 1967: tre giorni dopo avrebbe dovuto presiedere al teatro Adriano la manifestazione di apertura dell’Anno Anticlericale.
Ernesto Rossi fece luce sulle zone d’ombra che avvolgevano il progresso economico, politico e civile dell’Italia del dopoguerra. Alcune di queste ombre si sono allungate fino ad oggi, a quarant’anni dalla sua scomparsa.

Cyrus
11-05-09, 22:28
ABOLIRE LA MISERIA è un testo certamente invecchiato, ma di grande interesse perché resta un modello del pensiero riformista...

Questo libro di Ernesto Rossi, Abolire la miseria, che è uscito ora da Laterza (pagine 239, euro 15), ha avuto una vita complicata. Fu scritto al confino di Ventotene dove Ernesto Rossi era arrivato nel 1939 dopo quasi dieci anni di carcere. In quello stesso periodo lavorava nell'isola con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli, al "Manifesto di Ventotene", il documento del federalismo democratico. Abolire la miseria fu pubblicato nel 1946, ma - scrisse poi il suo autore - "risultò stampato così male e su carta tanto brutta che mi vergognavo anche di mandarlo in omaggio; preferii, perciò, ritirarlo dalla circolazione e passare al macero quasi tutte le copie". Ernesto Rossi aveva in mente di rimettere le mani in quel libro che gli stava a cuore, di "tener conto degli studi comparsi negli ultimi anni e delle esperienze compiute, nei Paesi del mondo capitalistico, dopo la Seconda guerra mondiale".

Non fece quel che si riprometteva, lavorò febbrilmente fino alla morte, nel 1967, doveva colmare tutti quegli anni passati nelle prigioni fasciste. Scrisse le sue famose Lettere scarlatte sul "Mondo" di Mario Pannunzio, il giornale amato, scrisse molte delle sue opere giacobine, Settimo: non rubare, Lo stato industriale, Il malgoverno, Ipadroni del vapore, Aria fritta, Borse e borsaioli, Elettricità senza baroni, nella collana inventata nel 1951 da Vito Laterza, i "Libri del tempo" (Jemolo, Calamandrei, Salvemini, Peretti Griva, Antonio Cederna, Danilo Dolci) che segnano con intelligenza e coraggio la presenza polemica di un'Italia civile che esprime un possibile modello di cultura delle riforme in un cupo momento di restaurazione politica.

Abolire la miseria uscì da Laterza nel 1977 presentato da Paolo Sylos Labini che di Ernesto Rossi era stato a lungo amico e che aveva avuto in comune con lui uno dei maestri, Gaetano Salvemini. Ora lo ripresenta con un'introduzione rivista e aggiornata. Il libro è ancora oggi ricco di stimoli e di vitalità. Come scrive Sylos Labini, Abolire la miseria "considera problemi tuttora largamente e appassionatamente discussi: il problema della miseria, il problema della crisi finanziaria dello stato assistenziale, i rapporti tra riforma della scuola e prospettive dell'occupazione".

Ernesto Rossi era soprattutto un economista. Luigi Einaudi lo considerava come il suo migliore allievo, Piero Sraffa ne aveva grande stima. Per Ernesto Rossi economia, politiche economiche e problemi politici si fondevano tra loro: "Ogni forza economica è sempre anche una forza politica", sosteneva. Ma non confondeva saperi e comportamenti, fu uno studioso rigoroso. I suoi scritti, secondo Sylos Labini possono essere raggruppati in cinque distinte categorie: gli scritti sulla finanza pubblica e sul mercato del lavoro; gli scritti critici delle costituzioni economiche; gli scritti sulla federazione europea; gli scritti sul fascismo; gli scritti sulle "partite passive che abbiamo ereditato dal regime" e sui problemi dell'attualità.

Se si volesse sintetizzare lo spirito che anima l'opera di Ernesto Rossi economista bisognerebbe prendere a prestito l'espressione che usa in uno dei suoi scritti (Critica al capitalismo): "La libera concorrenza non porta necessariamente a un massimo di benessere economico. Le critiche al capitalismo non significano giudizio favorevole al comunismo".

Ernesto Rossi è un liberale ("in opposizione alla parola "servile""), è anticomunista, ma sente viva la questione sociale e lo si capisce assai bene dalle pagine di Abolire la miseria. E un positivista, un anticlericale, un anticrociano, un europeista convinto. In una sua lettera, dei 1966, a Gennaro Barbarisi - la si può leggere nella biografia di Giuseppe Fiori, Una storia italiatia, (Einaudi, 1977) fa il conto delle persone che nella vita sono state per lui il "sale della terra": con Salvemini, tra gli altri, i Rosselli, Gobetti, Giovanni Amendola, Parri, Bauer, Tarchiani, De Viti De Marco, Einaudi, Augusto Monti, Spinelli, Colorni, Calamandrei, Enriques Agnoletti, Giorgio Agosti, Galante Garrone, Garosci, Franco Venturi, Vittorio Foa.

Con Foa, Massimo Mila e Riccardo Bauer tutti di "Giustizia e libertà" - Ernesto Rossi passò anni nella stessa cella a Regina Coeli. Racconta Foa nel suo Lettera dalla giovinezza (Einaudi 1998) che Ernesto è un capo naturale, che non dà tregua nelle letture dell'università carceraria. É un uomo ironico, un burlone, anche, disegna pupazzetti tremendi. Legge con lui testi di economia e di finanza, leggono tutti insieme libri di storia, di filosofia, di letteratura, con grandi litigi sul Croce rifiutato da Ernesto, venerato dagli altri tre.

Ernesto Rossi è un realista, ma è anche un utopista: per correggere il suo pessimismo.
Abolire la miseria è un testo certamente invecchiato, ma di grande interesse perché resta un modello del pensiero riformista. Ernesto Rossi è estremamente razionale nell'informare, criticare, discutere. Non è mai noioso,è in costante contraddizione, anche con se stesso. I suoi capitoli sulla carità privata e sulla carità legale, sulle assicurazioni sociali, sul diritto al lavoro, sui servizi pubblici sono ancora attuali.

Che cosa sarebbe oggi Ernesto Rossi? Domanda illegittima, ma stuzzicante. Scrive Paolo Sylos Labini nella sua introduzione ricca di passione: "Le battaglie di Ernesto erano già contro quella che poi è stata chiamata Tangentopoli: Tangentopoli l'aveva individuata lui molti anni prima. Quanto vorrei poter leggere quello che Rossi scriverebbe adesso nei riguardi di Berlusconi liberista!"

Cyrus
04-06-09, 20:10
La morte di Luigi Del Gatto

29 luglio 2008

di Gianfranco Spadaccia

E’ morto nei giorni scorsi a Pescara, all’età di settantasette anni, Luigi Del Gatto, un vecchio e caro compagno, la cui vita è stata caratterizzata da una lunga militanza radicale, almeno da quando nel 1961 era tornato in Italia da Berkeley presso la cui università aveva ottenuto un contratto di ricercatore dopo la laurea in medicina conseguita a Bari nel 1955. Medico endocrinologo, specializzato in medicina nucleare e in biologia molecolare, ricercatore a Londra dal 73 al 75, Del Gatto ha esercitato la sua professione a San Benedetto del Tronto, a Roma presso il policlinico Gemelli, la clinica Moscati, l’Americana Hospital, il centro Artemisia, e a Pescara, dove alla fine degli anni 70 fissò la sua residenza definitiva, presso la clinica Stella Maris.

Padre di cinque figli, era un uomo di grande generosità e umanità, non solo nella sua vita familiare e professionale. Di idee profondamente libertarie partecipò attivamente alla lotte dei diritti civili degli anni 60 e 70. La sua professione di medico e di uomo di scienza si è intrecciata a volte con le iniziative e la campagne radicali in tutti quei casi – dalla liberalizzazione dell’aborto all’antiproibizionismo, dalla fecondazione assistita alla libertà di ricerca – in cui la politica investiva problemi fondamentali della vita e della salute. Come medico e come cittadino, non solo come militante politico, ha sempre posto al centro del suo impegno la difesa e l’affermazione della libertà, della dignità, dell’autodeterminazione della persona.

Fu uno dei fondatori del Cora (Comitato radicale antiproibizionista) e della LIA (lega internazionale antiproibizionista). Nel 1980 annunciò pubblicamente la volontà di avvalersi, con una interpretazione estensiva, di una norma che rendeva possibile ai medici prescrivere morfina ai tossicodipendenti. Lo fece alla luce del sole per molti mesi, chiarendo che non si trattava ai suoi occhi di disubbidienza civile ma di applicazione di una norma nell’esercizio della sua professione medica. Due anni dopo, se non ricordo male, nel 1982, un procuratore della Repubblica decise di incriminarlo. Fu arrestato e negli anni successivi dovette subire un processo. Nel 1986, in primo grado, fu assolto sia pure per insufficienza di prove. Evidentemente i giudici si arrestarono di fronte alla applicazione al suo caso di norme penali previste per i trafficanti e gli spacciatori. In secondo grado fu invece condannato ad oltre due anni ma il riconoscimento dei particolari motivi di valore sociale e morale gli consentì di evitare la reclusione. Non fu mai sospeso dall’esercizio della professione medica e non ebbe la sospensione dei diritti politici (come parzialmente avvenne più tardi, con le nuove leggi, per Marco Pannella, Rita Bernardini, Sergio Stanzani ed altri militanti radicali che, per la loro disubbidienza civile, si videro precluso l’elettorato passivo nelle elezioni amministrative e regionali). Ciò gli consentì di candidarsi più volte come radicale. Alla fine degli anni 80 fu consigliere regionale dell’Abruzzo, eletto in una lista civica verde, radicale, antiproibizionista. Nel 2000, quando era già colpito dalla malattia che ora l’ha condotto alla morte, fu candidato della lista Bonino alla Presidenza della Regione.

La sua attività e la sua presenza nella vita del Partito e delle associazioni radicali fu, a partire degli anni 60, intermittente ma costante, interrotta solo negli ultimi anni dalla malattia. Cercando nell’archivio radicale, ho trovato una sua relazione, redatta insieme a Carlo Oliva, per la commissione costituita nel 1967 per redigere un progetto di statuto radicale e presieduta da Sergio Stanzani. Era una relazione sul modello di partito, un modello di partito federale e non centralistico, libertario e non disciplinare, laico e non dogmatico ed ideologico da contrapporre al modello di partito tradizionale. Un problema con cui non solo la galassia radicale ma l’intera politica italiana si trovano tuttora fare i conti.

Cyrus
04-06-09, 20:11
E' morto Luigi Del Gatto: cordoglio dei Riformatori Liberali PDF Stampa E-mail
29 luglio 2008
Si è spento stamani, all'età di 77 anni, Luigi Del Gatto, medico endocrinologo e leader dei radicali abruzzesi.
Fu protagonista negli anni '80 e '90 di numerose iniziative a fianco di Marco Pannella. Da mesi era ospite della residenza per anziani di Spoltore dove si trovava da diversi anni. Del Gatto nel 2000 fu candidato alla presidenza della Regione Abruzzo per la Lista Bonino e in precedenza era stato consigliere regionale per i radicali.
“Con Luigi Del Gatto scompare il punto di riferimento centrale della politica radicale, liberale e libertaria in Abruzzo”: è stato il commento a caldo di Alessio Di Carlo, segretario de “La parte liberale” e referente regionale dei Riformatori Liberali, non appena appresa la notizia.
“Figure come quella di Del Gatto, che proprio alla Regione Abruzzo dedicò gli ultimi anni di militanza politica attiva, devono costituire, in particolare in questo delicato momento storico, un punto di riferimento per chiunque abbia a cuore le sorti della nostra terra” ha concluso Di Carlo.
Abruzzo Liberale - E' morto Luigi Del Gatto: cordoglio dei Riformatori Liberali (http://www.abruzzoliberale.it/index.php?Itemid=64&id=3075&option=com_content&task=view)

Cyrus
04-06-09, 20:12
E' MORTO LUIGI DEL GATTO, L'ANTIPROIBIZIONISTA
Luigi Del Gatto, ex consigliere regionale protagonista di tante battaglie antiproibizionista, e' morto la scorsa notte a 77 anni a Spoltore, in una casa di cura nella quale era ricoverato da un po' di tempo. Grande amico di Marco Pannella, col quale condivise numerose battaglie, Del Gatto, che di professione era medico endocrinologo, fu protagonista della politica abruzzese a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Consigliere regionale per i radicali, nel 2000 fu candidato alla presidenza della Regione Abruzzo per la Lista Benino. La camera ardente e'stata allestita nella stessa casa di cura e nel pomeriggio e'atteso l'arrivo di Marco Pannella. (AGI)
(29 luglio 2008 ore 13.42)

Cyrus
04-06-09, 20:13
dedico anche a Luigi Del gatto questo sito “con poesia”

vorrei dedicare questo sito: a del gatto come nominato per far capire che questo percoso e stato mio angelo custode anc,he, socialmente e politicamente ed e stato un grande amico del sapere quando ero angosciato prarlavo con lui ricorndadolo mentro altri dopo che si sono serviti l’anno getato via anche se si sacrificava molto. saluti affettuosi agli amici . flgli ed alre persone che gli sono stati vicino.
PazzoStorico.com » dedico anche a Luigi Del gatto questo sito “con poesia” (http://pazzostorico.com/wordpress/?p=96)

Cyrus
04-06-09, 20:15
Un digiuno sospeso
Marco Pannella, Giovanni Negri, Luigi Del Gatto

SOMMARIO: Marco Pannella, Giovanni Negri e Luigi Del Gatto hanno sospeso dopo dieci giorni il digiuno che avevano iniziato il 19 ottobre per denunciare l'illegalità del sistema dell'informazione nei paesi di "democrazia reale". Con questo comunicato gli autori manifestano la necessità di avviare una riflessione con i radicali e gli altri sulle modalità, le regole e gli obiettivi dell'azione nonviolenta e del digiuno in particolare, al fine di preparare una più vasta e adeguata campagna sull'informazione, sul fondamento stesso della democrazia politica.

(Notizie Radicali n.248 del 14 novembre 1989)

I riflettori sono giustamente puntati, in questi anni e mesi, sul crollo dei regimi e del sistema del socialismo reale.

La speranza democratica di libertà, di giustizia e di pace è dunque divenuta l'attesa di gran parte del pianeta. La democrazia politica e la nonviolenza costituiscono ovunque, come nella piazza Tien an Men, l'attesa e l'impegno delle attuali generazioni, chiamate a salvare il mondo dall'autodistruzione e la società dalla legge della giungla.

Ma, dietro quei riflettori, occorre operare con profonda urgenza perché la democrazia reale, la maggior parte dei suoi regimi e il sistema che costituisce siano il punto di partenza per l'attuazione - e non per il degrado e la corruzione - della democrazia politica, dei diritti umani e politici, della certezza del diritto, della tolleranza, degli stessi principi fondatori del contratto sociale, delle istituzioni, delle leggi e della convivenza civile.

Nella democrazia reale la democrazia è sempre più esigua o debole. In non pochi paesi essa copre non una realtà democratica ma regimi partitocratici, oligarchici, profondamente ingiusti, che escludono le grandi maggioranze dei cittadini dai processi formativi delle leggi, dal governo effettivo delle istituzioni; in una parola dal gioco democratico e dalle sue leggi e regole.

Nell'epoca della cosiddetta "società della comunicazione" e del "villaggio globale" il potere che li caratterizza, che è centrale e condizionante ogni altro, è sempre meno disciplinato, responsabilizzato, democraticamente controllato. L'intera concezione della dialettica dei poteri dello Stato - come fondamento della sua essenza democratica e del libero formarsi della volontà popolare nel suffragio universale del popolo sovrano - è di fatto in via di disfacimento nella democrazia reale.

Occorre quindi che ovunque quanti lottano per lo Stato di Diritto, per la democrazia politica e la tolleranza si uniscano con chiarezza di obiettivi comuni e puntuali rivendicazioni, non compiendo l'errore di consumarsi in una semplice opposizione negativa o nella proposizione di una democrazia sempre più mitica e in crisi in Europa e nel mondo occidentale.

Il Partito radicale, transnazionale e transpartito, non può non constatare il degrado dei principi dello Stato di Diritto e della democrazia politica nei suoi fondamenti classici e pur sempre più attuali, in paesi come l'Italia o per molti versi la Spagna, come dimostra oltre tutto lo svolgimento di elezioni politiche o amministrative di particolare importanza in questi giorni, dove al popolo è stata sottratta ogni reale ed effettiva possibilità di "conoscere per scegliere e deliberare".

In Italia, ormai con riconoscimenti ufficiali da parte della stessa Corte Costituzionale, siamo privi di qualsiasi certezza del Diritto, con un utilizzo dei mezzi di informazione pubblici e della stampa privata esercitato fuori e contro ogni legalità.

Per denunciare questa situazione ed aprire brecce di informazione, di verità, di reale dibattito democratico, Marco Pannella, Giovanni Negri e Luigi Del Gatto hanno iniziato uno sciopero della fame il 20 ottobre scorso. Dopo dieci giorni appare chiaro che la stessa necessità e giustezza dell'azione nonviolenta impone di non sottovalutare la sua immensa difficoltà ed esige una ben maggiore preparazione, capace di coinvolgere sin d'ora tutte le necessarie, adeguate energie intellettuali e militanti.

In particolare il Partito radicale, che a metà degli anni 60 ha per la prima volta realizzato e dato forma all'uso politico della nonviolenza in Italia e in Europa, avverte tutta l'urgenza di una profonda ridefinizione dell'arma estrema del digiuno, delle sue regole e metodologie. E' perciò essenziale che si apra un grande dibattito sullo strumento del digiuno e che le regole e gli obiettivi dell'iniziativa nonviolenta volta a ripristinare legalità democratica nel mondo dell'informazione sia il frutto di una riflessione e un dialogo assai più vasti. Per queste ragioni Marco Pannella, Giovanni Negri e Luigi Del Gatto sospendono oggi il digiuno in corso dal 20 ottobre e si impegnano sin d'ora per la preparazione e il rafforzamento della loro azione nonviolenta, invitando il maggior numero possibile di compagne e compagni a partecipare all'indispensabile riflessione collettiva volta a definire obiettivi, regole e modalità della sua attuazione.

Cyrus
04-06-09, 20:16
Ricordo di Luigi Del Gatto: intervista a Gianfranco Spadaccia
RADIO, 29 luglio 2008 - 11:00 - Di Dino Marafioti

Ricordo di Luigi Del Gatto: intervista a Gianfranco Spadaccia | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/259480/ricordo-di-luigi-del-gatto-intervista-a-gianfranco-spadaccia)

Cyrus
04-06-09, 20:17
L'attualità in Archivio: Ricordo di Luigi Del Gatto, medico, radicale storico, arrestato nei primi anni '80 a Pescara per aver prescritto morfina ad alcuni tossicodipedenti
Radio29 luglio 2008 - 12:02 - Di Aurelio Aversa

L'attualità in Archivio: Ricordo di Luigi Del Gatto, medico, radicale storico, arrestato nei primi anni '80 a Pescara per aver prescritto morfina ad alcuni tossicodipedenti | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/259487/lattualita-in-archivio-ricordo-di-luigi-del-gatto-medico-radicale-storico-arrestato-nei-primi-anni-80-a-pe)

Cyrus
24-08-09, 22:12
Adele Faccio
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« Tutti i bambini nascono facendo uè uè, ma tu sei nata gridando no! »


Adele Faccio

Adele Faccio (Pontebba, 13 novembre 1920 – Roma, 8 febbraio 2007) è stata una politica italiana. È stata un'esponente del Partito Radicale divenuta nota negli anni settanta per le sue lotte a favore della legge sulla legalizzazione dell'aborto in Italia. Fu, infatti, tra le fondatrici del C.I.S.A. (Centro d'Informazione sulla Sterilizzazione e sull'Aborto)..

Biografia [modifica]

Nipote della scrittrice Sibilla Aleramo, studia lingue all'Università di Genova prima di militare nelle file della resistenza nella lotta per la liberazione dal nazifascismo come staffetta partigiana. Terminata la guerra insegna lingue per quindici anni - dapprima a Genova e poi a Barcellona - per poi passare a lavorare per la Mondadori.

Il suo impegno politico per i diritti civili risale ai primi anni 70. Il 26 gennaio 1975, ad una manifestazione politica tenuta al Teatro Adriano a Roma, Adele Faccio - all'epoca presidente del Partito Radicale - dichiarò pubblicamente di aver interrotto volontariamente una gravidanza. Fu immediatamente arrestata dalla polizia, in quanto l'aborto volontario era in quel momento ancora un reato (una legge a riguardo verrà approvata nel 1978). Marco Pannella digiunò per la sua scarcerazione. L'aborto fu dichiarato parzialmente non incostituzionale dalla Corte l'anno dopo.

Nella seconda metà degli anni Settanta, Adele Faccio è stata anche deputato alla Camera durante la VII, l'VIII e la X legislatura, nelle file del Partito Radicale. Nel 1989 è stata una dei fondatori dei Verdi Arcobaleno.

Cyrus
24-08-09, 22:12
POLITICA




E' morta ieri a Roma una delle leader del movimento radicale negli anni '70
Il ricordo del ministro Bonino, amica e compagna di lotta: "Fummo arrestate insieme"
Scompare a 86 anni Adele Faccio
paladina dei diritti umani e civili

<B>Scompare a 86 anni Adele Faccio<br>paladina dei diritti umani e civili</B>

Adele Faccio
ROMA - E' morta ieri a Roma Adele Faccio, icona delle battaglie per i diritti civili negli anni '70, deputata radicale nella settima e ottava legislatura. Aveva 86 anni. La notizia è stata data dalla Lega per i diritti sessuali della persona, di cui era presidente, ma soltanto "a funerali avvenuti, per espresso desiderio dei congiunti".

Adele Faccio fu tra le radicali più intransigenti, pronta a farsi arrestare per affermare il diritto al divorzio e all'aborto che all'epoca era un reato penale. Emma Bonino era con lei nella battaglia per i diritti civili: "Con Adele - ha detto il ministro per le Politiche europee - ho iniziato la mia militanza politica nella lotta contro l'aborto clandestino e le mammane. Con lei sono entrata per la prima volta in Parlamento. Ho condiviso con Adele aspre battaglie insieme a Marco Pannella, Mauro Mellini, Adelaide Aglietta e Gianfranco Spadaccia. Di lei conservo un ricordo pieno di affetto e tenerezza".

In un'intervista che rilasciò a Bruxelles quando era commissario europeo, la Bonino ricordava i drammatici momenti di quella stagione di lotta: "Era il gennaio del '75 quando la polizia fece irruzione nella clinica del dottor Conciani. Immediatamente io con Adele e Gianfranco ci autodenunciammo. Gianfranco fu subito arrestato per reato d'opinione; io e Adele, inseguite da un mandato di cattura, arrivammo di nascosto a Parigi dove prendemmo contatto con Simone Weil che un anno prima aveva fatto approvare la legge in Francia. Al nostro ritorno in Italia fummo arrestate".

Con tenacia e passione Adele Faccio si battè per cambiare la legislazione e modificare la cultura e il costume. "Fu l'alleata appassionata delle donne - scrive in una nota della Lega per i diritti sessuali della persona - una figura di spicco".

Dalla politica era uscita 17 anni fa per ritornare all'antica passione della pittura: "Non ho nostalgia per la politica - disse nel novembre del '90 - Ne ho a sufficienza". Ma era esattamente così. Sette anni dopo, insieme ad altri leader storici del Partito Radicale, tornò nell'arena per lottare contro il proibizionismo sulle droghe leggere e per sostenere la lista Pannella nelle elezioni comunali a Roma.

Ieri la morte; pochi hanno saputo. I funerali sono stati celebrati in forma privata. Neppure i dirigenti radicali erano stati informati. Il segretario del partito Adele Bernardini ha ammesso in una nota che solo oggi ha appreso della morte di Adele Faccio "a seguito di un ictus. La drammatica notizia ha lasciato costernati i dirigenti e i militanti radicali. Fisseremo a breve una data nella quale salutare Adele, proponendone l'esempio e il ricordo a coloro che da tempo non hanno potuto conoscerne la storia, l'importanza per il movimento radicale e i diritti civili e umani nel nostro paese".

Nata a Biella, nipote della scrittrice Sibilla Aleramo, studiò Lingue all'università di Genova. Partigiana sulle montagne della Liguria, fu poi docente di Lingue a Genova e a Barcellona per quindici anni. Chiamata a Milano all'ufficio Classici della Mondadori, restò finché nel '70 si ritrovò alla testa delle prime battaglie contro gli aborti clandestini. Quelle lotte che finirono per portarla alla Camera dei deputati.

(9 febbraio 2007)

Cyrus
24-08-09, 22:14
Un ricordo di Adele Faccio
Pubblicato il 7 Marzo 2007 da Radio Radicale
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Adele FaccioAdele Faccio
La concretezza di una impolitica

Dal Cisa alla militanza radicale

Il ricordo di Gianfranco Spadaccia pubblicato sull'ultimo numero di Agenda Coscioni

Adele Faccio non aveva mai frequentato il Partito Radicale, o comunque non mi era mai capitato di incontrarla né a Roma in Via di Torre Argentina né a Milano in Via di Porta Vigentina, neppure negli anni della battaglia della LID per il divorzio, neppure quando Angelo Pezzana e pochi altri fondarono con il FUORI il primo movimento di liberazione omosessuale o quando nacque il Movimento per la liberazione della donna. Si presentò da noi solo dopo la vittoria del referendum del 1974. Nei mesi precedenti Loris Fortuna, in previsione di quella vittoria, aveva depositato in Parlamento la prima proposta di legge per la depenalizzazione dell’aborto, sull’esempio di quanto era avvenuto o stava avvenendo in altri paesi europei.


Adele Faccio oggi

8 Marzo 2007: Incontro per ricordare Adele Faccio ad un mese dalla scomparsa

8 Marzo 2007: La Battaglia di Adele Faccio. Racconti, testimonianze e nuovi impegni

Documenti

Video:

Rai, 1976: incontro stampa con il Partito radicale. In studio Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia e Adele Faccio

1981: Intervista con Adele Faccio, dal programma Rai «Si dice donna»

Audio:

Adele Faccio. il suo impegno con il Partito Radicale, le donne, l’aborto, la 194, la nonviolenza, le sue poesie. a cura di Aurelio Aversa

L’iniziativa radicale contro l’aborto clandestino: una manifestazione del 15 marzo 1981

9 febbraio 1985: conduzione a Radio Radicale sul tema dell’eutanasia

16 marzo 1985: in un dibattito sulla libertà sessuale

Il ricordo di Rita Bernardini

Il ricordo di G. Spadaccia nel corso del notiziario di RR

Interventi parlamentari:

26 novembre 1976: Intervento alla Camera durante il dibattito sull’ordinamento giudiziario

30 novembre 1976: alla Camera sulla bozza di revisione del Concordato presentata da Giulio Andreotti

20 ottobre 1977: alla Camera sull’attività venatoria in Italia

10 maggio 1978: alla Camera sulle leggi antiterrorismo



Quasi contemporaneamente Adele aveva fondato il CISA (Centro di informazione sterilizzazione e aborto): nonostante il nome era un organismo che si proponeva in maniera militante di combattere la piaga dell’aborto clandestino nelle due forme a cui le donne erano condannate: l’esoso sfruttamento dei cosiddetti “cucchiai d’oro” o gli interventi di fortuna realizzati con mezzi primitivi e in assoluta assenza di qualsiasi condizione igienica, due forme entrambe tanto conosciute quanto tacitamente tollerate. Intorno a questo obiettivo Adele aggregò compagne ugualmente motivate, con le quali creò i primi consultori e organizzò la prima concreta alternativa all’aborto clandestino, i viaggi della speranza verso le cliniche inglesi e olandesi dove, grazie a voli charter e a convenzioni contrattate dal CISA era possibile avere interventi medici a prezzi contenuti e con i mezzi tecnologicamente più evoluti.

Adele fu anche la protagonista della battaglia per sostituire il metodo Karman dell’aspirazione alla pratica del raschiamento, l’unica conosciuta in Italia. Ma non si accontentava di questo intervento assistenziale (assistenziale in ogni senso: le donne più abbienti che frequentavano il consultorio erano invitate ad aiutare le più povere), voleva sfidare apertamente e direttamente la legge con la disubbidienza civile.

Eravamo il partito della nonviolenza, dei diritti civili, dei digiuni, della battaglia vinta – con i processi e il carcere – per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Ed eravamo un forza politica, anomala ma organizzata intorno ai suoi obiettivi. Il passaggio alla disubbidienza civile trovava nel partito radicale non solo un interlocutore ma il suo naturale strumento di organizzazione e di sviluppo.

Incontrò Marco a Milano. Venne a Roma a parlare con me, che avevo raccolto una situazione sconquassata della segreteria del partito. Conobbi così questa cinquantenne asciutta e nervosa che non aveva mai fatto ricorso al trucco o alla tintura. Mi parlò dei suoi progetti, mi disse che aveva trovato un medico – il fiorentino Giorgio Conciani - disponile ad aprire per il CISA un ambulatorio. Decidemmo che al successivo congresso annuale di Milano, all’inizio di novembre, il CISA si sarebbe federato al Partito Radicale. Poche settimane più tardi entrò in un funzione l’ambulatorio di Firenze presso una sede radicale. Nel mese di gennaio i nostri arresti, mio, di Adele, di Giorgio Conciani.

Non c’erano fra noi particolari affinità. Mi appariva più anarchica nelle sue motivazioni ideali che liberale e libertaria. Il suo femminismo veniva da lontano, non era un prodotto del ‘68 o dei nuovi movimenti di liberazione della donna (non a caso era la nipote di Rina Faccio, la scrittrice Sibilla Aleramo). Ad unirci fu la sua determinazione e la sua straordinaria concretezza, la sua capacità di aggregazione e di organizzazione, l’intelligenza di comprendere che intorno alla sua azione occorreva costruire un progetto e uno sbocco politico, nonviolento, referendario, parlamentare. Senza di lei, senza la sua volontà e la sua forza, la battaglia per la depenalizzazione dell’aborto sarebbe stata anche per il partito radicale assai più lunga e difficile.

Ci sono momenti della vita politica di un paese in cui persone come Adele, apparentemente “impolitiche”, compaiono sulla scena e riescono con la loro azione e la loro concretezza in maniera sconvolgente a colmare la lontananza, la frattura che separa il potere dalla vita reale delle persone. Il soffio potente della verità e della vita torna allora ad animare una politica irrigidita e ossificata nei suoi equilibri di potere e condannata a stanchi ritualismi. Ed è ciò che unisce nel mio ricordo due persone apparentemente così diverse come sono state Ernesto Rossi ed Adele Faccio.
Un ricordo di Adele Faccio | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/un-ricordo-di-adele-faccio)

Cyrus
24-08-09, 22:15
È morta Adele Faccio
Pubblicato il 9 Febbraio 2007 da Michele Lembo
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Adele FaccioAdele Faccio

È morta a Roma Adele Faccio, storica esponente radicale, protagonista con il suo impegno delle lotte più dure condotte dal Partito Radicale negli Anni Settanta. Adele Faccio, in particolare ricordata per le sue battaglie in favore della legalizzazione dell'aborto, fu tra i primi quattro deputati radicali eletti in Parlamento nel 1976. Radio Radicale ripropone alcuni servizi realizzati con materiali d'archivio (a cura di Aurelio Aversa) relativi alla sua attività politica.

Rai: incontro stampa con il Partito radicale. In studio Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia e Adele Faccio

26 novembre 1976: Intervento alla Camera durante il dibattito sull'ordinamento giudiziario

30 novembre 1976: alla Camera sulla bozza di revisione del Concordato presentata da Giulio Andreotti

20 ottobre 1977: alla Camera sull'attività venatoria in Italia

10 maggio 1978: alla Camera sulle leggi antiterrorismo

L'iniziativa radicale contro l'aborto clandestino: una manifestazione del 15 marzo 1981

9 febbraio 1985: conduzione a Radio Radicale sul tema dell'eutanasia

16 marzo 1985: in un dibattito sulla libertà sessuale

Il ricordo di Rita Bernardini

Il ricordo di G. Spadaccia nel corso del notiziario di RR

Non appena è stata diffusa la notizia della scomparsa di Adele Faccio, le agenzie di stampa hanno raccolto i messaggi e le dichiarazioni dei protagonisti della vita politica italiana per ricordarne la figura e l’impegno. il vicepremier Francesco Rutelli ricorda una «donna di carattere» e di «profondo disinteresse personale che, dopo i lunghi anni della militanza politica e parlamentare, aveva scelto nell’ultimo periodo della sua vita un profilo di grande discrezione e riservatezza». «Il nome di Adele Faccio è legato per sempre alla storia felice dell’acquisizione di diritti civili per le donne e gli uomini italiani». È quanto dichiara la senatrice dell’Ulivo Vittoria Franco, coordinatrice nazionale delle Donne Ds. «Esprimo ai radicali e ai familiari di Adele Faccio il nostro profondo cordoglio - aggiunge Vittoria Franco -. Il suo nome sarà per sempre legato a una fase importante e felice della nostra storia, quella dell’acquisizione di importanti diritti civili e sociali, significativi, soprattutto per le donne, come il diritto all’autodeterminazione. Adele Faccio ha condotto con coraggio e passione battaglie fondamentali di libertà».

«Ci uniamo al cordoglio dei familiari e degli amici di Adele Faccio ricordandone la figura di strenua e coraggiosa combattente per le libertà civili e i diritti delle persone, la pari dignità delle donne, la modernizzazione culturale e sociale del paese». Così il segretario dei Ds Piero Fassino ricorda l’esponente radicale. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha inviato un messaggio di cordoglio alla famiglia Faccio. «Con sincera commozione - afferma - ho appreso la notizia della scomparsa di Adele Faccio, deputata nella VII, nell’VIII e nella X legislatura, a lungo voce importante del dibattito politico e culturale italiano». «Passione, rigore e coerenza hanno contrassegnato la sua esperienza politica nel Partito Radicale ed il suo intenso impegno nelle grandi battaglie civili per la costruzione di una democrazia più avanzata e matura. Nel ricordare il suo contributo alla crescita del Paese - conclude Bertinotti - desidero esprimere a Voi tutti, in questo momento di profondo dolore, il più sincero cordoglio mio personale e di tutta la Camera dei deputati». Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato alla famiglia Faccio il seguente messaggio: «Partecipo con commozione al dolore per la scomparsa di Adele Faccio, di cui ricordo l’appassionata militanza politica e parlamentare, la generosa battaglia per l’affermazione dei diritti umani e civili, il coraggioso impegno per il riconoscimento del ruolo e della pari dignità delle donne, con cui ha contribuito all’evoluzione culturale e sociale del nostro paese nel segno dei fondamentali valori di libertà e di democrazia. Nel rendere omaggio a questa significativa testimonianza, rivolgo ai suoi familiari e a quanti le sono stati vicini l’espressione del mio profondo cordoglio».

«Avevo conosciuto Adele - ricorda il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, - all’epoca del mio primo mandato di parlamentare, quando per la prima volta i Radicali ebbero una loro rappresentanza alla Camera dei deputati. Erano i tempi delle grandi battaglie civili, del divorzio e dell’aborto e, cosa che spesso si dimentica, sul mantenimento delle garanzie dei diritti civili nell’epoca tragica degli anni di piombo». «Credo che non solo tutte le donne di questo Paese, ma tutti i democratici - conclude - debbano qualcosa alla sua figura». «Una donna che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa dei diritti civili ci ha lasciati. Adele Faccio - dichiara il ministro per le Pari Opportunità, Barbara Pollastrini - ci mancherà. Le sue battaglie dalla parte delle donne, sull’aborto, sulla non violenza e in favore degli omosessuali hanno segnato un’epoca di confronto e di scontro che ha contribuito a rendere più umano e civile questo Paese. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e faticosa, come ha dimostrato il dibattito delle ultime settimane». «In questi momenti di dolore, che condivido con la famiglia di Adele e con i Radicali, mi sento di ricordare che dovere della politica - ha concluso il ministro - è lavorare sempre con impegno e tenacia per l’affermazione dei diritti della persona. Adele ce ne ha lasciato un’appassionata testimonianza». A nome dei Verdi il presidente dei Verdi e ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio esprime «il più profondo cordoglio per la scomparsa di Adele Faccio. Con lei, che ha dedicato la vita alle battaglie per l’ambiente, i diritti e le libertà civili e sociali, se ne va un pezzo della nostra storia. Oggi più che mai - aggiunge Alfonso Pecoraro Scanio - il suo esempio ed il suo insegnamento politico sono preziosi per riaffermare principi di giustizia e di uguaglianza».

Emma Bonino così ha ricordato Adele Faccio: «Con lei ho iniziato la mia militanza politica nella lotta per far sì che anche in Italia alla tragedia dell’aborto clandestino e delle mammane potesse sostituirsi una stagione di scelta consapevole della donna nel quadro di una legge che disciplinasse e regolamentasse tale pratica. Con lei sono entrata - prosegue Bonino - per la prima volta in Parlamento nel 1976 nella pattuglia dei quattro deputati radicali che contribuirono, non poco, a scuotere il “palazzo”. Fu una stagione, quella del compromesso storico, di aspre battaglie e di intensa passione che ho condiviso con Lei, Marco Pannella, Mauro Mellini, Adelaide Aglietta, Gianfranco Spadaccia e tanti altri. La ricordo con grande affetto e tenerezza». Rita Bernardini, a nome di Radicali Italiani ha reso noto tra l’altro che sarà fissata a breve «una data nella quale salutare Adele Faccio, proponendone l’esempio e il ricordo a coloro che da tempo non hanno potuto conoscerne la storia, l’importanza per il movimento radicale e i diritti civili e umani nel nostro paese».

È morta Adele Faccio | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/e-morta-adele-faccio)

Cyrus
24-08-09, 22:16
Rai Teche - Incontro stampa con il Partito Radicale | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/209732)

Cyrus
24-08-09, 22:16
"La prostituzione; la Legge Merlin; la libertà sessuale; la proposta Radicale per la regolarizzazione della materia" - servizio di ricostruzione realizzato con documentazione tratta dall'Archivio di Radio Radicale
RADIO , 9 ottobre 2001 - 00:00 - Di Aurelio Aversa
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"La prostituzione; la Legge Merlin; la libertà sessuale; la proposta Radicale per la regolarizzazione della materia" - servizio di ricostruzione realizzato con documentazione tratta dall'Archivio di Radio Radicale
[207626] - "La prostituzione; la Legge Merlin; la libertà sessuale; la proposta Radicale per la regolarizzazione della materia" - servizio di ricostruzione realizzato con documentazione tratta dall'Archivio di Radio Radicale | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/133502)

Cyrus
24-08-09, 22:17
L'addio a Adele Faccio, femminista e radicale Una vita di battaglie per i diritti delle donne
Aveva 86 anni. Il cordoglio di Napolitano: ha contribuito alla crescita del Paese

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Era, per chi la conosceva, «la buonissima Adele Faccio». Una signora non giovanissima già negli anni Settanta; per niente curata alla maniera delle politiche di oggi; pesantemente presa in giro perché non era una pinup, oggetto di continue battute per il suo nasone. Era, non c'è che dire, coraggiosa. Nel gennaio 1975, aveva già 54 anni, parlando a una manifestazione dei radicali al teatro Adriano di Roma raccontò di aver abortito. Allora l'aborto in Italia era un reato. Lei fu subito arrestata. Marco Pannella digiunò per la sua scarcerazione. L'aborto fu dichiarato parzialmente non incostituzionale dalla Corte l'anno dopo. La legge sull'interruzione volontaria di gravidanza fu approvata nel 1978. Oggi l'Adriano è una multisala, e di Adele Faccio non si ricordava più nessuno, fino a ieri. Adesso forse qualcuno/qualcuna saprà o si ricorderà chi è, e scoprirà un personaggio italiano anomalo; una donna di fondo quieta, parecchio avanti per i suoi tempi. Coltissima, determinata, indipendente e protestataria dalla nascita. «Tutti i bambini nascono facendo uè uè, ma tu sei nata gridando no!» scriveva in un suo libro, e parlava di sé stessa. Nata a Pontebba, in provincia di Udine, nel 1920, da madre piemontese e padre genovese anarchico, si era laureata a Genova in lettere, era stata staffetta partigiana, era andata a stare a Barcellona, vivendo con un pittore, partecipando alla vita culturale e alla resistenza contro Franco; appassionandosi alle forme di resistenza non violenta. Tornata a Genova nel 1953, si era messa a insegnare. E, raccontò poi un ex allievo «ha conquistato gli studenti. Ha parlato il linguaggio delle fabbriche. Ha parlato di antifascismo e di resistenza, di lotte per l'avvenire». Argomenti oggi demodé, da lei illustrati in perfetto francese. A pensarci, tutta la sua storia oggi è fuori moda, anche troppo. Salutati gli studenti, era andata a Milano, da prof militante a certificata bohémienne di sinistra. Bohémienne vera, non benestante curiosa: viveva in una sgarrupata casa di ringhiera, traduceva Che Guevara e gli scrittori sudamericani, scriveva su riviste culturali con nomi espliciti come «Il disincanto» o surreali come «Il canguro». Alla fine degli anni Cinquanta – non un periodo ideale per le madri singole - fece un figlio da sola. Non aveva voluto che il padre lo riconoscesse, e diceva: «Eravamo liberi tutti e due ma non ci sentivamo di sposarci, tutto qui». Tutto qui, o forse no; comunque tirò su il figlio da sola e quando arrivò il femminismo diventò femminista, anzi lo era sempre stata. Nel collettivo di Brera, nell'Aied, che propagandava la contraccezione, nella lega per il divorzio; e poi nel Cisa, centro italiano sterilizzazione e aborto, fondato nel 1973. In quegli anni molte ragazze di sinistra e non che avevano bisogno di abortire andavano a Londra se abbienti o «dai radicali» se meno abbienti o se non potevano dirlo ai genitori. Ma la fondatrice e presidente non faceva aborti, si faceva arrestare.
Arrivò apposta dalla Francia a Roma; passò trentaquattro giorni nel carcere di Santa Verdiana a Firenze, faceva propaganda tra le detenute, protestava perché al compagno di partito Gianfranco Spadaccia era permesso leggere i giornali e usare la macchina per scrivere mentre a lei era stato detto che essendo donna, l'unica macchina consentita era quella per cucire. Un anno e mezzo dopo era deputata radicale, insieme a Pannella e ad Emma Bonino. Seguirono alcuni anni di grande casino, proteste clamorose, imbavagliamenti in aula; per lei, erano soprattutto anni di battaglia per la legge sull'aborto. Rilasciava educate interviste in cui spiegava che era favorevole proprio perché non entusiasta della pratica, cercava di sensibilizzare l'opinione pubblica sugli aborti clandestini, fu delusa dalla versione finale della 194. La considerava poco rispettosa delle esigenze delle donne. Rimase in Parlamento senza troppo entusiasmo fino all'87. Ne uscì dopo anni di battutacce sul suo aspetto, e con l'artrite. «Colpa della funesta aria di Montecitorio», raccontava anni dopo in un'intervista. Funesta politicamente e umanamente, e pessima per la salute, «è tarata per seicento deputati mentre se va bene si è in sessanta e si gela». Era silenziosamente delusa, lasciata l'aria funesta non sentiva più gli amici radicali. Negli anni Novanta scriveva come sempre poesie (nel 1980, da innamorata, compose «Farfalla spaurita/le ali vibrano/come il cuore quando/fa qualcosa che incombe»); aveva ripreso a dipingere, aveva fatto delle mostre, diceva di non avere nostalgia della politica, anzi. E chi ha fatto politica con lei la ricorda appassionata e per niente astuta: «Era di un candore totale, non potevi volergliene anche se pensavi stesse dicendo una gran fesseria». E ora la ricorda con affetto anche chi, come Francesco Rutelli, col tempo ha cambiato idea. Lei fu benevola anche con lui, in un'intervista di qualche anno fa, spiegando che se ne era andato perché «spesso i giovani si scocciavano di Pannella». Era la buonissima Faccio, lei, la combattente non violenta per l'aborto, e ci aveva messo molto più tempo a scocciarsi.
Maria Laura Rodotà
10 febbraio 2007

Cyrus
24-08-09, 22:18
A un anno dalla scomparsa di Adele Faccio: la sua passione, l'impegno, le battaglie con le donne
vincenzo m
vincenzo m
04/02/2008 - 14:48

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Gian Piero Buscaglia - GRAF Imperia (Gruppo Adele Faccio Imperia) mi ha segnalato questo articolo. Saluti a tutti Vince Liberazione della domenica, suppl. del 3.2.08, p.6 [Eleonora Cirant] - Protagoniste A un anno dalla scomparsa di Adele Faccio: la sua passione, l'impegno, le battaglie con le donne La pioniera della lotta all'aborto clandestino che ci manca tanto Per lei, nonviolenza significava portare una contraddizione a esplodere; questa fu la pratica di chi si autodenunciò per procurato aborto: Adele lo fece in modo plateale, durante un'assemblea pubblica, con la precisa intenzione di farsi arrestare; nel '75, per questo, scontò 36 giorni di carcere. Adele Faccio era una di quelle donne che vorresti aver accanto in questi giorni, mentre ci si organizza per riaffermare, ancora una volta, che in materia d'aborto l'ultima parola è quella femminile; l'aborto era illegale quando Adele fondò il Cisa [centro informazione sterilizzazione aborto] per offrire alle donne la possibilità d'interrompere la gravidanza in modo sicuro, condividendo un'esperienza dura e assimilando le conoscenze per non doverla più ripetere. Adele, un tavolo in una stanza, qualche sedia, poche donne che arrivano alla spicciolata: è il 1°ricordo di Vanna Perego quando, nel '73, entra nella sede del Pr a Milano Porta Vigentina, dove si tengono i primi consultori del Cisa. Avevo 36 anni e 4 figli -racconta- e sentivo molto il problema del controllo delle nascite. Vanna conosce Emma Bonino in fabbrica, poi nell'attività d'educazione sessuale nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro, impegnate a stanare l'ignoranza dalle case; così decide d'unirsi al piccolo gruppo di amiche che si va organizzando intorno al progetto del Cisa. La vita di Adele non è stata di quelle semplici e lineari: laureata in lettere e filosofia a Genova, diventa la 1^assistente donna [cattedra di filologia romanza]; é partigiana in italia, antifranchista in Spagna, collabora a numerose testate culturali, ne fonda una: La via femminile, dove pubblica il suo 1°articolo Moralità dell'aborto, il tema su cui si impegnerà per anni. Non più giovanissima -ricorda Vanna- Adele volle diventare madre; un compagno della comune dove vivevano le offrì il seme, in pratica il figlio lo crebbe da sola; per noi questo era sbalorditivo, inconcepibile; non avevamo mai incontrato nessuna come lei; quando nel '76 fu eletta parlamentare e si trasferì a Roma, il figlio 14enne rimase qui a Milano; ancora una volta ci stupì. Non c'è giudizio nelle parole di Vanna, mentre offre il ricordo di Adele nel suo rapporto con la maternità; vuole descrivere l'effetto dirompente che le scelte della nipote di Rina Faccio -in arte Sibilla Aleramo- avevano sugli schemi mentali delle persone che incontrava; così è stata la sua pratica nonviolenta, per la quale nel '75 scontò 36 giorni di carcere per procurato aborto. Tiziana Garlato la incontra in questa fase: Nonviolenza significa portare una contraddizione a esplodere; questa fu la pratica di chi si autodenunciò per procurato aborto; Adele lo fece in maniera plateale, con la precisa intenzione di farsi arrestare; io avevo abortito a 19 anni, con un noto cucchiaio d'oro, il dr Bellincioni della Salus, clinica privata cattolica: £.100.000 nel '72, 20 donne stipate in una misera stanzetta, i medici nervosissimi e impacciati; con quell'esperienza alle spalle andai subito al Cisa, volevo fare qualcosa; ormai il centro era conosciuto; nei giorni di consultorio, la fila delle donne arrivava in strada; io davo la mia casa per gli aborti, in una stanza avevo messo un lettino ginecologico; nel box si approntava l'apparecchiatura per il metodo Karman di cui Adele fu strenua sostenitrice; quello organizzato dai medici del Cisa si praticava inserendo nell'utero un sistema di cannule di metallo a diametro graduato, collegate a una macchina aspiratrice; il metodo era ritenuto più sicuro e efficace di quello per raschiamento. Le contestazioni non mancavano neppure da parte femminista, come ricorda Luigi DeMarchi che conosceva Adele Faccio dagli anni '60 per aver scritto dei propri studi su Wilheim Reich sulla rivista da lui diretta, Il Canguro. De Marchi racconta di quella volta che invitò Harvey Karman a Milano per un seminario di formazione: la sede fu invasa all'improvviso da turbe di ragazzine che cercavano di bruciare gli arredi al grido di 'DeMarchi Karman agenti della Cia', minacciandoli di gambizzazzione. Ciò per dire quanto fosse frastagliato e conflittuale l'arcipelago dei soggetti che lottavano contro l'aborto clandestino. Con Adele -ricorda DeMarchi- avevamo lavorato insieme per l'Aied [assoc. italiana educaz. demografica], in contrasto col Cemp [centro informaz. matrimoniale e prematrimoniale], che si manteneva sul piano della contraccezione non volendo lo scontro frontale col mondo religioso; ma pure i compagni dell'Aied non si volevano sporcar le mani con l'aborto; così Adele se ne distaccò e insieme a Tassinari fondò il Cisa. Nei giorni di consultorio, 2 volte a settimana, arrivavano fino a 100 donne -spiega Vanna- Ci si divideva in gruppi di 10, con una di noi referente che spiegava quali fossero i metodi contraccettivi e come si sarebbe svolta l'interruzione di gravidanza; i gruppi si distinguevano fra chi era entro il limite di 8 settimane di gravidanza e chi lo superava; nel 1°caso, una metteva a disposizione la propria casa, si fissava data e ora, nulla di scritto; si ra deciso £.50.000 per intervento, chi non poteva non pagava; nel 2°caso il gruppo andava in Inghilterra, dove le aspettava una compagna che aveva localizzato una buona clinica e si occupava della logistica -racconta Vanna, che in quei primi anni '70 partecipava anche al gruppo femminista di Via Cherubini a Milano- quando la voce si è sparsa anche lì, tante ragazze sono venute a aiutarci; ascoltando tutte quelle donne ci siamo accorte della vastità del fenomeno degli aborti clandestini e della grande ignoranza in materia di sessualità; per questo abbiamo poi fondato il Ced [centro educaz. demografica]. Nel 1978 fu varata la legge 194 intitolata Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza; in parlamento Adele Faccio votò contro, insieme agli altri deputati del Pr Emma Bonino, Marco Pannella, Mauro Mellini; nel discorso alla Camera, Emma Bonino esplicitò il loro rammarico riconoscendo in quella votazione il momento culminante di 10 anni di lotte radicali e femministe, che sono diventate lotte di tutte le donne italiane e motivando il voto col fatto che la legge 194, frutto di troppe mediazioni, avrebbe affidato le donne a un itinerario burocratico in cui si sarebbero scontrate con la diffidenza e l'ostilità delle strutture sanitarie, con le resistenze e i pregiudizi della classe medica, con l'atteggiamento e il potere d'una Chiesa che ha già mobilitato tutte le sue forze contro tale legge, per vanificarne le già limitate e circoscritte possibilità d'applicazione; così si chiude la stagione dell'impegno di Adele per l'aborto. A un anno dalla sua scomparsa, il ricordo dell'amico e compagno di lotte Emilio Mortofano: Aveva un cuore enorme; la sua casa era aperta a tutte le ragazze che si sentivano allo sbando; le amava molto e per dare a loro rinunciava a cose per sè; le piaceva veder nascere le coppie; 'mi manca un compagno', diceva; avrebbe voluto impegnarsi per aiutare le donne prostitute, ma non trovò un'organizzazione che la sostenesse: 'non si può fare nulla perché tutti hanno paura delle cosche'; del periodo passato insieme, Tiziana racconta come allora un po' tutto si permeasse di Adele, diventasse Adele; tutto diveniva determinato e al contempo ironico, serissimo ma leggero, a volte anche spigoloso, altre volte ancora indulgente verso le stesse cose che andavamo -e con quanta passione!- combattendo. Di sé stessa, Adele Faccio ha scritto: Non voglio l'amore solo per me, ma anche e sempre per tutti, e questo "rompe".

Cyrus
24-08-09, 22:19
INTERVISTA STORICA AD ADELE FACCIO
Archivio Partito radicale Radicali Italiani: campagna straordinaria di autofinanziamento (http://www.radicali.it)

Faccio Adele - 29 dicembre 1992
Adele Faccio: partorire è un lusso
Il simbolo delle battaglie femministe all'attacco: il maschio non è padrone della vita

SOMMARIO: Sulla proposta del presidente del Consiglio Giuliano Amato di rimettere in discussione la legislazione sull'aborto viene intervistata Adele Faccio che respinge ogni tentativo di tornare indietro. Non solo in Italia, ma anche in Francia e negli Usa avanza il tentativo »dei maschi di ristabilire il loro potere sulle donne, rappresentato dal potere di metterle incinte . »Partorire è il più gigantesco atto d'amore che ci sia e non tutte sono nelle condizioni fisiche, psicologiche e ambientali per compierlo

(IL GIORNALE, 29 dicembre 1992)


»Siamo pronte tutte, noi donne, a tornare in piazza per difendere il diritto-dovere all'aborto . Adele Faccio, simbolo di tutte le più radicali battaglie abortiste, dopo le dichiarazioni di Amato ha riscoperto la grinta di una volta. Quasi un fuoco »sacro , che le fa dire: »Sono andata anche in galera, volontariamente, per questa legge. La 194 non e proprio quello che volevamo, soprattutto perché non è riuscita a diffondere la contraccezione. Ma di tornare indietro non si parla proprio. Le donne non sono più disposte a far figli come pecore .


D. - E' preoccupata per questa ondata revisionista?

R. - Si molto. Non e un fatto che riguarda solo l'Italia Sono tornata dalla Francia poco tempo fa e anche lì ho sentito questi discorsi. Negli Stati Uniti è lo stesso. Sono terrorizzata da quel che sta accadendo. Dietro c'è una volontà precisa dei maschi di ristabilire il loro potere sulle donne, rappresentato dal potere di metterle incinte. Da millenni i maschi sono abituati ad essere padroni della vita, forse inconsapevolmente. E non si arrendono di fronte alle conquiste femminili .


D. - Ma questa legge, anche secondo Pannella, non funziona per molti aspetti. Modificarla non potrebbe essere un bene?

R. - »La legge non c'entra. Nessuno dovrebbe ficcare il naso in una questione squisitamente femminile. Certo, se la coppia va d'accordo, anche il padre deve dire la sua. Ma se non e così, solo la madre ha il diritto di scegliere se dare la vita o no. Partorire è il più gigantesco atto d'amore che ci sia e non tutte sono nelle condizioni fisiche, psicologiche e ambientali per compierlo .·


D. - Ma parlando così non si toglie a quell'atto tutta la sua naturalità? Non lo si rende più difficile da accettare?

R. - Proprio questo è l'errore culturale che per secoli ha imprigionato la donna: fare un figlio è nell'ordine della natura. Lo è, d'accordo. Ma oggi, con i problemi spaventosi che affliggono l'umanità, si può aver paura di accettare una gravidanza .


D. - E basta la paura, per rifiutare un figlio? Non si può vincerla?

R. - »Se una donna ha paura già vuol dire che non è in grado di fare un figlio. Vale la pena di vincersi? Quante pessime madri ci sono in giro per quest'errore? No, bisogna pensarci bene, essere sicure prima di accettare la maternità. Alcune, come me, hanno avuto il lusso di potersi concedere un figlio. Altre non hanno questa possibilità .


D. - E' un lusso diventare madre?

R. - »Certamente. L'aborto è da evitare al massimo con una contraccezione diffusa e sicura. Ma la donna deve avere questa possibilità che la cultura, la società, la Chiesa, la cosiddetta "morale" vogliono ancora negarle .

Cyrus
24-08-09, 22:23
Non dimentico Adele Faccio.

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Cyrus
24-08-09, 22:24
ADELE FACCIO, A BAGHERIA, SULLA LIBERTA' SESSUALE, 11 ottobre 1980.
salvo87211
salvo87211
06/02/2008 - 22:28

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**ADELE FACCIO, SABATO 11 OTTOBRE 1980 A "RADIOSTEREONDA" DI BAGHERIA SU** **"LIBERTA' SESSUALE", "CHIESE", "PAURA", "PROSTITUZIONE".** Adele Faccio, nipote della scrittrice e poetessa Sibilla Aleramo, è morta l'8 febbraio del 2007. E' venuta spesso a Bagheria. Molti se la ricorderanno in numerosi comizi fatti in Piazza Matrice col sottoscritto in occasione di diverse competizioni elettorali. L'ultima volta venne in occasione della mia candidatura al Consiglio comunale di Bagheria, nella primavera del 1989, quando le cosche mafiose riempirono di morti ammazzati le strade e le piazze della nostra città. Adele era candidata al Parlamento europeo per i Verdi Arcobaleno. L'11 ottobre 1980, invece, circa ventisette anni fa, era venuta a Bagheria per partecipare ad un dibattito sulla "Liberazione sessuale" a "Radiostereonda", (direttore Enzo Speciale) insieme a Saro Pettinato, futuro senatore della repubblica, Piero Montana e il sottoscritto. Gli studi di quella Radio erano all'inizio di Corso Umberto, sopra l'ex "Bar Aurora". Quale miglior modo di ricordare la pioniera delle lotte femministe e delle lotte contro l'aborto clandestino riportando qui ed oggi alcuni stralci di quell'intervento del quale io conservo la registrazione? Ne tiro fuori una parte che ritengo attuale ed interessante: **"...La chiesa cattolica, la chiesa ebraica, tutte le chiese protestanti, ma anche le chiese** **buddiste, lo stesso Khomeini, gli Islamici, tutti hanno paura della libertà** **sessuale della gente. Perché? Perché al fondo della coscienza sono riusciti ad** **introdurre come primo nocciolo quello della paura. Io sostengo sempre che lo** **introducono al momento della nascita per il modo di come ci fanno nascere, prendendoci** **per i piedi, facendoci soffrire pene inenarrabili a respirare l'aria** **violentemente; e con questo ci mettono il nocciolo del terrore dentro, e di questo non ci** **libereremo più. La paura è principio di schiavitù. E noi siamo tutti schiavi perché tutti** **portiamo la paura dentro. Ma se ogni persona riesce a liberarsi dal concetto della** **paura, dalla colpa, dal peccato, parole che dovrebbero sparire da un vocabolario** **civile..., se noi riuscissimo a liberarci di queste angosce che ci portiamo** **dentro, della repressione che anche gli psichiatri esercitano, i medici tutti** **quanti, allora saremmo davvero liberi...** **I medici poi sono le bestie più bestie che esistono sulla faccia della terra, sono mostri** **nella loro ignoranza, nella loro impreparazione, nella loro crudeltà mentale, nel** **loro bisogno di essere baroni e di fare soldi, soldi, soldi sulla pelle e sulla salute** **della gente (...).** **La prostituzione è maschile ed è femminile, la prostituzione è di tutti, vorrei dire che tutti** **i matrimoni sono prostituzioni legalizzate, o quantomeno la maggior parte; vorrei** **dire che tutto il nostro modo di concepire il rapporto sessuale è rapporto di** **prostituzione, perché c'è sempre qualcuno che dà in cambio di qualche cosa: una volta è** **lui, una volta è lei, lo sono alternativamente, lo sono tutti e due e** **contemporaneamente..." (Adele Faccio, 1980)** Contro tutto ciò, Adele proponeva una sessualità da svolgersi all'interno di un rapporto amoroso, là dove il sesso è anche comunicazione, comunione di anime; e una maternità realizzata come libera scelta della donna, la quale è persona umana e non ha bisogno di alcun patriarcale controllo. **Bagheria, 05/02/08** **Giuseppe Di Salvo** Da:[link text](Giuseppe Di Salvo (http://www.giuseppedisalvo.blog.tiscali.it/))

Cyrus
24-08-09, 22:25
L'alternativa socialista femminista Stampa E-mail

L'alternativa socialista femminista

Angela Davis ha dato la sveglia in questo senso. Forse ha fatto la scoperta più sensazionale del secolo. Bisogna riprendere la sua proposta di de-tecnicizzazione. Non è necessario lavorare tanto. Non è necessario produrre tanto. Non è necessario inquinare tanto. Non è necessario che certi paesi producano tanto e mangino tanto e altri invece restino al livello di fame e sottosviluppo. Avevano veramente ragione i paesi del Terzo Mondo al Congresso di Budapest. Una recessione è sempre un fatto doloroso. Però una recessione valutata in termini economici a livello continentale dovrebbe essere una meta da conquistare più che un sacrificio da sopportare. Meno armi, per esempio; meno difesa, meno attacco, meno esercitazioni, meno giochi di prepotenza e di potere; meno polizia, meno armi in vendita, meno armi in costruzione. Ecco un compito per le donne.
Quale potere avete per cambiare le cose? mi è stato chiesto qualche anno fa ad una conferenza sul femminismo.
Abbiamo il potere della persuasione. Abbiamo il potere del buon senso. Abbiamo il potere di non volere l’ecatombe planetaria. E chi non lo capirà? I fabbricanti di armi, certamente. I grandi industriali. Il grande padronato internazionale.
Eppure quando si reclama a gran voce il giusto riconoscimento dei diritti civili, che cosa si chiede in realtà se non questo?
Basta a tutto ciò che è troppo. Troppo cibo. Troppa merce. Troppo lavoro. Troppe armi. Troppa prepotenza. Troppa produzione. Troppa fatica. Troppa infelicità. Troppa angoscia.
Vogliamo riconquistare la dimensione umana della felicità, della gioia di vivere, della serenità, dell’equilibrio.
Vogliamo creare l’alternativa socialista femminista alla corsa al potere e alla violenza.

Adele Faccio

Da “Fine di una cultura e alternativa femminista socialista del M.L.D.” (1975) di Adele Faccio, dattiloscritto conservato presso l'Archivio Radicale

Notizie Radicali - il giornale telematico di Radicali Italiani (http://www.radicali.it/newsletter/view.php?id=89034&numero=5522&title=DOWNLOAD)

Cyrus
24-08-09, 22:25
Da un'intervista di Michele Boselli alla leader radicale storica Adele Faccio (maggio 1991)

D. Perche' oltre ai problemi dell'ambiente e dell'ecologia l'animalismo rappresenta un punto molto importante ?

R. Se l'umanita', tutta l'umanita', quella di tutti i continenti non si rende conto che deve smetterla di avvelenare e inquinare tutto, sia i paesi industrializzati, sia quelli che ancora non si sono affacciati al progresso (cosi' detto) e non hanno ancora imparato a rispettare il pianeta, anche quelli che si sentono innocenti perche' non hanno industrie, ma si rendono conto che anche loro continuano ad ammazzare gli animali, non solo con la caccia, ma soprattutto col promuovere i safari e i traffici con le pelli, i denti, i corpi degli animali, se tutta questa gente non impara che "animali" siamo tutti - "l'uomo e' un animale" (anche le donne e i bambini!) - e che rispettare gli esseri viventi e' indispensabile perche' formiamo il complesso vario ma interdipendente degli esseri viventi e la vita degli uni e' strettamente connessa con la vita degli altri, cioe' di tutti, non riusciremo mai a mettere fine a tutte le ingiustizie e le violenze che si compiono contro il pianeta Terra. Se e' vero - come noi pensiamo e giudichiamo - che la nonviolenza e' la forza con cui possiamo riuscire a salvarci e a salvare il Pianeta con noi (nonviolenza contro gli esseri viventi, tutti, contro la natura, nel suo complesso, senza eccezioni, senza soluzioni di continuita'), e che il vivere implica anche il saper gestire con intelligenza la necessita' di cibarsi gli uni e gli altri: animali e vegetali, cioe' fare uso del senso della misura e della qualita' e gradualita' degli interventi indispensabili alla sopravvivenza di tutto il complesso della vita planetaria, ebbene allora dobbiamo limitare il crescente sovrappiu' di popolazione umana, non uccidendo nessuno, ma limitando le nascite e sorvegliando l'equilibrio numerico e soprattutto culturale dell'umanita' e anche quello della fauna e della flora, senza distruggere nulla, ma controllandone con intelligenza gli sviluppi. L'umanita' e' dotata di intelligenza e dunque l'adoperi e soprattutto impari a controllare se stessa, prima di tutto. E poi anche l'habitat da cui e' circondata.

Cyrus
24-08-09, 22:28
In aula - In memoria di Adele Faccio - 13 febbraio 2007 PDF Stampa E-mail
mercoledì 14 febbraio 2007

In memoria dell'onorevole Adele Faccio, ho chiesto in aula al Presidente del Senato di poter ricordare questa straordinaria figura umana e politica, protagonista del suo tempo

" Signor Presidente, Adele Faccio ci ha lasciati a ottantasei anni. Il pensiero di chi l'ha conosciuta o di chi ha solo saputo della sua eccezionale biografia, alla quale in questi giorni hanno reso omaggio le forze politiche e lo stesso Presidente della Repubblica, corre a quegli anni, all'inizio degli anni Settanta quando lei, donna già matura, fu testimone del suo tempo e illustre e coraggiosa protagonista della battaglia per i diritti civili degli ultimi, dei carcerati e, in prima linea, delle donne, per il divorzio e per ottenere la legalizzazione dell'aborto, dell'interruzione volontaria della gravidanza. Adele Faccio apparteneva ad un'illustre genealogia femminile. Nipote di Sibilla Aleramo, partigiana combattente nelle sue martoriate terre di confine contro il nazifascismo, studiosa e letterata.
Io la conobbi - lo ricordo, anche se allora ero giovanissima - nel movimento femminista di Torino. Appartenevamo a pensieri e culture diverse, quando lei a Torino, insieme ad Adelaide Aglietta, fondò il Movimento di liberazione della donna. A Firenze fondò il CISA, mentre nelle grandi città italiane, specialmente quelle del Nord, si affermava la lotta per i consultori autogestiti. Da quella fase di battaglie, da quelle lotte aspre ed anti-istituzionali che lei nobilitò con la sua intransigenza, sino alla disobbedienza civile estrema e all'arresto, noi ora ci sentiamo abbastanza lontani, perché venne un'altra stagione più istituzionale, quando le grandi correnti di massa e le grandi forze popolari riuscirono a portare a legalità, a legislazione, a produrre buone leggi sul divorzio, sull'aborto, difendendolo con il referendum del 1981. Questa stagione istituzionale, più solida, più di massa, che ha dato al Paese leggi buone ed equilibrate, porta però nella sua genesi, nel suo farsi, nel suo atto di nascita, anche il ricordo di quelle lotte solitarie estreme che Adele Faccio, insieme ai suoi compagni radicali e a molte donne, combatté. Ricordo agli ambientalisti che Adele fu anche fondatrice deiVerdi Arcobaleno e che nell'VIII legislatura si fece propugnatrice di molte leggi sui limiti dello sviluppo, sullo sviluppo sostenibile e sui nuovi problemi ambientali. Voglio quindi associarmi all'invito che il quotidiano «Il Riformista» rivolge in questi giorni, sotto il bellissimo titolo "È morta una donna libera", laddove si propone che non solo i suoi compagni radicali, ma tutti gli ambientalisti e tutto il mondo della politica si diano da fare in suo ricordo con qualcosa di concreto, che trasmetta la sua cultura e i suoi insegnamenti, soprattutto ai più giovani".

Cyrus
24-08-09, 22:29
Ricordi / La dolcezza di Adele Faccio
Di Adolfo Sansolini (del 12/02/2007 @ 21:06:00, in OFF)

Gli animali, le piante, i sassi e l'onde: è la formula con cui Adele Faccio scandiva l'elenco delle realta' intorno a noi, a cui siamo tenuti a prestare attenzione. Ci incontrammo negli anni in cui il Partito Radicale si autoetichettava orgogliosamente come il partito di 'froci, drogati e puttane': di tutti gli esclusi; degli 'sterminandi per fame', uccisi non dalle forze della natura ma dalla politica; degli altri animali; anticoncordatario, antinucleare, anticaccia, nonviolento fino ad attribuire nel Preambolo allo Statuto valore assoluto all'imperativo 'cristiano e umanistico del non uccidere', anche per legittima difesa.

Nei primi anni 80 ci si vedeva spesso sotto la grossa tenda montata a Piazza Navona, per chiedere una legge contro lo sterminio per fame. Avevamo 46 anni di differenza, e parecchi sogni in comune. L'obiettivo era una legge che destinasse una percentuale fissa del bilancio dello Stato per finanziare le attività di un Alto Commissario incaricato di creare le basi dello sviluppo nei Paesi più poveri, per renderli autosufficienti e liberi per sempre dallo spettro della fame.

Si marciava verso il Vaticano, nei giorni di Natale e Pasqua, per chiedere di far risorgere la speranza, grazie all'impegno di tutti coloro che credevano in Qualcuno o qualcosa. Adele era lì, chiaramente: si digiunava a staffetta, raccoglievamo cartoline e firme, decine di persone facevano turni per tenere aperta la Tenda giorno e notte. Lei abitava non lontano, a Piazza Firenze, fra scaffali saturi dei documenti dell'archivio storico del Partito.

La proposta radicale era chiaramente etichettata come estremista e la maggioranza moderata si affatica con un nonnulla. Già allora, comunisti, democristiani e neofascisti, con qualhe eccezione, erano uniti nel coro del 'bisogna fare qualcosa ma non esageriamo'. Venti anni possono essere tanti. In alcune marce Francesco Rutelli gridava al megafono: "Per salvare milioni di bambini affettiamo Spadolini"; ora modera e si modera.

I pochi ricordi di Adele pubblicati nei giorni successivi alla sua morte giovedì scorso, la legano principalmente alla battaglia per la legalizzazione dell'aborto. A un certo punto della sua vita, già oltre i 50, aveva dichiarato pubblicamente di avere abortito per farsi arrestare e sottrarre così migliaia di donne agli affari delle mammane e dei 'cucchiai d'oro'. Non era giusto permettere alle donne con qualche soldo di abortire all'estero o sotto le attente cure di un medico ben pagato, mentre le altre erano condannate a morte su un tavolo di cucina. Un'altra battaglia nata in totale isolamento. Adele riteneva che gli aborti potessero essere meglio prevenuti alla luce del sole piuttosto che nella clandestinità, cercando soluzioni e non colpevoli; una carità che la contrapponeva limpidamente agli anatemi vaticani.

La dolcezza di Adele: era questo l'aspetto che emergeva più nettamente nella persona e nella donna impegnata in politica. Il senso della giustizia, innanzitutto. Senza confini. Presentava e faceva regolarmente approvare mozioni ai congressi radicali che per la prima volta nella storia di un partito italiano condannavano senza mezzi termini i crimini della vivisezione, della caccia, degli allevamenti intensivi; temi lasciati cadere rapidamente dal Partito dopo il suo allontamento progressivo, inizialmente per motivi di salute e per seguire più dappresso le vicende giudiziarie del figlio.

Ma l'estremismo della sensibilità non si fermava lì: dopo un suo discorso, un signore le si avvicinò porgendole dei fiori. Lei le rispose che per lei era come ricevere un mazzolino di dita tagliate; lasciamo che anche i fiori vivano la loro vita, senza reciderli per farli seccare nei nostri vasi. Un'integralista? Tutt'altro. Piuttosto un buon esempio di nonviolenza, dove i benefici collettivi a cui è finalizzata l'azione politica sono più importanti delle rinunce necessarie per realizzarli.

Adele era un animale politico atipico, che accettava dei ruoli-guida come servizio, non per esigenze di carriera. Diceva che si considerava un soldato, non un generale; ruolo per cui era più portato Marco Pannella. Credeva fermamente nel valore e nelle possibilità di ognuno, anche nei momenti più difficili e oltre le apparenze. Con l'esplosione delle comunità terapeutiche, sosteneva l'esigenza di offrire trattamenti personalizzati per chi non fosse portato alla convivenza. E fra le possibilità di ognuno c'era anche quella di cambiare idea.

Mi raccontò delle sue iniziali difficoltà di femminista in un Partito che sosteneva la legalizzazione della prostituzione e i diritti delle prostitute: il corpo in vendita e la mercificazione della donna mal si adattavano alla sua idea di solidarietà. Il cambiamento avvenne durante un filo diretto a Radio Radicale, quando un disabile replicò spiegando che le sue uniche relazioni sessuali potevano svolgersi grazie alla disponibilità delle prostitute che frequentava; a ciò si aggiunse probabilmente una conoscenza più diretta del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, attraverso gli interventi nell'arena radicale delle sue fondatrici Carla Corso e Pia Covre.

E' difficile ricordare adeguatamente Adele in queste ore e non ho voluto spolverare troppo negli archivi della memoria, per mantenere il gusto di vedere riaffiorare ancora qualcosa di tanto in tanto. In un raccoglitore ho ancora la registrazione, che non riascolterò subito, di un incontro che come obiettori della Caritas Romana organizzammo con lei a metà degli anni 80. Eravamo interessati alla sua storia di nonviolenta attiva, per condividere idee e sogni, ancora attuali. Nel parlare era intensa e avvolgente, come le spirali che amava dipingere.

Forse Adele Faccio non era un generale ma guidava con l'esempio, timidamente e al tempo stesso senza riserve. E' stata, per me, un esempio pratico del significato che mi venne spiegato un giorno della rosa nel pugno: un pugno a simboleggiare la sinistra e la rosa a simboleggiare la nonviolenza.

A guardare meglio, la rosa di Adele non è recisa, continua ad avere radici forti che non la fanno appassire. Quello che resta della sua fragranza continua a farci sperare ancora in un mondo più rispettoso di ognuno, inclusi animali, piante, sassi e onde.

Cyrus
24-08-09, 22:30
L’Adele
Hai un ricordo di Adele Faccio?
L’hai conosciuta?
Rendiamole omaggio, insieme, l’8 marzo prossimo


L’8 marzo, giorno in cui in tutto il mondo si festeggia la donna, ricorderemo Adele Faccio a un mese esatto dalla sua scomparsa; lo faremo a Roma, presso la sede del Partito Radicale, via di Torre Argentina 76, a partire dalle ore 15,30; ci saranno Marco Pannella, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia e tanti altri che l’hanno conosciuta condividendo con lei intensi momenti di vita politica e di lotte che hanno portato alla conquista di importanti diritti civili. Sarebbe molto bello se in tanti fra coloro che l’hanno conosciuta scrivessero alcune righe, magari ripensando ai momenti in cui l’hanno incontrata in una piazza per un comizio, a un convegno, a un tavolo di raccolta firme o ascoltata per radio, o… Mi piacerebbe, proprio l’8 marzo, leggere alcuni di questi ricordi e, comunque, pubblicarli sui nostri siti Internet o, magari, farne una pubblicazione. Inviando il tuo messaggio a ricordo@radicali.it, scrivi anche i tuoi dati (nome, cognome, città, etc.) autorizzando la pubblicazione. Un caro saluto, Rita Bernardini
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9.2.07: ho saputo della morte di ADELE FACCIO. [GP Buscaglia]
Per me ha significato qualcosa, avendola frequentata dal 1982 all‘87, per poi rivederla in un ospizio 2 anni fa. Andavo a trovarla a Roma in piazza di Firenze [lì teneva l'archivio del Partito; lì conobbi il fratello, Cesare, e poi Aligi Taschera, Daria Lucca, Emiliano Silvestri...]; nell‘83 venne a Bordighera-IM per un convegno internazionale sulla Protezione Civile, essendo il perno su cui ruotavano tutti gli altri ospiti politici; si può dire che da lì scatto in me il passaggio da militante timido a attivista impegnato: anche per riconoscenza verso Adele mi misi a raccoglier firme sotto i portici di via Bonfante-IM [fame nel mondo, Toni Negri...] e conobbi Sabrina; si aggregarono altre persone e casa mia, via Pellegrina Amoretti c/o piazza S.Giovanni d’Oneglia, diventò la sede di ARGO, Ass.Rad.George ORWELL, di cui credo aver letto tutti i libri, anche i meno famosi; era una titolazione antiautoritaria: Eric Blair, vero nome di 0rwell, aveva lavorato nella polizia imperiale britannica, uscendone convinto che il poliziotto fosse il nemico n.1 dei lavoratori [il Siulp, sindacato dei poliziotti democratici, diceva esattamente il contrario, cioè, demagogicamente, che i poliziotti erano lavoratori come gli altri: s'è poi visto al G8! Già allora si sapeva che, in caso di repressione, si doveva ricorrere alle forze dell'ordine e non alle dame di S.Vincenzo...: ciò in ogni epoca, in ogni regime!].
Adele F. era al corrente della genesi della mia vicenda: dopo l’arresto del figlio Dario [alla vigilia del convegno bordigotto] e la sua fuga dal carcere, chiese al Ministro dell’interno, “prof.“ Scalfaro come lei lo chiamava, di non voler vedere suo figlio vittima di qualche agente dal grilletto facile; nell’occasione, gli parlò di me: c’è qualcosa di sporco alla questura d’Imperia? Scalfaro rispose di sì, e quando Adele gli chiese di me e del perché solo io mi fossi accorto di quegli strani traffici all’ufficio licenze [m'ero accorto, fra l'altro, che davamo la licenza d'acquisto esplosivo a un personaggio poi rivelatosi mafioso, benché sotto copertura di costruttore e titolare di cave nel savonese; e non gli facevamo pagare le concessioni governative per i rinnovi!], il Ministro rispose: anche gli altri sanno ma si guardan bene dal metter becco! Già, solo io, non essendomi reso conto di ciò che avevo di fronte [mafia verace intra-stato, non alcuni cattivoni single], m’ostinavo a rivolgermi a superiori gerarchici e sindacalisti assortiti.
Nel 1986 venne l’avv.ssa Florino [di Genova, simpatizzante radicale]; parlò col prefetto Spirito e il v.questore Molon; poi mi disse: sig.Buscaglia, ma lei si vuol suicidare? non sa che questa zona -IM Sanremo Montecarlo Ventimiglia- è terra di massoneria e ‘ndrangheta? non s’accorge dei messagi velati che il questore Molon le lancia continuamente? vada via finché è in tempo! Ma io avevo appena comprato casa, m’ero sposato nell‘85, e colla massoneria non avevo nulla a che fare. Decisi di restare; cercai di risalir tutta la struttura sindacale confederale da livello territoriale [DeGrado, Favale, Caccavari-Cgil, Pullia-Cisl, Castelli-Uil, Codarri, Botti, Famà-Siulp] a quello provinciale, regionale, nazionale [Michele Annunziata, segr.naz.Cisl Ministero interno: un altro po' sarei arrivato a Franco Marini!]. Nell’estate ‘86, il fratello d’Adele venne a finire l’alloggio della cooperativa a Piani-IM: era un anarchico che sapeva far il fabbro, il falegname, il muratore…; casa mia la finì lui! Mangiava, beveva, fumava [troppo] con me e mia madre, provando simpatia – lui che evitava le donne – per quella casalinga contadina che aveva perso in guerra un fratello di nome Cesare, come lui! A settembre nacque Manuel. Nell‘87 chiesi il trasferimento [dopo aver ricevuto minacce contro il bambino dentro la polizia]. Nell‘88, Sabrina, Manuel e Yasmin mi raggiunsero a Alessandria; pochi mesi prima avevo detto a Angelo Sanna, capo gabinetto in questura-AL: visto che ho voltato pagina, cambiato città, mollato tutto, ora datemi qualche mansioncina decente, non fatemi far sempre lo scrivano all’appuntato. Sanna rispose: Buscà, ma quali diritti, quali mansioni! si ricordi che se lei è in vita è perché le viene concesso! Chi parlava così era un poliziotto, non un mistico [Sanna è stato dirigente Ps a Sanremo fino a 2 anni fa].
Ecco: Adele e Cesare F. erano al corrente di tutto ciò; in particolare, Cesare fu colpito dall’atteggiamento dell’avv.ssa Florino, che avendo lavorato 20 anni in prefettura a Genova , ben conosceva l’ambiente.
Il figlio d’Adele fuggì in Francia e vi restò molti anni [in questura-IM vedevo la sua foto fra quelle dei latitanti]; Cesare morì alcuni anni dopo, da solo, in una roulotte, in circostanze mai chiarite: probabilmente ubriaco, mezzo assiderato; Dario ebbe un figlio: Adele era nonna! E aveva 2 anni più di mia madre: novembre1920, dello scorpione; prima di ritirarsi al ricovero, abitava in via degli Scipioni, zona Prati-RM: m’aveva ancora ospitato durante un convegno all’Ergife, fra il 2002 e il 2004.
Con lei avevo girato l’Italia: Spezia [contro il varo d'una nave da guerra dell'Intermarine], Firenze [a casa d'Elisabetta Bavasso, poi mia legale e amica], Anagni, RM, VC… Aveva un caratteraccio; amava la pittura e l’arte; pitturava lei stessa; scriveva poesie; aveva tentato di far una casa editrice [l'alternativa]: ho ancora vari suoi libri invenduti, che più tardi mi chiese di donar alle biblioteche, ignorando, da vera libertaria, le difficoltà burocratiche.

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Questo testo è apparso sulle mailing list radicali piemontesi e liguri; ecco il commento di Igor Boni, Presidente dell’Ass.Rad.Aglietta di Torino. “10.2.07 per Busk: Complimenti per il testo su Adele e i tuoi ricordi. Li ho letti con partecipazione. Te lo riscrivo di nuovo e te lo ridico: fai il ricorso sul licenziamento; avremo una nuova occasione per dire qualcosa in pubblico. Igor”.
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Segue una breve biografia di ADELE FACCIO… prima che io la conoscessi!
Nasce a Pontebba [UD] il 13.11.1920; si laurea a Genova in lettere e filosofia: 1^ assistente donna in università [cattedra di filologia romanza]; malgrado la sua attività d’appoggio alla lotta partigiana, finita la guerra è gentilmente invitata a far posto ai compagni di corso che tornano… dalla guerra vera; allora va in Spagna [Barcellona], fa attività antifranchista, pubblica riviste clandestine in lingua catalana [Occident]; torna a Genova, insegna un po’ nelle scuole secondarie ma, davanti al giuramento di fedeltà allo Stato, si ritira dalla scuola statale e si trasferisce a Milano: qui lavora nella redazione di riviste culturali [Pensiero critico], passando poi alla controcultura [il Discanto] e all’underground [il Canguro], traducendo dallo spagnolo e dal catalano le poesie di Salvador Espriu e José Agustin Coytisolo [ed.Guanda], più antologie varie. Intanto nasce Dario.
Traduce Che Guevara [Guerra per bande], pubblicato dalle edizioni Avanti! nel 1963 [ristampato nel '74 da Mondadori]; per Feltrinelli traduce Luis Gonzàles Leòn [Armi per la città] e Salvador Garmendia [Piedi di fango]. In seguito alla pubblicazione sulla rivista La via femminile del suo articolo Moralità dell’aborto, è spinta a occuparsi d’aborto clandestino, dello sfruttamento e colpevolizzazione delle donne, del loro massacro e della loro morte; messa a punto un’organizzazione idonea, il 20.9.1973 fonda il CISA [centro informazioni sterilizzazione e aborto] e si dedica, con atti di disobbedienza civile, alla soluzione di questo dramma delle donne; denunciata, si costituisce spontaneamente, fa gg.36 di galera, testimonia per 18 ore di interrogatori sul significato sociopolitico del dramma della donna costretta a abortire clandestinamente, colpevolizzata, perseguitata, brutalizzata da medici, preti, sfruttatori vari.
Oltre a innumerevoli articoli su giornali e riviste, pubblica 2 libri sull’argomento: Le mie ragioni [Feltrinelli] e Il reato di massa [SugarCo], entrambi del ‘75, anno del carcere e del successo, del contatto colla gente in più di 4000 comizi tenuti nei vari centri d’Italia; nel ‘76 è eletta in Parlamento e rinchiusa a Montecitorio, ove… giace, e non in pace!
[la fonte - Fuga dal tempo (raccolta di poesie e disegni d'Adele F.) - si ferma qui: praticamente all'incontro con Marco Pannella; di sè amava dire: Donna, antimilitarista, nonviolenta, respira per l'alternativa di sinistra, per l'autodeterminazione della donna, per la libertà dalla paura, dalla fame, dalla degradazione della vita].

* è la casa ultimata nel 1986 dal fratello di Adele Faccio, Cesare, prima che nascesse Manuel Buscaglia: 10.9.86; la comprai nell’83 da una coo- perativa edilizia [presidente E.Cichero, Psi], appaltata a un impresario siculo in odor di mafia: F.Filippone, con cave a Ceriale-SV e licenza di Ps - acquisto esplosivi – a Imperia.
Era l’epoca Teardo, presidente Psi Regione Liguria: appalti di favore, revisione prezzi a gogo; tramite legale, come assegnatari ci rivolgem- mo al pretore Coloretti per saper la data di consegna: ma essendo sta- ti infine costretti a entrare senza abitabilità, finì col multare noi!
Il SecoloXIX pubblicò l’elenco di iscritti alla massoneria-P2: c’èra Ciche- ro,Filippone,il ns avv.M.Basagni,500 funzionari di Ps,CC,magistrati traditori dello Stato; chi scrive era segretario amm.vo all’ufficio li- cenze della questura-IM: accortomi che Filippone pagava la tassa di concessione governativa per il rilascio ma non i rinnovi [non era tanto lo sconto di 500.000£, quanto il risultare intestario di 100kg di tritolo e non dei 100,150 successivi], pensando a un disguido,avvisai i miei superiori: fui subito trasferito! Più tardi il giudice Ferro-Sv propose per Filippone il soggiorno obbligato per mafia; già prima l’ex presiden- te Unione Industriali [padre d'un amico cui m'ero rivolto] m’aveva così rassicurato: ‘finchè in Italia comanda Palermo, Filippone non fallirà!‘. Ma se tutti sapevano che F. era un mafioso, come mai vinceva gli ap- palti? Come mai noi in questura gli davamo licenza d’acquisto esplosi- vi? Come mai in polizia lo trattavano con ossequio e favore, portandomi perfino in auto al suo cantiere quando seppero che cercavo casa? Se mafia era [a Sanremo, il Casinò era ambìto come centro di riciclaggio; l'intera giunta, sindaco Vento in testa, fu arrestata per collusione], e intorno brulicavano poliziotti e sindacalisti, chi doveva intervenire: giubbe rosse, dame di S.Vincenzo?
UNA PROVINCIA TRANQUILLA …

In merito al vertice antiracket del 22.1.07 in prefettura, il Gruppo Radicale di Imperia osserva:
- nei comunicati ufficiali “la nostra provincia è territorio vigilato e sereno, oasi felice con isolati episodi di vandalismo estorsivo; qui la criminalità organizzata mai attecchirà [allora perché 2 milioni di euro solo per Imperia-Liguria*?]; però le vittime [del racket che non c'è?] sono restie a far denuncia all’Autorità…“;
- viceministro e prefetti ammettono vari incendi dolosi, negli ultimi anni, contro esercenti: ma è almeno dagli anni ‘80 che si legge di locali notturni bruciati per strani corto-circuiti! E è noto, antico l’interesse della mafia per il Casinò di Sanremo, potenziale centro di riciclaggio [l'intera giunta Vento fu arrestata per collusione]; perfino un vescovo [Verrando] denunciò la presenza di consorterie massoniche e mafiose; i giornali pubblicarono elenchi di iscritti a logge e P2: 500 traditori dello Stato fra poliziotti e magistrati [Il Secolo XIX, estate 1993];
- è il 2° incontro col commissario straordinario antiracket, Lauro: se la fiducia verso le istituzioni è tale, perchè la riunione, annunciata sui media, era preclusa perfino ai giornalisti, ammessi solo alla fine? Qualche foto, 2 domande e via! se la fiducia verso l’Autorità è tale, come mai le denunce non arrivano?
- il prefetto Maccari ha fortemente voluto l’associazione antiracket in Riviera, pur marcando la differenza con altre zone d’Italia; certo, qui mancano i morti per strada, col sasso in bocca e i colpi di lupara; i metodi sono altri, più raffinati. Se il prefetto è così tranquillo, perchè all’esponente del GRIM, infiltrato fra i giornalisti, che gli ricordava quanto sopra, ha risposto: “Lei di che testata è? Scusi, ho fretta!“.
24.1.07 Per il “GRIM” Gruppo Radicale di Imperia: G.Piero Buscaglia
* le frasi citate sono di SanremoNews e Stampa 23.1.07; €.2.000.000 alla Liguria per il 1°, a Imperia per la 2^.

Cyrus
24-08-09, 22:31
23/02/2007 :: 14:39:32
In ricordo di Adele Faccio madre dei diritti femminili

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In Portogallo si è votato per ottenere una legge che permetta di abortire tutelandosi dalla clandestinità e dai rischi connessi. Gli esiti del referendum sono stati largamente favorevoli alla depenalizzazione, anche se non è stato raggiunto il quorum. Il Governo ha detto che ne terrà comunque conto. Qualche giorno prima, è morta Adele Faccio e voglio parlarvi proprio di questa donna che si è spenta serenamente a Roma, a più di ottanta anni, del modo in cui mi sono imbattuta nella sua politica e della personale vicenda biografica. Quando ho cominciato le ricerce per la mia tesi di laurea, (“Interruzione volontaria della gravidanza: cultura e legislazione”), sapevo di Emma Bonino, dei Radicali e delle femministe; sapevo dei cattolici, della Democrazia Cristiana e dei cucchiai d'oro. Non sapevo però che, tra le persone determinanti in quello scontro aperto sul corpo delle donne e sulla loro autodeterminazione, vi era stata questa donna battagliera che autodenunciava di aver avuto un aborto clandestino e veniva arrestata in un teatro romano, gremito di donne. Mentre le forze dell'ordine la portavano via, tutti sapevano chi era e quanto bisognava essere grate a quelle che, come lei, cercarono negli anni Settanta di sottrarre le donne a pratiche lesive della loro integrità psicofisica e lucrose per le tasche dei ginecologi d'oro. Adele Faccio faceva parte del Partito Radicale e della sua organizzazione che battagliava per i diritti femminili, il Movimento di Liberazione della Donna (Mld). Sfidando la legge, aveva lavorato in centri non autorizzati nei quali alcuni ginecologi volontari praticavano l'interruzione volontaria di gravidanza, senza intascare una lira e con pratiche più rispettose per le donne che certamente non si sottoponevano allegramente agli interventi. Non sono riuscita a intervistarla per la mia tesi perché da tempo si era sottratta all'impegno pubblico e politico e non mi è stato possibile rintracciarla. Ho voluto dedicarle questa rubrica e cercherò di fare in modo che un po' del mio agire quotidiano sia un modo per mantenerne vivo il ricordo. Senza rumore, con molta coscienza.
Pina Caporaso

Cyrus
24-08-09, 22:35
Come e perché lottare per l’aborto libero

Un libro una lotta infinita….

Tra le proteste di piazza delle donne, dopo la recente incursione della polizia in una corsia di ginecologia dopo un aborto legale e Giuliano Ferrara che si presenta nella battaglia elettorale in chiave antiaborista, la redazione dell’Archivio storico Benedetto Petrone ripropone al lettura di un libro che ha fatto la storia della battaglia femminista e per la libertà di aborto

MLD- Partito Radicale CONTRO L’ABORTO DI CLASSE , Giulio Savelli editore, Roma 1975 -Archivio storico Benedetto Petrone, sede BARI, Fondo Nicola la Torre numero catalogo LM/23

Da esso riportiamo la pagina relativa all’arresto di Adele Faccio

Domenica 26 gennaio 1975, l’arresto di Adele faccio, sul palco dell’Adriano a Roma , al tavolo della presidenza del convegno nazionale sull’aborto organizzato dal MLD (movimento Liberazione della Donna) e dal partito Radicale, avviene nel più assoluto silenzio in un teatro gremito da tremila persone.

Tre ore prima la responsabile del CISA era entrata accompagnata da Pannella e si era seduta accanto a suor Marisa Galli e a Loris Fortuna, accolta da calorosi applausi. Riappariva a Roma dopo dieci giorni di latitanza a causa di un mandato di cattura della procura di Firenze per le imputazioni di procurato aborto pluriaggravato e associazione a delinquere a seguito della scoperta delle attività del CISA presso la clinica fiorentina del dott.Conciani.

Fuori del teatro , centinaia di carabinieri e poliziotti con scudi e lacrimogeni pronti agli ordini del capo della polizia politica di Roma , dottor Improta e del colonnello dei CC Vitali, ad irrompere per eseguire l’ordine di arresto.

Adele al microfono raccomanda la calma.

Sono Improta e Vitali che consegnano il mandato di arresto che la stessa Adele legge al microfono per poi esser portata via.. poi il silenzio è rotto dagli slogan delle donne e Mauro Mellini che intona una vecchia canzone anarchica…

Sì perché di fede anarchica era Adele Faccio , biellese, femminista, expartigiana, professoressa di filovia romanza e che aveva fondato il CISA , presso la sede del Partito radicale in corso Porta Vicentina a Milano. Un centro che aveva organizzato in cinque anni dal 70 circa seimila aborti che erano sfuggiti al mercato della mafia dei dottori dai cucchiai d’oro, di giorno di fede clerico-fascista e antiaborto e di notte dalle parcelle salatissime nelle loro cliniche ambulatori privati dove praticavano illegalmente l’aborto.

Quel giorno a Roma la campagna antiaborto raggiunse la fase più incandescente dopo che il 13 gennaio c’era stato l’arresto del segretario del Partito radicale , Gianfranco spadaccia che aveva rivendicato in una dichiarazione pubblica la responsabilità delle attività del CISA.

L’arresto di Spadaccia, tenuto in carcere a Sant.Agnolo a Firenze per un mese, scatenò reazioni a tutti i livelli, interrogazioni in parlamento e campagne di stampa oltre che la mobilitazione delle femministe e dei compagni….

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Ringraziamo Nicola Latorre che ha posto a disposizione questo libro contenuto nel suo fondo personale e che ci ha permesso di riaprie questa pagina di storia che appartiene a tutti noi e che ancor oggi è pienamente attuale.

LA REDAZIONE DELL'ARCHIVIO STORICO BENEDETTO PETRONE

archiviobpetrone@libero.it

Cyrus
24-08-09, 22:36
http://www.dazebao.org/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=491

Cyrus
24-08-09, 22:37
Ricordando Adele
- 12/02/2007
Sarebbe davvero difficile, anche se esaltante, scrivere una partitura a decine di mani, tante quante sono quelle di chi a Milano, negli anni '70, ha avuto la fortuna di percorrere un tratto del proprio cammino (politico ma non solo...) assieme ad Adele Faccio, che ora non è più con noi.
Tocca allora a qualcuno scrivere le parole per ricordarla e, insieme a lei, ricordare un po' anche quello che con lei si è condiviso.
Tocca a me e, sebbene la distanza del tempo trascorso non sia poca e abbia in parte disperso e dissolto le frequentazioni, cercherò di far sì che questo possa essere un parlare "plurale".
Per che abbia frequentato Adele anche oltre "Porta Vigentina 15/A", per chi sia stata ospitata da lei in Via Cerva e anche a casa propria abbia trascorso serate, che diventavano nottate e poi mattine, a parlare di tutto, ma proprio di tutto,per ognuna di noi, credo, una qualsiasi immagine riportata dalla memoria alla mente parla di come allora un po' tutto si permeasse di Adele, diventasse "Adele": tutto diveniva determinato e al contempo ironico, serissimo ma leggero, a volte anche spigoloso, altre volte ancora indulgente verso le stesse cose che andavamo - e con quanta passione! - combattendo...
Chiunque ora potrebbe - e spero vorrà - esaltare i tratti irripetibili - e così intensi - della sua biografia: credo che a noi sia più caro un ricordo maggiormente intimo. E la memoria corre allora alla clandestinità che condividevamo portando le donne nelle nostre case ad abortire, ma anche all'assemblea promossa all'Università Statale per denunciare l'intolleranza vaticana per un "Amore" che allora - come ora, spero! - volevamo libero. E, ancora, alla campagna elettorale del '76, organizzata con due auto e quattro megafoni in tutta la Lombardia, e alla prima volta che, con lei, abbiamo utilizzato il tesserino da parlamentare per non pagare l'autostrada, col senso della fierezza misto a quello della colpa...
Detto questo resta la gratitudine immensa per un punto di riferimento, per un paradigma incarnato in una donna che, soprattutto ed essenzialmente in quanto donna, ci ha indicato, percorrendola con noi, una via.
Sarebbe scontato ora, a mo' di conclusione, dedicarle un saluto sulle note di "Sebben che siamo donne". Scelgo per tutte noi - e mi scuso per l'arbitrio - di dedicarle, invece, le note di "Morirò d'amore", nella voce di Giuni Russo.
Ciao Adele!


Anna, Antonietta, Daniela, Elsa, Giulia, Laura, Marilena, Mina, Tiziana, Vanna e, per non scordare nessuna, il C.I.S.A. e il M.L.D. della Milano di allora.


---


Riceviamo e pubblichiamo qui di seguito l'intervento del consigliere Maurizzio Baruffi, capogruppo dei Verdi a Palazzo Marino, su Adele Faccio.


INTERVENTO AI SENSI DELL’ART. 21. SEDUTA C.C. 12.2.2007

Il consigliere Baruffi così interviene:

“Grazie, Presidente. Io intendo rubare all’Aula un solo minuto, però chiederei ai colleghi un secondo di attenzione, perché quello che volevo fare in questo minuto e quello di ricordare una persona che è scomparsa nella scorsa settimana. Si tratta di Adele Faccio…”.

Il Presidente Palmeri così interviene:

“Signori Consiglieri, io prego di ascoltare le parole del consigliere Baruffi, che non esplicitamente, ma implicitamente invitavano ad un momento di attenzione. Prego anche, per le stesse motivazioni, di fare la stessa cosa il Pubblico. Grazie”.

Il consigliere Baruffi così interviene:

“Grazie, Presidente. Dicevo che chiedevo all’Aula un momento di ricordo nei confronti di Adele Faccio, che è stata, come credo molti colleghi sappiano, una parlamentare della Repubblica, una donna molto impegnata nelle battaglie per i diritti civili, che è stata protagonista, nel corso degli anni ’70, ’80 in modo particolare, delle battaglie più avanzate del movimento femminista, del movimento, appunto, per i diritti civili in Italia, del movimento non violento del Partito Radicale. Adele Faccio ha contribuito, credo, allo sviluppo della storia civile del nostro Paese, sempre con un profilo molto attento e molto rispettoso nei confronti dei diritti delle persone. Si è fatta carico, sulla propria pelle, di una battaglia importante come quella per la legalizzazione dell’aborto, e credo che abbia dato a tutti un insegnamento di quello che dovrebbe essere la politica e cioè in primo luogo partecipazione, voglia di affermare l’importanza di alcuni diritti individuali, senza interessi, senza strumentalità.

Ha combattuto le sue battaglie e ad un certo punto ha scelto di ritirarsi rispetto alla partecipazione politica. È morta la scorsa settimana, la famiglia ne ha dato notizia a funerali avvenuti, le sue lotte sono state condotte in modo particolare nella nostra città; io l’ho conosciuta personalmente nella sede storica del Partito Radicale in corso di Porta Vigentina ed a lei, personalmente, devo molto di quello che riguarda rispetto alla mia voglia di iniziare a fare politica da ragazzo, da studente. Per questo penso sia giusto che l’Aula la ricordi. Grazie”.

Il Presidente Palmeri così interviene:

“Grazie, consigliere Baruffi”.

(L’Aula osserva un minuto di silenzio)



---


Riceviamo e pubblichiamo.


In attesa che il Partito fissi una data per salutare ADELE FACCIO, scomparsa l'8 febbraio 2007, il Gruppo di Imperia ha deciso di intitolarsi a Lei.
Su Intergruppo politico radicale... "Non Solo di Imperia" (http://radicali-imperia.blogspot.com) compare infatti, dal 16.02.07, l'intestazione << G.R.IM - GRUPPO RADICALE ADELE FACCIO >>.

gian piero buscaglia - grim-al@tele2.it

Cyrus
24-08-09, 22:38
LA PIONIERA DELLA LOTTA ALL'ABORTO CLANDESTINO CHE CI MANCA TANTO

Liberazione - 3 febbraio 2008


di Eleonora Cirant


Adele Faccio era una di quelle donne che vorresti avere accanto in questi giorni, mentre ci si organizza per riaffermare, ancora una volta, che in materia di aborto l`ultima parola è quella femminile. L`aborto era illegale quando Adele fondò il Cisa (Centro informazione sterilità aborto) con lo scopo di offrire alle donne la possibilità
di interrompere la gravidanza in modo sicuro, condividendo un`esperienza dura e assimilando le conoscenze per non doverla più ripetere.
Adele, un tavolo in una stanza, qualche sedia, poche donne che arrivano alla spicciolata: è il primo ricordo di Vanna Perego quando, nel `73, entra nella sede del partito radicale a Milano in Porta Vigentina, dove si tengono i primi consultori del Cisa. «Avevo 36 anni e 4 figli - racconta - e sentivo molto il problema del controllo delle nascite». Vanna conosce Emma Bonino in fabbrica e poi nell`attività di educazione sessuale nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro, impegnate a stanare l`ignoranza dalle case. Così decide dì unirsi al piccolo gruppo di amiche che si va organizzando intorno al progetto del Cisa.
La vita di Adele non è stata di quelle semplici e lineari. Laureata in Lettere e Filosofia a Genova diventa la prima assistente donna (cattedra di Filologia romanza). E` partigiana in Italia e antifranchísta in Spagna. Collabora a numerose testate culturali e ne fonda una: La via femminile dove pubblica il suo primo articolo "Moralità dell`aborto", il tema su cui si impegnerà per anni.
«Non più giovanissima - ricorda Vanna Adele volle diventare madre. Un compagno della comune dove vivevano le offrì il seme, in pratica il figlio lo crebbe da sola. Per noi questo era sbalorditivo, inconcepibile. Non avevamo mai incontrato nessuna come lei. Quando nel Settantasei fu eletta parlamentare e si trasferì a Roma, il figlio quattordicenne rimase qui a Milano. Ancora una volta ci stupì». Non c`è giudizio nelle parole di Vanna, mentre offre il ricordo di Adele nel suo rapporto con la maternità. Vuole descrivere l`effetto dirompente che le scelte della nipote di Rina Faccio - in arte Sibilla Aleramo - avevano sugli schemi mentali delle persone che incontrava. Così è stata la sua pratica nonviolenta, perla quale nel `75 scontò 36 giorni di carcere per procurato aborto.
Tiziana Garlato la incontra in questa fase: «nonviolenza significa portare una contraddizione ad esplodere. Questa fu la pratica di chi si autodenunciò per procurato aborto. Adele lo fece in maniera plateale, con la precisa intenzione di farsi arrestare. Io avevo abortito a 19 anni, con cm noto "cucchiaio d`oro", il dottor Bellincioni della Salus, clinica privata cattolica. Centomilalire nel `72, venti donne stipate in una misera stanzetta, i dottori nervòsissimi e impacciati.
Con quella esperienza alle spalle andai subito al Cisa, - racconta - volevo fare qualcosa. Ormai il Centro era conosciuto. Nei giorni di consultorio la fila delle donne arrivava in strada. Io davo la mia casa per gli aborti, in una stanza avevo messo un lettino ginecologico e nel box si approntava I`apparecchìatura per il metodo Karman», di cui Adele fu strenua promotrice. Quello realizzato dai medici del Cisa si praticava inserendo nell`utero un sistema di cannule di metallo a diametro graduato, collegate ad una macchina aspiratrice. Il metodo era ritenuto più sicuro ed efficace di quello per raschiamento.
Le contestazioni non mancavano neanche da parte femminista, come ricorda Luigi De Marchi che conosceva Adele Faccio dagli anni Sessanta per aver scritto dei propri studi su Wilhelm Reich sulla rivista da lei diretta, Il Canguro. De Marchi racconta di quella volta che invitò Harvey Karmarn a Milano per un seminario di formazione: «la sede fu improvvisamente invasa da turbe di ragazzine che cercarono di bruciare gli arredi al grido di "De Marchi Karman agenti della Cia", minacciandoci di gambizzazione». Questo per dire quanto fosse frastagliato e conflittuale l`arcipelago (lei soggetti che lottavano contro l`aborto clandestino. «Con Adele - ricorda De Marchi - avevamo lavorato insieme per l`Aied (Associazione italiana educazione demografica), in contrasto con il Cemp (Centro informazione matrimoniale e prematrimoniale), che si manteneva sul piano della contraccezione non volendo uno scontro frontale con il mondo religioso. Ma sporcare le mani con l`aborto. Così Adele se ne distaccò e insieme a Tassin ari fondò il Cisa».
«Nei giorni di consultorio, 2 volte a settimana, arrivavano fino a 100 donne - spiega Vanna -. Ci si divideva in gruppi di una decina, con una di noi referent e che spiegava quali fossero i metodi contraccettivi e come si sarebbe svolta l`interruzione di gravidanza. I gruppi si distinguevano tra chi era entro il limite di 8 settimane di gravidanza e chi lo superava. Nel primo caso, una metteva a disposizione la propria casa, si fissava data e ora, niente dì, scritto. Si era deciso 50 mila lire per intervento, chi non poteva non pagava. Nel secondo caso il gruppo andava in Inghilterra, dove le aspettava una compagna che aveva localizzato una buona clinica e si occupava della logistica - racconta Vanna, che in quei primi anni Settanta partecipava an che al gruppo femminista di Via Cherubini a Milano - quando la voce si è sparsa anche lì, tante ragazze sono venute ad aiutarci. Ascoltando tutte quelle donne ci siamo accorte della vastità del fenomeno degli aborti clandestini e della grande ignoranza in materia di sessualità. Per questo abbìamo poi fondato il Ced (Centro educazione demografica)».
Nel 1978 fu varatala legge 194 intitolata "Norme perla tutela sociale della maternità e sull`interruzione volontaria della gravidanza". In Parlamento Adele Faccio votò contro, insieme agli altri deputati del partito radicale Emma Bonino, Marco Pannella, Mauro Mellini. Nel discorso alla Carnera, Emma Bonino esplicitò il loro rammarico, riconoscendo in quella votazione il «momento culminante di dieci annidi lotte radicali e femrniriiste, che sono diventate lotte di tutte le donne italiane» e rinotivando il voto con il fatto che la legge 194, frutto di troppe mediazioni, avrebbe affidato le donne ad un itinerario burocratico nel quale si sarebbero scontrate con la diffidenza e l`ostilità delle strutture sanitarie, cori le resistenze e i pregiudizi della classe medica, con «l`atteggiamento e il potere di una Chiesa che ha già mobilitato tutte le sue forze contro questa legge, per vanìficarne le già limitate e circoscritte possibilità di applicazione». Così si chiude la stagione dell`impegno di Adele per l`aborto.
A un anno dalla sua scomparsa, il ricordo dell`amico e compagno di lotte Emilio Montorfano: «aveva un cuore enorme. La sua casa era aperta a tutte le ragazze che si sentivano allo sbando. Le amava molto e per dare a loro rinunciava a cose per sé. Le piaceva vedere nascere le coppie. "Mi manca un compagno", diceva. Avrebbe voluto impegnarsi per aiutare le donne prostitute, ma non trovò un`organizzazione che la sostenesse "non si può fare niente perché tutti hanno paura delle cosche"». Del periodo passato insieme, Tiziana racconta «come allora un pó tutto si permeasse di Adele, diventasse "Adele": tutto diveniva determinato e al contempo ironico, serissimo ma leggero, a volte anche spigoloso, altre volte ancora indulgente verso le stesse cose che andavamo - e con quanta passione! combattendo...». Di sé stessa Adele Faccio ha scritto: «Non voglio l`amore solo per me, ma anche e sempre per tutti, e questo rompe».

Cyrus
06-10-09, 11:10
indice
pag 1 Mario Pannunzio
pag 2 Ernesto Rossi
pag 3 Adelaide Aglietta
pag 4 Leo Valiani
pag 5 Felice Cavallotti
pag 6 Ernesto Nathan
pag 8 Ernesto Rossi (2ap)
pag 9 Luigi Del Gatto
pag 9 Adele Faccio

proponete anche voi nuovi nomi per la prosecuzione di questo thread

zulux
07-10-09, 11:39
...calogero...piccardi...giovanni ferrara... vittorini...

Nicola
07-10-09, 13:10
Leonardo Sciascia

edera rossa
08-10-09, 00:06
...calogero...piccardi...giovanni ferrara... vittorini...

giovanni ferrara era senatore per il partito repubblicano. forse ti riferisci al padre che era su posizioni di sinistra liberale ( da giovine fu avvocato in difesa di quelli della settimanana rossa e fece a tempo a scrivere sul mondo di Pannunzio)
tra le tante cose di Giovanni Ferrara ( bello un suo saggio sul laicismo) ricordo una memorabile serata televisiva in cui , assieme ad un altro repubblicano Paolo Ungari, intervennero a favore dell'obbiezione di coscienza.

libertando
16-10-09, 22:58
Antonio Russo, nove anni fa, ha smesso di raccontare le guerre
Inserito il 16 ottobre 2009
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Tags: Antonio Russo, Cecenia, Kosovo, Radio Radicale, Russia
Antonio Russo, nove anni fa, ha smesso di raccontare le guerre

Nove anni fa veniva ucciso Antonio Russo, perchè aveva messo il naso nelle questioni più sporche di una delle guerre più sporche che si possano immaginare, quella cecena. Era un reporter abbastanza spericolato, abituato forse a lasciare in pensiero tutti e a non prendersi pensiero dei rischi che correva. Aveva frequentato e raccontato un altro verminaio nazionalista e genocidario, quello miloseviciano, ma ne era scampato.

Dopo l’espulsione di tutti i giornalisti dal Kosovo, era rimasto nascosto nelle cantine di Pristina, unico cronista internazionale, a raccontare per Radio Radicale l’assedio e la fuga della maggioranza albanese, con corrispondenze talmente vere da apparire inverosimili. Tornato in Italia, era stato assalito e picchiato alla stazione di Mestre da alcuni, diciamo, pacifisti, che gli rimproveravano di stare dalla parte degli aggressori americani, anche se gli americani (e gli italiani) stavano dalla parte degli aggrediti.

Era stato su molti altri fronti di guerra (Ruanda, Burundi, Bosnia, Algeria…), con la sua faccia assai poco professionale. Con la sua militanza irregolare a mezza strada tra l’informazione e la politica, era un giornalista sui generis. Faceva, d’altra parte, un altro mestiere rispetto a quello degli intervistatori delle mignotte e dei pedinatori dei giudici.

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Carmelo Palma -

Cyrus
19-10-09, 12:29
Grazie mille a voi tutti per gli ottimi suggerimenti

Cyrus
24-01-10, 19:11
Antonio Russo
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Antonio Russo (Francavilla al Mare, 3 giugno 1960 – Tiblisi, 16 ottobre 2000) è stato un giornalista italiano, ucciso in circostanze misteriose nei pressi della città georgiana di Tiblisi.
Biografia [modifica]

Antonio Russo era un free-lance, abituato a vivere in prima persona gli eventi più scottanti. Non aveva voluto iscriversi all'Ordine dei giornalisti e aveva rifiutato offerte di testate blasonate, poiché così si sentiva libero di raccontare senza veti le realtà della guerra e - diceva - le atrocità che le popolazioni civili erano costrette a subire.

Russo è stato per molti anni free lance e reporter internazionale di Radio Radicale. Tra le sue corrispondenze più note quelle dall'Algeria, durante gli anni sanguinosi della repressione, dal Burundi e dal Rwanda, che hanno documentato la guerra nella regione dei grandi laghi, e poi dall'Ucraina, dalla Colombia e da Sarajevo.

Russo fu inoltre inviato di Radio Radicale in Kosovo, dove rimase - unico giornalista occidentale presente nella regione durante i bombardamenti NATO - fino al 31 marzo 1999 per documentare la pulizia etnica contro gli albanesi kosovari. Nel corso di quelle settimane collaborò anche con altri media italiani e con agenzie internazionali.

In quell'occasione fu anche protagonista di una rocambolesca fuga dai rastrellamenti serbi, unendosi ad un convoglio di rifugiati kosovari diretto in treno verso la Macedonia. Il convoglio si fermò durante il percorso e Antonio Russo raggiunse Skopjie a piedi. Di lui non si ebbero notizie per due giornate intere, in cui lo si diede già per disperso.

Antonio Russo è deceduto tra la notte del 15/16 ottobre 2000 in Georgia, dove si trovava in qualità di inviato di Radio Radicale per documentare la guerra in Cecenia. Il suo corpo fu ritrovato ai bordi di una stradina di campagna a 25 km da Tbilisi, torturato e livido, con tecniche riconducibili a reparti specializzati militari. Il materiale che aveva con sé - videocassette, articoli, appunti - non fu ritrovato, anche il suo alloggio fu ritrovato svaligiato da appunti e video (pur senza toccare oggetti di valore).

Le circostanze della morte non sono mai state chiarite, ma molti hanno avanzato pesanti accuse al governo di Vladimir Putin a Mosca: Antonio Russo aveva infatti cominciato a trasmettere in Italia notizie scottanti circa la guerra, e aveva parlato alla madre, solo due giorni prima della morte, di una videocassetta scioccante contenente torture e violenze dei reparti speciali russi ai danni della popolazione cecena. Secondo i suoi amici, Russo aveva raccolto prove dell'utilizzo di armi non convenzionali contro bambini ceceni [1].

Cyrus
24-01-10, 19:13
Antonio Russo. Radicale giornalista inviato in Cecenia ucciso dal regime di Putin
Pubblicato il 13 Ottobre 2006 da Diego Galli

«Anna come Antonio, chi parla di Cecenia muore». Così l'Information Safety and Freedom, organizzazione di giornalisti a difesa della libertà di stampa, ha collegato in un comunicato stampa l'assassinio della giornalista russa Anna Politkovskaya alla morte di Antonio Russo in Georgia, il paese dove l'inviato di Radio Radicale si trovava per seguire il conflitto ceceno.

Il suo corpo fu ritrovato ai bordi di una stradina di campagna a 25 km da Tbilisi, torturato con tecniche riconducibili ai servizi segreti russi. Il materiale che aveva con sé - videocassette, articoli, appunti - non fu ritrovato, anche il suo alloggio fu ritrovato svaligiato da appunti e video (pur senza toccare oggetti di valore).

Le circostanze della morte non sono mai state chiarite, ma numerosi inidizi conducono al governo di Vladimir Putin a Mosca: Antonio Russo aveva infatti cominciato a trasmettere in Italia notizie scottanti circa la guerra, e aveva parlato alla madre, solo due giorni prima della morte, di una videocassetta scioccante contenente torture e violenze dei reparti speciali russi ai danni della popolazione cecena. Secondo i suoi amici, Russo aveva raccolto prove dell'utilizzo di armi non convenzionali contro bambini ceceni.


I riconoscimenti

Antonio Russo riceve il VII° Premio Sarteano “Penne Pulite”

Antonio Russo riceve il Premio Andrea Barbato

Premio Giornalistico “Pietro L’aretino”: Un premio speciale alla memoria di Antonio Russo

Quirinale: Consegnato alla memoria di Antonio Russo il 36° premio giornalistico Saint Vincent

Prima giornata di commemorazione di Antonio Russo

Premio Antonio Russo: Prima edizione dedicata al reportage di guerra

Premio nazionale sul reportage di guerra “Antonio Russo” (II edizione)

Premio nazionale sul reportage di guerra “Antonio Russo” (III edizione)

Premio nazionale sul reportage di guerra “Antonio Russo” (V edizione)





Erano le 14 e 10 del 16 ottobre del 2000 quando dalla Farnesina giungeva la notizia del ritrovamento del corpo privo di vita di Antonio nelle vicinanze di Tiblisi, capitale della Georgia. La porta della sua abitazione è stata trovata aperta. Russo era in procinto di rientrare in Italia per portare nuove testimonianze e documenti sull’atrocità della guerra in Cecenia

E’ morto Antonio Russo

«Antonio era lì perché non era tipo da scrivania. Dopo due o tre mesi di vita cittadina, scalpitava per andare altrove. Era sempre di passaggio. In Ruanda e Burundi durante i massacri hutu e tutsi; in Algeria, quando uomini, donne e bambine venivano sgozzati; a Sarajevo, quando i cecchini freddavano i civili al mercato.

Mai un recapito telefonico d’albergo. Ha sempre scelto di mescolarsi. “Sono a casa di amici, mi ospitano finché possono”. A volte al buio, come accadde a Prishtina: in tutto il Kossovo non c’era più un solo giornalista occidentale. Si era nascosto in una casa privata: i serbi sapevano di lui, ma non riuscivano a trovarlo. Tra un rastrellamento e l’altro, riusci’ a scappare mescolandosi a una colonna di profughi kossovari, salto’ su un treno e arrivò in Macedonia. Ma per lui, quella non poteva restare soltanto un’esperienza professionale: non ha mai voluto vendere il materiale che aveva raccolto e consegnato al Tribunale ad hoc sulla ex-Jugoslavia, per documentare la pulizia etnica dei generali di Milosevic.

Antonio Russo non apparteneva all’ordine dei giornalisti: era un free-lance. Molto free. Il suo linguaggio scarno e crudo lo teneva lontano da ogni compiacimento: non c’era alchimia, non c’era narcisismo. Orgoglio sì, e tanto».

“Un freelance davvero free”. Il ricordo dei capo-redattori di Radio Radicale

L’autopsia rivela che l’inviato di Radio Radicale è stato ucciso da colpi inferti alla cassa toracica che hanno provocato lesioni interne letali. Radio Radicale ha raccolto la testimonianza dell’ambasciatore italiano in Georgia, Michelangelo Pipan.



Ad Antonio Russo verrà dedicato un premio giornalisto per il reportage di guerra e un film.

A differenza di quanto inizialmente ipotizzato il corpo di Antonio Russo non fu trovato nella strada che portava da Tbilisi verso la gola di Pankisi, bensì sulla strada che dalla capitale georgiana porta al confine con l’Armenia. L’elemento - emerso dal referto medico georgiano - è particolarmente significativo poichè su questa strada c’è la base russa di Vasiani.

La matrice russa, del resto, era emersa chiaramente anche da fatti e date politiche: nel suo ultimo intervento pubblico Antonio Russo aveva parlato del possibile uso dei proiettili all’uranio impoverito in Cecenia in una conferenza sull’impatto ambientale della guerra in Cecenia che la Federazione Russa aveva fortemente contrastato, arrivando ad accusare il presidente Georgiano Shevarnadze di collaborare con il terrorismo. In quella sede Antonio aveva anche fatto esplicitamente riferimento alla sua ulteriormente motivazione che l’aveva spinto in Georgia: raccogliere documenti e prove a difesa della incredibile ed infamante accusa che la Federazione Russa, aveva rivolto contro il Partito Radicale Transnazionale chiedendone l’espulsione dall’Onu: narcotraffico, pedofilia e terrorismo. Qualche giorno prima della sua morte Antonio aveva comunicato ad Olivier Dupuis, allora segretario del Partito, di essere in procinto di tornare in Italia per portare la documentazione raccolta a difesa del Pr e contro la Federazione Russa. Quei documenti trafugati dalla casa georgiana di Antonio, proprio nella notte del suo omicidio.

L’ultimo intervento pubblico (finora inedito) di Antonio Russo: Impatti della guerra sull’ambiente

4 ottobre 2006 - Giulio Savina, che ha partecipato alla missione Osce per l’addestramento dei soldati georgiani, parla del servizio mandato in onda dalla tv georgiana Rustavi 2 in cui si denuncia il coinvolgimento dei servizi segreti militari russi nell’uccisione di Antonio Russo

12 novembre 2000 - L’articolo del quotidiano britannico The Observer
Antonio Russo in KosovoAntonio Russo in Kosovo

Antonio Russo - che per Radio Radicale era stato inviato anche in Algeria, Rwanda, Zaire, Bosnia e Kossovo - aveva affrontato altre volte in prima linea i rischi legati all’essere una voce di informazione libera in situazioni di conflitto. Nella primavera del 1999 si trovava a Pristina nei giorni più cupi della pulizia etnica attuata da Belgrado in Kossovo, avendo rifiutato di abbandonare la città sotto assedio come era stato ordinato alla stampa dall’esercito serbo.

Il 30 marzo da Radio Radicale si perdono le sue tracce. Sono giorni terribili, nel corso dei quali si teme il peggio.

Ma tre giorni dopo ricompare a Skopije, in Macedonia, dove arriva mimetizzandosi nelle colonne di profughi che scappano ai retaggi effettuati dalle milizie serbe. Nel corso della conferenza stampa convocata negli studi di Radio Radicale da Marco Pannella e Massimo Bordin, Antonio Russo interviene telefonicamente raccontando le sue ore da “profugo kossovaro”.

Antonio Russo è salvo: «Io, nell’esodo di profughi dal Kosovo»

L’uccisione di Antonio Russo si lega in parte alla richiesta di espulsione dall’Onu, avanzata dalla Russia proprio durante la permanenza di Russo in Cecenia, nei confronti del Partito radicale transnazionale, reo di aver concesso diritto di tribuna, alla Commissione diritti umani delle Nazioni Unite, a rappresentanti del popolo ceceno definiti “terroristi” da Mosca.

Il 18 ottobre il comitato dell’Onu chiamato a decidere sulla richiesta Russa, nella sorpresa generale, bocciò per la prima volta dalla sua esistenza una raccomandazione presentata da uno dei membri permanenti delle Nazioni Unite con un voto contrapposto (23 voti contro la proposta russa, 20 a favore e 9 astenuti).

Storica vittoria del PR all’ONU “in memoria di Antonio Russo”: Radiocronaca e commenti a caldo

Antonio Russo era un free-lance, abituato a vivere in prima persona gli eventi più scottanti. Non aveva voluto iscriversi all’Ordine dei Giornalisti. Ha lavorato a Radio Radicale dal 1995 alla sua morte.

In un’intervista rilasciata al sito di Rai Educational Mediamente, Antonio Russo parlava dell’importanza della possibilità di riascoltare su internet le sue corrispondenze:
La mamma di Antonio Russo alla cerimonia di conferimento del Premio Antonio Russo per il reportage di guerraLa mamma di Antonio Russo alla cerimonia di conferimento del Premio Antonio Russo per il reportage di guerra

«Le testimonianze dei miei reportage radiofonici sono stati conservate nell’archivio della radio e sono state anche trasferite via Web. Questo è a mio avviso importante per due motivi. Il primo consiste nel fatto che bisogna comunque possedere una memoria storica. Questo è un dato che un po’ la tecnologia trascura. L’informazione valida è quella che abbia la possibilità di essere reperita storicamente. “Laudatur tempores acti” diceva Dante, “si lodino i tempi passati”, in quanto ‘exempla’ di un’esperienza. Gli esempi storici si traducono nella capacità di analizzare il presente e prevedere il futuro. con un fondamento abbastanza solido.

In secondo luogo penso che la quotidianità della informazione che ha luogo attraverso la testimonianza diretta abbia un valore perché fa capire cosa realmente è in atto. C’è ancora parecchia confusione sull’informazione che stiamo portando avanti sul Kossovo. La possibilità di reperire i miei reportage e risentirli via Web aiuta la gente ad avere un’immagine più precisa degli eventi in corso.

Fondamentalmente noi dobbiamo ricordarci che l’informazione è un veicolo diretto all’utente, non è un soliloquio da parte del giornalista. Bisogna tenere sempre presente che chi è dall’altra parte del microfono deve poter comprendere una realtà in cui non è presente. Questo, penso, è il massimo sforzo che i giornalisti devono compiere».

L’estremo saluto ad Antonio Russo, Francavilla a Mare, 28 ottobre 2000

Cyrus
24-01-10, 19:14
Antonio Russo, nove anni fa, ha smesso di raccontare le guerre
Inserito il 16 ottobre 2009

Antonio Russo, nove anni fa, ha smesso di raccontare le guerre

Nove anni fa veniva ucciso Antonio Russo, perchè aveva messo il naso nelle questioni più sporche di una delle guerre più sporche che si possano immaginare, quella cecena. Era un reporter abbastanza spericolato, abituato forse a lasciare in pensiero tutti e a non prendersi pensiero dei rischi che correva. Aveva frequentato e raccontato un altro verminaio nazionalista e genocidario, quello miloseviciano, ma ne era scampato.

Dopo l’espulsione di tutti i giornalisti dal Kosovo, era rimasto nascosto nelle cantine di Pristina, unico cronista internazionale, a raccontare per Radio Radicale l’assedio e la fuga della maggioranza albanese, con corrispondenze talmente vere da apparire inverosimili. Tornato in Italia, era stato assalito e picchiato alla stazione di Mestre da alcuni, diciamo, pacifisti, che gli rimproveravano di stare dalla parte degli aggressori americani, anche se gli americani (e gli italiani) stavano dalla parte degli aggrediti.

Era stato su molti altri fronti di guerra (Ruanda, Burundi, Bosnia, Algeria…), con la sua faccia assai poco professionale. Con la sua militanza irregolare a mezza strada tra l’informazione e la politica, era un giornalista sui generis. Faceva, d’altra parte, un altro mestiere rispetto a quello degli intervistatori delle mignotte e dei pedinatori dei giudici.

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Carmelo Palma -

Cyrus
24-01-10, 19:15
Un ritratto di Antonio Russo
Pubblicato il 13 Ottobre 2006 da Diego Galli

Un ritratto di Stefania Pavone tratto dal sito della Free Lance International Press, di cui Antonio Russo era stato vice presidente

E’ un bambino silenzioso che quasi non parla, invaghito di miti classici della grecità, la futura voce che racconterà a tutto il mondo la deportazione dei kosovari albanesi nel marzo 1999. Nato nel 1961 a Chieti, è prelevato da un orfanotrofio abruzzese a circa 6 anni. Cercherà con disperazione , per tutta la vita, la sua vera origine.

Ad un amico, dirà che, forse, i suoi veri genitori sono dei kosovari. Già orientato alla prassi, lascia negli anni ’80 la Facoltà di Veterinaria di Pisa per iscriversi, nell’86, alla Facoltà di Filosofia de “ La Sapienza” di Roma. Sempre nell’86 fonda con un gruppo di studenti la rivista “Philosophema”, cui dedicherà gran parte del suo impegno intellettuale. Spregiudicato, acuminato come gli illuministi che amava, all’Università approfondisce i problemi di filosofia del linguaggio e di filosofia della scienza. Da editore autogestito e autoprodotto, pubblica “ Lineamenti di una teoria dell’etnocidio” del filosofo di teorica Rodolfo Calpini e “La storia infinita”, raccolta di profili storiografici sul tema del nazionalismo tragicamente risorto nel mondo post- bipolare. Il giornalismo si staglia come una scelta più lenta: lo attraggono la militanza politica nella Gioventù Federalista e gli assemblearismi degli ambienti radicali. Nel ’94, attraversa in chiave pedagogica la piccola rivista “ Specchio”, poi è ancora nei seminari internazionali di Ventotene della Gioventù Federalista. E’ qui che la vocazione cosmopolita sboccia conducendolo al giornalismo. Intellettuale che “ dice la verità” sempre e comunque, antiaccademico, che rifiuta, da outsider, di specializzarsi in funzione del potere, prima dell’arrivo a Radio Radicale matura una lunga serie di umiliazioni: le redazioni italiane gli chiudono decisamente le porte. Note le sue missioni per Radio Radicale: Cipro, Algeria, Kossovo, Ruanda, Cecenia. Il giornalismo di Antonio Russo intreccia nella scrittura motivi da classico hemingwayano, il freddo ragionamento sulle logiche della realpolitik, fino a notazioni da etnografo pratico. Ha scritto una pagina gloriosa della stampa mondiale semplicemente vivendo la guerra con gli occhi di chi, secondo lui, la subiva più degli altri. Muore fragorosamente in Cecenia, urlando, con il suo corpo torturato tutto il carico di angoscia di lucido intellettuale del suo tempo. Partigiano per poter dire il dolore della Storia, per ironia della stessa, sulla sua fine grava un silenzio di piombo: quel silenzio su cui si è appuntata attraverso una fervida passione filosofica, la sua stessa riflessione sulla guerra.

Cyrus
24-01-10, 19:16
Un freelance davvero free
Di Ada Pagliarulo e Paolo Martini - 27 maggio 2000

Lo hanno trovato sul ciglio di una strada, a pochi chilometri da Tbilisi, con il torace fracassato. Antonio Russo, quarant’anni, inviato di Radio Radicale, si trovava in Georgia per tentare di documentare la guerra dei russi contro la Cecenia, dove era gia’ stato l’anno scorso.Questa volta non era riuscito ad arrivare sui luoghi del conflitto: aveva tentato piu’ di una volta di raggiungerli, utilizzando una rete di contatti tra i guerriglieri ceceni, ma il controllo era diventato ormai serratissimo.

Spariti computer e telefonino. Pare abbia dato a qualcuno di cui si fidava nuovo materiale su quella guerra. Nelle sue intenzioni, quella documentazione avrebbe dovuto comporsi in un dossier da consegnare nelle mani dell’alto commissario ONU per i diritti umani, Mary Robinson.

Antonio non piaceva ai russi, irritati per l’ingerenza nei loro affari interni di tutti quei rompiballe collegati ai radicali, che erano arrivati addirittura a far parlare, dalla Commissione diritti umani a Ginevra, un parlamentare ceceno.

Antonio era li’ perche’ non era tipo da scrivania. Dopo due o tre mesi di vita cittadina, scalpitava per andare altrove. Era sempre di passaggio. In Ruanda e Burundi durante i massacri hutu e tutsi; in Algeria, quando uomini, donne e bambine venivano sgozzati; a Sarajevo, quando i cecchini freddavano i civili al mercato.

Mai un recapito telefonico d’albergo. Ha sempre scelto di mescolarsi. “Sono a casa di amici, mi ospitano finche’ possono”. A volte al buio, come accadde a Prishtina: in tutto il Kossovo non c’era piu’ un solo giornalista occidentale. Si era nascosto in una casa privata: i serbi sapevano di lui, ma non riuscivano a trovarlo. Tra un rastrellamento e l’altro, riusci’ a scappare mescolandosi a una colonna di profughi kossovari, salto’ su un treno e arrivo’ in Macedonia. Ma per lui, quella non poteva restare soltanto un’esperienza professionale: non ha mai voluto vendere il materiale che aveva raccolto e consegnato al Tribunale ad hoc sulla ex-Jugoslavia, per documentare la pulizia etnica dei generali di Milosevic .

Antonio Russo non apparteneva all’ordine dei giornalisti: era un free-lance. Molto free. Il suo linguaggio scarno e crudo lo teneva lontano da ogni compiacimento: non c’era alchimia, non c’era narcisismo. Orgoglio sì, e tanto.

“Senti, Mentana, adesso m’hai rotto il cazzo”. Pronunciò questa frase il giorno che era circondato dai cronisti di mezzo mondo che gli chiedevano, a Skopje, l’ennesimo racconto di quella fuga “rocambolesca” - cosi’ scrivevano - da Prishtina. C’era poco di rocambolesco, aveva paura e basta. La sera prima di sparire sul treno aveva parlato in diretta alla radio per due ore. E aveva esordito così: “qui è un casino”.

Non gli piacevano gli alberghi internazionali per cronisti. Li considerava parte di una specie di circuito turistico ad hoc dedicato alla stampa di guerra. Antonio li chiamava “i viaggi organizzati”. Lui cercava una casa per ospitare amici, gente del posto che fosse disposta a raccontare. Per loro e con loro cucinava e beveva. “Na sdarovie”, alla salute di quei disperati. A Prishtina e’ stato cosi’, a Tblisi era cosi’. Cercava di sbarazzarsi al piu’ presto degli interpreti e dell’inglese standard da inviato, per assimilare e assimilarsi agli interlocutori del luogo.

I “grandi” cronisti storcevano il naso ascoltando il suo raccontare naif, e alzavano le sopracciglia ostentando perplessita’ sulle sue “fonti”. Ma e’ al “gazetari italian Antonio Russo” e alla sua morte che il quotidiano kossovaro “Koha Ditore” ha subito dedicato un articolo. Con foto di lui, felice di essere al centro della polveriera, accanto a un kossovaro in divisa. I due si guardano negli occhi, confusi tra una folla di profughi . Il “gazetari” ride, la distanza e’ annullata.

Lui era stato capace, la notte del capodanno 2000, di raccontare i festeggiamenti da un villaggio al confine tra la Georgia e la Cecenia, nell’area di Pankisi. Il capodanno dal Caucaso, con tre ore di anticipo rispetto al nostro. Non era uno scoop particolare, ma in radio “funzionò” meglio di qualsiasi altra trasmissione fatta da Radio Radicale a quell’ora.

Quando torno’ dal Kossovo, gli chiesero di scrivere un libro. Lo fece, ma non sappiamo cosa ne sia stato. Volevano girare un film su di lui, e un giorno arrivo’ in radio un giorno con un soggetto scritto - disse - “da un certo Aurelio Grimaldi”. Era esattamente come uno si aspetta che sia un film di Grimaldi: un cronista che ha visto gli orrori delle guerre, che si ubriaca e chiama di notte la sua compagna dicendo: “stanotte voglio scopare”. Piu’ o meno cosi’.

Non crediamo che Antonio si riconoscesse nel personaggio. Chissa’ se nel film ci sara’ la storia dell’anellone che aveva al dito, quello che fu costretto a tagliare al ritorno dalla Bosnia. Una ferita da nulla, che non aveva potuto mai disinfettare a fondo, gli aveva provocato una infezione sotto l’anello. Non riusciva piu’ a sfilarlo. “L’ho segato via”, disse. Si e’ invece sempre rifiutato di tagliare il lungo codino un po’ fuori moda che gli scendeva sulle spalle. E che lo rendeva cosi’ pericolosamente riconoscibile. “Anto’, mo’ che torni in Cecenia tagliati quel codino…”.

Tre, quattro, cinque premi: giornalista dell’anno a Ischia, premio Andrea Barbato, premio Ilaria Alpi… Spesso preferiva far parlare le fotografie, le riprese amatoriali che poi faceva circolare in Rete. Era l’evidenza cruda della guerra in Cecenia: prove, andava alla ricerca delle prove di un genocidio quando ancora le cronache dei giornali parlavano solo di “ceceni mafiosi”.

Che il suo omicidio abbia ragioni politiche è probabile. Ma certa è la determinazione con cui ha inseguito, cercato le notizie in situazioni di totale, assoluto e controllato black-out dell’informazione. Dove cercarle imponeva il contatto con persone che avrebbero messo a rischio la sua incolumità. Paesi in cui chi ti fa fuori è sicuro che non sarà facile capire se sei stato ammazzato per i dollari che hai in tasca o per quello che hai visto e raccontato.

Cyrus
24-01-10, 19:17
Intervista a Beatrice Russo: «Antonio amava la verità e la giustizia»
21 ottobre 2000 - 00:00

Roma, 21 ottobre 2000 - Documento sonoro dell'intervista di Massimo Bordin a Beatrice Russo, di ritorno da Tiblisi dove è stata accompagnata dal segretario del partito radicale, Olivier Dupuis, e da Marco Busdachin. La madre di Antonio Russo racconta ai microfoni di Radio Radicale l'esito degli incontri con l'ambasciatore italiano, il governatore della Georgia e il presidente del Parlamento georgiano, e riporta i risultati dell'autopsia e delle indagini in corso.

Intervista a Beatrice Russo: «Antonio amava la verità e la giustizia» | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/192129)

Cyrus
24-01-10, 19:18
L'estremo saluto ad Antonio Russo
28 ottobre 2000 - 00:00
Invia a un amico, Stampa
Francavilla a Mare (CH), 28 ottobre 2000 - Documento audiovideo dei funerali di Antonio Russo, giornalista e inviato di Radio Radicale, assassinato il 15 ottobre 2000 in Georgia, località dalla quale documentava le atrocità della guerra Russo-Cecena.

L&#039;estremo saluto ad Antonio Russo | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/192149/lestremo-saluto-ad-antonio-russo)

Cyrus
24-01-10, 19:19
Cecenia e la morte di Antonio Russo
scritto da samuelesiani il venerdì, 16 ottobre 2009,15:12
Ieri pomeriggio la mia Associazione Aglietta ha organizzato la proiezione del film Cecenia, al King, un piccolo e interessante cinema di Torino.

Il film perduto di Leonardo Giuliano con Gianmarco Tognazzi racconta la storia vera del giornalista di Radio Radicale, Antonio Russo: un giornalista ucciso barbaramente come Ilaria Alpi, Giancarlo Siani, Anna Politoscaia.

Antonio Russo è stato testimone dai peggiori teatri di guerra: dal Kosovo, a Sarajevo, dalla Colombia, al Burundi e Ruwanda, fino alla Cecenia.

Quando è stato ucciso aveva appena chiamato sua madre: piangeva come non lo avava mai sentito. Aveva le prove in una videocassetta, racconta la donna, delle torture che medici russi compievano su uomini, donne, e bambini ceceni.

Secondo alcuni suoi amici, aveva raccolto prove dell'utilizzo di armi non convenzionali su bambini.

E' stato trovato morto, livido e coi segni delle torture subite, nei pressi della città georgiana di Tiblisi, il 16 ottobre 2009. Il suo appartamento è stato ripulito da ogni appunto.

Aveva solo quarant'anni.

Ad oggi non si conoscono i mandanti del suo omicidio.

Cyrus
24-01-10, 19:20
Antonio Russo: "Dobbiamo ricordarci che l'informazione è un veicolo diretto all'utente, non un soliloquio da parte del giornalista. Bisogna tenere sempre presente che chi è dall'altra parte deve poter comprendere una realtà in cui non è presente".

Antonio Russo (Francavilla, 1960- Tbilisi, 2000) era un free-lance, abituato a vivere in prima persona gli eventi più scottanti. Non aveva voluto iscriversi all'Ordine dei giornalisti e aveva rifiutato offerte di testate blasonate, poiché così si sentiva libero di raccontare senza veti le realtà della guerra e - diceva - le atrocità che le popolazioni civili erano costrette a subire.

Russo è stato per molti anni free lance e reporter internazionale di Radio Radicale. Tra le sue corrispondenze più note quelle dall'Algeria, durante gli anni sanguinosi della repressione, dal Burundi e dal Rwanda, che hanno documentato la guerra nella regione dei grandi laghi, e poi dall'Ucraina, dalla Colombia e da Sarajevo.

Russo fu inoltre inviato di Radio Radicale in Kosovo, dove rimase - unico giornalista occidentale presente nella regione durante i bombardamenti NATO - fino al 31 marzo 1999 per documentare la pulizia etnica contro gli albanesi kosovari. Nel corso di quelle settimane collaborò anche con altri media italiani e con agenzie internazionali.

In quell'occasione fu anche protagonista di una rocambolesca fuga dai rastrellamenti serbi, unendosi ad un convoglio di rifugiati kosovari diretto in treno verso la Macedonia. Il convoglio si fermò durante il percorso e Antonio Russo raggiunse Skopjie a piedi. Di lui non si ebbero notizie per due giornate intere, in cui lo si diede già per disperso.

Antonio Russo è deceduto tra la notte del 16/17 ottobre 2000 in Georgia, dove si trovava in qualità di inviato di Radio Radicale per documentare la guerra in Cecenia. Il suo corpo fu ritrovato ai bordi di una stradina di campagna a 25 km da Tbilisi, torturato e livido, con tecniche riconducibili a reparti specializzati militari. Il materiale che aveva con sé - videocassette, articoli, appunti - non fu ritrovato, anche il suo alloggio fu ritrovato svaligiato da appunti e video (pur senza toccare oggetti di valore). Le circostanze della morte non sono mai state chiarite, ma molti hanno avanzato pesanti accuse al governo di Vladimir Putin a Mosca: Antonio Russo aveva infatti cominciato a trasmettere in Italia notizie scottanti circa la guerra, e aveva parlato alla madre, solo due giorni prima della morte, di una videocassetta scioccante contenente torture e violenze dei reparti speciali russi ai danni della popolazione cecena. Secondo i suoi amici, Russo aveva raccolto prove dell'utilizzo di armi non convenzionali contro bambini ceceni
Ultimo aggiornamento Sabato 17 Ottobre 2009 16:20

Cyrus
24-01-10, 19:20
Nove anni senza più Antonio Russo...
Etichette: GayaCsF, INFORMAZIONE/disinformazione alle 17.22
Dichiarazione di Sergio Stanzani, presidente del Partito Radicale Nonviolento, transnazionale e transpartito:


“Esattamente nove anni fa, il 16 ottobre 2000, veniva ritrovato nel Caucaso, a poca distanza dal confine ceceno, il corpo senza vita di Antonio Russo, giornalista e inviato di Radio Radicale. Era stato torturato e barbaramente trucidato. L’ampia documentazione giornalistica e fotografica che aveva raccolto non fu mai più ritrovata. Stava indagando con coraggio sui soprusi, le violenze, gli omicidi e i crimini che le truppe di occupazione russe perpetravano ogni giorno in Cecenia ai danni della popolazione civile, senza risparmiare neppure le donne e i bambini.

“Antonio Russo costituirà per sempre un ricordo indimenticabile nel cuore di tutti i radicali. Ricordo di un giornalista appassionato, coraggioso, ricco di umanità e privo di calcolo o tornaconto personale. Antonio ha pagato con la vita la sua passione professionale e il suo impegno civile e politico, come purtroppo è accaduto in questi anni a oltre 50 giornalisti, nella Russia post-sovietica.

“Altrettanto è accaduto a Mosca in precedenza a un altro militante del Partito Radicale Nonviolento, Andrea Tamburi, e in seguito alla coraggiosa giornalista russa Anna Politkovskaja e a molti altri. Antonio è morto per amore della verità. La sua tragica fine ci dice che dobbiamo raddoppiare gli sforzi per impedire che un nuovo tipo di totalitarismo, dopo quella zarista e quello sovietico, torni a imporsi in Russia, minacciando l’Europa e il mondo intero.

“Il Partito Radicale Nonviolento, transnazionale e transpartito, ricorda con dolore Antonio Russo e continua la sua lotta per fermare “l’amico Putin”, prima che sia troppo tardi”.

Cyrus
24-01-10, 19:22
Mentre i due grandi amiconi Silvio e Vladimir stanno danzando al suono della balalaika, Enzo Lombardo ci ricorda che dobbiamo commemorare un’altra vittima di Putin: l’italiano Antonio Russo che nove anni fa fu barbaramente ammazzato mentre documentava i crimini della nuova armata rossa in Cecenia. Antonio fu ammazzato a freddo dai reparti speciali vicino a Tblisi in Georgia. Speriamo che Silvio si sia divertito con Vladimir, l’uomo che fino alla caduta del Muro guidava, da ufficiale superiore del KGB a Dresda e a Berlino, la Stasi tedesca e i servizi connessi. Vuoi vedere che…
19 ottobre 2009 Enzo Lombardo ci scrive e colma un vuoto. Grazie.

IN MEMORIA DI ANTONIO RUSSO

Il 16 ottobre è ricorso il nono anniversario della morte di Antonio Russo, giornalista freelance di Radio Radicale che indagava sugli orrori russi nella guerra in Cecenia.
Il suo corpo torturato e straziato venne trovato ai bordi di una stradina di campagna a 25 Km da Tblisi, la capitale georgiana, torturato con tecniche riconducibili ai servizi segreti russi. Il materiale che aveva con sé – videocassette, articoli, appunti – non fu ritrovato, anche il suo alloggio fu ritrovato svaligiato da appunti e video (pur senza toccare oggetti di valore). Le circostanze della morte non sono mai state chiarite, ma numerosi inidizi conducono al governo di Vladimir Putin a Mosca: Antonio Russo aveva infatti cominciato a trasmettere in Italia notizie scottanti circa la guerra, e aveva parlato alla madre, solo due giorni prima della morte, di una videocassetta scioccante contenente torture e violenze dei reparti speciali russi ai danni della popolazione cecena. Secondo i suoi amici, Russo aveva raccolto prove dell’utilizzo di armi non convenzionali contro bambini ceceni.
Erano le 14 e 10 del 16 ottobre del 2000 quando dalla Farnesina giungeva la notizia del ritrovamento del corpo privo di vita di Antonio nelle vicinanze di Tiblisi, capitale della Georgia. La porta della sua abitazione è stata trovata aperta. Russo era in procinto di rientrare in Italia per portare nuove testimonianze e documenti sull’atrocità della guerra in Cecenia.
Antonio Russo è stato un giornalista coraggioso, l’unico che è rimasto a Pristina, in Kossovo, per informare il mondo delle atrocità serbe contro i civili kossovari a rischio della sua stessa vita. Corrispondenti molto più blasonati di lui erano già lontani……..
Questo il ritratto che a Free Lance International Press fa di lui.
E’ un bambino silenzioso che quasi non parla, invaghito di miti classici della grecità, la futura voce che racconterà a tutto il mondo la deportazione dei kosovari albanesi nel marzo 1999. Nato nel 1961 a Chieti, è prelevato da un orfanotrofio abruzzese a circa 6 anni. Cercherà con disperazione , per tutta la vita, la sua vera origine.
Ad un amico, dirà che, forse, i suoi veri genitori sono dei kosovari. Già orientato alla prassi, lascia negli anni ’80 la Facoltà di Veterinaria di Pisa per iscriversi, nell’86, alla Facoltà di Filosofia de “ La Sapienza” di Roma. Sempre nell’86 fonda con un gruppo di studenti la rivista “Philosophema”, cui dedicherà gran parte del suo impegno intellettuale. Spregiudicato, acuminato come gli illuministi che amava, all’Università approfondisce i problemi di filosofia del linguaggio e di filosofia della scienza. Da editore autogestito e autoprodotto, pubblica “ Lineamenti di una teoria dell’etnocidio” del filosofo di teorica Rodolfo Calpini e “La storia infinita”, raccolta di profili storiografici sul tema del nazionalismo tragicamente risorto nel mondo post- bipolare. Il giornalismo si staglia come una scelta più lenta: lo attraggono la militanza politica nella Gioventù Federalista e gli assemblearismi degli ambienti radicali. Nel ’94, attraversa in chiave pedagogica la piccola rivista “ Specchio”, poi è ancora nei seminari internazionali di Ventotene della Gioventù Federalista. E’ qui che la vocazione cosmopolita sboccia conducendolo al giornalismo. Intellettuale che “ dice la verità” sempre e comunque, antiaccademico, che rifiuta, da outsider, di specializzarsi in funzione del potere, prima dell’arrivo a Radio Radicale matura una lunga serie di umiliazioni: le redazioni italiane gli chiudono decisamente le porte. Note le sue missioni per Radio Radicale: Cipro, Algeria, Kossovo, Ruanda, Cecenia. Il giornalismo di Antonio Russo intreccia nella scrittura motivi da classico hemingwayano, il freddo ragionamento sulle logiche della realpolitik, fino a notazioni da etnografo pratico. Ha scritto una pagina gloriosa della stampa mondiale semplicemente vivendo la guerra con gli occhi di chi, secondo lui, la subiva più degli altri. Muore fragorosamente in Cecenia, urlando, con il suo corpo torturato tutto il carico di angoscia di lucido intellettuale del suo tempo. Partigiano per poter dire il dolore della Storia, per ironia della stessa, sulla sua fine grava un silenzio di piombo: quel silenzio su cui si è appuntata attraverso una fervida passione filosofica, la sua stessa riflessione sulla guerra.
Oggi nessuno ricorda quasi più Antonio, io voglio continuare a farlo…..e ringrazio anche voi che avete dedicato qualche minuto per lettura di queste righe. Forse l’anno prossimo il ricordo di Antonio sarà meno solo……ciao Antonio.

Rivoluzione Italiana - Il blog di Paolo Guzzanti Blog Archive Mentre i due grandi amiconi Silvio e Vladimir stanno danzando al suono della balalaika, Enzo Lombardo ci ricorda che dobbiamo commemorare un’altra vittima di Putin: l’itali (http://www.paologuzzanti.it/?p=1171)

Cyrus
24-01-10, 19:23
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Cyrus
24-01-10, 19:24
16 ottobre 2006

ANTONIO RUSSO, OVVERO: CHI TOCCA LA CECENIA MUORE

Sei anni fa veniva assassinato in Georgia Antonio Russo, giornalista freelance che indagava sull’operato russo in Cecenia. Riporto l’articolo pubblicato all’epoca da “The Observer”, ripreso da radical party.

IL REPORTER E' STATO UCCISO DAI SERVIZI SEGRETI DI PUTIN?
Amelia Gentleman in Moscow and Rory Carroll in Rome

Antonio Russo, trovato morto vicino a un passo di montagna caucasico, potrebbe avere scoperto troppo sulle atrocità in Cecenia.
Abbandonato sul ciglio della strada, in un passo tra i campi alle prime luci dell'alba, il contorto, congelato cadavere aveva qualcosa di strano. Antonio Russo era stato ucciso, e i suoi assassini si erano assicurati di non lasciare segni sul suo corpo.
Sull'altro lato del Passo Gombori, nella Repubblica della Georgia, gli amici lo stavano aspettando al villaggio di Mirzaani. Russo doveva unirsi alle celebrazioni per l'anniversario di Nico Pirosmani, un artista locale del diciannovesimo secolo. Non sapevano che un grande, pesante oggetto veniva schiacciato sul petto di Russo, finché la rottura di quattro costole e l'emorragia interna non causarono la sua morte.
Non sapevano che il suo telefono satellitare, la telecamera digitale, il computer portatile e le videocassette erano sparite. Un giornalista italiano che aveva speso la vita scoprendo segreti ne stava lasciando dietro di sé un altro. Chi lo ha ucciso, e perché?
Dalla strada 30 miglia a nord-est della capitale georgiana, Tblisi, c'è un filo di fatti e di sospetti che qualcuno afferma portino al Cremlino e alla aggressione russa alla Cecenia. Gli amici di Russo credono che lui sia stato assassinato dai servizi segreti russi dopo avere scoperto l'uso di armi non convenzionali contro i bambini. Sarebbe stato uno scoop per un reporter che rischiò la vita infinite volte in Africa, in Bosnia e in Kosovo.
Impiegato presso l'emittente di Roma Radio Radicale, affiliata al Partito Radicale italiano, rimase a Pristina quando tutti gli altri giornalisti occidentali se ne andarono durante i bombardamenti della Nato. Questo gli portò un premio e fama, ma Russo, quarantenne, non fu mai uno che cercava i riflettori. Lasciava ad altri la gloria. Poco denaro ed evitare la massa erano il suo stile.
Lo scorso novembre si spostò a Tblisi. Attraversando le montagne verso la Cecenia, fece amicizia con il leader dei ribelli, Aslan Mashkadov, che stava conducendo la guerra contro le truppe russe. Entrambe le parti stavano commettendo atrocità.
Il mese scorso Russo telefonò a sua madre, Beatrice, farmacista in Toscana. Aveva una videocassetta. Bambini morti, orrori inimmaginabili, crimini di guerra. Il mondo l'avrebbe vista quando lui sarebbe ritornato in Italia, il 18 ottobre.
Il suo corpo è stato scoperto il 16 ottobre. Accanto c'era del nastro che la polizia sospetta sia stato utilizzato per imbavagliarlo. Gli amici hanno trovato aperta la porta del suo appartamento nel centro della città. Le sue cose erano in disordine, i documenti e la macchina rubati. Il medico legale ha detto che i danni non erano certamente il risultato di un incidente stradale. Non si sa se la sua cassa toracica sia stata sfondata da una pietra, da un pezzo di metallo, o dalla pressione umana.
Mamuka Areshidze, un ex parlamentare che aiutò Russo in Georgia, ha detto di non sapere in che direzione investigare sull'omicidio, ma si è detto convinto che non sia stato semplicemente un fatto di criminalità comune. Ha detto: "Penso che sia stato ucciso perché qualcuno voleva occultare il materiale che lui aveva raccolto: questo è il motivo per cui le cassette sono scomparse. So che gli agenti delle forze di sicurezza sono esperti nella tecnica di schiacciare le persone a morte senza lasciare nessun segno di violenza".
Questa è una delle diverse teorie che l'inchiesta sull'omicidio sta esaminando, ha detto la polizia. Un'organizzazione ambientalista di Tblisi, e i colleghi di Roma, affermano che Russo aveva le prove di una nuova arma russa capace di uccidere le persone lentamente.
Non ci sono prove e gli scettici evidenziano che giornalisti più noti stavano raccogliendo notizie di atrocità. Il Partito Radicale afferma che la tempistica è significativa. Per un anno, il Presidente Putin ha fatto lobby alle Nazioni Unite per togliere al Partito Radicale il suo status consultivo di organizzazione non governativa. Putin ha accusato i radicali di pedofilia, terrorismo e narcotraffico. Il voto finale delle Nazioni Unite, che ha respinto la richiesta, è stato calendarizzato per il 18 ottobre.
C'è un'altra teoria che gira negli studi di Radio Radicale. Russo è stato ucciso perché aveva un'intervista audiovideo con una donna georgiana che afferma di essere la madre del Presidente Putin, confutando la tesi di Putin che lei fosse morta. Come movente per un omicidio sembra improbabile. La storia emerse la scorsa primavera e fu ripresa dai media internazionali prima di essere screditata.
Altri dicono che il giornalista, che il giorno della sua morte era stato visto nella zona cecena, è stato ucciso per denaro. "Ma perché avrebbero dovuto lasciargli il suo passaporto e il crocifisso d'oro? E perché ucciderlo in un modo così strano? Non ha senso", ha detto un collega, che ha chiesto di non essere nominato.
Gruppi che si occupano di diritti umani vogliono che l'Occidente chieda conto a Putin di Russo e di altri due giornalisti che hanno scritto sulla Cecenia: Alexander Yefremov, ucciso a maggio nella ragione separatista da un'esplosione controllata a distanza, e Iskander Khationi, che si concentrò sulle violazioni di diritti umani in Cecenia, trovato colpito a morte a settembre.
Nel giro di ore dalla morte di Russo, i colleghi a Roma sono stati travolti dai messaggi. L'attivista dalla coda di cavallo aveva creato molte amicizie nei suoi viaggi.
"Sapevamo molto poco di lui. Storie di lui che porta trenta bambini a un ristorante, che salva vite umane,…", ha detto un collega. I liberali, liberi pensatori radicali non gli promettevano né fama né grandi guadagni, ma Russo accettò perché "loro sono pazzi, proprio come me", come era solito dire.
Gli attacchi del partito alla Destra e alla Sinistra possono spiegare la minima copertura da parte della faziosa stampa italiana. "I giornalisti italiani sono snob. Antonio ha ricevuto più attenzione all'estero", ha detto il collega.
Un piccolo corteo funebre ha accompagnato la sepoltura di Antonio nella tomba di famiglia a Francavilla, in Abruzzo. Beatrice Russo, settantacinquenne, crede che gli assassini di suo figlio non saranno mai identificati. "E' tutto così oscuro. La sola cosa che mi consola è che è stata una morte coerente con la sua vita".

Cyrus
24-01-10, 19:25
Da Free Lance International Press del 10/10/2006

Russia: Antonio Russo e la collega Anna Politkovskaja - due morti annunziate

Il recentissimo assassinio della giornalista russa Anna Politkovskaja deve riproporre, dopo anni di oblio, all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale anche un altro efferato delitto: quello di cui è rimasto vittima sei anni fa, il 16 ottobre 2000, il collega italiano Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale e nostro Vice-presidente. Due voci libere, limpide e oneste brutalmente soffocate da un potere senza scrupoli, con metodi che rivelano, dato il tipico modus operandi, l’evidente impronta della stessa mano omicida, quella dei servizi segreti russi. La Free Lance International Press (Flip) intende additare l’esemplare figura di Antonio Russo che ha dato la vita per la libertà di informazione. Russo fu prelevato da uomini armati, selvaggiamente torturato, il suo cadavere martoriato e con il torace sfondato, fu poi ritrovato nei pressi di una base russa in territorio georgiano. Tutta la documentazione sui massacri di civili in Cecenia che egli aveva raccolto è scomparso. Ferma restando la nostra totale condanna di ogni forma di terrorismo, quali che siano le cause che l’hanno provocato, non ci possiamo esimere dal condannare anche le atrocità nei confronti della popolazione civile perpetrate in nome della repressione del terrorismo sulle quali sia Russo che la Politkovskaja stavano indagando prima che fosse stato loro impedito di riverarle e denunciarle a pieno. Anche se il presidente georgiano di allora, Shevarnadze, aveva dato la sua parola d’onore che nulla sarebbe stato lasciato intentato nel far piena luce sul delitto Russo, tutto ciò è rimasto lettera morta e le indagini si sono arenate in un nulla di fatto, certamente per non irritare il Cremlino. Vogliamo quindi denunziare l’inerzia delle autorità, sia georgiane che italiane, che non hanno fatto luce sul delitto Russo, che come quello della Politkovskaja la dice lunga sulla preoccupante evoluzione nel senso antidemocratico, per non dire fascista, del potere di Putin.

Antonio Russo non ha avuto e non potrà avere giustizia.

Cyrus
24-01-10, 19:26
16 ottobre 2009 | Roberto Spagnoli | Radio Radicale
Nove anni fa l'omicidio di Antonio Russo. Intervista a Daniele Biacchessi
"Passione Reporter"è il titolo di un libro scritto da Daniele Biacchessi (Ed. Chiarelettere) in cui si parla di giornalismo per vocazione e di giornalisti (magari free lance e nemmeno iscritti all'Ordine) che per questa vocazione di andare a cercare i fatti e raccontarli là dove accadono hanno sacrificato la loro vita: come Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, Maria Grazia Cutuli, Raffele Ciriello, Enzo Baldoni. E come Antonio Russo morto il 16 ottobre 2009 in Georgia, assassinato per le sue cronache della guerra in Cecenia e le sue inchieste sui crimini delle truppe russe.

Ascolta il file in allegato
Nove anni fa l'omicidio di Antonio Russo. Intervista a Daniele Biacchessi - - chiarelettere (http://www.chiarelettere.it/dettaglio/65830/nove_anni_fa_lomicidio_di_antonio_russo_intervista _a_daniele_biacchessi)

Cyrus
01-02-10, 01:27
Guido Calogero
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Guido Calogero.jpg
Guido Calogero

Guido Calogero (Roma, 4 dicembre 1904 – Roma, 17 aprile 1986) è stato un filosofo, saggista e politico italiano. Ha rappresentato per la sua intensa attività politica e di pensiero uno fra i più attivi e impegnati intellettuali del nostro Paese.

Diresse l'Istituto italiano di cultura a Londra. Fu membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei.
Indice
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* 1 La vita e la formazione culturale
* 2 Il liberalsocialismo
* 3 "Giustizia e libertà"
* 4 La repressione fascista
* 5 L'attività politica nel dopoguerra
* 6 Il pensiero
o 6.1 La filosofia della presenza
o 6.2 L'inutilità della metafisica
o 6.3 L'etica non determinata dalla logica
o 6.4 La teoria sul pensiero greco arcaico
o 6.5 Indistinzione di ontologia, logica e linguaggio
* 7 Note
* 8 Scritti
* 9 Bibliografia
* 10 Altri progetti
* 11 Collegamenti esterni

La vita e la formazione culturale [modifica]

Nacque a Roma il 4 dicembre 1904, da padre messinese, Giorgio, professore di francese e da Ernesta Michelangeli, figlia di Luigi. Quest'ultimo, di origini marchigiane, fu professore universitario di letteratura greca e poeta carducciano. Al nonno poeta, Calogero, tra le altre voci che scrisse per incarico della Enciclopedia Italiana (e di queste: "Socrate", Platone", "Logica"), ne dedicò una.

La madre Ernesta era stata la prima studentessa universitaria a giungere alla laurea nell'Università di Messina. Guido, figlio unico fu particolarmente curato nella sua formazione culturale sia da parte dei genitori che dei nonni: del resto le sue qualità intellettuali ebbero modo di rivelarsi sin dall'inizio quando, ad appena 16 anni, ebbe pubblicata una raccolta di poesie, dai toni dannunziani, dalla casa editrice Signorelli. Aveva frequentato il ginnasio a Pisa e il Liceo al ‘Mamiani' di Roma, dove conseguì la maturità classica con un anno di anticipo, nel 1921. Si iscrisse alla Facoltà di Lettere de La Sapienza, dove sviluppò i suoi interessi per l'italiano, il latino e il greco. Ma la lettura di Benedetto Croce e l'esperienza dell'insegnamento di Giovanni Gentile lo portarono a dedicarsi agli studi filosofici. Nel 1925 si laurea con una tesi che sarà pubblicata nel 1927 col titolo "I fondamenti della logica aristotelica". Pur divisi ideologicamente i rapporti tra Giovanni Gentile e Calogero, che aveva aderito all'antifascismo, furono sempre di amicizia anche durante i frequenti soggiorni di quest'ultimo in Germania, dove verrà schedato dalla polizia come nemico politico.
Il liberalsocialismo [modifica]

Dal 1935 Calogero - dopo essere stato chiamato alla cattedra di storia della filosofia all'Università di Pisa - venne chiamato da Gentile a tenere esercitazioni di "Storia della Filosofia" alla Normale di Pisa, dove tenne le sue lezioni impegnandosi intellettualmente nel frattempo nell'attività antifascista clandestina dentro e fuori la Scuola.

In Toscana conobbe e frequentò Aldo Capitini,e dalla loro comunanza del sentire politico nacque nel 1940 il "manifesto del liberalsocialismo".

L'antifascismo nazionale fu attirato dal loro programma politico, in special modo i giovani che in seguito alla guerra di Spagna stavano scoprendo la vera natura del fascismo. Il liberalsocialismo si faceva portatore di un antifascismo etico-politico, distinto rispetto all'antifascismo popolare che si opponeva al regime soprattutto per le proprie difficili condizioni di vita.

Mentre le classi popolari antifasciste confluivano naturalmente nelle file degli organizzati partiti di matrice marxista, i giovani intellettuali si ritrovavano più adatti all'opposizione etico-culturale di Capitini e degli antifascisti laici borghesi tra cui Luigi Russo, Piero Calamandrei, Ranuccio Bianchi Bandinelli e Alberto Carocci che s'impegnarono, prima ancora dell'entrata in guerra dell'Italia a fianco dei tedeschi, nel diffondere l'antifascismo soprattutto nella regione toscana.
"Giustizia e libertà" [modifica]

Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, motivo questo preminente nel generare un più diffuso antifascismo tra le classi popolari, i liberal-socialisti continuarono a fare opposizione prevalentemente nell'ambito dell'antifascismo borghese.Mentre ebbero contatti sporadici e individuali con gli antifascisti cattolici e comunisti, divenne più frequente e continua la collaborazione con il movimento politico di Giustizia e Libertà fondato da Carlo Rosselli nel 1929 a Parigi, anche se i liberalsocialisti si dedicarono prevalentemente all'opposizione interna evitando volutamente contatti con l'emigrazione giellista. Si confrontavano i due movimenti: i liberal-socialisti di Calogero, prendendo ispirazione dalla dottrina crociana volevano approdare ad un socialismo democratico, il percorso invece del socialismo liberale di Rosselli con "Giustizia e Libertà" era l'inverso: da un socialismo aperto e riformatore giungere ad un nuovo sistema liberale. I due movimenti si trovavano comunque concordi nel mettere in atto il punto principale dei loro programmi: rendere quanto più attivo l'impegno nella lotta al fascismo.
La repressione fascista [modifica]

Questa più intensa attività causò naturalmente l'intervento della polizia e del Tribunale speciale che colpì duramente con un'ondata di arresti e di denunce gli esponenti del Partito d'Azione nato clandestinamente negli anni 1942-1943 dalla confluenza di Giustizia e Libertà e dei liberal-socialisti. Il programma del nuovo partito prevedeva la nascita di una repubblica italiana e la realizzazione di un'economia mista con la nazionalizzazione dei grandi monopoli industriali e finanziari.

Arrestato dalla polizia fascista a Bari, Calogero fu condannato al confino a Scanno, in Abruzzo. Qui, nel settembre del '43, dopo l'armistizio, incontrò un suo ex-discepolo Carlo Azeglio Ciampi, che aderì al Partito d'Azione.
L'attività politica nel dopoguerra [modifica]

Finita la guerra Calogero continuò ad impegnarsi per realizzare il suo programma liberal-socialista allacciando rapporti d'amicizia e di comunanza politica con Norberto Bobbio che però si dimostrava piuttosto scettico sulle effettive possibilità che il liberalsocialismo riuscisse ad affermarsi in Italia.

Calogero continuò a militare nel Partito d'Azione che per il suo scarso radicamento popolare ottenne appena 7 seggi alla Costituente (1946) e quindi si dissolse poco dopo. Non per questo terminò l'impegno sociale e politico di Calogero che si schierò in seguito a sostegno del Fronte popolare nelle cruciali elezioni politiche del 1948, che contrariamente alle speranze della sinistra, segnarono il successo elettorale dei partiti guidati dalla Democrazia cristiana. Collaborò alla rivista Il Mondo di Mario Pannunzio dalle cui colonne avviò una campagna di stampa per la scuola laica. Fu a fianco di Danilo Dolci che denunciava lo strapotere della mafia siciliana appoggiata dal regime politico locale e nazionale.

Nel dicembre del 1955 fu tra i fondatori del Partito Radicale e nel 1958 s'iscrisse tra i candidati nella lista repubblicana-radicale per la Camera dei deputati. Uscito dal partito il 30 ottobre del 1966, aderì al Partito Socialista Unificato, che riuniva il Psi e il Psdi.

Ritiratosi dalla vita politica attiva, continuò a trattare temi sociali come direttore della rivista Panorama. Fu inoltre Direttore de «La Cultura. Rivista di filosofia, letteratura e storia», e sulla copertina della quale fece incidere una riproduzione di un'antica erma di Socrate che reca la famosa frase, tratta dall'Apologia di Socrate di Platone, «sono sempre stato tale da non lasciarmi persuadere da nient'altro se non dal discorso che, alla mia ragione, appaia il migliore». Morì a Roma il 17 aprile 1986.
Il pensiero [modifica]
La filosofia della presenza [modifica]

La sua «filosofia della presenza», intesa come continua presenza e consapevolezza dell'io con se stesso («io non posso mai pensarmi fuori di me; io sono la mia continua consapevolezza») comporta la inevitabile responsabilità delle proprie azioni ispirate ai propri principi morali prescindendo da ogni gerarchia di valori che si pretendano assoluti.

Ciascuno di noi si trova quindi a dover operare delle scelte in riferimento ai propri valori : «Ogni valutazione è autonoma, compiendosi nella sfera di quella presenza soggettiva, che non può mai risolversi in nulla d'altro. Sono io che valuto, io che approvo e disapprovo, e che di conseguenza decido». (G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, II vol. delle Lezioni di filosofia, Einaudi, Torino 1960, III ed., p. 22).
L'inutilità della metafisica [modifica]

Né l'ontologia né la metafisica possono, secondo Calogero orientare le nostre scelte. Se per esempio io decidessi di orientare la mia vita in vista dell'immortalità: «L'immortale non ha valore per il solo fatto di essere immortale, ma anzi merita di essere immortale solo se ha valore anche quando è mortale. Solo quando un certo tipo di esistenza è preferibile, essa merita di diventare eterna: ma il semplice fatto che si annunci eterna non stabilisce che sia preferibile»(G. Calogero, "L'immortale", in Quaderno laico, Laterza, Bari 1967, pp. 21-22, la citaz. è a p. 22). L'immortalità quindi non serve come principio ispiratore della mia esistenza. È al contrario la nostra vita che dà senso alle teorie metafisiche che noi sceglieremo. Nessuno potrà mai giustificarsi per aver agito obbedendo a regole esterne: la responsabilità di ciò che ha fatto con la sua scelta sarà sempre e soltanto sua.
L'etica non determinata dalla logica [modifica]

Alla base di ogni nostra scelta vi dovrà essere la scelta dell'etica che secondo C. non può essere determinata da principi logici. I filosofi hanno cercato spesso di fornire una dimostrazione della necessità logica dell'etica, non capendo, secondo Calogero, che non si può dimostrare il dovere etico, se quello stesso dovere non è sentito da chi lo accetta come tale.

Per Mario Peretti, invece, una teoria del genere non è accettabile: «La logica dimostra e fonda l'etica, non nel senso che preceda temporalmente la buona volontà, ma nel senso che questa non potrà trovare un fondamento razionale, una dimostrazione della giustizia della propria scelta, se non appunto nella logica» (Mario Peretti, "La filosofia del dialogo di Guido Calogero", in Rivista di filosofia neoscolastica, 1968, LX, n. 1, pp. 70-95, la citaz. è a p. 76).

Calogero controbatte che la tesi di Peretti per esempio dovrà essere dimostrata e ci sarà qualcuno che lo ascolterà perché questi ha compiuto una scelta etica di comprensione e di tolleranza delle idee altrui. Non esiste una Logica al di fuori degli uomini che la realizzano e la utilizzano. Anche ammettendo che la la scelta etica fosse fatta previa dimostrazione logica, anche in quel caso, non sarebbe la Logica ad imporla o a dimostrarne la necessità, ma sarebbe sempre l'Io a decidere di accettarla. Altrimenti si correrebbe il rischio di un Io che rivolga le responsabilità delle sue scelte a un'entità trascendente che lo manovri e diriga.
La teoria sul pensiero greco arcaico [modifica]

Guido Calogero si dedicò in modo particolare ai problemi logici del pensiero antico trattati nelle opere: I fondamenti della logica aristotelica (1927), gli Studi sull'eleatismo (1932) e nei primi quattro capitoli della Storia della logica Antica (1967).

Nel 1927 grazie ad una borsa di studio Calogero trascorse un lungo periodo presso l'Università di Heidelberg dove incontrò pensatori come Heinrich Rickert , Raymond Klibansky e conobbe l'opera di Ernst Cassirer. Avvalendosi delle conoscenze sul pensiero di questi studiosi e dei suoi studi su Aristotele, egli comincia a definire un concetto di "età arcaica".

Mentre Cassirer parlava di un'età mitica dove non si distingueva tra parola e cosa, riferendola al passaggio dal pensiero primitivo a quello razionale adulto, Calogero vi vedeva una "coalescenza arcaica" , una specie di fusione di linguaggio, realtà e verità.

Nel primo capitolo della Storia della logica antica, dedicato a "La struttura del pensiero arcaico", Calogero espone la sua teoria secondo la quale i greci avevano una visione della realtà come "spettacolo": la vista era, ed è, infatti, tra i cinque sensi, quello primario per la specie umana, che mette in contatto diretto con il mondo esterno.

I Greci, sostiene Calogero, in epoca arcaica non distinguevano dunque tra visibilità[1], esistenza e pensiero: solo ciò che era visibile esisteva veramente e quindi poteva essere pensato. Questa interpretazione veniva da Calogero, e successivamente dallo storico della filosofia antica Gabriele Giannantoni, suffragata da una serie di prove indirette:

* il termine" idea" deriva da una radice "id" del verbo greco "orao" che vuol dire vedere. Ancora in Platone l'"idea" è il risultato di una visione, sia pure intellettuale, del mondo dell'iperuranio;
* la forma più antica della letteratura greca è la storia, dal greco "istor", che vuol dire "testimone oculare": lo storico, cioè, può narrare avvenimenti esistenti perché li ha visti con i suoi occhi, mentre, al contrario, colui che narra vicende fantastiche o irreali è anticamente rappresentato come cieco;
* l'architettura greca arcaica privilegia negli edifici la parte frontale, quella più visibile, e lascia non ornati gli altri lati;
* la forma più antica di scultura è il bassorilievo, che della scena rappresentata privilegia la parte visibile allo spettatore, mentre la scultura a tutto tondo è storicamente posteriore;

La religione più antica, quella dei misteri sembra contraddire questa teoria. I misteri infatti venivano celebrati in luoghi appartati e la stessa parola richiama il buio, la segretezza. In effetti il termine misteri deriva da mùstoi (μύστοι), a sua volta derivato dal verbo muo (μύω), che significa "coloro che serrano la bocca e strizzano gli occhi" come si fa appunto per vedere meglio. I mùstoi, cioè, sono quelli che vogliono vedere l'invisibile.

Una permanenza di questa indistinzione tra essere e pensiero Calogero la riscontra nei suoi studi su gli eleati, e in particolare su Parmenide, il filosofo convinto che pensare ed essere siano la stessa cosa e che non si possa pensare il "non essere".
Indistinzione di ontologia, logica e linguaggio [modifica]

A questo atteggiamento visivo si aggiungeva, secondo la teoria di Calogero, la credenza per i greci arcaici, che solo ciò che può essere pensato può essere nominato.

Il nome, cioè, non ha ancora un significato simbolico e convenzionale ma è ciò che attribuisce realtà alla cosa esistente: la cosa ha quindi il nome che le è proprio e questo è l'unico che possa avere.

Da ciò deriva la difficoltà a dare nome a realtà come quella di un fiume, che cambiano continuamente.

Sarà Eraclito che stabilirà che "tutto muta, meno la legge del mutamento" e cioè che tutto muta meno la legge intesa come logos, la "parola" che acquista il suo valore simbolico e che quindi ci darà stabilità in una realtà concepita in continuo mutamento.

La sopravvivenza della convinzione che il nome renda reali gli eventi permane per molto tempo nei riti sacerdotali e magici dove la "formula", che deve essere pronunziata nella sua esattezza nominale, realizza l'avvenimento invocato.
Note [modifica]

1. ^ «È opportuno, allora, poiché facciamo parte di questa tradizione, interrogarci sul significato originario di sapientia; il latino sapere significa avere sapore, da cui può derivare avere senno, essere perspicace. Questa duplicità rimane nel nostro uso linguistico, con alcune sfumature: diciamo che un cibo sa di qualcosa o è insipido; un cibo è sapido e insipido, una persona sapiente (in disuso per evidenti ragioni) o insipiente; insomma in origine è presente una connessione con un senso, il gusto, qualcosa di istintivo; in greco una connessione del genere si ha con il verbo noein, (nous, noesis), che viene da una radice snovos, snow, annusare, fiutare, capacità di (diremmo oggi 'captare', subodorare, snasare) presentire, di accorgersi istintivamente di qualcosa, una situazione, un pericolo, dunque una sorta di sapere diretto e istintivo. In Omero noein significa vedere, un vedere che può essere inteso e tradotto con riconoscere.
* Iliade V 590:
* Ettore li vide tra le file
* Il. XV 423-4:
* Ettore come vide (enòesen) con gli occhi il cugino (Caletore ucciso da Aiace) cader nella polvere davanti alla nave nera
Dopo Omero noein non designa più il vedere. In seguito noein diviene propriamente il verbo che indica il pensare e nous designa l'intelletto; ma anche quando questi termini si sviluppano con un significato tecnico, essi indicano sempre un'apprensione in qualche modo diretta, immediata, un'intuizione, opposta a forme di pensiero discorsivo.» (In Bruno Centrone, Istituzioni di storia della filosofia antica, Pisa, 1970)

Scritti [modifica]

* I fondamenti della logica aristotelica, (Firenze 1927, rist. 1962);
* Studi sull'eleatismo, Roma 1932; (2a edizione Firenze 1977)
* La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova 1937(2a edizione 1960);
* La scuola dell'uomo, ivi 1939 2a edizione 1956);
* Il metodo dell'economia e il marxismo, Firenze 1944;
* Difesa del liberalsocialismo, Roma 1945*;
* Saggi di etica e di teoria del diritto, Bari 1947;
* Lezioni di filosofia, I: Logica, gnoseologia,ontologia, Torino 1948;
* II: Etica, giuridica, politica, ivi 1946; III: Estetica, semantica, istorica, ivi 1947;
* Logo e dialogo, Milano 1950;
* La filosofia di Bernardino Varisco, Messina 1950;
* Scuola sotto inchiesta, Torino 1957;
* Verità e libertà, Palermo 1960;
* Quaderno laico, Bari 1967;
* Storia della logica antica. I: L'età arcaica, Bari 1967;
* Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, Roma 1968.

Bibliografia [modifica]

* G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, II vol. delle Lezioni di filosofia, Torino 1960;
* G. Calogero, "L'immortale", in Quaderno laico, Bari 1967;
* Mario Peretti, "La filosofia del dialogo di Guido Calogero", in Rivista di filosofia neoscolastica, LX (1968), n. 1;
* Gabriele Giannantoni, La Ricerca Filosofica, 3 vol., Torino, 1985;
* G. Giannantoni I Presocratici. Testimonianza e frammenti, Roma-Bari 2002.
* G. Calogero, Storia della logica antica,La struttura del pensiero arcaico, Firenze 1968
* R. Raggiunti, Logica e linguistica nel pensiero di Guido Calogero, Firenze, 1963.
* Marcello Mustè, Guido Calogero in "Belfagor", LV (2000), fasc. II (31 mar.), pp. 163-85
* S. Zappoli, "L'itinerario intellettuale di Guido Calogero: da Croce e Gentile al 'dialogo' con Capitini", in "Giornale critico della filosofia italiana", LXXXIII (LXXXV), Fasc. I, gennaio-aprile 2004, pp. 19-36
* Jean-Pierre Vernant, Les Origines de la pensée grecque,(PUF, 1962)
* Il Corriere della Sera-28 giugno 2002- Calogero, l'abc della democrazia integrale di Arturo Colombo
* Voce "Guido Calogero" in AA.VV., Biografie e bibliografie degli Accademici Lincei, Roma, Acc. dei Lincei, 1976, pp. 809-815.
* Antonio Carrannante, "Le idee di Guido Calogero sulla scuola", "I Problemi della Pedagogia", gennaio-giugno 2007, pp. 173-203.

Cyrus
01-02-10, 01:28
GUIDO CALOGERO

A cura di Diego Fusaro, Elena Ternullo, Alfio Squillaci


"L´unità della democrazia è l´unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze. "
INDICE
LA VITA
IL PENSIERO
IL FUTURO E L'ETERNO
LA POLITICA



LA VITA

CALOGERO Nato a Roma nel 1904. Laureatosi nel 1925 in filosofia nell'università romana, con Gentile (con una tesi che sarà pubblicata nel 1927 col titolo I fondamenti della logica aristotelica), manterrà con il filosofo del regime rapporti di cordialità e di amicizia, diventando presto uno dei collaboratori più assidui dell'Enciclopedia Treccani e assumendo poi una sorta di responsabilità del settore filosofico. Calogero diceva sempre di sì alle richieste di collaborazione di Gentile, anche se il superlavoro e i frequenti soggiorni di studio in Germania lo costringevano a qualche ritardo. Ma i contatti fra i due erano tutt'altro che burocratici. Si basavano su una vera confluenza di idee e di interessi teorici. Via via che il discepolo chiarì la sua opposizione al fascismo, la questione politica venne tenuta in disparte; mai appannerà l'affetto reciproco. Fin dal 1929, a venticinque anni, Calogero è schedato dalla polizia politica come antifascista. Fatica a farsi rinnovare il passaporto, e senza gli interventi di Gentile non ci riuscirebbe: occorre che ogni anno il Senatore faccia " una telefonata agli Interni ". Gentile stesso si confiderà con Calogero, dicendogli di evitare gli autori filosemiti (Cassirer), sebbene le leggi razziali non fossero ancora state promulgate. Quella di Calogero diventerà una firma consueta del Giornale critico della filosofia italiana. Non riuscì a dividerli neppure l'incombente presenza di Benedetto Croce nel quadro culturale italiano. In una lettera del 1935, Calogero chiarì a Gentile senza dar adito a dubbi che i suoi maestri erano due: lui e Croce. Calogero, chiamato fin dal 1934 alla cattedra di Storia della filosofia alla Normale, svolgeva dentro e fuori la Scuola attività antifascista clandestina, a partire dai tardi anni Trenta. Strinse amicizia con Bobbio, il quale disse: " lo conobbi nel 1933 a un congresso hegeliano. M´impressionarono lo sguardo e la bravura ". Ottenuta successivamente la cattedra di filosofia all'Istituto Magistrale di Firenze, tornava spesso a Roma, dove manteneva contatti, abilmente nascosti, con gruppi di opposizione liberale. In Toscana conobbe e frequentò Aldo Capitini, con il quale nacque un forte sodalizio politico. I due si conobbero, prima che di persona, attraverso le proprie opere. Capitini aveva letto La filosofia e la vita , il libro che Calogero aveva pubblicato nel '36 per la casa editrice Sansoni, e ne apprezzava la dottrina del ' moralismo assoluto ', che, con quel saggio, cominciava a svilupparsi, come elemento autonomo, dall'idealismo gentiliano. A sua volta, Calogero aveva letto, tra i primi, Elementi di un'esperienza religiosa , trovando forti consonanze con la moralità coniugata all'antifascismo che traspariva dalle pagine del libretto. Dalla collaborazione strettissima tra i due pensatori nacque il manifesto del liberalsocialismo, nel 1937. Anche il nome del movimento nacque da questa collaborazione, in cui era difficile anche per i due teorici distinguere i singoli apporti. Calogero stesso non sapeva attribuire ad uno dei due la paternità del nome: " nome che non ricordo più se sia stato usato per la prima volta da Aldo Capitini o da me, e che volevamo riecheggiasse quello scelto da Carlo Rosselli ". Ricordando che Capitini non conosceva l'opera di Rosselli, prima della Liberazione, possiamo noi attribuire la paternità del nome a Calogero. Calogero difese poi strenuamente la denominazione del movimento, in una lunga polemica con Croce, svoltasi prima, dal 1940 al 1943, oralmente, poi per iscritto, e continuata anche dopo la Liberazione. Attorno a loro si venivano stringendo le nuove leve dell'antifascismo nazionale, i giovani che si stavano aprendo all'opposizione per reazione alla guerra di Spagna. Si trattava, quindi, di un antifascismo etico-politico, distinto rispetto all'antifascismo sociale delle classi subalterne, che basavano la propria opposizione sull'insostenibilità delle proprie condizioni di vita. Mentre queste ultime si rivolgevano di preferenza, scelto l'antifascismo, ai partiti marxisti, i giovani intellettuali trovavano molto più vicina l'opposizione etico-culturale di Capitini e degli antifascisti laici borghesi. Aderirono al movimento tra i più noti esponenti del liberalsocialismo toscano, basti ricordare Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola (figlio di Ernesto, l'ex gentiliano passato all' opposizione), Luigi Russo, Piero Calamandrei, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Carlo Furno, Alberto Carocci, Carlo Francovich a Firenze. Nel triennio che precedette l'entrata in guerra dell'Italia, l'attività principale del gruppo liberalsocialista consistette nel reclutamento di nuovi adepti. I canali di reclutamento furono di due tipi, Calogero e i liberalsocialisti toscani, inseriti nelle strutture della cultura nazionale (Calogero aveva ottenuto, nel 1937, la cattedra di Storia della Filosofia nell'Università di Pisa, Codignola e Enriques Agnoletti occupavano posti direttivi nella casa editrice La Nuova Italia, Calamandrei era professore di Procedura Civile all'Università di Firenze), le sfruttavano per la propaganda antifascista; Capitini e i suoi amici perugini (insieme a Ragghianti, che a Bologna seguiva la via capitiniana), preferivano, invece, evitare ogni collaborazione con il regime, basandosi su una propaganda diretta. L'entrata in guerra dell'Italia non modificò l'azione dei liberalsocialisti, che era orientata verso un'unione, sempre più stretta, con i gruppi dell'antifascismo borghese. Mentre la collaborazione con cattolici e comunisti era limitata ai contatti individuali, con i giellisti operanti in Italia si giunse presto ad una collaborazione organica. L'assonanza tra il nome del movimento di Capitini e Calogero ed il titolo del libro di Rosselli che diede la base teorica a Giustizia e Libertà non deve far credere ad una coincidenza fra i due gruppi. Come abbiamo visto, il movimento liberalsocialista, dalla nascita, fu privo di influssi rosselliani diretti, e, dedicandosi principalmente all'attività interna, evitò di proposito contatti con l'emigrazione giellista. Altra differenza tra liberalsocialismo e Giustizia e Libertà, sottolineata da Mario Delle Piane, era che " il socialismo liberale di Rosselli […] è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo ". Rosselli partiva, infatti, dalle posizioni di Bernstein e De Man, per svilupparle fino all'accettazione completa del metodo liberale: Calogero nasceva invece da una costola di Croce, giungendo fino alla riproposta delle istanze socialiste. In questo modo, i due movimenti erano giunti, da punti di partenza opposti, a conclusioni simili. Fu facile, quindi, trovare punti comuni per una collaborazione organica, in un convegno tenuto ad Assisi, nei primi mesi del '40, nella casa di Alberto Apponi, e cui parteciparono Calogero, Capitini, Norberto Bobbio, Apponi, Luporini, Codignola, Giuriolo per il movimento liberalsocialista, e Giorgio Agosti, Antonio Zanotti, Francesco Flora ed altri per Giustizia e Libertà. Il movimento raccoglieva sempre nuove adesioni, allentando le pressioni che l'avevano tutelato per quattro anni dall'intervento della polizia. Il primo a cadere nella rete dell'OVRA fu il gruppo pugliese, che venne sgominato quasi completamente all'inizio del 1942. Le indagini si estesero poi a Firenze, dove il 27 gennaio 1942 la polizia politica arrestò Calogero, Enriques Agnoletti, Codignola, Francovich e altri, insieme a Capitini a Perugia e a Ragghianti a Bologna, trasferiti tutti presso le carceri fiorentine delle Murate. Le indagini, molto accurate, durarono quattro mesi. Gli imputati resistettero con fermezza, negando ogni addebito e trasferendo ogni contatto con gli altri accusati sul piano culturale (Capitini portò come elemento di difesa il suo libro, Elementi di un'esperienza religiosa , che passò, dato il titolo, per un'innocua pubblicazione religiosa). In tal modo, la polizia non poté attribuire con certezza agli arrestati i documenti sequestrati e li condannò a pene minime. Capitini fu rilasciato dopo aver ricevuto una diffida. Le pene più gravi furono comminate ad Enriques Agnoletti e al tipografo Bruno Niccoli, condannati a cinque anni di confino perché in contatto anche con i giellisti. Codignola fu condannato a tre anni di confino, Calogero a due anni di confino a Scanno, in Abruzzo, gli altri se la cavarono con diffide e ammonizioni. Già nei mesi precedenti l'arresto del gruppo toscano e di Capitini erano iniziati i contatti tra liberalsocialisti e giellisti, da una parte, e democratici moderati, dall'altra. Soprattutto il gruppo milanese che faceva capo a Ugo La Malfa, Ferruccio Parri e Adolfo Tino premeva per l'unione degli antifascisti non socialisti e non cattolici in un partito che fosse in grado di esplicare un'azione antifascista adeguata al rapido tracollo del regime. Queste pressioni si scontravano con le perplessità di molti esponenti dei due movimenti, tra cui Capitini, nei confronti di una collaborazione organica con gruppi " piuttosto democratici repubblicani che socialisti ". A questo punto caddero l'arresto e la detenzione dei liberalsocialisti, che li tolsero dal dibattito politico per sei mesi, dal gennaio al giugno. In tal modo rimase campo libero per l'impostazione che La Malfa, il migliore politico del gruppo milanese, intendeva dare al partito: una formazione che si collocasse al centro dello schieramento politico, come partito di governo, espressione della borghesia piccola e media e dei suoi desideri di stabilità. La riunione che decise la nascita del partito, si tenne nella casa romana di Federico Comandini il 4 giugno 1942. Il giorno precedente erano stati inviati al confino i liberalsocialisti arrestati, mentre Capitini subiva la diffida e rientrava a Perugia controllato dalla polizia. Secondo De Luna alla riunione parteciparono La Malfa, Federico Comandini (cognato di Calogero, liberalsocialista ma vicino alle posizioni dei moderati), Mario Vinciguerra ed Edoardo Volterra (amici e collaboratori di Parri, in quel periodo fermato dalla polizia), il liberalsocialista perugino Franco Mercurelli, Vittorio Albasini Scrosati e Alberto Damiani, due giellisti milanesi amici di La Malfa, e due rappresentanti, non meglio identificati, per Italia meridionale e Sicilia. La rappresentanza dei liberalsocialisti era dunque fortemente minoritaria, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo. Di fronte ad uno dei più abili politici dell'antifascismo, si trovava, a difendere le ragioni dei 'movimentisti', solo una figura di secondo piano. D'altronde, anche la riunione preliminare tenutasi a Milano una settimana prima, nella quale erano stati definiti i 'sette punti' programmatici del futuro partito, aveva visto la presenza del solo Giuriolo, tra i collaboratori di Capitini e Calogero. I 'sette punti', elaborati da Ragghianti riflettendo le opinioni dei vari gruppi, avanzavano, nel campo economico, le prospettive di "economia a due settori" già teorizzate dai liberalsocialisti e dai giellisti. Sul piano giuridico, si riproponeva la pregiudiziale repubblicana. Mentre su quest'ultimo punto si registrava una completa unanimità, i progetti di nazionalizzazione erano concessioni fatte, per motivi puramente tattici, da La Malfa e dai suoi amici, poco convinti che spettasse al Partito d'Azione realizzare riforme di tipo socialista. Quando i confinati e i diffidati poterono, pur tra mille cautele, riprendere l'attività politica, si trovarono, così, di fronte alla scelta sul cornportamento da tenere nei confronti della nuova formazione politica. La maggioranza dei liberalsocialisti decise, individualmente, di aderire al nuovo partito. Tra questi, i nomi più famosi erano quelli di Calogero, Codignola, Enriques Agnoletti, Delle Piane, Fiore, Cifarelli (oltre a quelli non arrestati, come Apponi, Albertelli, Umberto Morra, Luigi Russo). Prima di accettare, Calogero chiese ed ottenne, da La Malfa, delle Precisazioni , che ribadissero l'importanza delle nazionalizzazioni previste.Nell'aprile e nel maggio del 1943 un'ondata di arresti e di denunce al Tribunale speciale colpì severamente il Partito d'Azione: a Milano furono arrestati Mario Vinciguerra e Antonio Zanotti; a Firenze Carlo Furno, a Siena Mario Delle Piane; a Ferrara Giorgio Bassani, a Modena Ragghianti, a Roma Federico Comandini, Sergio Fenoaltea, Bruno Visentini, a Bari Guido Calogero, Guido De Ruggiero, Tommaso Fiore. Arrestato dalla polizia fascista, Calogero fu condannato al confino a Scanno, in Abruzzo. Qui, nel settembre del '43, dopo l'armistizio, ritrovò il discepolo Carlo Azeglio Ciampi, che anche per la sua influenza aderì al Partito d'Azione. Nel dopoguerra, Calogero proseguì la sua battaglia per l'affermarsi delle idee liberalsocialiste. Mise al centro della propria riflessione il valore della libertà, ma, riprendendo criticamente i filosofi precedenti quali Hobbes, Hume, Locke e Smith, sosteneva che la libertà individuale non deve essere intesa egoisticamente. Calogero elaborò quindi un'etica dell'altruismo " tesa ad assumere in chiave laica il messaggio di solidarietà della morale cristiana ".Fu importante anche il suo rapporto con Norberto Bobbio. Rispondendo a Calogero, che nel novembre del '45 lo invitava a collaborare alla sua nuova rivista "Liberalsocialismo", Norberto Bobbio scriveva: " mi interessa e mi piace il programma della tua rivista ( .. ) per quanto l'esperienza ci abbia insegnato che le premesse per una politica 'liberalsocialista' in Italia non ci sono, o ci saranno tra due secoli. Faremo i predicatori nel deserto, come del resto abbiamo sempre fatto... ". Dopo lo scioglimento del Partito d'Azione, alle elezioni del '48, Calogero si schierò con il Fronte Popolare, insieme ad un folto gruppo di intellettuali e di personalità di grande prestigio, da Corrado Alvaro a Salvatore Quasimodo, da Renato Guttuso a Giorgio Bassani. Dal '49 collaborò con una rubrica fissa a "Il Mondo" di Mario Pannunzio, dalle cui colonne si battè per la scuola laica. Negli anni Cinquanta fu di nuovo al fianco di Capitini, a sostegno dell'azione che Danilo Dolci svolgeva in Sicilia contro la mafia. Da Norberto Bobbio a Carlo Levi, da Elio Vittorini ad Ignazio Silone, da Giulio Einaudi a Riccardo Bauer, forte e convinto venne il sostegno a Dolci. Nel dicembre del 1955 fu tra i fondatori del Partito radicale, inizialmente denominato Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani, insieme a Leo Valiani, Francesco Compagna, Giovanni Ferrara, Felice Ippolito, Franco Libonati, Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Rosario Romeo, Ernesto Rossi, Nina Ruffini, Eugenio Scalfari, Paolo Ungari. Nel '58, fece parte della lista repubblicana-radicale per la Camera dei deputati, insieme a Pacciardi e a Luigi Delfini. Nel 1962 fu anche proposto come segretario del partito radicale(al suo posto venne poi eletto Leone Cattani), ma rifiutò per motivi personali. In seguito uscì dal partito, ma rimase vicino ai radicali. Il 30 ottobre del 1966, insieme ad alcuni ex azionisti (Bruno Zevi, Norberto Bobbio, Manlio Rossi Doria), aderì al partito socialista unificato, che riuniva il Psi e il Psdi. Diventato direttore di "Panorama", nel 1972 rilanciò il tema della doppia tessera (quella radicale e quella degli altri partiti) quale fattore di evoluzione dei partiti verso la costruzione di uno stato moderno a democrazia bipartitica, poiché " i suoi veri partiti sono sempre e soltanto due, la destra e la sinistra, il partito della conservazione e il partito delle riforme ". Morì nel 1986.

IL PENSIERO

Nella lunga attività di ricerca filosofica di Guido Calogero spicca in primo piano - basta dare una scorsa alla lunga serie di pubblicazioni che ha accompagnato la sua vita accademica - l'attenzione posta ai problemi logici del pensiero antico. In una prima e sommaria periodizzazione interna alle opere e all'attività di Calogero, si può rilevare che l'interesse per tali problemi occupa grosso modo una prima fase della sua ricerca scientifica. In tale ambito si collocano I fondamenti della logica aristotelica (1927), gli Studi sull'eleatismo (1932), i primi quattro capitoli della Storia della logica Antica (1967), nonché l'attiva collaborazione alla "Enciclopedia Italiana" che si sostanziò in una nutritissima serie di voci concernenti la filosofia antica (Socrate, Platone, Senofane, Logica etc) ed infine numerosi studi specialistici, molti dei quali dedicati alla traduzione, con commento ed interpretazione, di dialoghi platonici. I risultati teorici raggiunti in questi studi daranno luogo a una successiva serie di scritti quali La Conclusione della filosofia del conoscere (1938), La scuola dell'uomo (1939) e la progettazione delle Lezioni di Filosofia , che insieme possono costituire una seconda fase, in cui all'attività dello storico della filosofia antica si affianca e in parte si sostituisce l'enucleazione di quei temi che successivamente, con maggiore ampiezza e sviluppo, verranno trattati nella "Filosofia del dialogo", ultima fase e punto di approdo della più che trentennale attività del Nostro. E' necessario rilevare, come vedremo in seguito, che la suddetta ripartizione intende sottolineare dei motivi conduttori, non certo isolare cicli di ricerca cronologicamente e tematicamente autonomi, poiché l'intera produzione calogeriana non lo permetterebbe, permeata com'è da una unità di riflessione che, seppure con maggiore o minore grado di sviluppo, attraversa tutta la sua opera. L'interesse di Calogero per gli studi di logica antica ha un' origine ben precisa che data al 1924, anno in cui Giovanni Gentile riprese l'insegnamento all'Università di Roma dopo la parentesi ministeriale. Calogero seguì con vivo interesse le lezioni di Gentile e se ne entusiasmò a tal punto da decidere di dirottare il corso dei suoi studi, inizialmente avviati nel settore della filologia classica verso la filosofia. L'anno dopo infatti, appena ventunenne, si laureerà con una tesi sulla logica in Aristotele, che successivamente rielaborata darà luogo all'importante volume I fondamenti della logica aristotelica . In questo lavoro Calogero propone, nella forma di un'indagine serrata, aderente filologicamente ai testi, una interpretazione della logica aristotelica pietra angolare del grandioso edificio della logica occidentale che, se sarà decisiva ai fini della sua biografia intellettuale, desterà non di meno interesse e attenzione all'interno della comunità degli studiosi di Aristotele. Erano infatti quelli gli anni in cui un rinnovato interesse si incentrava sull'opera del grande Stagirita. Si pensi, per fare un esempio, agli studi di parte 'logicista' intrapresi dalla Scuola di Varsavia (Lukasiewicz, Bochenski, etc) tesi a riconsiderare le vecchie interpretazioni del Trendelenburg, del Prantl. In questa atmosfera si pone lo studio di Calogero ma il suo contributo va in direzione decisamente opposta agli esiti propugnati dai logici formali e a correzione della tradizionale interpretazione degli studiosi dell'800. E' bene subito notare che già in quest'ambito è possibile rintracciare le radici del futuro antilogicismo (e antignoseologismo) del Calogero, che costituisce uno dei motivi conduttori a cui si accennava sopra, e che senz'altro si pone a fondamento speculativo anche di quelle ricerche non direttamente riconducibili a questi temi. E ci sarà altresì utile notare che è da alcune impostazioni attualistiche che il lavoro prende le mosse precisamente da quelle espresse nel volume gentiliano Sistema di Logica come teoria del conoscere . In questo volume il filosofo attualista individuava nella logica classica il campo di pertinenza del 'logo astratto' o pensiero pensato e nella dialettica moderna quello del 'logo concreto' o pensiero pensante, tentando la conciliazione tra questi due momenti alla luce di uno tra i più importanti capisaldi della sua dottrina, quello della definitiva unificazione di teorico e pratico nell'assoluta unità spirituale. E' sotto la suggestione di questa problematica che Calogero intraprende il suo studio della logica classica, considerando l'immenso edificio fin dalle sue fondamenta (la logica aristotelica appunto) e tentando di estendere i risultati a cui perviene col suo criterio ermeneutico, ben oltre i confini della logica classica. Così operando, pone un nucleo di autonoma ricerca filosofica che si distacca dal mero operare dello storico della filosofia. L'assunto fondamentale del libro è costituito dalla necessità posta con vigore e forza d'analisi da Calogero di evidenziare e nettamente distinguere all'interno della logica aristotelica due momenti specifici dell'attività dello spirito conoscitivo: uno noetico e l'altro dianoetico . Il primo si configura come pura intuizione o appercezione intellettuale, " specchio peculiare della verità nella sua piena ed assoluta esistenza ", forma dell'autocoscienza divina, noesis noeseos , ed è il momento conoscitivo fondamentale. In esso pensante e pensato si identificano così perfettamente da costituirsi in indissolubile unità. Da tale momento discende l'attività dianoetica dell'intelletto. E' essa conoscenza del pensiero discorsivo, dispone infatti i contenuti noetici tramite l'analisi o la sintesi, nelle forme dei giudizi e delle argomentazioni. Ed è proprio in tale campo che opera la logica come scienza formale dei princìpi che regolano il ragionamento, con un metodo che fa astrazione dal contenuto. Mentre il nous ci fornisce un sapere immediato, adeguato perfettamente al reale, la dianoia rappresenta una forma di conoscenza inferiore, in quanto opera un' alterazione soggettiva del reale. Calogero mette in evidenza il carattere intuitivo dell'attività noetica, aliena da qualsiasi contaminazione logica propria dell'attività dianoetica, affermando la necessità, dopo averne operato la distinzione, di subordinare e risolvere quest'ultima in quella. Tale distinzione e subordinazione è per Calogero ben chiara già nella teorizzazione originaria aristotelica, ma ad essa fu infedele lo stesso Aristotele. Infatti, questi tentando di fondare una tecnica (l'Analitica) dell'analisi logica della conoscenza, staccata dal contenuto stesso di quest'ultima, capace di fornirci un criterio formale di verità, ha determinato nei suoi seguaci e nell'intera tradizione filosofica l' errore di confondere le verità noetiche con le verità dianoetiche , cioè di assegnare a quest'ultime la facoltà di esclusiva competenza delle prime, per cui quelle che erano le forme di mero collegamento logico acquistano la facoltà di rispecchiare tout-court il reale nella sua obiettiva e immediata esistenza. Per cui il risultato sorprendente cui perviene Calogero in questa ricerca lo porta ad affermare che come già per le antiche concezioni della metafisica " anche il problema della logica aristotelica [...] è un problema da rivivere, riconoscere e dimenticare " così come le vecchie e nuove posizioni logiche a gnoseologiche. Tale ricerca poneva così di fatto l'esigenza di una completa revisione della storia della logica classica, e del modo in cui essa era stata valutata ed assorbita dalla filosofia, moderna. Al fine di approfondire ulteriormente il problema logico, Calogero si dedicò a una sua ricostruzione storica, studiandone la configurazione che esso aveva assunto nel pensiero eleatico. Così dopo cinque anni dall'apparizione de I fondamenti della logica aristotelica , pubblicò i risultati di tali ricerche nel volume Studi sull'Eleatismo che apportava un rinnovamento nell'interpretazione dei testi e delle concezioni dei maggiori Eleati. Dopo tale studio specialistico, Calogero anticipò sommariamente le proprie idee, circa l'evoluzione della logica e della dialettica, antiche e moderne, mettendone in risalto le aporie in esse prodotte dal fraintendimento della struttura della logica aristotelica. Tale configurazione storica del problema ci viene presentata nella voce "Logica", pubblicata nell'Enciclopedia Italiana. E' questa una presentazione panoramica delle varie teorizzazioni logiche, dai presocratici fino alle posizioni, a lui contemporanee, di Croce e Gentile. In tale excursus Calogero illustra le conseguenze derivate nella trattazione della dottrina logica da parte dei seguaci di Aristotele dalla confusione e commistione tra attività noetica e attività dianoetica della conoscenza, la cui distinzione, peraltro già chiaramente teorizzata dal filosofo stagirita, è tuttavia fondamentale recuperare per poter intendere la effettiva struttura della logica aristotelica. La dottrina della conoscenza fino ad Aristotele fu, a suo giudizio, soprattutto logica e dopo di lui soprattutto gnoseologica, " giacché mentre in quel primo periodo, la capacità del pensiero ad attingere il reale fu in genere presupposta e l'indagine si riferì principalmente alle necessarie forme di tale pensiero, che venivano ad essere forme della realtà, nel secondo periodo, messa in questione quell'attitudine, il problema del criterio della verità, e cioè quello della distinzione fra le conoscenze che corrispondevano all'oggetto e quelle che non gli corrispondevano, venne in primo piano e soverchiò nel campo della dottrina della conoscenza ogni altra questione ". In questo passo Calogero ha come referente polemico i primi peripatetici (Teofrasto in primis) e i teorici del criterio di verità, cioè gli Stoici. Si veda ad esempio la mordace critica sollevata a proposito dei sillogismi ipotetici di questi ultimi, " sillogismi che non sillogizzavano nulla, perché [...] non fornivano che implicazioni tautologiche di constatazioni di fatto annuncianti la necessaria connessione o incompatibilità di due verità obiettive. Gli stoici elevarono a sistema questi tentativi dei primi peripatetici, con risultati che tradizionalmente irrisi, vorrebbero ora, coerentemente, rimettere in onore quegli storici e teorici della moderna logicistica, che partecipano fra le altre, anche di questa sofferta confusione mentale ". Come si vede, questa critica così radicale coinvolge oltre agli stoici, tutte le elaborazioni successive da quelle medievali a quella leibniziana a quella logicista tendenti a creare una scienza autonoma delle forme logiche. Per altro verso, Calogero aderisce alla critica mossa dalla scuola scettica al sillogismo aristotelico, che seppure non vinceva Aristotele, " mostrava una volta per sempre come lo massima creazione logica dell'antichità, non potesse mai servire come strumento per la conquista di nuovo sapere, ma solo come mezzo per riconoscere quali conoscenze fossero state implicite in altre già date ". Il sillogismo infatti per Calogero si configura non come forma di conoscenza ex novo ma come strumento di ulteriore analisi e approfondimento delle conoscenze già acquisite ( nota notae est nota rei ipsius ). Da ciò che si è finora detto appare in tutta la sua evidenza il carattere funzionale dello studio della logica antica a cui Calogero si è applicato fin dal lontano '25 per oltre un decennio. Studio, come si è visto, teso a verificare il principio secondo il quale è impossibile staccare, separandola dal soggetto pensante, una logica del pensato, costruirla quindi come scienza autonoma e pretendere con siffatto strumento aprioristico di esplicare una teoria delle forme della conoscenza. Negli anni successivi, soprattutto in occasione della compilazione del primo volume delle lezioni di filosofia (Logica, Gnoseologia, Ontologia) Calogero stigmatizzerà ogni tentativo di istituire una scienza della logica, ogni costituzione di leggi logiche, come impossibili costruzioni di " grimaldelli dell'assoluto ". Ma di questo si parlerà in seguito. Qui ci basti sottolineare ancora una volta che il serrato confronto con la logica antica attraverso lo studio dei presocratici, degli Eleati, di Socrate, di Platone e Aristotele , sarà insieme all'adesione a certe posizioni dell'attualismo (unità di teoretico e pratico) uno dei luoghi di decantazione dell'antintellettualismo e antiteoreticismo calogeriani e uno degli ambiti preparatori di quella "filosofia del fare" che tanta parte occupa nella " Filosofia del Dialogo ". In La Conclusione della filosofia del conoscere (1938) Calogero giudica ormai compiuta la filosofia del conoscere: se la filosofia è atto, l'atto è qualcosa che si vive e che ha, quindi, il significato di operare e modificare la realtà. Ne scaturisce la centralità dell'impegno etico, di cui Calogero, nel dopoguerra, ravviserà il criterio direttivo nel principio del dialogo, ovvero nel dovere di comprendere le ragioni degli altri. Calogero fa riferimento al rapporto fra gli individui, alla relazione dialogica, alla democrazia come ciò che rende possibile il dialogo, che non è la definizione più comune di democrazia, per cui usualmente si intende, appunto, il rapporto fra l´insieme dei singoli e il potere. Questo in Calogero è implicito. Egli si richiama costantemente al rapporto fra gli individui, al dialogo inteso come reciprocità, ad un continuo domandare e rispondere: la democrazia è vista attraverso il dialogo, che è regola fondamentale ma anche valore. L´ideale della democrazia come colloquio spiega in qualche modo anche la sua visione sociale degli assetti democratici: tutti devono avere la possibilità di prendere parte allo scambio dialogico, devono avere l´effettiva capacità e l´effettivo potere di discutere con gli altri. E´ forse qui che si può rinvenire un´istanza propriamente socialista, in quanto l´effettività presuppone forme di eguaglianza fra gli individui: l´idea di eguaglianza - principio guida dell´azione del movimento operaio fin dai suoi esordi - arricchisce il liberalismo, come ho sostenuto in più occasioni. Ma per Calogero eguaglianza e libertà sono intimamente unite, inseparabili e, attraverso la loro unità, definiscono i cardini di una società giusta. Qui può situarsi un fecondo spazio di congiunzione fra il liberalsocialismo e le odierne forme di contrattualismo rilanciate da John Rawls e ispirate al principio dell´equità. La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra. Il tentativo di enucleare alcuni caratteri irrinunciabili del sistema democratico, alla ricerca delle modalità e delle ragioni di una convivenza sostanziata di valori autentici, e la possibilità di sviluppare l´idea liberalsocialista al fine di realizzare una società giusta attestano, a tutt´oggi, la vitalità della riflessione politica di Calogero. Egli era un idealista immanentista, la sua filosofia derivava da quella che era allora la filosofia dominante in Italia. Ma sulla questione del diritto e della nonviolenza le loro posizioni erano senz´altro diverse, e alcuni passaggi del saggio I diritti dell´uomo e la natura della politica , contenuto in questa raccolta, ne sono una chiara dimostrazione. Un altro punto nodale è il suo modo di intendere il socialismo. La sua simpatia per questa prospettiva culturale e politica va senz´altro attribuita alla sua ammirazione per l´Inghilterra e per il laburismo. Naturalmente bisognerebbe anche rivedere il suo libro sul marxismo, Il metodo dell´economia e il marxismo , che a suo tempo ebbe una certa fortuna tra coloro che si stavano avviando sulla strada dell´antifascismo. Sarebbe una buona occasione, fra l´altro, per richiamare l´attenzione su un testo ormai dimenticato e che pure presenta, ancora oggi, qualche interesse rispetto al dibattito continuato e sempre attuale sulla storia del marxismo. Le istanze socialiste di Calogero si raccolgono attorno all´idea di una società giusta fondata sul dialogo e la reciprocità, su un´idea di democrazia come colloquio integrale perché tutti devono avere il diritto-dovere di prendervi parte. Scrive per esempio Calogero in L´abbiccì della democrazia : " l´unità della democrazia è l´unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze ". E´ un modo singolare e originale di definire la democrazia. Quando si parla di democrazia s´intende, primariamente, la partecipazione al potere, richiamando una nozione di potere dal basso.

IL FUTURO E L'ETERNO

Nella rivista bimestrale "La Cultura" edita dal Grande Oriente d'Italia, Edizioni Erasmo, diretta da Guido Calogero -fascicolo 6, Novembre 1963 - è apparso un articolo firmato dallo stesso direttore ed intitolato: "il futuro e l'eterno". Calogero, in forza dei propri princìpi morali, assunse in ogni occasione ferme posizioni in difesa della libertà e della tolleranza, ritenendo quest'ultima una condizione irrinunciabile per assicurare la libertà. Calogero non era massone. Tuttavia egli accettò consapevolmente di dirigere una rivista edita dalla Massoneria di Palazzo Giustiniani e la diresse con il vigore morale che derivava dai suoi convincimenti umanitari, del vedere se stesso in mezzo agli altri e con gli altri e, quindi, con il proposito di intendere e di farsi intendere. Appare interessante, ed ancora attuale, il pensiero che egli esprime in quell'articolo, nel quale cerca di spiegare il suo punto di vista, su ciò che può mutare ed ha un futuro, e su ciò che non può mutare ed è eterno. Si tratta di aspetti che riguardano chiunque voglia accedere a quella che lui chiama " la bussola dell'universo ", di quello strumento cioè che, se bene utilizzato, è in grado di orientare correttamente le nostre azioni. Si domanda Calogero: " nel rapido mutare delle cose, sono per mutare anche i valori di fondo? La velocità delle nostre rotte farà impazzire anche le nostre bussole? C'è qualcosa a cui possiamo credere, al di là della critica di ogni fede? " E successivamente tenta di rispondere a questi inquietanti quesiti. Egli scrive:

" Allora mi è tornato in mente che, negli anni trenta, quando il problema fondamentale era quello di vincere il falso storicismo e di svegliare gli animi alla lotta per la libertà, il discorso che si faceva era apparentemente l'opposto, ma in realtà lo stesso, di quello che ancora oggi mi sembra necessario fare qui. Anche allora il problema era quello del rapporto tra il futuro e l'eterno, tra ciò che può cambiare domani e ciò che non può cambiare mai. In una famosa pagina dell'epilogo della sua "Storia d'Europa nel secolo decimonono", Croce, a chi si domandava se alla libertà fosse riservato l'avvenire, aveva risposto che essa aveva qualcosa di meglio che l'avvenire, perché aveva l'eterno. Era una formula potente ed era, in fondo, anche una verità. Ma noi allora contestavamo in essa quanto in essa era certamente da combattere: cioè il convincimento, conforme al vecchio storicismo vichiano e hegeliano, che certi valori fossero assicurati provvidenzialmente dalla storia, la quale si serbava razionale al di là di ogni personale tragedia degli individui. Di fronte a questo, noi ricordavamo che i valori sono le cose per cui si trepida, non le cose che sono garantite da una eterna necessità. Ci premeva la sorte del futuro, non l'immobile volto dell'eterno. E distinguevamo, giustamente, tra la libertà che non viene meno mai, quella che ciascuno di noi ha per se stesso e che nessuna prigione gli può togliere (la libertà di consentire o di non consentire, di approvare o disapprovare nell'intimo, per quanto ostacolato possa essere il proprio potere di esprimersi) e la libertà di questo stesso esprimersi, in ogni manifestazione e forma e attività della vita: quella libertà che può essere sempre ampliata o decurtata, garantita o messa in pericolo, ed al cui paritetico sviluppo è dedicata ogni struttura della civiltà. Quest'ultima libertà era, allora, a rischio mortale [...]. Oggi piuttosto che morire per mancanza di libertà noi sembriamo quasi soffrire di una malattia inversa, cioè del timore che ogni norma decada in arbitrio e che ogni stabilità si dissolva nel contingente, è necessario non già fare il discorso opposto, ma considerere l'opposto aspetto dì quella medesima verità. Se allora difendevamo il rischio e l'impegno del futuro contro la contemplazione dell'eterno, oggi, al fine di non lasciarci travolgere dalle sole incertezze del presente, non dobbiamo dimenticare che c'è anche l'eterno ".

"Ma quale è questo eterno?" E' questa la nuova domanda che si pone Calogero. Egli ravvisa nella " filosofia del dialogo " lo strumento idoneo per riconoscere l'eterno. Si spiega con un esempio. Ove vi fossero scienziati di gran lunga superiori ai Newton, agli Einstein, ai Fermi, capaci di trovare una interpretazione del mondo tanto soddisfacente da far credere che dopo non resti nient'altro da fare, salvo che " gioire e contemplare di tale siffatta finale verità ", e dicessero una cosa simile ai loro colleghi, si escluderebbero da soli dalla comunità della scienza. E ciò perché " anche nella scienza c'è un indiscutibile: ed è l'assoluto della discutibilità ". Chi non accetta questa regola di fondo, questo assoluto, consistente nel diritto di mettere qualsiasi conquista scientifica in discussione, in quel momento egli si pone fuori della comunità della scienza: " ogni universo scientifico può mutare, non già la libertà del discuterlo ". Con tale esempio egli indica, nel progredire della scienza, il futuro, e nel permanente diritto alla discutibilità, la continuità assoluta e quindi l'eterno. Un eterno, e questo va sottolineato per la sua importanza, non derivante da una condizione divina ma da una premessa condizionante, di origine umana, in base alla quale la scienza e il suo universo possono essere posti "sempre" in discussione. Si tratta di una premessa che esprime il diritto a disporre di una personale opinione sugli eventi scientifici, diritto alla cui base è posto perentoriamente un atteggiamento di tolleranza condiviso ed accettato da tutti. E proprio in questo atteggiamento sta il presupposto della filosofia o della " legge del dialogo ", come in altri punti del suo scritto la definisce Calogero. Filosofia o legge del dialogo, che allora costituiva un impegno al quale si debbono aperture inconsuete tra i diversi punti di vista religiosi, politici e filosofici. E proprio a quel periodo risale una prima apertura della Chiesa cattolica nei confronti delle chiese protestanti e finanche nei confronti della Massoneria. Egli prosegue ricercando il massimo profitto nell'esempio portato: " vediamo allora che la perenne regola del dialogo scientifico non è altro che la universale norma del mutuo intendersi, la quale è poi il fondamento di ogni etica, di ogni sistema di diritti, e quindi di ogni organizzazione civile ". E la legge del capire gli altri, così come si vuole essere capiti e di comportarsi in conseguenza: il ché, egli aggiunge maliziosamente, " è qualcosa di più che il semplice fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a sé, perché, alla stregua di questa seconda norma, noi potremmo imporre agli altri le nostre preferenze, e quindi sentirei dire da George Bernard Shaw che non dobbiamo fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto a noi, in quanto essi potrebbero avere gusti diversi dai nostri ". " Nel suo spirito ", egli continua, " anche quella legge evangelica non è che la legge del dialogo come lo è la legge socratica del 'nemo sua sponte peccat' e quindi della perenne doverosità dell'intendere le altrui ragioni e del chiarire agli altri le proprie ". Calogero rafforza tale tesi aggiungendo che il valore di questa norma non dipende da chi l'ha scoperta o rivelata, dalla firma che porta: " nessuno ha il diritto d'autore su quello che è il fondamento di ogni diritto. Come diceva il re buddista Asoka: importa molto rispettare la propria filosofia,e religione, ma ancora più importa rispettare la religione degli altri. I discorsi possono essere compatibili o incompatibili, ma la regola del dialogo dei discorrenti trascende qualsiasi loro discorso [...]. Alla legge del dialogo noi possiamo conformarci o non conformarci, ma non possiamo mai evadere dal suo radicale dilemma. Possiamo anche gettare nel cestino il libro coi dilemmi di Zenone, quando non ci interessino quelle discussioni sulla unità e molteplicità. Ma non possiamo mai sfuggire a questa alternativa: o essere soli o essere con altri. O voglio intendere altri, oppure voglio restare solo con me stesso, cioè considerare l'universo come semplice strumento del mio volere [...]. La morale è una scelta per cui non è dato non scegliere: qualunque cosa si faccia si sceglie sempre una delle due alternative. Ogni moralità è sempre un'opzione, ma essa si esercita nel quadro di una dilemmatica che non è un'opzione perché è sempre e assolutamente e trascendentalmente necessaria ". Da questo ragionamento egli fa discendere quella che chiama "la bussola morale dell'universo": in ogni situazione cosmica possibile è sempre fermo il dilemma radicale del collaborare con gli altri o al suo contrario.Dopo tali indicazioni aggiunge altre considerazioni e altre domande:" che cosa importa allora chiedersi se la moralità sia del passato o dell'avvenire? La vera Morale è sempre la stessa per la eccellente ragione che è la legge di convivenza di tutti con gli altri, nella loro volontà di capirsi, di rispettarsi a vicenda. Tutti sono uguali di fronte a questa legge, quale che ne sia la stirpe o la chiesa: il prossimo, non colui che è figlio dello stesso padre, ma colui che è fatto prossimo dalla volontà di capirlo. Non c'è neppure bisogno che sia propriamente un uomo: può essere anche il lupo di Gubbio, come un Angelo o Dio. " Dopo aver accennato polemicamente alla facilità con cui i critici si gettano sulle novità stracciandosi le vesti per gridare al miracolo di una nuova estetica o di una nuova morale, Calogero li esorta ad una maggiore ponderatezza, ricordando che " quel che occorre è tener ben ferma la solidità dei criteri di fondo, perché c'è una eterna estetica, così come c'è una eterna morale." Mentre appare limpidamente espresso il pensiero di Calogero relativamente alla storicità ed alla eternità della morale, sicché se ne deduce che sebbene gli atteggiamenti possano mutare a causa del mutare delle circostanze, resta tuttavia un aspetto che non può mai mutare - il dilemma: Io con gli altri o Io da solo - viene da domandarsi se sia riuscito ad indicare con altrettanta chiarezza i presupposti di un possibile giudizio su ciò che è morale e ciò che morale non è. E' su questo punto che vale la pena di svolgere qualche ulteriore riflessione. Calogero individua nel dilemma dell'Io con gli altri o dell'Io da solo, e nella scelta ineludibile che esso porta con sé, l'eterno, ciò che non muta, che resta sempre uguale a se stesso. Che vi sia comunque e sempre un dilemma e che su questo dilemma si debba scegliere, è indubitabile ed inevitabile. E' tuttavia al senso della scelta, allorquando l'Io avrà deciso di stare con gli altri o di restare solo, che viene rinviata la comprensione del significato morale da attribuire al gesto compiuto, perché è solo nel momento della scelta che tale gesto potrà essere classificato o buono o cattivo. E se è incontestabile il contenuto morale del dilemma "Io con altri o da solo", altrettanto incontestabile appare l'osservazione che vede tale contenuto estrinsecarsi soltanto nel momento in cui i fatti si svolgono, ovvero quando avviene la scelta, ed è perciò giudicabile. Calogero non possedeva probabilmente la foga, né tantomeno la retorica, del predicatore, tantoché piuttosto che affermare, preferiva argomentare. Un più sottile modo di esprimersi, magari meno incisivo, ma certamente più convincente. Nel suo articolo Calogero non si dilunga molto per dire quale è la scelta giusta da fare, tuttavia lo fa con molta chiarezza e senza equivoci. E non solo perché lo ha dimostrato con la sua vita coerentemente condotta "con gli altri" e non da solo, sicché pochi possono vantare più di lui una partecipazione ai problemi di tutti, ma perché dalla sua indicazione discende l'eternità dei valori morali che egli intende condividere con gli altri, con tutte le conseguenze che ne derivano sul terreno della comprensione reciproca, su quello dei diritti, su quello dei doveri. A questo punto, c'è solo da prendere atto della coincidenza dei valori morali da lui indicati, con i valori che sono propri della Massoneria. Non c'è bisogno di spendere molte parole: l' Io con gli altri", ricordato da Calogero, è esaltato dalla Massoneria con la scelta dei valori della Fraternità, della Libertà, della Uguaglianza. Valori che sono i cardini di un sistema morale che dichiara esplicitamente la solidarietà e la comprensione tra tutti gli uomini della terra.

Cyrus
01-02-10, 01:33
LA POLITICA

Guido Calogero e Giovanni Gentile, suo primo maestro - cui si aggiunse, per scelta ideale, Benedetto Croce, la cui influenza sulla formazione del pensiero calogeriano fu almeno pari, se non superiore a quella del filosofo siciliano - intrattennero sempre rapporti di affettuosa amicizia e di reciproca stima, documentati dalle lettere che si scambiarono anche nei momenti più critici della loro esistenza. Ciò non toglie che il giovane allievo, manifestando fin dall’inizio grande indipendenza mentale, assumesse posizioni radicalmente critiche nei confronti delle sovrastrutture metafisiche dell’attualismo di Gentile e dello storicismo di Croce ( al quale ultimo rimproverò il teologismo e il provvidenzialismo di matrice hegeliana) e combattesse, anche se in misura e forme diverse, le scelte politiche di entrambi, cioè l’identificazione del primo con il fascismo e il liberalismo di stampo conservatore del secondo. Per parte sua Calogero si schierò subito, per disposizione del suo animo e grazie all’assimilazione dello spirito dei greci, al suo apprezzamento dei modelli anglosassoni e allo studio di John Dewey, a favore dell’ideale di una democrazia integrale in cui la partecipazione e la discussione delle scelte di interesse collettivo doveva diventare costume di vita e in cui la libertà dell’uno doveva trovare il proprio limite nella pari libertà degli altri, coniugandosi con la giustizia economica e l’uguaglianza sociale. Gentile, pur soffrendo per gli atteggiamenti ribelli del suo discepolo, nella liberalità che indubbiamente fu un aspetto caratterizzante della sua persona, gli affidò il compito di redigere gli articoli di filosofia e di storia della filosofia per l’ Enciclopedia Italiana, di cui era direttore. Dal 1928 al 1937 Calogero scrisse, infatti, per l’Enciclopedia più di 700 voci, che ancora oggi si leggono con grande interesse, per l’ampiezza e la profondità delle sue conoscenze, soprattutto nel campo della filosofia greca, e per l’ originalità interpretativa rispetto a molti luoghi comuni della filosofia accademica. Gentile intervenne anche più volte perché venisse rinnovato il passaporto al giovane professore, schedato dalla polizia politica come antifascista fin dal 1929. Ottenuta la cattedra di Storia della filosofia all’ Università di Pisa, negli anni Trenta, Calogero tenne contemporaneamente seminari e curò esercitazioni di storia di filosofia antica presso la Normale, discutendo fino a tarda notte con i suoi studenti, sempre con puntuali riferimenti, citati a memoria, di testi filosofici e dossografici. Ma, disobbedendo ai divieti opposti sotto forma di paterni consigli da Gentile, le sue lezioni e le sue conversazioni avevano spesso come oggetto autori ‘filo-semiti’ ,come E.Cassirer, e filosofi contemporanei come W.James, che gli consentivano di mettere a fuoco tematiche etico-politiche e di intraprendere quell’opera di rieducazione e rinnovamento delle coscienze di cui avvertiva l’urgente bisogno a causa dell’oppressione esercitata dalla dittatura e del clima di grigio conformismo che si era diffuso nella scuola e nell’università. Per la natura del suo insegnamento, affiancato presto dall’attività clandestina, attirò su di sé l’attenzione della polizia fascista . Decisivo in questi anni fu l’incontro con Aldo Capitini, teorico della non violenza, ispiratore delle marce della pace ed autore del saggio Elementi di un’esperienza religiosa in cui Calogero riscontrò una forte consonanza con la propria tesi dell’autonomia e dell’assolutezza della scelta morale e con la propria opposizione etica al fascismo, nonostante non ne condividesse l’ istanza religiosa e nutrisse riserve sul ‘metodo’ della non violenza. Dal sodalizio spirituale tra Capitini e Calogero nacque l’idea di dar vita ad un movimento culturale e politico nel quale i giovani intellettuali che, dopo la guerra di Spagna, si opponevano sempre più apertamente al fascismo trovassero le basi ideali e morali per condurre una lotta rigeneratrice. Il movimento fu denominato liberalsocialismo da Calogero che ne scrisse anche il Manifesto, con un esplicito richiamo al socialismo liberale di Carlo Rosselli, ma, insieme, con la volontà di sottolineare la sua estraneità alla tradizione marxista. Al movimento aderirono Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola, Luigi Russo, Piero Calamandrei, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Alberto Carocci, Carlo Francovich, Ludovico Ragghianti, Raffaello Ramat. Vi furono vicini anche l’attuale Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Norberto Bobbio, il quale, prima di morire, ebbe modo di sottolineare la vitalità e l’attualità del liberalsocialismo, indicandolo come possibile prospettiva per una sinistra rinnovata dopo la fine del comunismo. Già in precedenza, negli anni Sessanta, Bobbio aveva sintetizzato il problema della sinistra italiana dicendo a Giorgio Amendola : "Noi abbiamo bisogno della vostra forza, ma voi avete bisogno dei nostri principi”. In effetti il liberalsocialismo nacque per porre rimedio, in nome del socialismo, agli squilibri economici e sociali prodotti da un liberismo economico senza altra regola che quella del profitto personale e di parte, che progressivamente restringe l’area della ricchezza e del potere e dilata quella della miseria e della subalternità. La svolta autoritaria incombe sempre quando questa situazione si estremizza. Da questo punto di vista il movimento di Calogero e Capitini era una ripresa della democrazia risorgimentale e del pensiero di Mazzini che vedeva nella soluzione della questione sociale, ottenuta con il metodo della libertà, la condizione per l’equilibrio interno e internazionale. Il movimento, che aveva cellule organizzative a Firenze, Perugia, Bologna, Roma e Bari stabilì una collaborazione organica con i gruppi di “Giustizia e Libertà”, che si ispiravano alle idee di Carlo Rosselli (ucciso in Francia nel 1937 insieme al fratello Nello da una banda di fascisti francesi, forse su mandato di Mussolini) e successivamente con il gruppo milanese dei democratici moderati che facevano capo a Ugo La Malfa, Ferruccio Parri e Adolfo Tino. Queste tre componenti diedero vita, poi, al Partito d’Azione, cui si deve l’intransigente opzione a favore dello Stato repubblicano, contro la tendenza al compromesso con la monarchia che accomunava, per motivi diversi, i liberali di Croce e i comunisti di Togliatti. Calogero fu arrestato la prima volta nel febbraio del 1942 e rinchiuso in una cella del carcere delle Murate a Firenze. Qui ottenne il privilegio di poter scrivere e, in pochi mesi, compose i tre volumi delle Lezioni di filosofia, dedicati rispettivamente alla Logica, all’Etica e all’ Estetica. In quei mesi di intensa concentrazione, ma di ‘clausura spirituale’ e di ‘mancanza di comunicativa’, egli ebbe modo di rinnovare la sua fede nell’ ‘universale colloquio umano’ e di vedere con maggiore convinzione nel linguaggio, ovvero nel pensiero che si atteggia in forma comunicativa e si apre al pensiero e all’esperienza degli altri, l’unico modo di evadere ‘dal chiuso carcere di se stessi’ , di affrancarsi dal buio e di uscire dalle tenebre per conquistare la luce. Il carcere fu poi trasformato in confino e Calogero si trasferì a Scanno in Abruzzo con la sua famiglia. Nella primavera del 1943 una nuova ondata di arresti si abbattè sui componenti del neonato Partito d’Azione. Tra questi: lo scrittore Giorgio Bassani, il filosofo Guido De Ruggiero e lo stesso Calogero, che fu arrestato per la seconda volta a Bari nel luglio di quell’anno e subito dopo liberato. Ritornò allora a Scanno per riabbracciare la famiglia e qui fu raggiunto da Carlo Azeglio Ciampi, che era stato suo discepolo alla Normale di Pisa e che trascorse con lui sei mesi, aiutandolo a battere a macchina i manoscritti delle Lezioni di filosofia. Ciampi passò poi le linee per riprendere servizio nell’esercito italiano il giorno stesso dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo), in cui trovò la morte un altro diletto allievo di Calogero: Pilo Albertelli. Calogero rimase, invece, nel territorio occupato dai tedeschi. Dopo la Liberazione egli si dedicò ad elaborare gli assetti istituzionali più adeguati alla propria idea di democrazia integrale, assegnando un rilievo di primaria importanza alla legge costituzionale, nella parte relativa ai principi e in quella riguardante l’ordinamento dello Stato. Nella sua concezione, infatti, il diritto, che ha le proprie radici nell’etica del dialogo, assume priorità sul mondo della politica, che è esercizio di persuasione, ma anche di forza e di coazione e deve, perciò, essere disciplinato dall’ordinamento giuridico e incontrare il proprio limite nei diritti dell’uomo e del cittadino. Per questo egli accentuava il ruolo della Corte costituzionale, come organo di garanzia totalmente autonomo e al di sopra delle parti. Occorre anche ricordare che egli fondò a Roma la prima scuola per operatori sociali (CEPAS), considerando gli assistenti sociali come “necessari collaboratori della convivenza civile”. In seguito allo scioglimento del Partito d’Azione per gli insanabili contrasti tra l’ala democratica liberale e l’ala socialista, Calogero, insieme a molti intellettuali di prestigio come Corrado Alvaro, Salvatore Quasimodo, Renato Guttuso e Giorgio Bassani aderì al Fronte Popolare. La sua battaglia per la filosofia del dialogo e per la democrazia continuò sulle colonne de “Il Mondo” di Mario Pannunzio. Molti di questi articoli, pubblicati nella rubrica intitolata “Quaderno”, furono poi raccolti nel libro Quaderno Laico (1967). Uno dei temi prediletti fu quello della scuola, che Calogero voleva rinnovata attraverso un rapporto dialogico tra insegnanti e studenti, che fosse reciproco apprendimento e produzione di una cultura nuova e comune, e voleva soprattutto sottratta ad ogni indottrinamento di natura religiosa, filosofica o ideologica. Con Aldo Capitini ed altri intellettuali sostenne l’azione di Danilo Dolci contro la mafia. Nel 1955 insieme a Leo Valiani, Francesco Compagna, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Rosario Romeo, Eugenio Scalfari, Arrigo Olivetti ed altri fondò il Partito Radicale. Alcuni anni dopo abbandonò il partito per aderire al Partito Socialista Unificato, ma fu sostenitore della doppia tessera e continuò a battersi per la democrazia bipartitica, prospettata dai radicali, convinto che “i veri partiti sono sempre e soltanto due, la destra e la sinistra, il partito della conservazione e il partito delle riforme” Nel 1972 divenne direttore di “Panorama”. I temi più propriamente filosofici vennero sviluppati su “La cultura”, la rivista di Cesare De Lollis, cui Calogero aveva collaborato in gioventù e che egli riportò a nuova vita, a partire dal 1963, insieme al genero Gennaro Sasso, poi a lui subentrato nella direzione. In essa Calogero sintetizzava la sua appassionata esperienza intellettuale con il richiamo a Socrate: il meghiston agathon, il bene supremo, è lo stesso principio del dialogo che impone di dare e chiedere sempre conto delle nostre reciproche opinioni e di sforzarci di comprendere gli altri senza giudicarli. Il liberalsocialismo ebbe un proprio manifesto redatto in gran parte e poi rielaborato dallo stesso Calogero nel 1940. In esso veniva enunciato, in premessa, il proponimento di combattere “per l’unico e indivisibile ideale della giustizia e della libertà”, opponendosi tanto al conservatorismo che si traveste da liberalismo, quanto all’estremismo sociale che non tiene nel debito conto l’esigenza della libertà e riconoscendo come proprio nemico il fascismo, come ideologia illiberale e antiugualitaria e come regime che esprimeva interessi oligarchici. Libertà e giustizia devono essere entrambe sempre presenti e operanti, devono, cioè, essere volute sempre insieme e, dunque, nei programmi e nell’azione politica, l’una non deve essere mai disgiunta e sacrificata all’altra Tale assunto scaturisce direttamente dal principio etico dell’altruismo (non c’è vita morale senza riconoscimento del diritto altrui) successivamente formulato da Calogero come principio del dialogo, che costituisce l’unico metro di giudizio della storia e il canone dell’autentico progresso. La storia e la politica si giudicano, infatti, in base ai concreti avanzamenti verso più ampie e ricche possibilità di vita, ma, insieme, verso una sempre maggiore parità del diritto degli individui di fruirne, cioè verso una sempre più equa distribuzione sia dei beni spirituali, come l’istruzione e la cultura, sia dei beni materiali ed economici. In questo progresso soltanto consiste la civiltà. Se la battaglia per le libertà civili e politiche ha avuto successo ed oggi, ad esempio, la libertà di parola e di voto sono state acquisite come diritto di tutti, non altrettanto è accaduto per la libertà economica che esiste in forma altamente sperequata: per alcuni come libertà di appropriarsi della ricchezza collettiva in misura soverchiante e per altri come libertà di morire di fame. La libertà che si deve volere, l’unica che può rappresentare un valore per tutti e che è in grado di animare e nobilitare la lotta politica, è per Calogero la libertà giusta. Nel mondo odierno, però, sussiste meno giustizia che libertà. Anche se la battaglia per i diritti civili e politici è lontana dall’essere compiuta e vinta e richiede sul piano interno e internazionale il massimo impegno, un impegno ancora più ampio e determinato occorre per l’uguaglianza economica Per questo all’educazione liberale, che riguarda le libertà formali, si deve affiancare l’educazione socialista che riguarda la garanzia delle condizioni materiali necessarie a ciascuno per potersi affermare nella vita. Suo compito specifico è quello di contrastare e modificare il gusto ancora prevalente di possedere più degli altri, allo stesso modo in cui, nell’età moderna, sono stati combattuti i privilegi sociali e politici, ottenendo un radicale cambiamento di mentalità. Da queste premesse derivano i due principi fondamentali del liberalsocialismo: 1. assicurare la libertà nel suo funzionamento effettivo 2. costruire il socialismo attraverso questa libertà Da un lato occorre rafforzare il fronte comune delle libertà, dall’altro mettere mano a riforme sociali che siano figlie della democrazia e della libertà. Una delle prime mete da raggiungere nel campo delle riforme sociali è la massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone. I mezzi tecnici e giuridici per realizzare questo intento saranno graduati in rapporto alle possibilità della situazione, ma la linea di tendenza è quella della battaglia contro il godimento sedentario dell’accumulato e dell’ereditato. Man mano che contadini, operai, tecnici e dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori, la figura del proprietario puro dovrà scomparire. Quanto più si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell’uguaglianza, tanto più sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell’operosità e l’iniziativa creatrice. L’istanza anticapitalistica contenuta in queste proposizioni è radicale, anche se temperata dal riferimento alle concrete possibilità offerte dalla situazione storica e dalla consapevolezza delle difficoltà oggettive e soggettive che si oppongono. Ma non c’è dubbio che occorra impiantare nella coscienza morale degli uomini l’ideale cristiano e mazziniano della giustizia e dell’uguaglianza anche sul piano della ricchezza: “…bisogna tanto suscitare nel proprio animo il gusto di lavorare e di produrre, quanto reprimervi quello del guadagnare e del possedere in misura soverchiante la media comune.[Il liberalsocialismo] vuole… che ciascuno sia compensato, con la ricchezza prodotta, in misura congrua al suo effettivo lavoro, vuole che non sia riconosciuta la legittimità del possesso ed uso privato del puro interesse del capitale, ma solo quella della reale attività e fatica dell’imprenditore e del dirigente, vuole che con la ricchezza appartenente alla società…venga assicurato ad ognuno il diritto di partecipare al lavoro comune e di raggiungere la piena esplicazione delle proprie attitudini, e parimenti venga assicurato uno speciale soccorso per tutti coloro che si trovino in condizioni di inferiorità …” Il raggiungimento di queste mete rende necessario uno sforzo di ideazione degli assetti politici e giuridici più adatti a far procedere la civiltà in direzione della sempre maggiore socialità della ricchezza. Nello specifico il Manifesto accenna a norme regolanti la successione legittima, l’amministrazione delle società anonime, gli orari e i salari dei lavoratori, che devono essere sottratti al privato arbitrio economico del testante, dell’amministratore e del datore di lavoro. Sul piano internazionale il liberalsociocialismo –viene affermato- difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti. Di conseguenza: Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo, niente distinzione di principio fra politica ed etica, ma difesa di ogni organismo che favorisca la realizzazione di questi principi nel mondo, internazionalizzazione…delle colonie [siamo negli anni quaranta, ndr] e delle grandi fonti di materie prime e progressiva estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei limiti delle nazioni. Il liberalsocialismo, avendo fatto tesoro del meglio delle tradizioni politiche dei grandi partiti, riconosce ai liberali di essere stati i protagonisti della lotta per la libertà, ma rimprovera ad essi l’incertezza che li ha indotti all’iniziale propensione per il fascismo in nome dello Stato forte, lasciando la libertà ai nemici della libertà; ai marxisti, del socialismo e del comunismo, dice: la nostra aspirazione è la vostra aspirazione, la nostra verità è la vostra verità, quando essa sia liberata dai miti del materialismo storico e del socialismo scientifico e ricorda che Marx scrisse il Manifesto e il Capitale a Londra all’ombra delle libertà inglesi; ai cattolici, infine, fa presente che il suo ideale non è altro che l’eterno ideale del Vangelo, essendo il liberalsocialismo una forma di cristianesimo pratico, calato nella realtà: “ Chi ama il suo prossimo come se stesso, non può non lavorare per la giustizia e per la libertà”.

Cyrus
01-02-10, 01:36
NICOLA TERRACCIANO

GUIDO CALOGERO

Un profilo biografico



Guido Calogero nacque a Roma il 4 dicembre 1904, da padre messinese, Giorgio, un bravo professore di francese e da Ernesta Michelangeli, figlia di Luigi. Quest’ultimo, di origini marchigiane, fu professore universitario di letteratura greca e poeta carducciano (di lui Calogero scrisse la voce nell’Enciclopedia Italiana) (1).

Ernesta era stata la prima studentessa universitaria a giungere alla laurea nell’Università di Messina.

Guido fu figlio unico ed entrambi i genitori (senza dimenticare i nonni) concentrarono la loro azione pedagogica su Guido, le cui qualità intellettuali erano eccezionali, incidendo profondamente su certi orientamenti della sua complessa personalità.

Fu fanciullo felice, adolescente sensibilissimo, come dimostra il suo primo scritto: la raccolta di poesie, edita da Signorelli nel 1920 (ad appena 16 anni), ”Initium. Le rime dell’Arno, i ritmi delle fonti, le odi romane, le elegie siracusane”, con forti influssi della poesia antica e soprattutto dannunziani.

Aveva frequentato il ginnasio a Pisa e il Liceo al ‘Mamiani’ di Roma, dove conseguì la maturità classica con un anno di anticipo, nel 1921.

Si iscrisse alla Facoltà di Lettere della Sapienza, avendo un amore spiccato per l’italiano, il latino e il greco. L’interesse fondamentale in questa fase era rivolto alla poesia di Pindaro, alla filologia classica.

Ma la lettura di Croce e l’esperienza dell’insegnamento di Gentile lo portarono a quella ‘conversione’ verso gli studi filosofici, di cui parla Francesco Gabrieli, suo amico di Università di allora.

Il 1925 fu l’anno della laurea, ad appena 21 anni, e dell’inizio della collaborazione alla rivista diretta da Gentile ”Giornale critico della filosofia italiana”, con recensioni e saggi, incentrati quest’ultimi sulla logica antica e su quella di Aristotele in particolare, che furono trasfusi nel suo primo libro organico e classico nel campo di tali studi ”I fondamenti della logica aristotelica” del 1927, nella collana dell’editore Le Monnier ”Studi filosofici”, diretta da Gentile. Nel 1934 assumerá la redazione fiorentina della rivista, alla quale dará nuovo impulso, chiamando a collaborarvi studiosi ebrei in fuga dalla Germania come Kristeller, Kroner, Löwith, H.Levy, Walzer, aprendo il dibattito filosofico italiano al più avanzato pensiero europeo.

La originale precocità lo impose all’attenzione degli ambienti culturali, tanto che nello stesso anno scrisse anche per le riviste ’La Cultura’ e ‘Leonardo’, con recensioni che, dalla più specializzata storiografia filosofica antica, soprattutto tedesca, andavano a Vico, Gobetti, Buonaiuti.

Nello stesso anno 1927, ad appena 23 anni, ottenne la libera docenza di storia della filosofia antica ed andò a trascorrere un anno di perfezionamento ad Heidelberg, seguendo le lezioni di Rikert.

Dal 1928 al 1939 fu professore incaricato di storia della filosofia antica all’Università di Roma, insegnando contemporaneamente storia e filosofia al liceo classico romano "Tasso”. Tra i suoi migliori studenti di allora occorre ricordare sopratuttto Pilo Albertelli, futuro martire alle Fosse Ardeatine, che si laureò proprio con Calogero con una tesi sulla dottrina platonica della conoscenza.

Oltre Aristotele, fu Patone (e quindi Socrate) ad entrare nel profondo dell’interesse intellettuale ed umano di Calogero: del 1928 è la versione, con saggio introduttivo, del dialogo ”Il Simposio” nella collana ”Biblioteca di cultura moderna” della casa editrice Laterza di Bari, così profondamente legata a Croce.

La collaborazione con Gentile è intensissima, specialmente nell’impresa culturale più indimenticabile e duratura (universalmente riconosciuta nel suo sotanziale, rigoroso spessore culturale), legata al complesso e tragico intellettuale fascista: l’Enciclopedia Italiana. Riguardo al controverso rapporto con Gentile, si possono riportare le equilibrate parole del suo caro amico abruzzese, Giulio Butticci" Per me Gentile era soltanto il filosofo che aveva legittimato le violenze fasciste asserendo che a cambiare le idee alla gente erano ugualmente idonei sia la predica che il manganello. Naturalmente poi ne seppi di più e meglio; e fu anche questo, di andare al fondo delle cose, un insegnamento di Guido Calogero. Ma con lui non parlai mai di Gentile, considerando che, pur nell’opposta collocazione politica, doveva aver conservato ammirazione e gratitutdine per chi lo aveva iniziato all’esercizio del pensiero e, come è noto, lo aveva poi chimato a collaborare con altri antifascisti alla redazione dell’Enciclopedia Italiana da lui diretta."(2)

Calogero dal 1929 al 1938, sia come redattore che come collaboratore, scrisse tutte le voci relative al pensiero greco, ma ne curò anche molte altre, sia relative alla cultura tedesca (es. Fichte, Schelling, Schopenhauer, Heidegger, Cassirer), alla cultura inglese (es.Hobbes, Hume con una curiosità estesa anche agli ordinamenti scolastici), alla cultura francese (es.Proudhon), alle discipline filosofiche (es.estetica, ontologia), ai singoli concetti (es.solipsismo, piacere). Il legame di Calogero con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana si estese anche la progetto e alla redazione dell’Enciclopedia Minore, che, ideata da Gentile, fu nel dopoguerra portata avanti a partire dal 1955 in dodici volumi col titolo’Dizionario Encicloppedico Italiano’. Come ha messo in luce Cristina Farnetti, il contributo di Calogero tra il 1940 e il 1942 fu intensissimo ed esso fu trasfuso nella nuova opera, pur non segnalandosi il suo nome, come dagli accordi contrattuali. (3)

Questa lunga, rigorosa esperienza’enciclopedica’ lievitò e rafforzò la sorprendente capacità di Calogero di portare una luce di consapevolezza, di riflessione, mai superficiale, su quasi ogni aspetto o evento del quotidiano, quale emergerà nella straordinaria, varia, intensissima collaborazione a giornali, settimanali, riviste.

Nel 1931, vinta la cattedra universitaria, fu straordinario di filosofia nell’Istituto Superiore di Magistero dell’Università di Firenze; passato a Pisa nel 1934, fu promosso ordinario di storia della filosofia nel 1935, tenendo anche corsi speciali alla Scuola Normale.

Accanto ad Aristotele, Socrate e Platone, il suo interesse si concentrò sulla più originale scuola presocratica, fiorita nel Mezzogiorno d’Italia, quella eleatica, legata soprattuto a Parmenide e Zenone, caratteristici per il nesso logico-ontologico, che era il piano del suo più profondo stile mentale e del suo più intenso interesse. Del 1932 è il suo secondo classico libro ”Studi sull’eleatismo” (tradotto in Germania nel 1970).

In relazione al valore del momento teoretico e dello studio della storia della filosofia in Calogero, ha detto efficacemente Eugenio Garin "Sul primato del momento teoetico nei confronti di quello storico ha sempre battuto con insistenza, e proprio in riferimento alla sua attività storiografica. La storia della filosofia – e in particolare la storia della filosofia antica - ha il compito preciso di dare lumi per vedere più a fondo, e più correttamente, nella problematica contemporanea, mettendo a nudo antichi fraintendimenti ed errori, dissipando pseudo-problemi e mettendo a fuoco i problemi autentici." (4)

Nel 1933 uscirono nella ’Collezione scolastica’ della casa editrice ’La Nuova Italia’, di Ernesto Codignola, i tre volumi di storia del pensiero (antico, medievale, moderno), che avranno altre edizioni ampliate e diveranno un classico dell’editoria scolastica degli anni Trenta e Quaranta. Nello stesso anno curò, con introduzione e commento, ”Il Manuale di Epittetto nella versione di Giacomo Leopardi”, presso la ’Collana scolastica di testi filosofici’, diretta da Gentile presso la Sansoni.

L’immersione quotidiana nella ‘paideia classica e umanistica’ fondata sul valore dell’umana dignità (sentimentale, intellettuale, morale) non potè non produrre nel tempo il continuo, inquietante parallelo con i principi di fondo, statolatri e antiumanistici, retorici e demagogici, del regime fascista, nel quale si svolgeva la sua vita ed al quale comunque partecipava in un ruolo intellettuale non secondario.

Di fronte alla sua coscienza e alla sua intelligenza, in rigorosa coerenza logica ed etica, Calogero non potè non passare su una posizione antifascista, anche se lo fece sul piano profondo e complesso del livello della sua consapevolezza e nella lucida individuazione delle forme più opportune di incidenza. Mise nel conto di essere destituito dalla cattedra e di rimanere senza una fonte di sostentamento quotidiano, ora che si era sposato con Maria Comandini, l’indimenticabile compagna della sua vita (della ben nota famiglia di repubblicani romagnoli, di Cesena, che sicuramente ebbe un ruolo importante per l’assunzione di una decisa posizione antifascista), ed aveva due figli, Laura e Francesco. Solo così si spiega la ‘strana’ decisione (nel pieno di una splendida posizione universitaria) di rimettersi a studiare come un semplice studente, per prendere una seconda laurea in giurisprudenza, nel 1937.

La tesi, dal titolo ”La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione” sarà immediatamente pubblicata dalla specializzata casa editrice Cedam di Padova nella collana ’Studi di diritto processuale’ diretti da Piero Calamandrei. Quest’ultimo nome rimanda immediatamente all’azione antifascista, discreta e originale, tesa alla diffusione di quel Movimento Liberalsocialista che Calogero aveva ideato con Aldo Capitini, conosciuto alla Normale di Pisa e ormai lontano da Gentile e dal fascismo, al quale non aveva voluto aderire, ritirandosi nella casa sotto il campanone del municipio di Perugia, vivendo di lezioni private.

Il Liberalsocialismo nacque nel 1937, proprio nell’anno dell’assassinio dei Fratelli Rosselli, quasi una misteriosa "vendetta dello spirito" (5).

Il Liberalsocialismo, nella visione calogeriana, si configurava, con echi logici di origine idealistica, come antitesi al comunismo, al fascismo e al liberalismo di vecchio stampo e come sintesi di costituzionalismo liberale e di egualitarismo socialista (6).

Il dramma del rapporto tra la legge della coscienza individuale e il rispetto o meno delle leggi ingiuste è rintracciabile nella edizione a cura di Calogero, nello stesso anno 1937, del famoso dialogo di Platone ’Il Critone’ presso la ’Biblioteca scolastica di classici latini e greci’ diretti da Giorgio Pasquali. Sempre nel 1937 Calogero curerà anche l’edizione del ‘Protagora’.

La vita di Calogero dal 1937 al 1942, anno del suo primo arresto, fu tutta generosamente spesa in una sottile, fecondissima opera di risveglio politico delle coscienze, negli ambienti sopratuttto universitario e culturale, con l’attività cospirativa del Movimento, con lo stile e i contenuti del suo insegnamento, con le linee di interesse dei suoi scritti, con l’attività cospirativa del Movimento.

Un suo allievo, Antonino Radice, ricordando il corso di filosofia teoretica del 1938 sul tema ‘Il ‘Contratto Sociale’ di J.J.Rousseau’, ha detto ”trovò persino nella scelta degli argomenti di studio non soltanto il modo per rafforzare in sè le personali convinzioni di libertà e di indipendenza, ma vide pure l’occasione per educare al medesimo culto della libertà e al gusto più alto della dialettica metodologica quanti, attratti dal fascino personale emanante dalla sua persona e dalla sua parola, numerosi accorrevano alle sue lezioni, piene di sottintesa ribellione al conformismo della circostante società.”(7) Il Radice ricorda anche l’atmosfera ‘diversa’ di Pisa, doveerano vive le vicende degli studenti Umberto Segre e Vittorio Enzo Alfieri e del più adulto Aldo Capitini, espulsi dalla Normale per il dissenso verso il regime, incideva il lavoro di liberazione intellettuale dell’italianista Luigi Russo (che aveva voluto Calogero a Pisa), dello storico Carlo Morandi, dell’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, erano note la fuga e la partecipazione di alcuni giovani dell’Ateneo per andare a combattere in Spagna per la Repubblica, cresceva la simpatia per Croce e declinava quella per Gentile.

Nell’anno accademico 1938-1939 Calogero tenne un corso di Pedagogia, che si tradusse nel famoso suo libro ”La scuola dell’uomo”, edito da Sansoni nella collana ’Biblioteca italiana’, che tantissimi allievi e lettori lessero come opera chiaramente antitotalitaria. Il quarto capitolo aveva come titolo ’La libertà’. Ha detto recentemente Carlo Azeglio Ciampi, suo allievo alla Normale e poi amico fino alla morte ”Quest’ultimo libro è un vero e proprio manifesto della libertà. E’ il libro con cui Calogero si rivolge ai giovani per mostrare loro come sia possibile uscire dal pessimismo dell’alternativa fra fascismo e comunismo... La filosofia morale di Calogero è una morale concreta, di attuazione della libertà, prima dentro di noi, poi nella società. Calogero non perseguiva fini astratti, ma voleva realizzare i propri ideali nella società. Il richiamo continuo alla coscienza, criterio estremo della verità, era richiamo al senso di responsabilità dell’individuo, ne sottolineava il dovere di lottare per l’affermazione della libertà per sè e per gli altri, per cambiare la realtà.”(8)

Come ha sottolineato il citato Garin, Calogero"trasfigurava l’attualismo in una filosofia della prassi intesa come formazione di una società libera e giusta, di liberi e di giusti."(9) La filosofia aveva senso solo come moralismo assoluto, come pedagogismo assoluto, doveva tradursi, secondo l’indimenticabile lezione di Socrate e Cristo, nel dare esempio di vita e di morte e nel pagare di persona.

Ha detto Calogero nel 1945, parlando agli studenti romani ”C’è stata una vita sotterranea nelle università italiane: nelle università di Pisa, di Firenze, di Milano, di Genova, in quasi tutte le altre università. Questa vita sotterranea nelle università italiane ha tenuta ferma, nella coscienza dei giovani, la verità che certi ideali non erano morti, e che tenendo fede ad essi si sarebbero fatti nuovamente trionfare.”(10)

L’angoscia della guerra che era scoppiata, della peste razzista entrata nel corpo della vita giuridica del paese, accentuò il momento dell’azione politica, a scapito del lavoro intellettuale che, nel 1940, si espresse in soli tre brevi saggi. La concentrazione storico-politica lo portò dallo studio di Aristotele e Platone a quello di Marx ed Hegel, ai teorici di quella statolatria, che stava dietro alle tragedie del secolo, pur nel riconoscimento dell’essere stati maestri di acuta comprensione del più profondo andamento storico. Nell’anno accademico 1940-41 tenne il corso”Intorno al materialismo storico”, edito nel 1941. Nello stesso anno curò la traduzione, insieme a Corrado Fatta, del primo volume delle ’Lezioni sulla filosofia della storia’ di Hegel, presso La Nuova Italia.

Approfondì il concetto di giustizia, al quale dedicò tra il 1941 e il 1942 due saggi, frutto anche di conferenze tenute, con altri temi negli Istituti Filosofici di Perugia, Roma, Pisa.

Il ritmo dell’impegno politico fu ormai frenetico e, come si vede, anche scoperto nella sua versione pubblica, per cui egli venne arrestato il 2 febbraio 1942 e condotto alle Murate di Firenze.

Restò in carcere quattro mesi, fu sospeso e destituito della cattedra e poi mandato al confino di Scanno, in Abruzzo, fino a maggio 1943, dove si trasferì anche la famiglia. Non potè rispondere per allora pubblicamente a Croce, che aveva criticato il Liberalsocialismo nel numero della ‘Critica’ del gennaio 1942.

Partecipò direttamente e indirettamente, attraverso la moglie Maria Comandini e i rapporti con Ugo La Malfa (conosciuto negli ambienti dell’Enciclopedia Italiana) alla ideazione e fondazione del Partito d’Azione, che non a caso ebbe uno dei momenti di giuridica configurazione nello studio dell’avvocato Comandini (cugino di Maria) a Roma nel luglio del 1942.

Il primo scritto di Calogero espressamente politico appare sul numero clandestino di ’Italia libera’ del 2 aprile 1943 col titolo ”Le ‘precisazioni’ programmatiche del Partito d’Azione", in dialogo con La Malfa e Ragghianti.

Fu arrestato nuovamente a Scanno l’8 giugno e portato nel carcere di Bari, dove restò fino alla scarcerazione del 28 luglio con Vittore Fiore e figli e Cifarelli.

Dopo lo sbandamento dell’8 settembre ed essendo Roma occupata dai nazifascisti, Calogero tornò a Scanno, dov’era ancora la sua famiglia e vi restò fino alla liberazione di Roma del 1944 (ospitò da settembre 1943 al marzo 1944 Carlo Azeglio Ciampi).

Nel silenzio drammatico della cella e nella residenza coatta del confino, Calogero mobilitò le energie intellettuali al diapason per fissare cardini teorici nelle varie discipline filofiche, affinchè non si perdessero mai per sempre, dopo tanta esperienza di tragedia, come stava emergendo nel cuore della guerra atrocissma e disumana, certi principi, certi assiomi, certi orientamenti, certi modi di affrontare i problemi. Si impegnò, affinchè la filosofia mai si smarrisse, mai venisse meno al suo compito umanissimo ed etico di orientamento, di consapevolezza al servizio sempre dell’umana dignità.

Così sul piano della filosofia politica, chiarì profondamente i due concetti chiave della libertà e della giustizia, le due stelle polari della salvezza etico-politica, che dovevano poi tradursi più analiticamente in indicazioni operative per un nuovo modo di fare politica e di organizzarsi, richimando il loro problematico rapporto, non automaticamente correlato.

Individuò nel Partito d’Azione lo strumento politico che poteva assumere quei principi come orientamenti di fondo e storicamente tradurli sul piano della norma e dell’ethos civile.

Così accanto alla stesura di quelle che saranno le ‘Lezioni di filosofia’(uscite nel dopoguerra), Calogero scrive a Scanno nell’aprile 1945 ”La giustizia e la libertà. Saggio sul liberalsocialismo del Partito d’Azione’, uscito solo nel febbraio del 1944 a Roma, clandestino quarto ‘Quaderno libero’, nella serie diretta da Federico Comandini.

Già nel 1944, quando i nazifascisti occupavano gran parte della penisola, accanto alle azioni di Resistenza in Abruzzo"favorendo l’occultamento dei prigionieri e stabilendo contatti con gli Alleati che avanzavano dalla parte del Sangro", come ricorda Butticci (11), avviò un intenso lavoro di orientamento e di riflessione con scritti brevi, giornalistici sul quotidiano del Partito ’L’Italia Libera - G.L.” Richiamava l’equivalenza tra rivoluzione sociale e rivoluzione liberale, la non accettazione di una concezione della libertà, che implicasse quella di morire di fame, ma fosse ‘libertà liberatrice’ sul piano delle condizioni quotidiane di vita, le vicinanze e le differenze tra laburismo e liberalsocialismo, la diversa concezione del socialismo, che restava insufficiente ed equivoco se non era accompagnato dall’aggettivo liberale, le consonanze, ma anche le diverse storie del socialismo liberale di Rosselli e il liberalsocialsimo, i problemi della radio, dell’Europa, della democrazia, della scuola.

Tra il 1944 e il 1945, utilizzò ogni occasione e strumento, da radio Roma e Firenze alla nuova rivista di Piero Calamandrei ’Il Ponte’, alle conferenze tenute in tutti gli ambienti sociali, dall’Università alle prime sedi sindacali, per aiutare a capire il fascismo, la democrazia, la necessità della rottura col passato per la fondazione di una società repubblicana, libera e giusta.

Nella libertà riconquistata difese anzitutto il suo liberalsocialismo dalle accuse di Croce e di quanti, nelle stesso Partito, tendevano a confonderlo con quello generico e sentimentale di un Lussu e non afferravano la sua forza ideale sintetica delle esigenze etico-politiche portate avanti dallo stesso Lussu da una parte, da Parri e La Malfa dall’altra. Resterà per questo un profeta drammaticamente inascoltato, perchè l’assunzione sincera di quella proposta etico-politica avrebbe evitato al Partito d’Azione la divisione e permesso la sua permanenza nella lunga durata nel panorama politico del cinquantennio repubblicano, la cui assenza tanto si è scontata e si sconta.

Pertanto resta un monito ed un lascito prezioso quel libro del 1945 ”Difesa del liberlasocialismo”, che parte dalla sua riflessione del 1940 su ’individuo e persona’ e termina con il richiamo a Carlo Rosselli.

Calogero ricorda nel 1945, ad un anno dal martirio, Pilo Albertelli e rivendica ampiamente l’opera di educatore politico di Aldo Capitini, che asseconda per la sua parte con la stesura di “L’abbicci della democrazia” (parlare e ascoltare, come si presiede e quali sono le regole della discussione, ordini del giorno, verbali e votazioni, il significato della maggioranza), consapevole che l’opera più importante e urgente fosse l’educazione politica dei cittadini, ignari dei valori e dei metodi della partecipazione democratica, dopo venti anni di totalitarismo. Si potrebbe parlare di un ’socratismo politico’ dopo quello quello filosofico, al quale si era dedicato nei decenni precedenti.

Da grande educatore qual’era, si rivolgeva soprattuto ai giovani, che soli potevano più decisamente ed incisivamente provvedere alla costruzione del nuovo edificio democratico, perchè più immuni dal condizionamento del regime. Ad essi si appellava, affinchè non avessero remora a fare politica (chiarendo in che termini) e ad assumersi le responsabilità dell’avvenire. (12)

Dalla meà del 1945 all’insediamento dell’Assemblea Costituente, fece parte con autorevolezza e incisività della Consulta, l’organo che, nell’assenza forzara di un Parlamento regolarmente eletto, funzionò in sua vece, dando pareri al governo sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi.

Oltre che come consultore, Calogero, insieme a Maria Comandini visse con dedizione la vita del Partito d' Azione nella sua dimensione organizzativa.

Maria dirigeva la sezione femmini1e nella collaborazione con altre indimenticabili figure femmini1i della tradizione azionista come Ada Gobetti, Gigliola Spinelli, Joyce Lussu, Mariuma Tioli, Gabriella Giordano Ricci e Amorina Lombardi, scrivendo anche articoli di rara cmarezza ed essenzialita sulla stampa nazionale e locale del Partito (13). Non si può comprendere il liberalsocialismo dal punto di vista teorico e pratico senza il quotidiano ’dialogo’ tra Guido e Maria. Ella allargò la latitudine, lo sguardo problematico della lotta di liberazione delle classi oppresse al mondo femminile, da emancipare nello stesso tempo e sempre insieme sia economicamente che sentimentalmente e moralmente

Guido e Maria girarono i quartieri di Roma, le cittadine vicinee, con l'amico Butticci, segretario regionale del Partito d' Azione, l' Abruzzo (dove Calogero era capolista), che conoscevano dal tempo del confino, con riunioni e comizi, animando la fede repubblicana e gli ideali liberalsocialisti, portando il loro 'granello di sabbia' alla vittoria del referendum istituzionale de1 2 giugno 1946 e all' affermazione comunque del partito, che mandò una piccola pattuglia di valorosi deputati, che tanti contributi diedero alla stesura della Carta Costituzionale. In Abruzzo (escluso quindi il Molise) i voti per la Repubblica superarono quelli per la monarchia (a differenza di tutte le regioni meridionali, le isole e lo stesso Lazio) e il Partito ebbe la sua piu alta percentuale di voto (3,4% contro una media delI' 1,5 %).

Guido non pensò alla sua elezione, alIa sua carriera (pur se risultò il primo dei non e1etti), cosi come fecero tanti altri del Partito d' Azione (es. Luciano Bolis), che si gettarono a capofitto nelIa lotta, senza vanità e personalismi.

Persuaso, come si è detto, che il Liberalsocialismo potesse essere l'orizzonte teorico' sintetico' e quindi 'unificante' di que1 Partito d' Azione, che era minato da posizioni ideali spesso pericolosamente conflittuali, e al fine di articolarlo piu analiticamente sul piano culturale e politico, dandogli un respiro anche intemazionale, fondò agli inizi del 1946 la rivista ' Liberalsocialismo' con sede a casa propria (dando un ulteriore esempio di dedizione e di altruismo), con una rosa di collaboratori esemplificativa del suo obiettivo politica, culturale ed organizzativo (da Vittorelli, vice-direttore, a Bobbio, Calamandrei, Ciampi, Capitini, Maria Comandini, Delle Piane, T.Fiore, Garosci, V.Gabrieli, Riccardo Lombardi, Salvemini, Giorgio Spini, Tagliacozzo, Valiani, Venturi, Visalberghi, Zevi). Ma le vicende successive della divisione e dell'incipiente diaspora, gli fecero capire che I'impresa non aveva più il principale referente storico-politico capace di portarlo avanti. Visse con dolore l'abbandono, nel febbraio de1 1946, dal Partito d' Azione di Parri e La Malfa, rimanendo al suo posto e facendo in modo che i danni fossero limitati.

Nella consapevolezza della funzione dell'animazione dal basso, di origine capitiniana, ma sempre su certe basi istituzionalizzate (che sole possono garantire sistematicita e durata degli interventi) fu fondatore e presidente nel 1947 del CEPAS (Centro di educazione professionale per assistenti sociali), che aveva la funzione di introdurre questa figura alI' interno della drarnmatica situazione sociale dell 'Italia del dopoguerra.

Nè dimenticava di seguire i lavori della Costituente e di richiamare la centralitá dei problemi della scuola, della laicitá, dei rapporti tra Chiesa e Stato.

Nè dimenticava la propria vocazione, il proprio dovere di filosofo, se si ricorda che proprio tra il 1946 e il 1948 uscirono presso Einaudi le Lezioni (in tre volumi: Logica, gnoseologia, ontologia, Semantica, Istorica, Etica, giuridica, politica), nel 1947 i Saggi di etica e di teoria del diritto, presso Laterza e la traduzione del II volume delle Lezioni sulla filosofia delta storia di Hegel sul ' mondo orientale'.

Reintegrato nella cattedra a Pisa, tenne nell'anno accademico 1947/48 un corso sul tema a lui cara Le origini della logica classica.

Dopo la fine del Partito d'Azione, confluì nel Partito Socialista, della cui direzione fece parte dopo il Congresso di Genova del 1948, sostenendo sempre la concezione del socialismo autonomistico (dopo aver rinunciato poco prima a una candidatura senatoriale, per non essersi il Partito Socialista dichiarato contro la dittatura comunista alIora instauratasi a Praga).

La fine del Partiio d'Azione, l'appiattimento del PSI sulle posizioni del PCI e il loro guardare in modo cieco versa l' Oriente comunista e i miti bolscevichi lo portarono ad una decisione che puo sembrare un allonta*namento dal Paese, ma che ha una segreta carica significativa (come si dirá poi): tra la fine del 1948 e il 1950, Calogero andò a fare il docente nelle Universita di Montreal, di New York, di Princeton.

Ne1 1950, passato da Pisa a Roma, inaugurò la cattedra di storia delia filosofia antica nell'aula magna delI'Università con una memorabile lezione su "Socrate" (edita da' Nuova Antologia' nel 1955). Quell'anno fu molto fecondo dal punto di vista della produzione intelIettuale, se si pensa che uscirono la monografia La filosofia di Bemardino Varisco, il libro Logo e dialogo. Saggio sullo spirito critico e sulla libertà di coscienza (nelle edizioni Comunità, promosse da Olivetti) e che scrisse contributi per volumi in onore di Rodolfo Mondolfo, Benedetto Croce e per il 'Commentario sistematico alla Costituzione italiana' diretto da Piero Calamandrei e Alessandro Levi.

DaI 1951 al 1953 fu direttore dell' Istituto Italiano di Cultura di Londra, organizzando mostre importanti come 'Italia e Inghilterra nella prima fase de! Risorgimento' , aprendo una colIana (che pubblicò, oltre il catalogo delia mostra, anche un ricordo di Benedetto Croce, nel 1953, con contributi di Gilbert Murray, di Manlio Brosio e dello stesso Calogero), parlando alla B.B.C. dell'ltalia. Dall'Inghilterra seguiva attentamente le vicende italiane e coliaborava con 'Il Ponte' di Calamandrei con infor*mazioni e riflessioni sulla situazione politica e sull' esperienza socialista anglosassone.

Con l'esperienza americana e inglese Calogero aveva voluto indicare, con la propria personale testimonianza, visibilmente, che la vera direzione dello sguardo della sinistra culturale e politica italiana non doveva volgersi versa l’Oriente, culla del dispotismo e dei tragici miti bolscevichi, ma verso l'Occidente anglo-americano, culla delle liber:tà, della demo*crazia e del laburismo, di un socialismo cioe sostanzialmente liberale.

Calogero compì quelia operazione senza subalternità atlantica, ma su posizioni di dignità culturale, nella consapevolezza di essere portatore di una grande tradizione culturale. Lo fece come un docente prestigioso, che porta la propria competenza, aperto a ricevere suggestioni di valori e forme organizzatrici, dal punto di vista delle istituzioni politiche ed educative,da far conoscere ed approfondire in Italia.

Dal numero del 14 febbraio del 1953 a quello del 22 dicembre 1964, Calogero troverà ne 'Il Mondo' di Pannunzio (1'organo piu famoso della cultura laica del dopoguerra) il luogo editoriale piu significativo per far conoscere la sua riflessione sui problemi nodali e sugli eventi piu significativi della vita etico-politica del paese.

Essi andranno a costituire gran parte di due suoi libri Scuola sotto inchiesta, edito da Einaudi nel 1957 e Quaderno laico, pubblicato da Laterza nel 1967.

Dopo la citata fase fuori d'!talia, riprese la sua attivita di docente a Roma, la città natia, alla quale era legatissimo, con Londra e Atene. Fino al 1955 insegnò storia della filosofia antica, dal 1955 al 1966 storia della filosofia e poi, fino al 1975, filosofia teoretica. Per venti anni formò generazioni di insegnanti, creando una tradizione di rigore negli studi a lui cari, che si espresse con un gruppo di valentissimi docenti universitari a lui legatissimi (come ad es.Gabriele Giannantoni).

Se si scorrono gli scritti di Calogero fino al 1957, si è sorpresi dall’accanimento sul problema della scuola, sulla difesa della scuola pubblica, della scuola laica, intesa come il luogo privilegiato, sancito dalla Costituzione, della formazione di libere personalità abituate allo spirito critico, al dialogo, al rispetto di tutte le fedi. Egli sentiva, specialmente nel contesta italiano, il dramma, per la presenza del centro del cattolicesimo e per il contrasto politico-ideologico legato all' esistenza del piu forte partito comunista in Occidente (con i socialisti subalterni). Anche a livello europeo e mondiale, dominava un clima gelido, con chiusure, muri, intolleranze ideologiche, dogmatismi.

Calogero pensava che la vera trincea della lotta stesse lì, nella difesa e nella promozione di una scuola, nella quale vivessero valori di liberta, di democrazia, di amore sincero per la cultura.

Il ricondurre (e accettare di ridurre) tutto il suo complesso messaggio filosofico e politico al tema del 'dialogo' nasceva proprio dalla consa*pevolezza che fosse, in quel particolare contesta storico, il valore sommo da diffondere e da praticare, onde evitare i vicoli ciechi dello scontro e dell’irrazionalismo, che avevano gia segnato cosi drammaticamente la storia d'Italia e d'Europa del Novecento.

Oltre l'attività di docente e di pubblicista, fu protagonista dei Convegni degli "Amici del Mondo", tenne conferenze attraverso l’Italia per l' As*sociazione Culturale Italiana. Il suo prestigio intellettuale fu consolidato dall'uscita di una collana presso Sansoni nel 1956, dedicata proprio ai suoi scritti, dalla ristampa accresciuta di La scuola dell’'uomo, dalla collaborazione con Klibansky per una edizione americana del Filebo di Platone, da traduzioni anche in giapponese di suoi scritti.

Con la fine di 'Il Mondo', pensò che fosse necessaria la presenza nel panorama italiana di una rivista che avesse come sua finalita fondamentale la difesa intransigente dei valori della libera cultura e riprese nel 1963, col genero Gennaro Sasso, la rivista 'La Cultura' (sulla quale aveva scritto agli esordi), che diresse fino alla morte nel 1986.

Presidente della Società Filosofica Italiana (e, per il triennio 1963 - 1966, dell'Institut International de Philosophie di Parigi) egli, che si era sempre battuto per i valori di autonomia e di democrazia nell'Universita, cercò di capire i motivi della protesta studentesca del 1968 e propose per il XXII Congresso di Filosofia (che si tenne a Padova nell'aprile del 1969) il tema 'Il problema del dialogo nella societa contemporanea'. Fu anche questa volta profeta inascoltato da una generazione che si perse in gran parte nei miti dogmatici e intolleranti di una desolata e tragica scolastica marxista-leninista (egli considerava lecito il dissenso, non 1'oltraggio, come recita un suo articolo).

Ma Calogero non si perse d'animo, pur in una segreta amarezza che gli amici piu vicini capivano e vivevano per le smentite e la lontananza della ' realta effettuale' italiana dal suo idealismo etico, e continuò nel suo dovere socratico di riflessione e di aiuto alla chiarificazione civile, su 'La Stampa' e, soprattutto, su 'Panorama'. Dal 1970 al 1975 ebbe sul settimanale milanese una presenza fissa, affrontando a tutto campo i temi piu scottanti della cronaca politica, sociale, civile: es. l'ordine pubblico, la situazione della Chiesa Conciliare e post-Conciliare (la cui svolta giovannea dei primi anni Sessanta lo aveva profondamente e positiva*mente attratto, nella sua carica di possibile apertura e dialogo col mondo dei valori laici), la droga, la magistratura, il bipartitismo, l’obiezione di coscienza, il vero roolo del sindacato, l’aborto, il potere militare, il terrorismo e il dovere di difendere la democrazia.

Specialmente dopo la decisa svolta autonomistica e la fase delI'uni*ficazione degli anni Sessanta nel campo socialista, che videro la nascita del primo centro - sinistra, l’elezione di Saragat a Presidente della Repubblica nel 1964, l’unificazione tra PSI e PSDI nel 1966, prese il suo posta nel Partito Socialista, allontanandosene, appena si avvide di pro*cessi di rampantismo, incompatibili con le idealità e il rapporto etica *politica da lui sempre praticati.

Cercò in ogni modo di far dialogare le componenti liberali di sinistra, repubblicane e socialiste, in modo che operassero alla luce di una comune orientamento laico e sostanzialmente liberalsocialista, che prevedesse almeno un patto di consultazione permanente, se non una fusione (anche in questo caso profeta inascoltato). Perciò nel 1972 ripropose la sua Difesa del liberalsocialismo ampliata di saggi e interventi nati dall’esperienza del dopoguerra, che volevano avere come interlocutori piu diretti specialmente La Malfa, Nenni, Saragat e i liberali di sinistra, legati alla piu autentica e aperta lezione di Luigi Einaudi, di Benedetto Croce e alla figura e al messaggio di Piero Gobetti.

Sul piano strettamente intellettuale, gli ultimi interessi della riflessione calogeriana si collocarono tra: Platone e Plotino, tra Socrate, Cristo, Erasmo, Spinoza, riproponendone le grandi, intramontabili suggestioni teoriche, logiche, etiche.

Ebbe doverosi riconoscimenti accademici in Italia e alI'estero e sue voci apparvero nella nuova ‘Enciclopedia Britannica’ nel 1974.

Col caldo affetto della famiglia amatissima, aveva il conforto antico della poesia, specialmente quella classica di Omero, di Virgilio, di Orazio, i cui versi spesso recitava a memoria.

Fino alla fine fece della sua casa un luogo di riflessione incessante, di conservazione della memoria per una cerchia di amici integri e fedeli, nella speranza, mai venuta meno, che sarebbero sopraggiunti uomini e gruppi capaci di cogliere il messaggio liberalsocialista e riprendeme con fedeltà ideale i principi, i valori, le idealità, le esperienze, patrimonio importante della storia etico-politica italiana.(14)



NOTE



l) Questo profilo, scritto a maggio 1996, nel decennale della morte, pubblicato nel nunero 5, dedicato tutto a Guido Calogero, dei ’Quaderni del Movimento d’Azione Giustizia e Libertà’, Galzerano editore, Casalvelino Scalo (Salerno), pp.9-25 e rivisto nel 2004 per il centenario della nascita, deve molto alla cortese disponibilita di scritti di Calogero spesso introvabili in possesso di Vittorio Gabrieli. Il testo fondamentale di riferimento è il lavoro di Cristina Farnetti col saggio di Gennaro Sasso, che costituiscono il libro 'Guido Calogero - dal1920 al 1986', Enchiridion, Napoli,1994, pp.244, che contiene la bibliografia degli scritti di Calogero. Si deve alla dott.ssa Farnetti anche il reperimento degli articoli di C. apparsi su quotidiani del 1945 e ristampati in parte nel presente scritto.

L'estensore di questo profilo ha ascoltato Calogero in una seminario sui Presocratici presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli negli ultimi anni della sua vita e ne ricorda, oltre la magistrale competenza, lo spirito vivace e 'pedagogico' che promanava dalla sua Figura.

2) Giulio Butticci, Ricordo di Guido Calogero - Un coetaneo maestro, Quaderno n.15 della 'Rivista Abruzzese', Lanciano, 1986, p.10.

3) Cristina Fametti, Appendice, nel volume citato alla nota 1, pp.213-219.

4) E.Garin, Guido Calogero, in 'Scuola e citta', La Nuova Italia, Firenze, 1987, n.10, p417.

5) A.Capitini, Sul nome di liberalsocialismo, in 'Liberalsocialismo', Roma, n.2, febbraio 1946, p.64.

6) Si veda la parte centrale del secondo manifesto delliberalsocialismo de1 1941, tratto da 'Difesa del Liberalsocialismo', riportato in Appendice.

7) Antonino Radice, Ricordo di una lezione: Guido Calogero, in 'Nuova Antologia', Le Monnier, Firenze, aprile-giugno 1994, p.192.

8) Carlo Azeglio Ciampi, Etica dell'azionismo, in 'Micromega', 3. 1996, pp. 247. L'articolo è il testo dell'intervento al Circolo Giustizia e Libertà di Roma, del 27 maggio 1996.

9) E.Garin, Guido Calogero, cit., p.422.

lO) G. Calogero, Assumetevi le responsabilita dell'avvenire (vedi Appendice).

11) Giulio Butticci, Ricordo di Guido Calogero - Un coetaneo maestro, cit., p.18

12) G.Calogero, 1 giovani e la politica (vedi Appendice).

13) Maria Comandini Calogero, Il Partito d'Azione e la questione femminile ,in ‘La Rinascita’, quindicinale del Partito d’Azione – Sezione di Fondi (LT) del 2 settembre 1945., riportato in appendice. Su questo periodico e sull’attivita’ della sezione azionista fondana ha pubblicato un recentissimo saggio l’autore di questo profilo, pubblicato nell’ultimo numero del 2003 e nel primo numero del 2004 di ’Annali del Lazio Meridionale’, che si pubblica a Fondi, direttore il preside prof. Antonio Di Fazio.

14) Un esempio della disponbilità dell’ultimo Calogero verso ogni iniziativa, pur piccola, a riprendere la tradizione liberalsocialista si ebbe nel 1982, quando il citato vecchio amico abruzzese Butticci, che era stato anche preside a Roma presso il Liceo’Tito Lucrezio Caro’, e liberalsocialisti pavesi, guidati dal dott. Salvatore Bellini, vennero per proporgli di ricostituire il Movimento Liberalsocialista e di rivedere il Manifesto in una nuova versione, ed egli accettò di buon grado come di essere anche il loro Presidente fino alla morte.(testimonianza dello stesso dott. Bellini). I gruppi sono confluiti poi nel Movimento d’Azione Giustizia e Libertà nel 1994. Il dott. Bellini ha poi ricostituito, anche per una difesa giuridica della tradizione azionista, contro tentativi di strumentalizzazione o di deformazione, il Partito d’Azione Giustizia e Libertà del 1942 e il suo quotidiano ‘L’Italia Libera’.





ANTOLOGIA DI SCRITTI

I PRINCIPI DEL 'LIBERALSOCIALISMO' DAL MANIFESTO DEL 1941



1 - Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti nè concetti disparati, ma specificazioni parallele di un unico principio etico, che è il canone di ogni storia e di ogni civilta. Questo è il principio per cui si riconoscono le altrui persone difronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio.

*

2. Così, è lo stesso dovere etico che impone ad ognuno di riconoscere agli altri un pari diritto di opinare, di parlar,e di votare, e un pari diritto di valersi della ricchezza del mondo. Tanto l'uno quanto l'altro è un diritto di disposizione, un diritto di libertà; un ambito dell'individuale possibilità di azione, che dev'esser lasciato libero. E la giustizia non è che l' equa ripartizione di tali sfere di libertà.



3. Ma la distinzione, che non ha luogo nell’idea, ha avuto luogo nella storia. Essa è costituita dal fatto che, nella civiltà del mondo, lo sviluppo etico e giuridico delle abitudini e delle istituzioni dirette ad attuare la libertà del liberalismo è stato finora assai piu vasto di quello delle abitudini e delle istituzioni dirette ad attuare la giustizia del socialismo.

La tradizione morale ed istituzionale ha ormai tolto ad ogni uomo civile il gusto di negare al suo interlocutore un pari diritto di interloquire, ma non gli ha ancora tolto il gusto di possedere piu di lui. Molti, che non tollererebbero piu di disporre di due voti elettorali quando ogni altro cittadino disponesse di un voto solo, tollerano ancora di disporre di beni economici in misura decupla di quella di cui dispone la media del loro prossimo. *



4. Di conseguenza, dovunque sia lecito, con formula sommaria, dire che sussiste meno giustizia che libertà, lo sforzo etico-politico dev'essere prevalentemente diretto all' educazione socialista dell'uomo, il quale, sulla via ascendente della giustizia, non deve restare più in basso che sulla via della libertà.



5. Sarebbe tuttavia un errore ristabilire il livello facendo retrocedere l'uomo sulla via della libertà. Ciò significherebbe non solo distruggere un già raggiunto grado di giustizia, non solo perdere una già compiuta conquista egualitaria, ma annientare lo stesso più efficace e pratico strumento delle conquiste ulteriori. Solo la libertà ci farà piu liberi. Essa infatti è la stessa libertà di creare il socialismo. Noi dobbiamo mante*nerla tale, renderla veramente tale dove non è, e servircene.



6. Di qui i due principi fondamentali del liberalsocialismo: assicurare la libertà nel suo funzionamento effettivo, costruire il socialismo attra*verso questa libertà.

Alla stregua del primo principio, esso considera parte integrante del suo programma l’instaurazione e la difesa di quel «liberalismo armato», che dev'essere, come si è visto, la base universale di ogni convivenza politica, e fin da oggi il fondamento del comune Fronte delta libertà.

Alla stregua del secondo principio, esso vuole riforme sociali che non piovano dall' alto, ma siano figlie della democrazia e della libertà.



7. Una delle prime mete di tali riforme sociali dev'essere il raggiungimento della massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone. Questa non è che una prima tappa sulla via del socialismo (ed è gia superata, tutte le volte che con la ricchezza comune si soccorrono i deboli e gl'infermi, incapaci di lavorare). Comunque, è quella che si deve intanto cercar di percorrere. Di qui la fondamentale istanza anticapitalistica, che il liberalsocialismo fa propria. Bisogna portare sempre piu oltre la battaglia contro il godimento sedentario dell' accumulato e dell’ereditato.



8. I mezzi tecnici e giuridici atti a realizzare progressivamente questo intento dovranno essere commisurati, caso per caso, alle possibilità della situazione. Quanto piu i contadini, gli operai, i tecnici, i dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori, tanto meno dovrà esistere la figura del proprietario puro. Quanto più si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell'uguaglianza, tanto piu sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell’operosità e l'iniziativa creatrice. Di qui la fonda*mentale importanza dell’educazione delle masse, e quindi, tra l' altro, del problema della scuola.



9. Sul piano internazianale il liberalsocialismo difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti. Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo: niente distinzione di principio fra politica ed etica. Le assisi fondamentali della civiltà debbono essere le stesse tra gli uomini e tra le nazioni: il dovere dell'onestà, il riconoscimento dell'altrui diritto non è soltanto una faccenda privata. Di conseguenza: difesa di ogni organismo che possa favorire la realizzazione di questi principi nel mondo: internazionalizzazione, almeno dal punto di vista economico, delle colonie e delle grandi fonti di materie prime; progres*siva estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei limiti delle singole nazioni. In una parola: liberalismo e socialismo anche sul piano inter*nazionale, giusto lo spirito della nuova Internazionale, composta di tutti coloro che questi ideali condividono nel mondo.



UOMINI DI CULTURA, PROFESSIONISTI, INTELLETTUALI

ASSUMETEVI LA RESPONSABILITÀ DELL’AVVENIRE



C'è stata una vita sotterranea nelle università italiane: nelle università di Pisa, di Firenze, di Milano, di Genova, in quasi tutte le altre università. Questa vita sotterranea nelle università italiane ha tenuta ferma, nella coscienza dei giovani, la verità che certi ideali non erano morti, e che tenendo fede ad essi si sarebbero fatti nuovamente trionfare. E come i fatti che oggi commemoriamo s'inseriscono in un piu vasto quadro, cosi le figure degli eroi che ricordiamo sono circondate dalle piu vaste schiere di coloro che sono periti in questa battaglia. Mi sia concesso di rievocare solo qualche nome, quale simbolo di questa resistenza politica della cultura italiana.

Ricordo Pilo Albertelli. Lo ricordo a Palazzo Carpegna, vicino alla vecchia Sapienza, quando iniziava i suoi studi di storia del pensiero antico, in cui diede così alta prova di sè e in cui avrebbe lasciato ben maggiore orma se non avesse preferito di gettare tutto se stesso in una diversa lotta. Ricordo Mario Fioretti, tenace e intelligentissimo scolaro al "Tasso". Giurista di vivacissimo ingegno, sarebbe certamente andato molto innanzi, se non fosse stato ucciso in Piazza di Spagna il 4 dicembre 1943.

E mi sia permesso di ricordare, anche se non hanno studiato in questa Universita, Eugenio Colorni e Leone Ginzburg, due delle intelligenze piu forti affermatesi nel campo della filosofia e della critica letteraria.

L'altra guerra ha conosciuto un"soldato ignoto"; noi in questa guerra conosciamo il martire ignoto della libertà. Siamo tornati ad una situazione che non si è mai verificata nella storia del nostro Risorgimento. Abbiamo forse bisogno di risalire al primo cristianesimo, quando i martiri si accumulavano a migliaia e nessuno poteva tramandarne il nome.

Questa è stata la guerra della cultura italiana contro le forze che l'avrebbero distrutta, come avrebbero distrutta la civiltà. E' stata la guerra che 1'Italia ha combattuto per lunghi anni, inserendola in quella grande guerra civile europea che è la presente.



PER LA CAUSA DI TUTTI I POPOLI LIBERI



Questa guerra che noi oggi combattiamo ha il suo simbolo nell'inter*vento di Carlo Rosselli nella guerra di Spagna.

Questa è la guerra che Carlo Rosselli - che ricordo qui anche perche e stato uomo di scuola, professore universitario - questa guerra che Carlo Rosselli sentì come la sua guerra è anche oggi la nostra guerra.

Noi oggi sappiamo che non combattiamo per una nazione, non* combattiamo per una certa rivendicazione: combattiamo per una causa che è insieme nostra e di tutti i popoli liberi del mondo. Sappiamo che in questo senso le nostre frontiere, i nostri fronti di combattimento sono dovunque si combatte per questi ideali.

Ma di questa guerra non è neppure necessario che noi qui parliamo. La sua necessità è evidente a tutti noi: essa non cade in discussione. Su un altro punto vorrei richiamare la vostra attenzione.

Cyrus
01-02-10, 01:37
L'EDUCAZIONE POLITICA



C’è un problema della politicizzazione dell'universitá, degli studi, il quale è tanto più grave in quanto, come abbiamo detto, la guerra odierna non é piu una guerra di nazioni. Essa é una guerra civile, una guerra ideologica, una rivoluzione sul piano mondiale, nel senso migliore della parola. Da tale punto di vista cade la vecchia distinzione che altro é la politica, altro il dovere di difendere la Patria. Si poteva allora pensare: i giovani delle universitá vanno alla guerra quando si tratta di difendere la Nazione; ma quando si tratta della politica, essi debbono invece pensare che i loro studi sono al di lá della politica, che gli studi sono la prima cosa e la politica verrá dopo.

Oggi che la guerra non è piu difesa di frontiere, ma difesa di idee e di modi di vivere, questa distinzione cade nel nostro ambiente, come cade nell'ambiente militare. In altri tempi, si diceva che l' esercito non deve occuparsi di politica, perchè l'esercito bada solo alla difesa del territorio nazionale. Il che è ben giusto, quando il problema è proposto cosi. Ma oggi noi dobbiamo dire: l'esercito non può occuparsi di politica se la politica è una politica di parte; ma deve occuparsi di politica se la politica è in generale la difesa di quelle norme di vita, di quella possibilita di esistenza, che sono essenziali alla stessa manifestazione della libertá.

C’è ancora oggi chi dice: - Non fate entrare le vostre passioni politiche nella casa degli studio. Lasciate che i giovani si formino alla verità, allo studio dei problemi, non pretendete che essi si interessino di quelle questioni più particolarmente politiche, di cui avranno tempo di occuparsi quando gli anni graveranno su di loro. Non fate che l'Universitá li divida, non inserite il germe della contesa nella giovinezza dedita agli studio

E c’è chi dice, con tono piu accorato ancora: - Lasciate che i giovani restino giovani ! Siamo tutti cosi malati di questa realtá che ci opprime, siamo tutti cosi tarati nei nostri nervi, siamo tutti cosi oppressi dal peso del disastro nazionale, che noi non avremo mai più la virtu della giovinezza. Lasciate che chi è giovane resti giovane, per avere energia di risolvere domani i problemi della nazione. Non stancate i giovani troppo presto.

Come rispondiamo a questa domanda, a queste esortazioni, che angosciano l'animo di chi ha qualche responsabilitá nell'orientamento politico dei giovani ?

La cosa piu sincera che si possa fare per rispondere a un problema concernente istinti, psicologia, attivitá dei giovani, credo sia quella di ricordare la propria stessa esperienza. Ricordo dunque di fronte a voi la mia esperienza di studente nell'Universita di Roma. Io sono stato studente alla Sapienza tra il 1921 e il 1925. Voi comprendete quale è il quadro storico che si delinea fra queste date. E' il periodo dell'affer*mazione del fascismo nella vita italiana. Sono stati gli anni piu travagliati della nostra storia, perchè in quegli anni è stato posto il seme di tutta la catastrofe di questo ventennio.

Ebbene io ricordo che allora (lo confesso con grande candore) non capivo nulla di quanto accadeva intomo a me. Ero seppellito negli studi classici: mi occupavo di epigrafia, di letteratura greca, di storia della filosofia antica.

Accanto a me accadevano cose che mi colpivano. Certo, non avevo simpatia per il fascismo. Ma non capivo bene perchè si dovesse com*batterlo; esso era qualcosa di estraneo al mio spirito. Ricordo, come sprazzi, certi fatti accaduti, come l'episodio di Edoardo Volterra bastonato e ferito dai fascisti nel cortile della Sapienza. Ricordo il furore che mi prese, ma nello stesso tempo la vanitá di questo furore, la incapacitá di dirigerlo, la sua sterilitá.

Per lunghi anni, dopo di allora, mentre avevo il senso di essere ben orientato intomo a certi problemi, avevo il sospetto doloroso di essere disorientato rispetto ad altri. Sarei stato piu vecchio se allora avessi compreso ? Credo di no. Credo che sarei stato non solo più giovane, ma soprattutto più lieto; avrei vissuto in maggiore misura quella gioia attiva che mi pervadeva quando compivo qualcosa nella quale mi sentivo realmente orientato. Quando, più tardi, sono riuscito ad orizzontarmi anche in questo campo, ogni passo ulteriore è stato una conquista gioiosa, qualcosa di positivo nella mia esperienza: non giá una sorta di restrizione della mia vita spirituale, non qualcosa che mi invecchiasse e che mi aggiungesse preoccupazioni, ma qualcosa che mi dava forza e libertá.

Non credo di aver avuto una esperienza spirituale molto diversa dalla normale. La mia esperienza personale è stata quella di moltissimi altri giovani italiani di quel tempo. Quasi certamente è l’esperienza personale di molti tra voi in questo momento. Da questo punto di vista, ecco il dovere di quella maggior parte di noi, che è orientata, verso tutti gli altri: questa maggior luce di orientamento si diffonda il piu possibile.

Dobbiamo oggi comprendere che le ragioni ideali della nostra cultura devono essere da noi chiaramente prospettate, da noi chiaramente sentite, perchè altrimenti la nostra cultura non vale niente. Non c’è bisogno di molta dottrina per comprendere questo, che tutte le nostre conoscenze, tutto ciò per cui ci avviamo verso la vita in quanto uomini di cultura, tutte le conoscenze che costituiscono il nostro bagaglio e il nostro orgoglio di intellettuali, non varrebbero nulla se non riuscissimo a fare, con esse, qualcosa di bene agli altri uomini. Perchè non c’è niente al mondo che valga al di fuori di questo: far bene agli altri. Tutto cio che possiamo creare a questo mondo, l'arte, la scienza, le nostre azioni, non valgono se non per l' accrescimento di vita che producono tra gli uomini, per l'eco che hanno nel loro animo.



PER COSTRUIRE UNA NUOVA CIVILTÁ



Voi domani sarete medici, ingegneri, avvocati, professori; ma non potrete, con questi strumenti, costruire la civiltà, se non saprete quale è il fine per cui dovete servirvene. La chiarezza degli scopi è coessenziale alla chiarezza con cui possiederete strumentalmente questi ferri del vostro mestiere.

Quali sono questi scopi ? Alte parole risuonano nel nostro mondo. Noi combattiamo per la giustizia e per la libertá.

Molte persone possono sentire queste parole e non comprenderle realmente. Voi che siete i rappresentanti dell'intelligenza, voi che le comprendete, avete il dovere di far si che esse siano intese sempre più largamente. Noi dobbiamo far comprendere ad ognuno che questa guerra si combatte per radicare negli uomini sempre più il convincimento che essi devono difendere la propria libertà in quanto questa libertà sia capace di creare altre libertà.

Questa guerra, a cui noi collaboriamo anche parlando e discutendo, mira appunto a restaurare sempre più nel mondo questo convincimento, che noi non rivendichiamo la libertà nostra e basta; ma rivendichiamo la libertà di tutti, in un ordine giusto per cui la nostra libertà sia tale da non ledere la libertà altrui, la libertà altrui tale da non ledere la libertà di altri ancora.

Noi dobbiamo convincerci che questa libertà è la giusta libertà, la stessa giustizia intesa come assicurazione del diritto di tutti gli uomini a creare la loro vita, facendo si che questa loro creazione di vita sia possibilita di vita per altri uomini ancora.



Dal discorso tenuto il 19 gennaio 1945 nell’Aula Magna dell’Università di Roma per ricordare la chiusura dell’Università imposta ai nazifascisti dalla Reistenza degli studenti romani l’anno prima, riportato da ’L'Italia Libera - Giustizia e Liberta’ di Roma de15/3/1945.



I GIOVANI E LA POLITICA



O essi si renderanno conto del fatto che la democrazia e la civiltà e la prosperità non piovono dall'alto, e che la loro stessa vita avvenire è condizionata al loro interessamento a quanto in sede politica potrà deciderne; e ci sarà un avvenire per loro e per la democrazia. Oppure essi penseranno che tutto sommato è meglio occuparsi degli affari propri e lasciare che della politica s’interessino i cosiddetti uomini politici; e allora non ci sarà un avvenire nè per la democrazia, nè per loro.

Nè dovrebbe esserci bisogno di aggiungere (ma forse è bene ancora una voita ripeterlo) che interessarsi seriamente alla vita politica non significa fare, della politica stessa, la propria attività dominante, non significa insomma far" carriera politica". S’intende che fra i giovani ci saranno coloro che sentiranno prevalente questa attitudine, e da essi nasceranno i futuri amministratori e uomini di stato. Ma l'uomo politico normale non è quello che diventa uomo di stato: è quelto che permette agli uomini di stato di non essere dittatori, bensi portatori della volontà sua e di quelta dei suoi concittadini. E, per far questo, l'uomo normale (o anche, se cosi volete chiamarlo, l'uomo della strada, l'uomo medio, l’uomo comune, magari 1'uomo qualunque: ma 1'uomo qualunque pulito, non l'uomo qualunque sporco) non ha bisogno di rinunciare alle sue attività specifiche e, se è un giovane, non è chiamato a tralasciare nè i suoi studi, nè i suoi divertimenti. Ha bisogno soltanto di tener d'occhio, per un'ora o per una mezz'ora al giorno - che poi può essere disseminata attraverso tutta la giornata - quel che succede intorno a lui sul piano politico e di cercare di rendersene conto: cioe di non viaggiare come un baule nel bagagliaio della storia.



Da’ Nuova Democrazie’ del 15 dicembre 1945.

MARIA COMANDINI CALOGERO



Il Partito d'Azione e il problema femminile



Il Partito d'Azione è forse un partito più sensibile degli altri ai problemi della donna: esso ha messo in testa al suo programma il principio dell'autogoverno, il principio, cioè, della difesa dei diritti di ciascun ceto, di ciascuna categoria, di ciascuna entità territoriale, di ciascun complesso umano, insomma, a governarsi in modo autonomo. Il Partito d'Azione riconosce perciò alla donna un diritto proprio all'au*tonomia, all'autogoverno, a una soluzione autonoma del problema femminile.

Nel suo complesso il problema femminile può essere considerato da due punti di vista: quello economico e quello politico-sociale. Nel suo aspetto economico, il problema femminile ammette due soluzioni. La prima compresa nella generale soluzione del problema economico italiano. Avviata che sarà l'economia in senso socialistico, essa darà a tutti, quando potrà, una meno ristretta possibilita di vita; e darà insieme alle donne la effettiva capacità di dedicare la propria attività anche ad interessi che non siano di carattere strettamente familiare. In questo ambito la nostra possibilità di intervento e di azione è pari a quella degli uomini, e consiste nel collaborare alla soluzione del problema generale.

L'altro modo di diminuire l'ostacolo che la condizione economica oppone alla nostra possibilità di partecipare alla vita politica è quella di organizzare in modo più intelligente la nostra vita familiare e di adope*rarci per conquistare tutti quegli strumenti sussidiari che a tale organiz*zazione possono giovare. Le mense aziendali per esempio, se ampiamen*te diffuse e accompagnate dalle refezioni scolastiche ai bambini, possono effettivamente togliere e semplificare per molte donne il faticoso e grave problema del pasto meridiano; così un'organizzazione di la*vanderia, stireria e rammendo comune; così la diffusione dei nidi infantili e di asili; e via via tutte quelle e altre forme di vita associata verso le quali bisogna urgentemente orientare i gusti umani, perchè rappre* sentano una dei piu validi sussidi per dare a tante donne la possibilità di non essere solamente macchine e bestie da soma. Nelle zone rurali, dove, specialmente se sono a popolazione sparsa, la vita associata con i suoi benefici e la sua economia è piu difficilmente organizzabile, sono da introdurre tutti gli altri strumenti di civilizzazione (impianti elettrici, macchine, utensileria domestica, ecc.) che rendono meno pesante e assillante il disbrigo delle faccende quotidiane.

Ma - dopo ciò - il problema politico-sociale non è ancora per nulla risolto. Noi avremo cercato di dare anche alle donne la reale libertà di dedicare qualche parte del loro tempo a problemi di interesse pubblico e sarà già moltissimo. Ma resterà sempre l'altro aspetto del problema: che, cioè, le donne adoperino effettivamente questo tempo a vantaggio della comune civiltà. In altre parole l’esperienza ci insegna che a disdegnare i problemi politici (non a propugnare una qualsiasi soluzione magari conservatrice) sono quasi sempre anche tutte quelle donne le cui condizioni economiche permetterebbero loro di dedicarvisi interamente. Permane, cioè, in un larghissimo numero di esse, la mentalità dell'in*dividuo schiavo. Da secoli le donne sono considerate come schiave dei genitori, del marito, dei figli, della tradizione. Se di diritto o anche di fatto è ormai caduta tale schiavitù resta reale e intatta la mentalità della schiavitù: l'incapacità per la donna di essere qualcuno, di essere se stessa, di essere una persona che pensa e vuole e agisce perchè ha il diritto, come il suo compagno, di intervenire nel modificare il proprio ambiente. Ancora oggi è difficile trovare chi riconosca alle donne il pieno diritto di portare nel mondo la propria individuale personalità di inconfondibile creatura umana.

Questo diritto, questa volonta di vita indipendente la si potrà ottenere se noi eserciteremo nelle donne quello spirito di iniziativa, di indipen*denza, di responsabilità, che finisce poi per essere la piu seria garanzia di quella vita associata, alla quale contemporaneamente bisogna avvi*cinare le nostre primordiali abitudini di poveri aristocratici. Dunque rinnovamento strutturale e organizzativo di tipo socialistico per risolvere l'aspetto economico-sociale del problema che solo da tale avviamento può essere risolto; rinnovamento di carattere liberale e individualistico per risolvere quell'altro aspetto politico-sociale del problema, che è legato non già all' economia, ma a una tradizione antiquata e del tutto illiberale del modo di vita.

Il Partito d'Azione è anche in questo campo il Partito che del problema indica la soluzione più completa in quanto non scinde la questione economica dalla questione politica e non pretende di risolvere unilateralmente l'una e l'altra. Nella sua fondamentale premessa liberalsocialista, esso comprende la sostanziale unità di entrambe; esso comprende che per le donne il punto è di conquistare ad un tempo una più larga possibilità economica di azione e una più viva autonomia politica d'intervento, senza rinunciare nè all' una nè all' altra di queste due facce della sua civile libertà.



Da ’La Rinascita’, quindicinale del Partito d’Azione - Sezione di Fondi (LT), 2 settembre 1945.

Cyrus
01-02-10, 01:38
GUIDO CALOGERO
Filosofo e pedagogista

Roma 4 dicembre 1904 - Roma 17 aprile 1986.

Un disegno di Guttuso: il primo da sinistra è Bobbio, quello col dito alzato Calogero



Biografia: Professore di Storia della filosofia nelle Università di Firenze (1931) e di Pisa (1934), insegnò (1951) nella facoltà di magistero dell'Università di Roma; dal 1954 fu professore di Storia della filosofia antica nella facoltà di lettere della stessa Università. Arrestato per motivi politici dal fascismo (1942), in carcere scrisse le Lezioni di filosofia. Diresse l'Istituto italiano di cultura a Londra. Fu membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei.

Scritti: A soli 23 anni scrisse I fondamenti della logica aristotelica, (Firenze 1927, rist. 1962), che gli valse l'apprezzamento di Benedetto Croce e la cattedra universitaria ; seguirono: Studi sull'eleatismo, Roma 1932; La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova 1937(2a edizione 1960); La scuola dell'uomo, ivi 1939 2a edizione 1956); Il metodo dell'economia e il marxismo, Firenze 1944;Difesa del liberalsocialismo, Roma 1945;Saggi di etica e di teoria del diritto, Bari 1947; Lezioni di filosofia, I: Logica, gnoseologia,ontologia, Torino 1948; II: Etica, giuridica, politica, ivi 1946; III: Estetica, semantica, istorica, ivi 1947;Logo e dialogo, Milano 1950; La filosofia di Bernardino Varisco, Messina 1950; Scuola sotto inchiesta, Torino 1957; Verità e libertà, Palermo 1960; Quaderno laico, Bari 1967; Storia della logica antica,I: L'età arcaica, Bari 1967; Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, Roma 1968.

Pensiero: Guido Calogero è conosciuto come il filosofo del dialogo cioè del dover discutere e dello sforzo di capire gli altri; questa, per lui, è una doverosa possibilità: la volontà di discutere non ha bisogno di essere discussa, la volontà di intendere sarà sempre al di sopra della variabile storica del vero.
Calogero intende l'educazione come altruismo; il rapporto educatore-educando va oltre il mero rapporto dualistico: si deve formare l'educando in modo che, a sua volta, diventi educatore di altre persone.
La formazione consiste pertanto in quella forma di apertura verso il prossimo, di disponibilità che si concreta nella volontà di intendere gli altri.

Legami con Monforte: Figlio del monfortese prof. Giorgio Calogero, teneva moltissimo alle sue radici.
Quando i molteplici impegni glielo permettevano trascorreva volentieri qualche giorno di vacanza a Monforte. Gli piaceva la sovrana pace del paesello e i suoi splendidi panorami, l'aria purissima, l'onestà della popolazione. E nella tarda età quando, per motivi di salute, non ha avuto più la possibilità di viaggiare, Monforte è rimasto sempre un luogo di care memorie.
Lo ha ribadito con commozione la moglie signora Maria Comandini Calogero in un incontro avuto con Lei a Roma nel 1988 quando, interpretando il desiderio del marito, ha fatto dono alla Biblioteca Comunale di un cospicuo numero di scritti di Guido Calogero, del padre Giorgio e di un ricordo del figlio Francesco ordinario di Fisica teorica all'università di Roma che trascorse, bambino, un'estate col nonno Giorgio alla Trinità, lungo il torrente Niceto.

Bibliografia: è vastissima; viene riportato qualche titolo:
R. Coccio - C. Fabro. Logica, gnoseologia e ontologia in Guido Calogero, in Riv. Filos. Neoscol.,1949,n. 2; A. Caracciolo, L'estetica del Calogero, in Scritti di estetica, Brescia 1949; A. Vasa, Teoreticità e praticità del valore ontologico nel pensiero di Guido Calogero, in Riv. St. Filos., 1949, pp. 241-271; S. Zeppi, Il problema del dialogo, Firenze, 1960; Y. L. Austin, Philosophical Papers, Oxford 1961, p. 130; E. Severino, Nota su I fondamenti della logica aristotelica di Guido Calogero, in "Studi di filos. e storia della filos. in onore di F. Olgiati", Milano 1962, pp. 117-144; A. Negri, Il progetto della categoria estetica di Guido Calogero, in Riv. Estet., 1962, pp. 95-118; R. Raggiunti, Logica e linguistica nel pensiero di Guido Calogero, Firenze 1963; R. M. Hare, Freedom and Reason, Orford 1964, pp. 186-202.

Guglielmo Scoglio

Quei mesi nella Resistenza una lezione di libertà

LA MEMORIA

di CARLO AZEGLIO CIAMPI


ARRIVAI a Scanno a metà settembre del 1943 quasi per caso; mi ci condusse un giovane ufficiale, come me fuggiasco, che avevo avuto occasione di conoscere dopo l'8 settembre a Roma, Nino Quaglione.
Quando egli mi disse che andava a Scanno, terra della sua famiglia, mi associai a lui, in due ricordi. Ero stato a Scanno per poche ore tre anni prima, quando da allievo ufficiale frequentavo la scuola di Pescara. Venimmo qui per fare una esercitazione di autocolonna da Pescara a Scanno in motocicletta.
Ricordavo Scanno perché sapevo che era diventato il luogo di confino di Guido Calogero. Arrivato qui mi fu facile ritrovare Guido, di cui ero stato discepolo nei miei anni alla Scuola Normale a Pisa fra il 1937 e il 1941.

Calogero, dopo l'arresto nel 1942 a Pisa, era stato confinato a Scanno e vi si era trasferito con la famiglia.
Dopo il suo secondo arresto nel luglio del 1943, che lo portò nel carcere di Bari, e la successiva liberazione il 27 di luglio, egli tornò subito a Scanno per riabbracciare la famiglia. Ebbi così la fortuna di frequentarlo assiduamente per sei mesi, dal settembre 1943 al marzo 1944.
Erano mesi bui, difficili ed io potei approfittare della sua vicinanza.
Era un uomo capace di mantenere una grande serenità anche nei momenti più drammatici.
Ricordo che in quell'inverno, tra le cose più care che aveva con sé, c'erano i manoscritti dei suoi volumi, poi pubblicati da Einaudi, su Estetica, logica ed etica, i manoscritti erano in copia unica e lui temeva di perderli con la guerra. Allora abbiamo cominciato a batterli a macchina: riportavano la data di ogni giornata di lavoro.
Ricordo che tentammo insieme di passare le linee attraverso la Maiella.
Poi ci dividemmo: a Calogero fu chiesto di rimanere nel territorio occupato dai tedeschi per svolgervi la sua attività politica; io il 24 marzo (il giorno delle Fosse Ardeatine) riuscii a passare le linee e ripresi servizio nell'esercito italiano.
I sei mesi trascorsi con Calogero furono estremamente intensi. Per me, così giovane, fu l'occasione di imparare da un grande nobile maestro, del quale divenni amico.
Ci insegnava i principi fondamentali del comportamento dell'uomo; prima di tutto il rispetto per gli altri. Oggi si parla spesso di tolleranza; non amo questa parola perché è un termine improprio, ma ciascun essere ha bisogno di conoscere e di essere pronto a lottare perché gli si riconoscano gli stessi diritti che noi riteniamo di dovere pretendere da tutti.
Ci insegnava inoltre che l'individuo ha un senso in quanto vive in una collettività e la base della collettività è il saper dialogare, il saper parlare, discutere e affrontare gli argomenti con libertà piena di convincimento delle proprie idee, con l'intendimento di farle affermare, ma pronto a riconoscere la ragione dell'altro e ad accettarla quando uno ne divenga convinto.
Questi i codici che ci insegnava Calogero nel suo comportamento.
Durante gli anni alla Normale, Calogero aveva pubblicato due libri fondamentali: "La filosofia della vita" (1936) e "La scuola dell'uomo" (1939).
Quest'ultimo libro è un vero e proprio manifesto della libertà. E' il libro con cui Calogero si rivolge ai giovani per mostrar loro come sia possibile uscire dal pessimismo dell'alternativa fra fascismo e comunismo.
La filosofia morale di Calogero è una morale concreta, di attuazione della libertà: prima dentro di noi, poi nella società. Calogero non perseguiva fini astratti, ma voleva realizzare i propri ideali nella società. Il richiamo continuo alla coscienza, criterio estremo della verità, era richiamo al senso di responsabilità dell'individuo, ne sottolineava il dovere di lottare per l'affermazione della libertà per sé e per gli altri, per cambiare la realtà.
Quella "religione della libertà" che avevamo appreso dai grandi italiani, a cominciare da Benedetto Croce.
Calogero c'insegnava a praticarla nella vita, avendo sempre presente che altrettanto importante del principio della libertà è il principio di giustizia, di giustizia sociale.
Il messaggio di Calogero è di dottrina civile. La norma superiore dello Stato è quella che regola i rapporti di convivenza. Calogero libera l'uomo dall'opportunismo e lo incardina su valori come il primato della coscienza, la civiltà come progresso dei diritti civili, come educazione al dialogo. Una testimonianza di questa visione è in un documento personale. Una lettera di Calogero a mia figlia, con cui egli accompagnava, nel 1975, il suo regalo di nozze: la ristampa della "Difesa del liberalsocialismo", da tempo esaurita, e una superstite copia dell'edizione originaria dell'ormai introvabile "La scuola dell'uomo".
Calogero aggiunge la traduzione di quattro versi in greco, che egli aveva composto per dar significato alla dedica del libro a sua moglie: "Quelle cose di cui ci convincemmo nelle nostre pacate discussioni,/ quello che apprendemmo dai nostri amati figli,/ quello che ci insegnò il condiviso tragitto della vita,/ accogli qui a testimonianza di una speranza immortale". La speranza immortale era quella del ritorno dal fascismo alla libertà.
E il proiettarsi della libertà e della vita verso il futuro, Calogero lo rendeva con un'immagine poetica e concettuale molto bella: sono i figli quelli dai quali abbiamo appreso, quasi invertendo il corso naturale delle cose.
In chi ha avuto la fortuna di essere stato allievo di Calogero il segno è rimasto profondo. Senza quell'insegnamento giovanile, la mia vita, la mia lunga attività nelle istituzioni fino ad oggi, sarebbero state diverse.
Per me è stato un maestro e un amico. Il maestro è per me colui che va al di là della disciplina specifica, che è capace di affrontare i problemi infondendo una visione della vita basata sui valori morali, che sa andare al di là della professionalità dell'insegnamento.
Da Guido Calogero ho imparato il rispetto dell'alterità, che non è tolleranza, bensì impegno perché i diritti degli altri abbiano uguale valenza dei propri.
Calogero vedeva il principio fondamentale della convivenza nel cercare di comprendere le opinioni e i bisogni altrui. Di qui l'importanza del dialogo.
Io credo che gli insegnamenti di Calogero siano il fondamento del modo di comportarsi: rispetto della dignità umana, onestà intellettuale, gusto del perché, dell'andare in fondo alle cose.
Nei miei lunghi conversari con Guido, tra le montagne abruzzesi, si parlava molto della responsabilità. Mi spiegava che la conoscenza è alla base dell'azione, ma aggiungeva che a un certo punto scatta, dando luogo all'azione, l'atto di volontà, atto autonomo che implica la responsabilità.
Non voglio cadere nella retorica, ma in un momento critico e drammatico, come era quello per l'Italia, bisognava assumersi responsabilità ed esserne consapevoli.
Nell'Italia di oggi, democrazia compiuta, orgogliosa della sua unità, fiduciosa e forte della sua vocazione europea, quei principi sono ancora validi.


CALOGERO il più giovane dei miei maestri

di Norberto Bobbio

Il ricordo che ho di Calogero è quello di una bella amicizia, ma prima di tutto di una profonda, straordinaria, ammirazione: di quell'ammirazione che si prova di fronte ad un maestro. Mi viene subito alla mente quel disegno di Renato Guttuso che documenta anche il mio ingresso nell'antifascismo attivo, era il 1939. Prima a Camerino, dove dal 1935 ero docente di filosofia del diritto, poi a Siena, dove insegnavo, dopo aver vinto il concorso, dalla fine del 1938, avevo iniziato a frequentare le riunioni del movimento liberalsocialista, animato da Calogero e da Aldo Capitini. Il disegno di Guttuso, allora giovane e promettente pittore, rappresenta la testimonianza di una di queste riunioni: siamo raffigurati io, Umberto Morra (proprietario della villa presso Cortona dove spesso si tenevano le nostre riunioni e che ci presentò lo stesso Guttuso), Cesare Luporini (che poi divenne comunista), Capitini e, appunto, Calogero con il dito alzato. Entrambi tengono un libro in mano: su quello di Calogero si legge Liberalismo sociale, su quello di Capitini Non violenza. Dell'artefice del disegno si vede la nuca.

La prima volta che vidi Calogero fu nel 1933, a Roma, ad un Congresso hegeliano. Presiedeva Giovanni Gentile, che tenne il discorso d'apertura, Calogero era fra i relatori ed io ero fra il pubblico. Mi impressionarono la sua bravura, la sua intelligenza, il suo sguardo. Eravamo entrambi molto giovani (io avevo ventiquattro anni, lui era di soli cinque anni più grande di me), ma rimasi stupito dalla sua maturità: era giovane d'età, ma sembrava un uomo "già arrivato". Questo aspetto destava grande e profonda ammirazione in noi aspiranti studiosi. Calogero aveva un viso "aperto" e i suoi occhi esprimevano, per così dire, quella volontà di discussione che ne faceva un "maestro del dialogo".

Non è un caso che i ragazzi della Federazione giovanile del Partito d'Azione si rivolgessero a lui per farsi chiarire la struttura e il senso delle principali regole della discussione democratica, per essere educati alla procedura, nella fase in cui la dittatura fascista sembrava realmente potersi sostituire con un nuovo ordine. I diversi interventi apparvero, in un primo momento, su quello che era il giornale del Partito d'Azione, l'Italia libera.

Calogero era dunque per noi più giovani un simbolo, un esempio da ammirare e possibilmente da seguire. Era diventato professore universitario molto presto. Oltre che essere di una intelligenza precoce aveva una grande capacità di apprendere: si era dedicato alla filosofia, ma avrebbe potuto insegnare lettere classiche; oltre al latino, sapeva benissimo il greco, lo leggeva perfettamente: del resto fu traduttore di opere come il Simposio e il Critone. Dimostrava una straordinaria facilità di apprendimento: oltre al greco, conosceva in modo approfondito il tedesco e sapeva anche l'inglese. Non so quando l'avesse studiato, ma lo parlava correntemente, tanto che nel 1950 fu chiamato a dirigere l'Istituto italiano di Cultura a Londra.

Era un uomo di un'intelligenza estremamente rapida. Cominciò prestissimo a scrivere: poesie, recensioni, apparse queste ultime sul Giornale critico della filosofia italiana diretto da Gentile. Compose la sua prima opera molto giovane, nel 1927, a ventitré anni: i Fondamenti della logica aristotelica, che ampliava e rielaborava la sua tesi di laurea (discussa nel 1925); ma il suo primo scritto risale a qualche anno prima, al 1923, ed era dedicato a Pindaro, l'autore al quale Calogero, giovane studente di filologia classica presso l'Università di Roma, pensava di dedicare la tesi; questo prima di conoscere Gentile e dedicarsi agli studi filosofici.

Dimostrava una precocità fuori dal comune nell'imparare le cose difficili, la logica, le lingue straniere, antiche e moderne. Tutto questo ci affascinava e ce lo faceva vedere, appunto, come un maestro. La sua sfortuna fu che così come aveva iniziato molto giovane finì il suo cammino di studioso non vecchio: ricordo benissimo quando la sua intelligenza cominciò a deperire, a degenerare. Mi vengono alla mente i colloqui che ebbi con sua moglie, Maria Comandini, e il racconto delle sue difficoltà. I suoi ultimi libri risalgono alla fine degli Anni Sessanta, per quanto poi continuasse a scrivere su periodici, riviste e quotidiani. Gli anni precedenti alla sua scomparsa furono terribili, si era appannata la sua intelligenza [...].

L'incontro con Capitini
A quel periodo risale anche la mia conoscenza dell'altro ispiratore del liberalsocialismo: Aldo Capitini. Prima di insegnare a Siena, come accennato, ero professore a Camerino. E ricordo di esserlo andato a trovare a Perugia, nel momento in cui stava per pubblicare il libro che lo rese noto, Elementi di un'esperienza religiosa, che è del 1937, mentre il libro di Calogero, altrettanto fondamentale per la mia generazione, La scuola dell'uomo, è del 1939. Questi sono i due libri che rappresentano come dire un precorrimento, una specie di anticipazione, di quella che era la lotta politica antifascista clandestina, che però si manifestava nelle opere scritte, con molta cautela come dimostra il titolo del libro di Capitini, che in realtà celava una trattazione strettamente politica.

Capitini e Calogero furono due figure assolutamente centrali per la mia formazione e per il mio ingresso nell'antifascismo attivo. E tuttavia erano personaggi molto diversi fra loro.

Si possono individuare due fasi del loro rapporto. Dapprima c'è un dialogo legato al liberalsocialismo, che sta a cavallo fra la fine degli Anni Trenta e l'inizio degli Anni Quaranta. In estrema sintesi, mentre il liberalsocialismo di Capitini era di evidente orientamento social-religioso e non soltanto politico, quello di Calogero si caratterizzava per l'approccio giuridico. C'è poi una seconda fase di scambio fra i due, a metà degli Anni Sessanta, poco prima della morte di Capitini (che avviene nel 1964), che riguarda la filosofia del dialogo. Sulle riviste Azione non violenta (diretta da Capitini) e La Cultura (diretta da Calogero) uscirono articoli dell'uno e dell'altro sulla nonviolenza, il dialogo e l'"apertura" in cui i due affrontavano queste tematiche: l'uno, Capitini, partendo da un profondo senso religioso, l'altro, Calogero, da un forte afflato morale di matrice laica, che già in La scuola dell'uomo trova una testimonianza esemplare.
Il problema centrale, comunque, nel quadro dei rapporti fra i due, è quello della nonviolenza. Calogero aveva una mentalità giuridica che Capitini certamente non aveva e questo portava il primo a sostenere (cosa che anch'io ho sempre pensato) che la nonviolenza finirebbe per essere una teoria disarmata, inefficace, senza il diritto. Come ho sottolineato in molti scritti, il diritto senza forza non si dà, come sanno tutti quelli che hanno studiato giurisprudenza, il diritto senza possibilità della sanzione, che operi qualora si verifichi la violazione delle norme, non esiste.

Calogero e Capitini avevano senz'altro qualcosa in comune sul piano intellettuale, legato alla formazione idealistica, all'insegnamento di Croce e Gentile, da cui poi entrambi si distaccarono.

Il modello Inghilterra
Calogero era un idealista immanentista, la sua filosofia derivava da quella che era allora la filosofia dominante in Italia. Ma sulla questione del diritto e della nonviolenza le loro posizioni erano senz'altro diverse, e alcuni passaggi del saggio I diritti dell'uomo e la natura della politica, contenuto in questa raccolta, ne sono una chiara dimostrazione.

Un altro punto su cui mi preme soffermarmi è il suo modo di intendere il socialismo. La sua simpatia per questa prospettiva culturale e politica va senz'altro attribuita alla sua ammirazione per l'Inghilterra e per il laburismo. Naturalmente bisognerebbe anche rivedere il suo libro sul marxismo, Il metodo dell'economia e il marxismo, che a suo tempo ebbe una certa fortuna tra coloro che si stavano avviando sulla strada dell'antifascismo. Sarebbe una buona occasione, fra l'altro, per richiamare l'attenzione su un testo ormai dimenticato e che pure presenta, ancora oggi, qualche interesse rispetto al dibattito continuato e sempre attuale sulla storia del marxismo.

Le istanze socialiste di Calogero si raccolgono attorno all'idea di una società giusta fondata sul dialogo e la reciprocità, su un'idea di democrazia come colloquio integrale perché tutti devono avere il diritto-dovere di prendervi parte. Scrive per esempio Calogero in L'abbiccì della democrazia: "L'unità della democrazia è l'unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze". E' un modo singolare e originale di definire la democrazia. Quando si parla di democrazia s'intende, primariamente, la partecipazione al potere, richiamando una nozione di potere dal basso.

L'uguaglianza è libertà
Calogero fa riferimento al rapporto fra gli individui, alla relazione dialogica, alla democrazia come ciò che rende possibile il dialogo, che non è la definizione più comune di democrazia, per cui usualmente si intende, appunto, il rapporto fra l'insieme dei singoli e il potere. Questo in Calogero è implicito. Egli si richiama costantemente al rapporto fra gli individui, al dialogo inteso come reciprocità, ad un continuo domandare e rispondere: la democrazia è vista attraverso il dialogo, che è regola fondamentale ma anche valore.

L'ideale della democrazia come colloquio spiega in qualche modo anche la sua visione sociale degli assetti democratici: tutti devono avere la possibilità di prendere parte allo scambio dialogico, devono avere l'effettiva capacità e l'effettivo potere di discutere con gli altri. E' forse qui che si può rinvenire un'istanza propriamente socialista, in quanto l'effettività presuppone forme di eguaglianza fra gli individui: l'idea di eguaglianza - principio guida dell'azione del movimento operaio fin dai suoi esordi - arricchisce il liberalismo, come ho sostenuto in più occasioni. Ma per Calogero eguaglianza e libertà sono intimamente unite, inseparabili e, attraverso la loro unità, definiscono i cardini di una società giusta. Qui può situarsi un fecondo spazio di congiunzione fra il liberalsocialismo e le odierne forme di contrattualismo rilanciate da John Rawls e ispirate al principio dell'equità.

La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra.

Il tentativo di enucleare alcuni caratteri irrinunciabili del sistema democratico, alla ricerca delle modalità e delle ragioni di una convivenza sostanziata di valori autentici, e la possibilità di sviluppare l'idea liberalsocialista al fine di realizzare una società giusta attestano, a tutt'oggi, la vitalità della riflessione politica di Calogero.
(La Stampa, 21 dicembre 2001)

Cyrus
01-02-10, 01:38
Ricordo del pensatore di Monforte San Giorgio nel centenario della nascita
GUIDO CALOGERO E LA FILOSOFIA DEL DIALOGO
Il peso del progetto politico del "liberalsocialismo"


Girolamo Cotroneo

N on è raro che il nome di un filosofo evochi un libro, un concetto, un'idea, un problema particolare, qualcosa, cioè, che è stato al centro della sua attenzione, della sua fatica mentale, e costituisce il suo contributo originale alla cultura filosofica di un paese, o alla filosofia tout-court. Il nome di Guido Calogero, di cui ricorre quest'anno il primo centenario della nascita, e che merita questo ricordo anche per i suoi legami "naturali" con la Sicilia, in particolare con la provincia di Messina, essendo originario di Monforte San Giorgio; il nome di Guido Calogero, dicevo, evoca subito a chi conosca le vicende relative alla ripresa della vita politica italiana nei primi anni Quaranta del Novecento, un progetto politico - il "liberalsocialismo", di cui nel 1940 scrisse il primo manifesto - che ebbe pure qualche peso nel dibattito culturale e nelle vicende politiche di quegli anni. Intorno a esso nacque un partito - il Partito d'Azione - che raccolse sotto le sue insegne non pochi intellettuali di prestigio: poiché tuttavia il consenso ottenuto presso i cittadini fu relativamente modesto, ebbe scarsa incidenza sulle convulse vicende politiche di quegli anni. Accanto a questa esperienza filosofico-politica il nome di Guido Calogero evoca un altro indirizzo di pensiero, in apparenza meno legato alla prassi politica: la "filosofia del dialogo" che divenne l'impegno principale della sua ricerca a partire dal 1950, quando pubblicò un volume dal titolo Logo e dialogo, al quale, nel 1962, seguì l'opus majus degli ultimi anni della sua attività di pensiero: Filosofia del dialogo. Tema importante, destinato a suscitare non poco interesse, e ad avere una notevole ricaduta pratica, in una stagione, quella della "guerra fredda", contrassegnata in Italia della dura, non facilmente mediabile, contrapposizione tra cattolici e liberali da una parte e marxisti dall'altra. Tema delicato, al quale tuttavia Calogero seppe dare un taglio e una misura "forti", perché il rischio di scivolare dal dialogo alla tolleranza scettica è davvero grosso. Questi pensieri, questi progetti filosofico-politici, nati, come dicevo, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, costituiscono una fase ulteriore dell'attività filosofica di Guido Calogero, iniziata quando, nel 1927 - a soli ventitrè anni, quindi - aveva pubblicato un volume, ancora letto e discusso dagli studiosi del pensiero antico: I fondamenti della logica aristotelica; una ricerca a prima vista lontana da quelli che sarebbero stati gli esiti conclusivi del suo pensiero. In realtà, tra questo primo lavoro, al quale aveva dato una forte impronta teoretica, e quelli posteriori di cui ho detto prima, caratterizzati da un impegno soprattutto etico-politico, non esiste alcuna soluzione di continuità. Vediamo. Il nome di Guido Calogero evoca non soltanto alcuni momenti essenziali del dibattito filosofico italiano dei primi tre quarti del secolo scorso. Evoca soprattutto un altro nome: quello di Giovanni Gentile, il cui pensiero ha esercitato una forte egemonia sul pensiero filosofico italiano nella prima metà del Novecento, e una decisiva influenza sul suo pensiero. Un'egemonia superiore a quella esercitata da Benedetto Croce, nella cui filosofia Calogero non riuscì mai, pur meditando a lungo su di essa, a ritrovarsi, e con il quale ebbe un forte dissidio proprio a motivo di quel "liberalsocialismo", i cui presupposti filosofici Croce stroncò con notevole durezza. Questo perché mentre l'attualismo monistico di Gentile gli consentiva di "unificare" in un tertium quid liberalismo e socialismo, giustizia e libertà, la "teoria della distinzione" di Benedetto Croce vietava sul piano logico, prima ancora che su quello etico-politico, quella falsa unificazione, alla quale, come è noto, il filosofo dava ironicamente il nome di "ircocervo". Questo non significa che Guido Calogero - pur mantenendo sempre un atteggiamento positivo nei confronti di Gentile, come dimostrano le sue lettere con il "maestro", finemente analizzate qualche anno addietro da una giovane studiosa messinese, Rosella Faraone - fosse appiattito sulle posizioni speculative del filosofo siciliano. L'evoluzione del suo pensiero, infatti, vede l'asse della sua ricerca spostarsi - come dimostra, ad esempio un importante, volume del 1939, La scuola dell'uomo - dal piano "speculativo" a quello etico, modificando i termini in cui l'idealismo istituiva il rapporto soggetto-oggetto, convinto com'era che il mondo dei valori non si può costruire attraverso "giudizi determinanti", scelte necessarie, obbligate, ma soltanto attraverso opzioni possibili. In tale contesto di pensiero si inserisce uno dei suoi libri più importanti: La conclusione della filosofia del conoscere del 1938, dove il privilegio dell'attività pratica nei confronti di quella speculativa, veniva proclamato senza preoccupazioni di natura teoretica: "La filosofia del conoscere", affermava, "quando ha un contenuto concreto, non è filosofia del conoscere, ma filosofia dell'agire"; e concludeva che "se nel secolo decimottavo morì la metafisica, nel ventesimo muore la gnoseologia". Questo non comportava certo il rigetto della logica antica, alla quale aveva dedicato molte delle sue energie intellettuali: nella nuova fase del suo pensiero, questa non veniva espunta come momento della "filosofia del conoscere", ma riconosciuta quale condizione preliminare dell'intesa tra gli uomini, come precondizione del discorso e dell'argomentazione. Guido Calogero ha detto anche altro, su cui non posso, né ritengo indispensabile, indugiare. A conclusione, però, vorrei osservare che oggi i temi di fondo della filosofia, della morale, della politica - è quasi banale dirlo - sono altri. Ma ripensare, sia pure come in questo caso a motivo di una ricorrenza, alcuni aspetti e momenti della nostra tradizione filosofica, soprattutto quella degli anni "di ferro" vissuti da Guido Calogero, può farci capire che quella tradizione ha avuto un ruolo positivo nella rinascita delle nostre libertà e nella ricostituzione di rapporti "umani" tra i cittadini di questo paese. Di essa, quindi "non dobbiamo arrossire".
(dalla "Gazzetta del Sud" di domenica 19 settembre 2004)

Cyrus
01-02-10, 01:40
L'etica dialogica di Guido Calogero

* 1. Dalla filosofia della presenza all'etica
* 2. Le difficoltà di una scelta
* 3. Sulla via della comprensione e dell'altruismo
* 4. Dall'etica al dialogo
* 5. Primo livello dialogico: la conversazione
* 6. Secondo livello dialogico: l'ascolto attento e interessato
* 7. Terzo livello dialogico: favorire la comprensione umana

Guido Calogero (1904-1986) a ragione può essere considerato un vero e proprio filosofo del dialogo, sia perché alla riflessione dialogica ha dedicato articoli e saggi nell'intero corso della sua vita, sia perché ha cercato di coniugare la speculazione teoretica alla sua realizzazione pratica, nel tentativo di superare l'insanabile iato che spesso si genera tra filosofia e vita.

Non a caso la sua vita biografica è un esercizio continuo al dialogo, che spesso lo pone a confronto con una umana impotenza a vivere pienamente l'idea e a far brillare la vita vissuta di idealità. Tuttavia il suo esempio è rimasto impresso nella memoria di più generazioni che hanno avuto la possibilità di seguire le sue lezioni, principalmente alle università di Pisa e Roma.

Cosa ha potuto generare il «mito» calogeriano? Senza dubbio la passione politica che negli anni '40 lo ha visto protagonista all'interno del movimento d'opposizione al regime fascista e che lo condusse a partecipare alla Resistenza, in particolar modo a quella d'ispirazione azionista.

Ideologo della «terza via» liberalsocialista, vicino seppur distinto dal socialismo liberale di Carlo Rosselli, fu fautore di una società «dialogica» che non rimanesse solo sulla carta ma che trovasse proprio nella ribellione al dominio nazi-fascista lo spirito giusto per costituire una Repubblica fondata allo stesso tempo sui valori della libertà e della giustizia sociale. Nonostante la rovina del Partito d'Azione che costò visibilità al movimento liberalsocialista, non smise di portare avanti il suo messaggio, in quegli anni acremente criticato dalla sinistra marxista e dalla destra liberale (tra cui uno dei suoi maestri, Croce).

La sua filosofia del dialogo così come da un lato sfocia nella pratica politica liberalsocialista, rappresenta dall'altro anche il culmine della sua riflessione teoretica, che a partire dall'attualismo di Gentile (un altro «maestro» al pari di Croce con cui imparò presto a confrontarsi anche vigorosamente) lo condusse al rifiuto di qualsiasi dogmatismo metafisico, ontologico, gnoseologico. La sua «filosofia della presenza», partendo dal presupposto di una costante presenza e consapevolezza dell'Io con se stesso («io non posso mai pensarmi fuori di me; io sono la mia continua consapevolezza»), sancisce l'assoluta responsabilità dell'Io rispetto alle proprie azioni, realizzate nella crisi del tempo presente che si situa tra i fatti immodificabili del passato e le costanti aspettative verso il futuro. L'eliminazione di qualsiasi regola assoluta (sia essa logica, ontologica o metafisica) offre come risultato, oltre che la piena responsabilizzazione dell'Io rispetto alle proprie azioni, la difesa del valore di ogni idea, senza alcuna gerarchia valoriale aprioristica o oggettiva. La «filosofia della presenza» si pone così quale inevitabile premessa all'intera speculazione etica e dialogica calogeriana di cui andiamo di seguito a tracciare le componenti più significative.
1. Dalla filosofia della presenza all'etica ^
La «presenza» dell'Io: il peso della responsabilità

La «filosofia della presenza» calogeriana pone le premesse della filosofia del dialogo e, quindi, dell'etica, che della filosofia del dialogo è l'ossatura. Il singolo uomo, nell'ottica calogeriana, non può mai uscire dalla sua egoità, cioè dalla sua consapevolezza, che è anche eterna presenza. In conseguenza di ciò, l'individuo è responsabile delle sue azioni e mai può ricorrere a costruzioni metafisiche che lo giustifichino rispetto alle conseguenza del suo agire: «In Calogero la "presenza" della coscienza, nella sua positività, allontana l'uomo dalla costruzione di assurde metafisiche d'ispirazione mistica, profondamente disumane, in cui il singolo uomo si "sperde" nell'unità di un Tutto privo di "consistenza", in cui ogni filosofico discorso si spegne, per dar luogo al glaciale silenzio».1 Ognuno è calato nel proprio Io da cui è impossibile evadere: «La necessità radicale del mio essere è quella che io non posso mai non essere io».2

In quanto presenza, l'Io è a capo di tutte le azioni, ed ogni azione si contraddistingue poiché nell'istante presente si proietta nel futuro cercando di modificare il passato. Perché ciò accada bisogna presupporre la «necessità» del cambiamento e intendere l'Io come «volontà» di cambiamento. In ogni momento, infatti, noi viviamo una situazione unica e diversa rispetto alla precedente e ci disponiamo nei confronti del futuro in modo da realizzare costantemente i nostri progetti, siano essi quelli di mantenere alcuni aspetti della situazione passata anche nel futuro, siano invece quelli di modificare nel futuro ciò che ora non accettiamo. In ogni caso, l'Io, inteso calogerianamente come volontà d'attuazione dei propri progetti, deve presupporre l'alterabilità continua della sua situazione:

Come non potrei volere, come non potrei avere alcuna aspirazione e tendenza e proposito [...] se ogni mia situazione di tal genere non fosse costantemente illuminata dalla ferma e illimitabile luce della consapevolezza, così neppure la cosa sarebbe possibile se il contenuto di tale mia consapevolezza non fosse, in ogni determinato momento, concretamente delimitato e perennemente alterabile.3

Il singolo uomo, dunque, secondo il Nostro, si trova in ogni istante a decidere cosa mantenere del passato e cosa modificare, pronto in ogni caso ad agire per difendere ciò che è positivo e a combattere ciò che è negativo. L'uomo, in tutti gli ambiti in cui si trova a vivere, è sempre stretto tra la difesa e l'attacco di un valore, che egli vuole mantenere o cancellare nel futuro. Comprendiamo, allora, perché l'analisi calogeriana insista tanto sulla «scelta», poiché proprio di costanti scelte è costellato ogni secondo dell'esistenza dell'uomo. E solo al singolo Io spetta la valutazione di queste scelte e la conseguente decisione: «Ogni valutazione è autonoma, compiendosi nella sfera di quella presenza soggettiva, che non può mai risolversi in nulla d'altro. Sono io che valuto, io che approvo e disapprovo, e che di conseguenza decido».4 La decisione, quindi, fa capo a certi valori o disvalori che il singolo Io ritiene tali e che vuole mantenere o sostituire. Da ciò consegue che qualsiasi contenuto presente e qualsiasi progetto futuro rimanda ad una scala assiologica che è l'Io stesso a stabilire. Nessuna logica o metafisica gli imporrà dall'esterno tale valutazione, né con rivelazioni né con dimostrazioni che si autodefiniscano assolute ed oggettive, salvo che egli non decida di ritenere quelle dimostrazioni o quelle rivelazioni valide per la situazione presente. A decidere, in sostanza, è sempre l'Io, e, dunque, al principio di ogni sua azione non vi è qualsivoglia regola o legge logica o metafisica, bensì la sua valutazione e la sua scelta.
In principio era la scelta

Le nostre scelte, quindi, ci indirizzano verso alcuni contenuti e ci allontanano da altri. Calogero porta numerosi esempi grazie ai quali evidenzia il ruolo indiscutibilmente primario della scelta, rispetto ai diversi contenuti. Siamo noi, con le nostre preferenze ed i valori che vi assegniamo, a «colorare» la nostra vita.

Nessuna categoria tipica del mondo filosofico degli ontologi e dei metafisici di ogni epoca, secondo Calogero, serve ad indirizzare le nostre scelte. Consideriamo per esempio un articolo riguardante il tema dell'immortalità: «L'immortale non ha valore per il solo fatto di essere immortale, ma anzi merita di essere immortale solo se ha valore anche quando è mortale. Solo quando un certo tipo di esistenza è preferibile, essa merita di diventare eterna: ma il semplice fatto che si annunci eterna non stabilisce che sia preferibile».5 La concezione metafisica dell' «immortale» non guida, quindi, le scelte della vita, così come non vi riesce nessun altro concetto metafisico. E', invece, tutto l'opposto: anche la metafisica vale soltanto in base al valore che noi assegniamo alle sue singole teorie. È la scelta di un certo orientamento di vita a dare senso, eventualmente, ad una particolare metafisica, e non certo il contrario.

Calogero compie lo stesso ragionamento fatto rispetto alla metafisica, anche nei confronti della logica e delle scienze in genere. Esse, infatti, sono strumenti che di volta in volta l'Io decide di utilizzare per realizzare i suoi progetti per il futuro. Sono sempre io, ad esempio, a decidere se utilizzare le leggi della fisica per prevedere un certo fenomeno atmosferico o se affidarmi agli auspici tratti dal volo degli uccelli. E sono ancora io a decidere che uso fare di un determinato mezzo offertomi dalla scienza; infatti «la stessa rivoltella può servire all'assassino e all'eroe, lo stesso farmaco al medico, al suicida e all'avvelenatore».6

Potremmo portare altri esempi in cui Calogero ribadisce il concetto secondo il quale nessuno sfugge mai al dovere della sua scelta. La conclusione fondamentale è che ognuno di noi ha la piena responsabilità di quello che fa e che mai potrà giustificare ciò che ha fatto, nascondendosi dietro al dito di ordini esterni che egli è stato costretto ad eseguire.

Nessuna scelta, ripete più volte Calogero, viene compiuta se la si ritiene sbagliata e sostituibile preferibilmente con un'altra. Ognuno agisce secondo ciò che ritiene più giusto in quella situazione. Questa formula richiama senza dubbio il principio dell'intellettualismo etico socratico e vedremo in seguito come Calogero la interpreterà alla luce della sua filosofia.

L'assoluta responsabilità dell'Io nelle sue scelte, non può non avere ripercussioni dal punto di vista etico. Anzi, la scelta etica è alla base delle scelte che il singolo realizza in ogni campo del suo agire. Chi ci dice, infatti, che dobbiamo comportarci secondo quella che Calogero chiama indistintamente «etica» o «morale»,7 cioè, chi ci dice che dobbiamo aprirci sempre alla comprensione dell'Altro, senza cercare di utilizzarlo come strumento utile per il nostro interesse egoistico? I filosofi hanno cercato spesso di fornire una dimostrazione della necessità logica dell'etica, non capendo, secondo Calogero, che non si può dimostrare il dovere etico, se quello stesso dovere non è sentito da chi lo accetta come tale: «Non possiamo mai non prendere posizione, qualunque sia la posizione che volta per volta intendiamo assumere».8 E ancora: «Attendere dalla "dimostrazione logica" la spinta dell'affetto morale, è come chiedere ad un'equazione matematica il risveglio della propria virilità».9

Per Mario Peretti, invece, una visione di questo tipo genera molte perplessità, ed infatti scrive: «La logica dimostra e fonda l'etica, non nel senso che preceda temporalmente la buona volontà, ma nel senso che questa non potrà trovare un fondamento razionale, una dimostrazione della giustizia della propria scelta, se non appunto nella logica».10

Tuttavia, per dimostrare che un'etica necessita di un fondamento logico e razionale, Peretti deve presupporre qualcuno che lo lasci parlare e lo ascolti nella spiegazione. E questo implica che l'ascoltatore abbia compiuto una scelta etica di comprensione e di tolleranza delle idee altrui, senza imbracciare, ad esempio, alcun mitra per far tacere Peretti o senza chiudersi le orecchie per non sentirlo. Sostenere, inoltre, che la scelta etica anticipa la dimostrazione logica temporalmente ma non ontologicamente, significa tornare all'idea che esista una Logica al di fuori degli uomini che la realizzano e la utilizzano. Per Calogero, invece, è inutile chiedersi cosa c'è al di fuori dell'Io, perché l'Io stesso non potrà mai uscire da sé per guardare. La via metafisica di Peretti sottomette l'Io ad una presunta realtà ontologica superiore che è lo stesso Io-Peretti a creare. Tanto per riprendere una domanda calogeriana: chi mi dimostra che la Logica sia davvero logica? Avrei bisogno, per questo, di un'ulteriore dimostrazione logica della logica della Logica. Si aprirebbe così un percorso all'infinito che condurrebbe ben poco lontano.

Per il Nostro, dunque, la scelta etica potrebbe essere fatta anche previa dimostrazione logica, ricordando, tuttavia, che, anche in quel caso, non sarebbe la Logica ad imporla o a dimostrarne la necessità, ma sarebbe sempre l'Io a decidere di accettarla, rifacendosi in questo caso ad un'argomentazione ritenuta convincente. Calogero insiste molto su questo punto per evitare che altrimenti si possa deresponsabilizzare l'Io e che, una volta deresponsabilizzato, l'Io possa rifiutare la propria capacità decisionale, diventando un burattino agli ordini di un «Io trascendentale».
2. Le difficoltà di una scelta ^
Intellettualismo o volontarismo?

Dato il grande valore attribuito da Calogero alle singole scelte dell'Io, si potrebbe chiedere: un uomo, al momento di prendere una decisione, segue la soluzione prospettatagli dalla ragione come la migliore, oppure sceglie in base a ciò che la sua volontà stabilisce di fare? Nel primo caso, l'uomo sarebbe costretto a scegliere in base a ciò che la conoscenza razionale gli dice sia giusto scegliere (intellettualismo), nel secondo caso, invece, lo stesso uomo sceglierebbe senza alcuna riflessione, ma secondo la piena creatività e spontaneità del suo volere (volontarismo).

In entrambi i casi, secondo Calogero, verrebbe comunque minato il senso di responsabilità e di libertà dell'individuo. Tenendo una condotta rigidamente intellettualista, infatti, l'Io sarebbe privato della sua libertà, essendo costretto a decidere solo ciò che la sua ragione gli impone necessariamente di fare. La sua volontà, infatti, «realizza ciò che le par degno di realizzazione: ma che questo le sembri tale, e che quindi essa lo scelga tra gli altri programmi pratici, tra gli altri quadri del proprio desiderio, non dipende dal suo autonomo optare e decidere, ma dalla visione delle cose che le suggerisce la conoscenza. Così vede, e così agisce. Se vedesse altrimenti, altrimenti agirebbe».11 Ricorda, in fondo, l'approccio socratico: chi ben conosce, necessariamente ben agisce. Al di là, inoltre, della perdita della libertà a vantaggio dell'azione coercitiva della conoscenza, l'intellettualismo porrebbe un altro problema: la mancanza di responsabilità. Ognuno, infatti, potrebbe giustificare le sue azioni dietro l'alibi di una errata conoscenza, senza però mai mettere in dubbio la sua buona fede. In fondo, si potrebbe dire, non sarebbe l'individuo a decidere quell'azione, bensì vi sarebbe «costretto» dalla sua particolare conoscenza della situazione. Come si vede, il passo verso il determinismo e il lassismo morale sarebbe estremamente breve.

D'altro canto il volontarismo non risolverebbe il problema, ma ne porrebbe uno diverso. Se la volontà, infatti, decidesse in piena libertà, senza interpellare precedentemente alcuna ragione o forma razionale del soggetto, non si rischierebbe di cadere in un totale irrazionalismo, per il quale ogni azione fatta sarebbe per forza giusta perché si è voluto farla? Il volontarismo, dunque, eliminerebbe, secondo Calogero, qualsiasi progettualità dell'individuo, gettandolo nel caos: «La pura spontaneità e genuinità del volere diventa perciò una sua immunità da ogni peso di conoscenza, da ogni forma razionale che preesistendogli lo orienti. Non già il bene sussiste, e conoscendolo esso vi tende: ma anzitutto esso tende, e l'oggetto che ne risulta è il bene».12 Il volontarismo puro, quindi, non condurrebbe verso alcuna etica, perché non metterebbe l'uomo realmente di fronte ad una scelta. Lo farebbe agire, punto e basta, senza che egli abbia mai avuto modo di valutare la questione.

Né intellettualismo, dunque, né volontarismo conducono verso una volontà etica che Calogero possa definire libera e responsabile, poiché la volontà dell'intellettualismo non è libera e agisce solo se comandata, mentre quella del volontarismo non obbedisce a nessuno e vaga nell'indifferenza fino a non muoversi affatto.13 È possibile, invece, superare questa contraddittorietà tra volontà e ragione? Alla ricerca di questa risposta è dedicata gran parte della speculazione etica calogeriana.
Libertà e necessità, volontà e ragione

Secondo Calogero esiste una duplice libertà: la libertà «assoluta» o «metafisica», che per necessità si impone a ciascun Io perché corrisponde alla stessa presenza dell'Io (io esisto dunque sono libero) e la libertà «empirica» che invece raggruppa tutte quelle libertà che conquistiamo nel corso della vita, ovvero nel superamento degli ostacoli che si frappongono tra noi e l'obiettivo prefissato. La prima libertà è la condizione necessaria per la conquista delle altre libertà, così come la presenza dell'Io è la condizione necessaria per lo svolgimento di qualsiasi azione:

La presenza originaria della libertà è conditio sine qua non per ogni ulteriore conquista di libertà, anche pertinente al suo più immediato espandersi: il che è poi del tutto evidente, perché quella libertà originaria non è che la stessa presenza del volere, cioè la presenza dell'io, e niente è mai «prima» di questa presenza.14

L'Io, dunque, è sempre libero di decidere e scegliere quale vita costruirsi, quale desiderio appagare e a quale progetto aspirare: questa è la libertà «assoluta». Secondo Calogero è necessario dibattersi tra passato e presente, tra gioia e dolore, tra aspettativa e novità, anche se spetta ad ognuno di noi scegliere di volta in volta le strade concrete per realizzare i nostri progetti. La necessità sta proprio nella libertà assoluta e trascendentale, la possibilità invece, sta nella singola realizzazione che noi decidiamo di intraprendere passo dopo passo: la prima, dunque, è libertà «assoluta», la seconda è libertà «empirica».

Calogero ricorda, inoltre, che avere la piena libertà di decidere il proprio progetto di vita, non significa assolutamente realizzarlo, poiché un conto è essere sempre liberi di aspirare a ciò che si considera buono, altra questione è, invece, realizzare quella stessa aspirazione: «Altro è infatti la libertà, altro l'onnipotenza».15 Proprio perché non siamo onnipotenti viviamo nell'eterna crisi dell'«essere» verso il «dover essere», cioè del necessario verso il possibile, del passato verso il futuro. La nostra condizione di partenza ci è necessaria, nessuno, quindi, può tornare indietro a cambiarla, ed essa vale soltanto in quanto trampolino verso il futuro, verso ciò che non è ancora e che noi vogliamo sia in un certo modo. La libertà assoluta, così come la presenza dell'Io, non hanno alcun valore, per Calogero, perché sono le madri di ogni valore,16 in quanto necessità immutabili. Ciò che non può cambiare, ciò che è inevitabile, infatti, non può avere valore,17 mentre acquista valore solo ciò che ha possibilità di diventare qualcosa, ovvero il «dover essere» che non «è» ancora: «Il mondo dei valori è quello delle cose che importano: e queste sono le cose per cui si trepida, non quelle che sono per eterna necessità».18

La libertà assoluta, perciò, è priva di valore e appartiene sia ai tiranni che agli schiavi,19 mentre le diverse libertà «empiriche», che si possono perdere, che bisogna conquistare e difendere perché non sono necessariamente connaturate a noi, queste stesse libertà, dunque, con i loro progetti di vita che noi vi associamo, acquistano valore e diventano per noi il bene.

Come si pone a questo punto l'etica calogeriana di fronte alla questione volontarismo-intellettualismo? Se leggiamo bene le righe precedenti, notiamo che l'azione dell'uomo parte da una scelta che coniuga volontà e ragione, desiderio e progetto. Per Calogero, infatti, la lezione socratica è più che mai valida e, quindi, a suo avviso, ognuno agisce in vista di ciò che a lui stesso appare come il migliore dei beni. Di conseguenza nemo sua sponte peccat, poiché nessuno di propria iniziativa sceglie ciò che la sua ragione gli dimostra come sbagliato.

Tuttavia, Calogero non dimentica nemmeno l'estremo valore della volontà, che, abbiamo visto a più riprese, sta alla base di qualsiasi scelta. Non vi è nessuna scelta, infatti, che non sia scelta dalla volontà.

Com'è possibile, allora, unire volontà e ragione senza cadere nelle aporie sia dell'intellettualismo che del volontarismo? L'errore compiuto in passato, per il Nostro, è stato quello di considerare ragione e volontà come oggetti esistenti in maniera indipendente rispetto all'Io, recuperando la peggiore lezione ontologica che egli stesso cercò di eliminare. Inoltre, a suo avviso, è stato commesso un ulteriore errore considerando la volontà e la ragione calate nella temporalità e perciò seguenti l'una all'altra. Ipotizzando ciò, infatti, o la ragione precederebbe la volontà, dando vita così all'intellettualismo, o la volontà precederebbe la ragione, cedendo di conseguenza al volontarismo. In realtà, per il Nostro, l'unico modo per evitare di ricadere negli errori del passato, è quello di considerare la volontà e la ragione al di fuori del tempo e perciò sovrapponibili tra loro. Analizziamo i due casi distintamente.

Calogero ripete spesso che la volontà è fuori dal tempo, poiché, a suo parere, la volontà coincide con l'Io sempre presente, risultando quindi immune al passare del tempo: «La volontà non abita nel tempo, proprio perché essa abita nel presente. Io non sono mai né nel prima né nel poi: sono soltanto nell'ora, nel nunc. E il nunc non s'iscrive nell'estensione temporale, perché come sua parte esso non sarebbe nulla, sarebbe il semplice zero del tempo».20

La ragione, o intelletto, d'altra parte, è anch'essa fuori dal tempo, in quanto è legata indissolubilmente con la volontà. L'intelletto, infatti, «non solo non può negare la volontà ma neanche considerarsi estraneo e sovrastante ad essa, perché di essa viceversa fa parte, costituendone la consapevolezza interiore».21 Per scegliere una determinata azione, dunque, dobbiamo volerla e la vogliamo perché la riteniamo la migliore. Socrate, che ancora non aveva diviso «pratico» da «teoretico» come invece poi fece Platone, partiva proprio da questo presupposto ed è per questo motivo che, secondo Calogero, il suo intellettualismo non cade nell'errore che in precedenza abbiamo evidenziato:

Il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate non è in realtà un intellettualismo, quando per ciò si intenda, comunque, una sopravvalutazione dei moventi conoscitivi rispetto a quelli pratici nel processo dell'azione: perché la conoscenza, che per Socrate determina irresistibilmente l'azione [...], è una conoscenza già totalmente impregnata di praticità, e anzi addirittura [è impregnata della] valutazione pratica che fa corpo col volere.22

Così come per Socrate, per Calogero il singolo individuo sceglie sempre ciò che vuole e che gli appare come il maggior bene, ma non senza prima aver riflettuto sul valore di quel bene. E', in sostanza, l'Io che sceglie, e l'Io è sempre «unione di volontà e ragione», al di là dei singoli eventi che si collocano nel tempo.

La scelta di una determinata azione è, dunque, frutto sia della volontà, sia della ragione che ritiene quella azione la «migliore». Nell'ottica calogeriana non esiste alcuna forma né di irrazionalismo, poiché l'Io sa benissimo cosa sceglie e ne conosce bene o male le motivazioni, né di lassismo, perché se è vero che l'Io sceglie ciò che la ragione gli mostra migliore, in fondo è sempre l'Io a volerlo e ad assumersene la responsabilità della scelta. Poiché non esiste nulla in lui che non sia «Io», non può di certo riparare la sua decisione dietro nessuno, salvo che se stesso. Schematizzando: ciò che l'Io sceglie, lo sceglie perché lo vuole e, contemporaneamente, perché gli appare migliore. Se non gli apparisse migliore, non lo vorrebbe e quindi non lo sceglierebbe, se non lo volesse, non gli apparirebbe migliore e di conseguenza nemmeno in questo caso lo sceglierebbe. Ciò non esclude una dura battaglia interna all'Io per stabilire quale debba essere poi davvero il migliore. Un esempio di questa battaglia interna è rappresentato dalla scelta dell'opzione morale vera e propria.

Azione morale, per Calogero, significa «altruismo», cioè massima apertura alla comprensione altrui, senza che l'Altro diventi uno strumento per i propri fini egoistici. Egli afferma innumerevoli volte che si sceglie l'azione morale perché la si vuole, perché ci appare preferibile rispetto a quella egoista, senza lasciar però mai trapelare l'ipotesi che essa possa subentrare in noi semplicemente, quasi superficialmente. A conferma di ciò, si legga un passo tratto da La scuola dell'uomo:

Voler questo o quello, agire in questo o in quel modo, comportarmi moralmente o immoralmente, questo è lasciato alla mia facoltà: appartiene al regno del possibile, cioè alla sfera dei miei programmi d'azione. Seguire un certo ideale è per me un'esigenza, non una fatalità: sarà, se così si vuol dire, la soverchiante necessità interiore del mio atto, ma è comunque una necessità determinata, di cui è concepibile la mutazione, e che quindi è affatto diversa da quella per cui io non posso mai non essere io e non essere volontà. Non è, insomma, un destino: è un dovere.23

E questo dovere spetta solo alla scelta consapevole dell'Io.
3. Sulla via della comprensione e dell'altruismo ^
L'Io e l'Altro

Abbiamo accennato all'opzione morale, intesa come altruismo. Dunque, per Calogero, essere altruisti significa aprirsi alla comprensione dell'Altro. L'Io, come sappiamo, parte da una necessaria situazione di egoità, ovvero da una situazione per la quale non può mai uscire da se stesso e non può mai indossare altri abiti che non siano i suoi. Immerso in questa necessità, che è la stessa della libertà «assoluta», l'Io si trova ad agire e a decidere quale azione intraprendere. Le innumerevoli opzioni che gli si offrono possono, per Calogero, essere di due tipi: da un parte, le azioni che tendono alla realizzazione del proprio egoismo, che non vede altro fine se non se stesso, dall'altra, le azioni che promuovono la comprensione dell'Altro, il quale non è più, per l'agente, un semplice mezzo per raggiungere i propri fini, ma diventa esso stesso fine. «Egoità», dunque, «è la situazione per cui l'ego è necessità»,24 «egoismo», invece, «è l'atteggiamento per cui l'ego è finalità».25 L'Io non può evitare di decidere da solo quello che deve fare, ma può certamente scegliere se badare solo a se stesso o se aprirsi alla comprensione degli interessi altrui.

La concezione calogeriana prevede che l'Io sia in qualche modo chiuso nella sua gabbia, anche se essa, in realtà, diventa davvero tale o, peggio, diventa una prigione in cui si è destinati a rimanere completamente soli, soltanto se si sceglie l'egoismo, cioè se si è incapaci di guardare al di là del proprio immediato interesse.26 L'Io che cercasse di realizzare il proprio progetto di vita disinteressandosi di quello degli altri, sarebbe un perfetto egoista. La felicità, infatti, quando è desiderata solo per sé è egoistica, mentre si richiama ad un ideale altruistico quando è desiderata anche per gli altri.27 Tutta l'etica calogeriana si fonda, dunque, sulla comprensione dell'Altro. Ma cos'è, effettivamente, l'Altro? Un ente che entra in me necessariamente o qualcosa che devo far vivere io?

Per Calogero, non sono io a stabilire l'esistenza dell'Altro, poiché della sua esistenza in sé non so nulla e mai ne potrò sapere qualcosa. La necessaria egoità che mi avvolge, infatti, mi impedisce di questionare sull'esistenza «in sé» dell'Altro, poiché al di fuori della mia visione non posso andare. In ogni caso però, del mondo ho la mia immagine, e così anche le altre persone entreranno in me come contenuti della mia esperienza. Non potrò stabilire cos'è l'Altro in sé, ma saprò perfettamente cos'è l'Altro per me. Esso, infatti, è proprio un contenuto particolare della mia esperienza. Accogliere questo contenuto è già essere morali? Assolutamente no. Infatti, le altre persone che attraverso la mia attività conoscitiva entrano a far parte della mia esperienza, non sono altro che «maschere, in quanto non si distinguono da ogni altro fisico strumento del mio mondo».28 L'altruismo calogeriano, invece, prevede la comprensione di quelle maschere, cioè prevede che io decida di aprirmi loro, considerandole non un semplice contenuto asettico del mio conoscere, ma come qualcosa che vive al di là della mia vita. Restando fedeli al principio egoitario, dobbiamo concludere che quella vita altrui non potrà mai essere la mia vita, perché in fondo sarà sempre filtrata dal mio Io. Ciò, tuttavia, non mi impedirà affatto di essere altruista, poiché proprio questa distanza mi spingerà ad andare avanti, cercando di sentire la vita altrui in me in modo sempre più profondo. Chiariamo questo passo fondamentale: se l'Altro riuscisse ad entrare in me completamente, io a quel punto non avrei più bisogno di aprirmi a lui e potrei evitare di ascoltarlo ulteriormente. La singola azione morale avrebbe così termine. Se, invece, l'apertura all'Altro vivesse per se stessa e non per raggiungere la sua conclusione, l'azione morale sarebbe sempre possibile, e per me sarebbe sempre concesso di comprendere l'Altro in tutti quegli aspetti che ancora non riuscissi a comprendere e che non sentissi miei. L'Altro, infatti, non essendo statico e modificandosi di continuo, avrebbe sempre qualcosa di nuovo da comunicarmi, da insegnarmi, da trasmettermi.

Il principio morale, quindi, così come sarà per il principio del dialogo, trae la sua forza non dal risultato definitivo, ma dalla continua ricerca di quel risultato.

L'altruismo, dunque, per Calogero, corrisponde alla volontà di comprensione dell'Altro. Comprensione, tuttavia, non significa solo ascolto o semplice scambio di opinioni. Questa, infatti, è la prima fase dell'etica altruista, ma non può certamente rappresentarne il fulcro: «Parlare con Caio non è ancora abnegarsi moralmente per Caio, cioè porre la personalità e sensibilità di Caio sullo stesso assoluto piano della propria: anche il sicario può discorrere con la sua futura vittima».29 Data, inoltre, l'impossibilità dell'Io di uscire da se stesso per entrare nei panni altrui, sarà la sua completa disponibilità alla comprensione dell'Altro a far sì che la vita dell'Altro si avvicini alla sua e che egli stesso possa sentire nella propria gioia e nel proprio dolore, la gioia ed il dolore che l'Altro gli comunica: «Proprio perché il mio dolore non sarà mai il dolore altrui, né il dolore altrui il dolore mio, io debbo creare la dolente persona altrui in me, per poter sentire il suo dolore come cosa di cui m'importi, e che quindi orienti la mia azione non più soltanto al fine dell'interesse mio, ma anche a quello dell'interesse suo».30

L'altruismo, quindi, non si realizza per necessità naturale, né per dimostrazione logica di qualche teorema, ma solo grazie alla volontà individuale che decide sia migliore l'opzione altruistica rispetto a quella egoistica, che sceglie di interessarsi all'Altro in modo profondo, che fa spazio a qualcosa a cui prima non badava e a cui l'egoista non baderà mai:

Eticità è uscire da se stessi, volgersi all'universale. Ma da se stessi, per un certo aspetto, non si può mai uscire. Io non posso mai, essendo, cessare di essere io, di volere ciò che pare meglio a me. Che io «esca da me», che io «tenda all'universale», può quindi significare solo che io, in me medesimo, cerchi di far posto il più possibile ad altri pensieri, ad altre volontà, ad altri sensi e gusti della vita, rispetto a quelli immediatamente miei: che io faccia posto, insomma, ad altre persone, che io viva in me l'altrui gioia e l'altrui dolore, e nell'altrui bene [...] senta il bene mio.31

Far posto all'Altro in noi, significa comprendere l'Altro, cercare di capire l'Altro nelle sue azioni. Tuttavia, ciò non esclude che le azioni dell'Altro possano da noi venir criticate. Comprendere non significa perdonare tutto: l'etica calogeriana non è certo lassismo rinunciatario! 32 Nel cercare di comprendere l'azione dell'Altro, noi non dobbiamo rinunciare, secondo Calogero, alla discussione dell'azione stessa: l'unico nostro dovere morale è quello di permettere che l'Altro sia nelle condizioni ottimali per farci capire il perché della sua azione, senza alcun nostro pregiudizio di merito. Questo, dunque, non significa impotenza, né rinuncia alla critica, perché l'impotenza e la rinuncia sono solo le maschere dell'indifferenza, e nessun altruismo può fondarsi sull'indifferenza. Ognuno, in sostanza, ha il diritto di esprimersi e di essere ascoltato con attenzione, ma nessuno può godere dell'immunità dal confronto, anche deciso, con altre opinioni ed altre idee.

L'azione morale, inoltre, prevede, per Calogero, un'ulteriore passo. La mia comprensione, infatti, non può limitarsi ad un unico Altro, perché tale comprensione, se vuole essere universale, deve aprirsi a tutti gli Altri possibili: «L'esperienza morale non è mai quella di un contratto, in cui il mio obbligo dipenda dall'adempimento altrui. Quand'anche pensi, verso uno, d'aver esaurito il mio obbligo, c'è sempre qualche altro verso cui esso vige ancora».33 In realtà, nemmeno verso quel primo uomo il mio dovere è concluso, poiché, come abbiamo detto in precedenza, la comprensione altrui non può mai essere conclusa, dal momento che vive del suo continuo ricercare. Aprirsi a tutti gli Altri possibili, significa fare in modo che tutti abbiano la possibilità di farsi comprendere, e ciò presuppone, all'interno dell'azione etica, anche un aspetto specificatamente pedagogico e politico. Attraverso la mia azione morale, infatti, devo servire da esempio agli altri, in modo che l'Altro, da «beneficiario», diventi anche «dispensatore» di comprensione. Così facendo, non solo agisco moralmente ma educo alla moralità.

Il rispetto di tutti gli Altri, inoltre, pone un «limite» a ciascuno. Nessuno, infatti, può esigere per sé maggiore comprensione di quanto spetti ad un altro. Questo punto fermo dell'etica calogeriana ha un risvolto politico notevolmente interessante, in quanto sancisce l'assoluta eguaglianza del diritto e combatte ogni forma di discriminazione. Scrive lapidario Calogero: «La libertà che si deve amare è la libertà altrui; e questa, a sua volta, solo in quanto rispettosa e promotrice di ulteriori libertà altrui».34 Solo la libertà «limitata», dunque, può essere una libertà davvero giusta e, di conseguenza, etica.

Cyrus
01-02-10, 01:41
Etica necessaria o etica volontaria?

L'etica calogeriana si attua, dunque, attraverso la scelta dell'altruismo rispetto all'egoismo. Scegliere tra queste due possibilità è necessario, perché nessuno può ritrarsi di fronte alla decisione del suo agire. Anche il non agire deriva da una decisione ben precisa, così come il non scegliere è in realtà una scelta bella e buona.

Il frutto di quella scelta, invece, non è necessario, anzi. Non è necessario, infatti, essere morali, poiché a ciascuno è sempre concessa la possibilità di essere egoisti. Se l'uomo fosse costretto per necessità ad essere morale, tutti lo sarebbero, e questa imposizione universale annullerebbe, di fatto, la morale stessa:

Se davvero avvertissimo onnipresente a noi medesimi non solo la nozione della legge morale [...] ma addirittura la sua efficiente cogenza [cioè] il suo rigoroso imporsi come obbligatoria, [...] allora non avremmo più assolutamente nulla da fare, assicurati per sempre dalla nostra eterna eticità. Non potremmo mai non essere buoni, e quindi non lo saremmo mai.35

Il dovere dell'altruismo, inoltre, non potrà mai essere dimostrato logicamente. Nessun teorema, secondo Calogero, potrà mai obbligare «logicamente» l'Io a scegliere il comportamento morale rispetto a quello egoistico, poiché l'intera etica si fonda sulla volontà di attuarla, e se non c'è la volontà di accettarla, nessun complesso sistema logico potrà mai imporre il contrario: «Quale sillogismo, quale deduzione dialettica ha mai potuto convincere ad ammettere la verità, quando manchi l'intenzione di riconoscerla e di dirla?».36

La morale è, dunque, del tutto autonoma. Non ci si chiede perché si è scelto la morale, poiché nessuna motivazione deve limitare quella scelta. Si riproduce in questi termini la categoricità kantiana dell'imperativo morale rispetto all'ipoteticità, dalla quale, invece, non si possono che trarre regole ristrette e non certo una legge morale che voglia essere universale. Essa deve poter valere, infatti, sempre e per tutti. Se essa dipendesse da una particolare situazione, al termine di quella situazione svanirebbe, rendendo impossibile ogni ulteriore forma di altruismo: «Ad essere altruisti bisogna decidersi, e per questa decisione si è soli con se medesimi: soli con la propria volontà e libertà. Non si può esigere nessun motivo o pretesto».37

Anche se a volte Calogero assume un atteggiamento che a prima vista potrebbe sembrare piò o meno rigorista, e altre volte un atteggiamento più incline all'eudemonismo, in lui c'è tutta l'intenzione di rimanere distante da gabbie ideologiche di questo genere. L'autonomia della morale significa prima di tutto libertà di scelta e non costrizione etica, cioè significa che ciascuno decide di essere etico perché lo vuole egli stesso e non perché gli è imposto da chicchessia.

In secondo luogo, autonomia morale significa possibilità di una morale universale, cioè non legata indissolubilmente alle sorti di una certa situazione o ideologia, al crollo delle quali seguirebbe il naufragio della morale stessa. È anche questa una precauzione per impedire che si possa credere che la morale non dipenda dall'Io. Il vero punto fermo di Calogero è proprio quello di ribadire definitivamente che la scelta etica è una scelta dell'Io, e perciò, contemporaneamente, della sua ragione e della sua volontà. La legge morale, ad esempio, può giungermi dall'esterno, ma essa diventa davvero la mia scelta morale se io ritengo giusto seguirla e non solo perché altri me la propone o addirittura me la impone:

Anche la legge morale è, inizialmente, qualcosa di enunciato o di inculcato con autorità [...]: sia essa proclamata dall'autorità della voce materna, o da quella del costume tradizionale, o dai discorsi e dagli argomenti di un profeta o di un pensatore, o dalla voce rivelatrice di Dio. Ma, quel che conta, è che la si accetti non per il semplice fatto che viene enunciata, o per la potenza di colui che la enuncia, bensì perché, esaminatala, la si ritiene giusta, e si riconosce, in coscienza, di doverla accettare.38

Riassumendo: io agisco moralmente non perché me lo ordina, per esempio, mia madre, Calogero, Dio o lo Stato, ma perché i loro insegnamenti io li ho valutati e li ho voluti fare miei in quanto giusti e preferibili. Io mi astengo da uccidere un altro, dunque, non perché lo Stato o la religione me lo impediscano, ma perché io stesso stabilisco e voglio che quella persona possa vivere. La mia morale è assieme causa e fine del mio agire. In questa sua circolarità sta tutta la sua autonomia e il suo valore.

È ovvio, a questo punto, che per Calogero nessuno può dimostrare la superiorità necessaria dell'altruismo sull'egoismo, ma è altrettanto ovvio che ciascuno possa volere questa superiorità. Poiché la morale calogeriana è tutta rivolta all'educazione, ci si chiede quale possa essere il ruolo di chiunque voglia comunicare agli altri il messaggio morale. Bandita ogni conversione forzata ed ogni dimostrazione logica, all'educatore rimane la lezione più importante: l'esempio. Scrive Calogero:

Quando Cristo disse agli apostoli: Euntes docete omnes gentes, essi non domandarono quali sillogismi dovevano usare. Sapevano come dovevano insegnare: mostrando un esempio di vita e di morte, come l'aveva mostrato il loro maestro [...]. Se si vuol convincere al bene, bisogna mettere in moto tutte le forze della vita, suscitare l'animo, svegliare passioni, impegnarsi insomma profondamente. E, in primo luogo, impegnarsi con l'esempio.39

Chi voglia davvero educare all'altruismo, dunque, non deve far altro che usare l'esempio del suo stesso altruismo. Identico criterio etico varrà, ovviamente, per il dialogo: chi vorrà educare al dialogo dovrà egli stesso agire in conformità del principio del dialogo. Né armi, quindi, né leggi metafisiche, né vuote parole, ma solo concreti esempi di vita.
4. Dall'etica al dialogo ^

Una volta descritta la fisionomia della sua etica, Calogero cerca di trovare un principio che possa riassumere il suo pensiero etico e che sia valido universalmente, ponendosi così al riparo da qualsiasi critica scettica o storicista. Per essere davvero etico, dunque, questo principio dovrà essere indiscutibile, affinché nessuno possa metterlo in discussione minando in questo modo la stessa possibilità etica. Dovrà, inoltre, essere indimostrabile, ovvero precedente a qualsiasi altro principio che lo possa fondare e dovrà anche essere garante dell'autonomia dell'individuo che lo sceglie, in modo da rispettare uno dei cardini dell'etica calogeriana, l'autonomia di scelta appunto. Infine, dovrà aprire la strada all'altruismo, cioè la strada alla comprensione altrui.

Come abbiamo già avuto modo di scrivere, l'Io calogeriano si trova necessariamente di fronte ad una scelta, che lo pone tra l'egoismo, cioè la visione di se stesso come causa e unico fine della propria azione, e l'altruismo, che individua, invece, il fine dell'azione nell'Altro. Il principio etico, di conseguenza, per essere altruista, dovrà premettere un rapporto tra l'Io e l'Altro e far sì che tale rapporto non sia meramente strumentale.

Per Calogero, se non ci fosse alcun rapporto, l'Io vivrebbe nella completa solitudine senza alcuna possibilità etica. In presenza di un rapporto con l'Altro, invece, le possibilità per l'Io sarebbero due: o l'uso strumentale dell'Altro a proprio egoistico vantaggio, o l'apertura alla comprensione dell'Altro nelle sue esigenze e nei suoi bisogni. La prima via ci porterebbe a vedere nell'altrui persona un automa, mentre solo la seconda aprirebbe le porte ad un comportamento etico.40 Il principio etico, quindi, dovrà prevedere, oltre che un rapporto con l'Altro, una sua comprensione, cioè una comunicazione tra Io e Altro.

Per fondare il comportamento etico, allora, basterebbe, secondo Calogero, un principio che garantisse una reciproca comunicazione, cioè un principio che assicurasse un dialogo, quindi l'alternarsi di un parlante e di un ascoltatore? No, un principio del genere, a suo avviso, non basterebbe. Il dialogo inteso soltanto come conversazione tra due persone, infatti, non è che il primissimo scalino dell'ascesa etica. Cercheremo nelle prossime pagine di dimostrare che Calogero ha sempre inteso il dialogo in un significato molto ampio, che arriva addirittura fino alla comprensione dell'altrui silenzio e alla difesa di tale silenzio. Certamente il fatto che egli non abbia mai distinto esplicitamente tra dialogo, inteso come semplice conversazione, e dialogo, inteso come comprensione totale dell'Altro, ha creato possibili fraintendimenti, che tuttavia si possono ridimensionare, grazie ad un'ampia lettura degli scritti calogeriani.

Per una maggior chiarezza dedicheremo un paragrafo apposito ad ogni passaggio che il dialogo compie nella sua realizzazione etica, passando dalla semplice conversazione alla più vasta comprensione generale, la quale rappresenta, secondo il Nostro, il più genuino significato attribuibile al dialogo. Chiameremo questi passaggi «livelli dialogici», per sottolineare la maggior levatura e, allo stesso tempo, profondità etica, che progressivamente incontreremo.
5. Primo livello dialogico: la conversazione ^
Il principio della discussione: la volontà d'intendere

Ogni conversazione, secondo Calogero, si fonda su un principio indiscutibile: la nostra volontà di discutere. Se, infatti, uno dei dialoganti decide di non discutere, la conversazione non ha nemmeno inizio. La volontà di discutere, a sua volta, è costituita da due diverse volontà: la volontà di parlare e la volontà di intendere, secondo le quali noi affrontiamo una discussione non solo per dire il nostro parere ma anche per intendere, cioè ascoltare e capire le ragioni altrui. Chiunque voglia discutere, dunque, accetta di seguire questo principio, che si richiama alla generale volontà di discutere.

Tale principio è indiscutibile, poiché chiunque voglia metterlo in discussione, dimostrando che non vale, deve discutere, presupponendo in questo modo proprio quel principio della discussione e quella volontà di discutere che cerca di confutare. Nessuno, infatti, può ordinarmi di non ascoltarlo se io allo stesso tempo non ascolto quell'ordine. Grazie a questo piccolo esempio si può già perfettamente capire perché il principio di ogni discussione sia non solo indiscutibile, ma anche indimostrabile e indissolubilmente legato all'autonomia decisionale di ogni singola persona.41 Seguiamo le parole di Calogero sull'indiscutibilità del principio: «Ogni altra verità è soggetta alla discussione, e nessuno può mai pretendere che si finisca ad un certo punto di discutere. Per nessun'altra verità io posso prescindere dalla critica altrui, dalla discussione e dal consenso altrui. Ma la volontà di discutere non ha bisogno di essere discussa, perché ogni discussione la presuppone».42 Tale principio, inoltre, è anche indimostrabile, cioè non ne si può pretendere la dimostrazione tramite un teorema o una legge: «La dimostrazione non si può chiedere, perché ogni volta essa sarebbe un logo: e un logo non può mai dimostrare la necessità del dialogo, il quale di per sé va sempre oltre di esso».43 Infine, il principio della discussione è il solo principio che nessun altro potrà persuadermi di non seguire, poiché, come già detto, nessuno potrà pretendere di convincermi di non ascoltarlo se io stesso non lo ascolto: «[Il principio della discussione] è la sola verità per la quale io non posso assolutamente intravedere la possibilità che un altro, nel dialogo, cerchi di persuadermi del contrario. E come potrebbe persuadermi di non ascoltarlo, se, nello stesso tempo, vuole che io l'ascolti per potermi provare ciò?».44

Tutto questo assicura al principio della discussione l'assoluto rispetto dell'autonomia etica dell'Io. Cerchiamo di chiarire meglio questo passaggio con un nostro ragionamento esemplificativo. Se qualcuno cercasse di convicermi della bontà del dialogo, significherebbe che io avrei già accettato di ascoltarlo e, di conseguenza, che avrei già seguito il principio dialogico prima della sua esortazione. Se, al contrario, qualcuno provasse a persuadermi dell'impossibilità o dell'inutilità del dialogo, si ricadrebbe nella consueta contraddizione secondo la quale egli cercherebbe di convincermi di non seguire ciò che io avrei dovuto per forza seguire per ascoltarlo.

Poniamo, tuttavia, un terzo caso. Se Tizio mi dicesse: «Ascolta e fa solo quello che dico io!», infirmerei, obbedendogli, l'autonomia del principio della discussione? No, poiché, anche in questo caso, per accettare l'ordine avrei dovuto preferire precedentemente di ascoltarlo piuttosto che tapparmi le orecchie, e anche in seguito sarei sempre io, e solo io, a decidere di eseguire quell'imperativo, passando così da una situazione dialogica e di ascolto, ad una situazione di chiusura rispetto a tutte le voci che non siano la sua. Anche in questo caso, però, risulterà evidente la necessità dell'autonomia della scelta. Qualora, infatti, ascoltassi solo Tizio, resterebbe a me tutta la responsabilità anche delle azioni successive, poiché nemmeno in seguito egli mi potrebbe costringere a seguire la via dell'ascolto o della chiusura. Se, infatti, dopo avermi ordinato di ascoltare solo lui, egli mi ordinasse di ascoltare Caio, si scivolerebbe in una contraddizione inestricabile. Qualora, come un automa, eseguissi l'ordine, proveniente dall'unica persona che io abbia deciso di ascoltare, mi ritroverei ad ascoltare Caio, contravvenendo al primo ordine di Tizio che mi vietava l'apertura a chiunque non fosse Tizio stesso. Se, invece, comportandomi sempre come un automa, tenessi fede soltanto al primo ordine, mi troverei nella situazione di non poter eseguire il secondo e, necessariamente, nemmeno il primo, che del secondo è la premessa inevitabile.

Risulta evidente, in questo modo, che il principio della discussione è perfettamente legato all'autonomia dell'individuo e che mai nessuno potrà imporlo o abolirlo senza che esso non sia già stato accettato o rifiutato dai singoli Io. La responsabilità della decisione, per Calogero, non potrà mai essere scaricata sugli altri:

Proprio in quanto siamo assicurati a priori contro ogni sua invalidazione [del principio della discussione] da parte altrui, siamo nello stesso tempo lasciati a noi medesimi nella volontà della sua instaurazione. Le parole altrui potranno aiutarci, ma non mai determinarci in questa scelta, così come ogni «giustificazione» che si tenti dell'imperativo etico può tutt'al più mettere in luce la sua pratica convenienza, ma non mai dar ragione della sua assoluta doverosità. Ecco perché anche il comandamento più autorevole di capire gli altri non vale nulla per noi, se noi anzitutto non vogliamo capirlo.45

In precedenza, per chiarire i caratteri di indiscutibilità, indimostrabilità e di autonomia del principio della discussione, abbiamo più volte fatto riferimento ad un'eventuale contraddizione, nascente qualora non fossero riconosciuti quei caratteri. Da questa premessa prendono avvio le critiche di Raffaele Gambino e di Mario Peretti alla validità del ragionamento calogeriano. Per entrambi, il dialogo, secondo la ricostruzione di Calogero, non si fonderebbe sul principio della discussione, ma su quello di non contraddizione, poiché ad esso si rifarebbe lo stesso principio della discussione. In questo modo il dialogo non precederebbe tutti i loghi, ma dipenderebbe da un logo ben preciso, quello di non contraddizione appunto. Afferma, infatti, Gambino:

Dal principio di non contraddizione non si può evadere perché esso non è come afferma Calogero «un imperativo a cui bisogna obbedire per poter essere compresi dagli altri», ma è un imperativo al quale bisogna obbedire per poter essere compresi innanzi tutto da se stessi: quell'imperativo non è quindi un imperativo ipotetico [...] perché ciò che invece esso mi ordina è di non contraddire quel che penso con quel che penso, ed è quindi assolutamente categorico dal momento che ha in se stesso l'unico presupposto, il pensiero, dal quale non si possa in alcun modo prescindere neanche qualora ad esso si voglia illusoriamente rinunciare.46

Simili obiezioni muove anche Mario Peretti.47 Secondo queste critiche, dunque, il principio di non contraddizione fonda il pensiero stesso e, dal momento che il dialogo si basa sul pensiero, ne consegue che il dialogo dipende da tale principio. Si ripropone ancora una volta, in questi termini, il tentativo di far derivare il pensiero da un principio logico, tentativo che Calogero ha sempre respinto con decisione, ribattendo che nessun principio possa precedere la «presenza» dell'Io che lo formula e che quindi nessun principio possa anticipare il pensiero dell'Io stesso. In più, bisogna ricordare che Calogero non considera il principio di non contraddizione come un principio del pensiero «immediato», cioè della conoscenza noetica, ma come uno strumento del pensiero dianoetico e, conseguentemente, del linguaggio. Secondo il Nostro, infatti, il principio di non contraddizione è utile solo per evitare contraddizioni linguistiche e facilitare la comprensione del proprio discorso da parte degli ascoltatori. Tale principio «si limita, in realtà, a procurare l'accordo del prima col poi, di quel che si è detto con quello che si dirà».48 Tolto, dunque, da parte di Calogero, ogni valore metafisico al principio di non contraddizione, esso si limiterà a regolare il linguaggio, il quale prevede, a sua volta, una discussione e perciò la dipendenza dal principio della discussione che fonda ogni comunicazione. I due principi, quindi, risultano notevolmente diversi, poiché «uno ci dice come dobbiamo dialogare [il principio di non contraddizione], e l'altro [il principio della discussione], che dobbiamo farlo. Se l'uno regola il dialogo, l'altro lo instaura».49

Ogni discussione è successiva ad una scelta dell'Io. In ogni istante, infatti, l'Io può decidere se accettare la discussione o rifiutarla, e ciò avviene non per tener fede al principio di non contraddizione, ma perché tale è la situazione inevitabile di ogni coscienza. Alla base, quindi, «non c'è il principio di non contraddizione [...] ma semmai il principio di determinazione, ovvero l'onnipresente necessità in forza della quale la mia esperienza ha sempre una figura determinata, che proprio perché determinata è quella e non un'altra».50 Sintetizzando: il principio di determinazione mi dice che se faccio l'azione X, faccio l'azione X e non l'azione Y, quindi, calandoci nel nostro discorso, esso mi dice che se metto in discussione il discutere, in realtà discuto.

Stefano Petrucciani va oltre, affermando che, successivamente al principio di determinazione che rileva la nostra azione «discutere», il principio della discussione e il principio di non contraddizione scattano contemporaneamente, poiché, secondo il suo parere, non si potrebbe accettare di dialogare (principio della discussione) se non si sapesse già come dialogare (principio di non contraddizione).51 Nell'ottica calogeriana, tuttavia, questa osservazione andrebbe ridimensionata. A seguito, infatti, del principio di determinazione, che rileva che sto facendo alcune «determinate» azioni e non altre, il principio della discussione, a nostro avviso, deve sempre precedere quello di non contraddizione, poiché prima si deve scegliere di instaurare un dialogo con un'altra persona e soltanto successivamente si stabilisce in quale modo attuarlo. La scelta del dialogo è anteriore alla scelta del modo di dialogare, poiché, anche qualora il proprio interlocutore usasse frasi sconnesse e contraddittorie e ci impedisse di decifrarne il significato, lo si scoprirebbe soltanto dopo aver deciso di ascoltarlo.

Il principio della discussione, e la volontà d'intendere che ne è il suo presupposto, dunque, fondano ogni dialogo. Calogero, affermando l'esclusiva indiscutibilità soltanto di tale principio, ne conclude, che in ogni situazione dialogica tutto può essere discusso tranne il principio che regola la discussione stessa. Nessuna norma, inoltre, può impedire la discussione, se tale norma non è frutto della volontà del singolo individuo, che preferisce non comunicare affatto e chiudersi ad ogni confronto con l'Altro. In realtà, per il Nostro, concepire un individuo che si escluda da ogni comunicazione umana è piuttosto improbabile, poiché l'assoluta incomunicabilità, a suo avviso, è solo un falso mito di qualche filosofo che, in maniera un po' bizzarra, pretende di comunicare la sua stessa incomunicabilità.52 Ogni uomo, invece, si trova prima o poi a comunicare, dovendo rispettare per ogni sua comunicazione il principio della discussione.

Se è vero, allora, che per Calogero tale principio è indiscutibile, indimostrabile e garante dell'autonomia decisionale dell'Io, così come lo dovrebbe essere il principio primo di una possibile etica universale, ne deriva che il principio della discussione è proprio quel principio etico, e che ogni dialogante che decide di parlare e di ascoltare il proprio interlocutore è, di conseguenza, un uomo morale? Se così fosse il mondo straboccherebbe di moralità! Un vero principio etico, per il Nostro, invece, deve essere anche altruista, cioè deve favorire la comprensione dell'Altro.

Il solo principio della discussione, in realtà, crea una comunicazione tra più persone, ma per essere davvero altruista dovrà andare oltre. Per prima cosa dovrà considerare se stesso come unica regola assoluta, in quanto l'unica indiscutibile, permettendo l'eliminazione di ogni dogmatismo che pretenda di imporre altre leggi assolute al di sopra di ogni discussione e del suo principio. La messa al bando di tutti i dogmi, inoltre, non rischierebbe affatto di condurre verso il vicolo cieco dello scetticismo, poiché il rifiuto del dogmatismo non esclude l'esistenza di una norma assoluta, quale risulta essere, appunto, il principio dialogico. Ammettere che si possa discutere di tutto e che ogni

argomento possa trovare la sua espressione, significa, anche, considerare il principio della discussione come regola garante della tolleranza e del rispetto della diversità. Fino ad ora abbiamo chiamato tale principio «principio della discussione», contravvenendo alla dizione calogeriana di «principio del dialogo». La scelta è dovuta alla nostra intenzione di rendere il discorso calogeriano il più chiaro possibile. Poiché il Nostro utilizza il termine «principio del dialogo» a tutti i livelli dialogici, vi è il rischio concreto che qualcuno, come effettivamente è successo, consideri tale principio solo nelle sue forme iniziali, dimenticando di osservarne le sue implicazioni successive e originali. Il principio che abbiamo analizzato in queste pagine, infatti, regola soltanto la comunicazione, ma non ha ancora i caratteri profondi della filosofia calogeriana, quali la tolleranza, l'attenzione «interessata» e la comprensione in senso lato (che potremmo chiamare «comprensione attiva»), che contraddistinguono il vero principio della sua filosofia del dialogo.

Speriamo di aver chiarito il motivo per il quale soltanto ora, trattando il tema della tolleranza e del laicismo, inizieremo a parlare di «principio del dialogo», abbandonando la nostra dizione «principio della discussione», che del principio dialogico è la premessa.
Tolleranza e laicismo

Dall'osservanza precisa del principio della discussione e dalla sua attuazione pratica, si giunge ad ammettere inevitabilmente la necessità della discussione di qualsiasi altro principio e, in generale, di qualsiasi idea. Il principio del dialogo, dunque, si erge a principio valido per tutti, in quanto garante del rispetto di tutti. Esso va oltre il dogmatismo, poiché permette ad ognuno di esprimersi, e supera anche la critica scettica, dal momento che è esso stesso a permettere che tale critica abbia la possibilità di essere espressa.53

La tolleranza, secondo il Nostro, è la prima forma di altruismo, poiché riconosce il valore dell'altrui libertà di coscienza. La nostra libertà di pensiero ci è data necessariamente, in quanto espressione dell'eterna consapevolezza dell'Io. Ognuno, infatti, dentro di sé, è libero di pensare ciò che vuole. Tuttavia, dal momento che questa è una libertà necessaria, per Calogero come sappiamo, non ha valore. La libertà di coscienza altrui, invece, per esistere in noi deve essere da noi stessi riconosciuta, presupponendo non più una necessità, ma una libera decisione. Essa, in questo modo, assume tanto più valore, quanto più quella libertà è da noi accettata e difesa, permettendo il primo passo dell'azione etica.54

Calogero si dilunga spesso nella specificazione del significato di tolleranza, al cui termine ne affianca un altro, «laicismo», che nel suo pensiero assume un carattere particolare, distante da quello estremista che il linguaggio comune gli attribuisce. Laicismo, infatti, significa, per il Nostro, sia «non pretendere mai di possedere la Verità più di quanto anche gli altri possano pretendere di possederla»,55 sia rifiuto di ogni dogmatismo in «difesa di ogni uomo dall'invadenza dei cattivi stati e della cattive chiese».56 I cattivi stati e le cattive chiese, infatti, partoriscono tutte quelle idee che, indipendentemente dalla loro provenienza, pretendono di affermare l'unica Verità assoluta, impedendo qualsiasi ulteriore ricerca o discussione. I dogmatici e gli intolleranti, inoltre, non hanno una sola ed unica bandiera. Benché, infatti, il pensiero religioso possa, secondo Calogero, essere «contaminato» più facilmente dal germe dell'integralismo e dall'autoritarismo, nemmeno il pensiero laico può ritenersi immune. È indispensabile, a suo parere, che ognuno riconosca i propri errori e che anche i laici smettano di ragionare in termini dogmatici, considerando erroneamente il laicismo «piuttosto come una filosofia tra le filosofie, come una ideologia opposta ad altre ideologie, che come la regola di convivenza di tutte le possibili filosofie e ideologie»,57 come invece dovrebbero fare, in rispetto del principio dialogico della tolleranza. L'etica del laicismo e della tolleranza assicura «la coesistenza degli uomini in quella "casa comune", in quella "casa di tutti", [...], che è la casa in cui nessuno deve sentirsi come straniero, come abitante non di pieno diritto, anche se la sua fede si trovi a non essere condivisa da nessun altro».58 In conformità del rispetto di tutte le bandiere, al di là della loro origine, Calogero non ha mai perso occasione di sottolineare il valore degli studi di intellettuali che si impegnarono nella diffusione dello spirito dialogico, come fu, ad esempio, per l'amico cattolico Arturo Carlo Jemolo.59

Il laicismo calogeriano, lungi dal combattere la diversità, la valorizza e la tutela, a differenza del fanatismo «il quale ha la sua radice precisamente nella pretesa che tutti gli altri siano fatti, e debbano esser fatti, a propria immagine e somiglianza (o, peggio ancora, a somiglianza dell'immagine della razionalità raffigurata nella propria logica o filosofia o teologia, la quale pure può ben esser diversa dalla logica o dalla filosofia o dalla teologia altrui)».60 Il principio del dialogo risulta essere, così, non un logo, ma l'atmosfera della convivenza di tutti i loghi, i quali nella loro diversità, se vogliono continuare a confrontarsi ed evitare un conflitto che ne minacci la loro stessa esistenza, devono tener fede ad una legge comune, che è appunto il principio del dialogo. Al di fuori di questa regola comune vi è solo il bellum omnium contra omnes, che comporta autoritarismo, violenza e sopraffazione. O si persegue, dunque, la via del dialogo e della coesistenza equilibrata, o questo equilibrio si spezza avvantaggiando alcuni uomini ed eliminandone altri.61

Il principio dialogico obbliga chi lo voglia seguire ad ascoltare tutti e a non impedire che qualcuno manifesti il proprio parere. Tuttavia Calogero, come abbiamo già avuto modo di dire, non intende il comprendere come un perdonare indiscriminato, poiché è compito del laicista garantire a tutti il diritto di manifestare il proprio parere, criticando e contrastando, se necessario, chi cercasse di tappare le bocche altrui:

Non si dica quindi che, in quanto abbiamo il dovere di capire tutti, non possediamo più alcun criterio per giudicare le loro azioni. E', anzi, proprio il fondamentale dovere di comprendere ognuno, che ci permette di distinguere fra le azioni compiute, e di stabilire, come si dice, una tavola di valori, cioè una gerarchia di efficienza fra i vari tipi di comportamento, a seconda che si manifestino più o meno conformi e confacenti a quel supremo imperativo dell'intendimento e del dialogo. Sempre potremo, anzi sempre dovremo, criticare certe azioni, e comunicare queste critiche, anche le più severe, agli agenti. Ma in nessun caso, neppure in quello che dopo il più onesto dei processi uno venga condannato per il più orrendo dei delitti, avremo mai il diritto di guardarlo dall'alto in basso, di rinunciare a capirlo, di rompere il ponte della comunicazione umana.62

Il laicismo non deve, quindi, concedere nessun spazio al lassismo morale.
Andare oltre la tolleranza

Lo spirito dialogico per essere sempre più altruista e, quindi, per essere sempre più etico, non può limitarsi, secondo Calogero, soltanto a proclamare l'antidogmatismo e la tolleranza, deve cercare di andare oltre. Il principio del dialogo che aspiri a diventare principio etico universale, infatti, oltre che garantire la libera espressione altrui, deve partire dall'interesse per quei contenuti espressi. Un dialogo che fosse guidato soltanto dallo spirito di tolleranza rischierebbe di risultare privo di stimoli fino a cadere nell'indifferenza. Dialogare, infatti, non significa solo conversare, ma anche provare vivo interesse per quello che l'Altro può dirmi.63 Un dialogo «limitato», secondo il Nostro, è quello che intercorre tra chi, pur tollerando le idee altrui, parte dal presupposto di avere già la verità in tasca senza bisogno di prestare orecchio a chi vive ancora nell'ignoranza: «Un dialogo è tanto più falso quanto più, chi parla, parla per il gusto di parlare, e non si fermerebbe mai per sentire ciò che altri gli dicono».64 In questa direzione, Calogero non risparmia nemmeno una feroce sferzata alla superba élite intellettuale, in cui a volte, a malincuore, si imbatte:

Certi ricevimenti di società intellettuali sono veri capolavori in questo senso: tutti parlano con estrema intensità, e nessuno sente nulla. Con simili forme di colloquio la cultura non ha nulla a che fare: sono esibizionismi di barbari vanitosi, anche se sanno che Carlo Magno è vissuto alcuni secoli prima di Dante.65

La tolleranza priva di interesse è ancora vittima del dogmatismo:

In questo tipo di tolleranza è ancora implicito il convincimento che la propria dottrina o religione non ha bisogno di esser tollerata, perché è la vera. Si tollerano le altre, in quanto sono errori, che si attende si correggano da sé, senza incorrere nell'impopolarità di pretenderne coercitivamente la correzione. Non c'è l'estremo del fanatismo, ma c'è tuttavia il dogmatismo, in quanto non c'è curiosità per l'altrui visione delle cose.66

Il principio dialogico, dunque, dopo aver fondato la discussione e dopo aver garantito la libera espressione dei pensieri tutti, passa ad un successivo livello etico che implica il vivo interesse verso quei pensieri.
6. Secondo livello dialogico: l'ascolto attento e interessato ^

Dallo spirito di tolleranza, il principio dialogico approda, dunque, all'interesse per gli argomenti altrui fino ad ammetterne la loro preferibilità rispetto a quelli di partenza. L'esempio storico di chi ha insegnato a dialogare nel rispetto di tutti, attraverso un ascolto interessato ed attento, ammettendo la possibilità di essere convertito dagli altrui ragionamenti, fu, secondo Calogero, Socrate. Affrontiamo di seguito l'analisi dei passaggi che conducono dalla tolleranza alla possibilità di «conversione», per dedicarci poi alla visione calogeriana di Socrate.

Cyrus
01-02-10, 01:41
Dall'interesse alla conversione

Abbiamo già anticipato che il principio dialogico prevede nei riguardi delle altrui visioni delle cose non solo la tolleranza ma un sentimento di «sincera curiosità».67 Calogero rileva, soprattutto nelle discussioni politiche, un uso indiscriminato della parola «dialogo», che spesso viene completamente snaturata: «Una trattativa, per esempio tra forze politiche diverse, ma di analogo orientamento autoritario, o integralistico, può anche chiamarsi "dialogo" ma non risponde certo alla "legge del dialogo"».68 In un suo articolo Calogero offre un chiarissimo esempio di «falso dialogo», in cui ipotizza il comportamento di due persone, le quali cerchino di dimostrare l'assoluta verità della propria posizione, senza mai concedere che l'altro possa avere un'idea migliore della propria. Di fronte a questo dialogo tra sordi, Calogero conclude: «Entrambe queste situazioni non soltanto sono del tutto corrispondenti per quanto riguarda il rapporto tra pretesa di consenso e dovere di dimostrazione, ma sono altresì identiche per un aspetto molto più grave. Isolate nella loro più autentica qualità, esse sono entrambe situazioni egoistiche. Quel che a me [nei panni di uno dei due dialoganti] interessa non è il capire come l'altro la pensa, è il condurlo a pensare come me. Quel che all'altro preme non è il comprendere come vedo le cose io, è il portarmi a vederle come lui.

Ciascuno di noi vuole in realtà sospingere l'altro alla somiglianza con se stesso, anche se in questo caso la sollecitazione avviene non mercé una violenza ma attraverso un processo di persuasione. La situazione è ancora una volta monologica, non dialogica».69 Nella propria lotta contro i presunti dialoghi che si rivelano in realtà monologhi, Calogero trova un alleato nel francese Ferdinand Gonseth, allievo di Emmanuel Lèvinas e portavoce della «philosophie ouverte».70 Riprendendo le tematiche affrontate dal filosofo francese, Calogero scrive:

Senza dubbio, Gonseth insiste sul punto che non basta che l'altro resti un altro, che io non debbo limitarmi ad ammettere la diversità del suo pensiero, nel quadro di una tolleranza che così diventerebbe indifferenza. Debbo invece battermi con passione per fargli capire le mie idee, e possibilmente, beninteso, per convincerlo ad accettarle.71

Ma se ci si limitasse a questo cadremmo ancora nel dialogo-monologo. Infatti Calogero aggiunge: «Nello stesso tempo debbo ammettere anche l'opposta possibilità, cioè che a un certo momento sia invece io ad accettare le idee sue, con lo stesso sincero impegno con cui prima cercavo che egli accettasse le mie».72 Nessuno, ribadisce Calogero, deve rinunciare ad avere una propria idea, poiché non avere un'idea significa non poter comunicare e precludersi fin dall'inizio qualsiasi situazione dialogica: «Io posso bene, per quanto mi concerne, essere convinto della validità di quel che penso [...] e insieme tenermi sempre aperto alla possibilità di esser convinto altrimenti».73 Il dialogo permette l'incontro delle idee, ma tali idee, per Calogero, rimangono cattedrali nel deserto dell'egoismo e dell'indifferenza se non sono sorrette dall'interesse reciproco e dalla volontà di essere sostituite, qualora si presenti nel corso dell'incontro dialogico un'idea migliore. Chi non provi interesse per l'Altro e non ammetta una propria possibile conversione, non riuscirà mai ad aprirsi completamente alla comprensione altrui e il suo altruismo non sarà più tale.

Nella storia, per Calogero, Socrate lanciò il vero messaggio dialogico che pochi vollero cogliere. L'esempio del filosofo greco ritorna, infatti, ogniqualvolta si segua il principio dialogico. Come scrive Augusto Guzzo: «Dialogare per cercare insieme è socratismo. Siamo tutti socratici, nelle misura in cui cerchiamo, non sapendo già, ma per sapere. Implica ciò una "desperatio veri"? Al contrario, implica una "speranza" del vero».74 E su questa speranza, Socrate costruì il suo insegnamento e la sua vita.
L'esempio di Socrate

La filosofia del dialogo di Calogero deve molto alla figura di Socrate. Cercare di fare un paragone tra i due pensiamo sia impossibile, poiché Socrate, purtroppo, vive solo nelle parole di chi lo conobbe allora e dei critici che, a distanza di secoli, osservano con la lente della filologia queste fonti. Della questione del Socrate «socratico» o del Socrate «platonico» non sta a noi parlare, anche se Calogero cercò di essere un filologo molto attento e dedicò all'interpretazione del pensiero socratico, attraverso l'analisi sia dei dialoghi platonici (di cui curò diverse edizioni) sia delle altre fonti non riconducibili a Platone, molti articoli e soprattutto molta passione. Alla fine, del filosofo greco risulta un'immagine che noi non possiamo né confermare né rifiutare, ma che ci limitiamo a considerare come utile chiave di lettura della filosofia del dialogo calogeriana. Calogero fu sempre convinto che la filosofia socratica fosse quasi del tutto sovrapponibile alla propria e questo ci permetterà, grazie all'interpretazione che Calogero stesso diede del dialogo socratico, di leggere con maggior cura il pensiero del Nostro.

Al pari di Calogero anche Socrate si trovò a dibattersi tra scettici e dogmatici, tra chi affermava che nulla è vero e chi pretendeva di stabilire in maniera definitiva una «conoscenza della conoscenza». Per Socrate tale dibattito non avrebbe mai portato a nulla, poiché, a suo parere, né si poteva dire che non esistesse la verità, altrimenti nessuno mai avrebbe avuto un'idea ritenuta valida e di conseguenza per lui vera in quel momento, né si poteva trovare una «scienza della scienza» senza cadere in un circolo vizioso.75 Da questa premessa antignoseologica, Socrate concluse che la ricerca della verità si può fondare solo sul confronto delle singole verità che ognuno possiede. La verità risulta così il prodotto dell'attività dialogica. Tale attività, inoltre, per Socrate, non avrebbe mai potuto concludersi, poiché sarebbe sempre stato possibile incontrare un uomo con una nuova idea da discutere e un'ulteriore obiezione al dialogo precedente da valutare. Il dialogo socratico, dunque, secondo la lettura calogeriana, si fondò sull' «eterna ricerca», bandendo da sé l'idea che si possa trovare una verità che permetta di abbandonare per sempre tale ricerca. Questa fu la grande differenza che divise nettamente Socrate dal suo allievo Platone. Nel Simposio platonico, infatti, si può notare chiaramente, secondo Calogero, il passaggio dalla ricerca continua socratica, all'idea statica platonica, secondo la quale il Bene è un preciso contenuto che si può ottenere e contemplare una volta per tutte. Nel Simposio la ricerca socratica è rappresentata da èros, il quale aspira di continuo ad ottenere ciò che non ha. Nessun logo impone all'uomo tale ricerca, ma essa fa parte dei caratteri costitutivi dell'uomo stesso.76 La ricerca «erotica», secondo Socrate, si attua nel dialogo, che permette all'uomo di trovare volta per volta le risposte che cerca, attraverso l'incontro con le verità altrui. Tale brama però non ha mai fine, poiché se l'uomo raggiungesse la verità definitiva non avrebbero più alcun senso per lui né il futuro, né il dialogo, né gli altri con cui egli ha dialogato. L'uomo che conquistasse la verità eterna, agli occhi del Socrate calogeriano, assomiglierebbe piuttosto ad una divinità statica, che noi, ora, potremmo avvicinare al dio «pensiero di pensiero» aristotelico, immobile nella contemplazione di sé.

Platone, invece, ribaltò l'insegnamento di Socrate e vide in èros non più la spinta alla continua ricerca e al confronto altrui, ma piuttosto il raggiungimento di un preciso contenuto, che una volta ottenuto avrebbe placato ogni sete di conoscenza, ma anche ogni possibilità di ulteriore discussione.77 Mentre Socrate, dunque, sancì l'eterna possibilità etica della scelta dialogica, che permettesse a tutti di poter discutere e di partecipare alla ricerca della verità, Platone impose un logo chiamato Bene, che una volta raggiunto non avrebbe permesso alcuna ulteriore discussione, sancendo la fine di ogni possibile scelta etica del dialogo. Calogero legge in questa differenza tra allievo e maestro una differenza oltre che teoretica anche psicologica. Per tener fede al dialogo socratico è necessaria, infatti, molta serenità e un appagamento che non si risolva nella conquista di un contenuto, ma che permanga nella continua ricerca di un possibile contenuto e che, dunque, inevitabilmente rimanga inappagato. Platone, invece, «è assai meno forte, meno sereno, meno sicuro, o, che è lo stesso, più impaziente e più rivoluzionario di lui [Socrate]. Ad un certo punto non ha più la buona volontà di capire il punto di vista dell'uomo ingiusto, ma s'indigna e s'infuria».78

Quale fu, in sostanza, per Calogero, l'idea che Socrate ebbe del bene? Per il grande maestro ateniese il bene si identifica «non già in una qualsiasi verità raggiunta o da raggiungere attraverso l'exetàzein [ricercare], ma in questo stesso exetàzein».79 Il bene, dunque, sta nella ricerca, non nella contemplazione, sta nell'azione morale, non nella chiusura solipsistica. Se il bene fosse il raggiungimento di una verità, tale verità varrebbe solo per l'individuo chiuso nel suo mondo, oppure per una schiera di automi, incapaci di ragionare autonomamente e, di conseguenza, privi di qualsiasi libertà. Socrate, secondo Calogero, non avrebbe mai potuto concepire il bene come l'anticamera dell'impossibilità morale, né come il dogma imposto a scapito della libertà di ricerca. Pretendere di possedere la Verità indiscussa, per il Socrate calogeriano, significava far naufragare ogni tentativo dialogico.80

Socrate era convinto, inoltre, che nessuno agisca in mala fede, ma che ognuno scelga di fare sempre ciò che a lui sembra sia la cosa migliore. L'errore, dunque, non è mai consapevole, ma è solo il frutto dell'ignoranza di una certa situazione. Ogni uomo, per il filosofo greco, sbaglia nella convinzione di aver agito rettamente. Si dovrebbe concludere, allora, che nella visione socratica l'uomo si ritrova a scegliere il bene senza mai accorgersi di poter fare degli errori madornali? Sì, se quell'uomo rimanesse chiuso nelle proprie idee. Chi non si aprisse al confronto con gli altri, sarebbe sempre convinto della assoluta bontà delle proprie idee e non farebbe mai nulla per cambiarle, salvo magari poi pentirsene amaramente qualora la realtà gli mostrasse il contrario. Per il solipsista si prospetta, in questo modo, soltanto un mondo colmo di rischi e alquanto sgradevole. La soluzione dialogica socratica, invece, permette di ricercare la scelta migliore, attraverso il confronto aperto e sereno con gli altri, senza alcuna pretesa di imposizione o di sottomissione assoluta. Accettato il confronto dialogico, ciascuno seguirebbe l'argomento che a suo parere risulti migliore, anche se nessun buon dialogante accetterebbe di troncare questa ricerca comune, per non rischiare di chiudersi ad ogni ulteriore osservazione e per non tenersi fuori da qualsiasi rapporto futuro con gli altri. Il dialogo socratico, secondo Calogero, permette di raggiungere momento dopo momento alcune verità particolari, che in quella determinata situazione risultino migliori, ma non potrebbe mai ammettere la sua conclusione a vantaggio di una di queste verità.81 Per il Socrate calogeriano non esistono, quindi, il Giusto e lo Sbagliato, ma solo il giusto e lo sbagliato in determinate situazioni, secondo il parere di alcuni. Ecco perché limitare il dialogo nel tempo e restringerlo a pochi partecipanti significherebbe limitare enormemente la ricerca della verità, rischiando di ripetere errori più o meno gravi, limitando il progresso umano, fondato sulla continua ricerca. Socrate, infatti, viveva «non nel mondo delle antiche ed eterne verità, ma in quello dei discorsi in contrasto, in cui le parole producono l'incessante mareggiare delle persuasioni, e non è mai dato sapere una volta per tutte chi sia buono e chi sia cattivo, chi abbia ragione e chi abbia torto».82

Partendo dal presupposto che l'uomo sceglie di fare sempre ciò che crede sia meglio, Socrate ne concluse che nessuno sbaglia di propria volontà, perché nessuno sceglierebbe mai di seguire la via che gli apparisse peggiore, a scapito di quella migliore, ovvero, in poche parole, che nemo sua sponte peccat. Ogni uomo, infatti, segue le proprie valutazioni e va compreso nella scelta fatta senza essere giudicato. La lezione socratica, secondo Calogero, venne ripresa anche in seguito da quella evangelica del nolite iudicare.

Tuttavia, per il Nostro, questa forma di intellettualismo etico socratico non toglie responsabilità all'individuo. Non giudicare, infatti, non significa giustificare in tutto e per tutto. La scelta individuale, per Socrate e per Calogero, non è frutto solo del ragionamento o dell'istinto, ma passa inevitabilmente per la via della volontà. Ognuno sceglie ciò che gli sembra giusto non solo perché glielo dice la ragione o l'istinto, ma perché così egli vuole, sancendo in questo modo la perfetta aderenza tra individuo, ragione, istinto e volontà. Nessuno può attribuire le proprie azioni alla responsabilità della sua ragione, o delle sue passioni, poiché sia ragione che passioni non sono altro che la sua stessa volontà, cioè il suo stesso Io.

Sancendo l'autonomia della coscienza individuale, che è sempre responsabile della scelta dell'azione ritenuta migliore, Socrate stabilì anche il carattere della società dialogica, la quale, oltre che fondata sulla sovranità dei singoli su loro stessi, dovrebbe poggiare sull'assoluto rispetto della libertà delle altrui coscienze, imponendo di conseguenza un limite alle singole libertà. Socrate, infatti, «non ha dubbi sul punto che questa sovranità della sua coscienza [nei riguardi di se stessa] presuppone la pari sovranità della coscienza di ogni suo interlocutore, e che quindi egli non potrà mai pleonektèin, cioè "andare oltre il limite giusto", persino nel caso in cui di una simile sopraffazione egli sia la vittima per colpa altrui».83 Socrate, quindi, cercò di salvaguardare l'autonomia di ciascuno senza che però questa potesse superare il limite dell'autonomia altrui. Egli stesso, nella sua Atene, incarnò tale modello di vita. Di fronte ai giudici che gli chiedevano di sospendere la sua ricerca dialogica, rinunciando ad interrogare gli altri e a sottoporre tutto all'esame della propria coscienza, egli si oppose fermamente, preferendo la condanna a morte. Nessuna autorità, infatti, ha, per lui, il diritto di troncare l'autonomia critica ed espressiva anche di un solo uomo. E davanti ai discepoli che cercavano di aiutarlo, favorendone l'evasione, si oppose altrettanto fermamente, poiché riteneva il suo legame alle leggi ateniesi molto più importante della sua stessa vita. Il vero contratto inalterabile tra uomo e legge, secondo Socrate, «è quello che lega il cittadino stesso alla legge, in quanto egli ha accettato di vivere sotto il suo governo e di ricambiare i vantaggi che da ciò gli vengono con l'obbedienza ad ogni suo comando».84 Come per Socrate anche per Calogero, il singolo uomo, qualora esista una legge che impedisca di esercitare la libera ricerca dialogica, tappando la bocca a qualcuno o limitandone la possibilità d'espressione attraverso la censura o, peggio, la persecuzione, ha il diritto e il dovere morale di ribellarvisi, combattendo per la conquista della libertà di tutti. Tuttavia, se le leggi garantissero tale libertà d'espressione, nessuno potrebbe sottrarsi al loro dettame, nemmeno se esso non fosse condiviso. Sia per Socrate, quanto per Calogero, una legge, infatti, deve poter essere messa in discussione in ogni momento, ma finché vale deve essere applicata.85 La visione politica socratica è il punto di partenza dell'ideale politico calogeriano, il quale però procede oltre, introducendo come cardine fondamentale della costituzione della società dialogica, cioè veramente democratica, non solo la piena libertà d'espressione e di partecipazione politica, ma anche le indispensabili riforme economiche necessarie per la fruizione di tali libertà.

Crediamo che Calogero sviluppi ulteriormente il messaggio di Socrate non solo in ambito politico, ma anche in quello etico. Benché egli non affermi mai di voler superare il maestro ateniese, a nostro avviso il dialogo calogeriano prende spunto da quello socratico, per poi condurlo alle estreme conseguenze, già d'altra parte implicite nelle sue premesse, affinché il principio dialogico possa diventare definitivamente il principio etico universale che si sta cercando.
7. Terzo livello dialogico: favorire la comprensione umana ^

La comprensione dialogica, abbiamo visto, si può attuare se entrambi i dialoganti intendono favorire tale comprensione non solo con l'ascolto reciproco, ma con un ascolto che sia anche attento ed interessato. Tutto ciò, però, sottintende che ognuno abbia la possibilità di esprimersi ed essere compreso, quindi che abbia la possibilità anche di vivere degnamente, cioè di godere delle condizioni adatte per poter manifestare le proprie idee e le proprie aspirazioni.

A prima vista potrebbe sembrare che la filosofia del dialogo si limiti ad un'etica dell'ascolto. Aldo Capitini sottolineò questo aspetto come il limite più evidente della soluzione calogeriana, e commentando l'interpretazione di Calogero all'evangelica regola aurea, ne motivò la critica. Partendo dalle osservazioni di Capitini, cercheremo di mostrare il più ampio valore della filosofia del dialogo rispetto ad una semplice etica dell'ascolto, evidenziando la differenza che intercorre tra ascolto e comprensione nel suo significato più vasto.
La regola aurea secondo Calogero e la critica capitiniana

Calogero osserva con molto interesse la norma evangelica che in ambiente anglosassone viene chiamata the golden Rule, la regola aurea, la quale prescrive di fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a sé. Spesso, ricorda Calogero, tale norma viene riportata in termini negativi («non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te»), ma ciò deriva solo dagli influssi sulla norma degli antichi decaloghi, che tendevano a promulgare divieti, piuttosto che esortazioni positive.86 Inoltre, questo precetto non deve essere confuso con una norma di stampo utilitaristico, poiché non sancisce alcuno scambio di favori, ma prospetta una scelta del tutto autonoma e priva di secondi fini. In pratica, chi decide di fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a lui, lo fa non per riceverne qualcosa in cambio, ma per puro spirito altruista, scelto in perfetta autonomia.

La regola aurea potrebbe dunque avere le caratteristiche adatte per diventare il principio etico universale che stiamo cercando? Calogero è dell'avviso che, pur essendo una norma di tutto rispetto e che sicuramente racchiude un forte spirito etico, essa si imbatta in una grave difficoltà. Chi volesse seguirla, infatti, avrebbe due scelte: o imporre agli altri i propri gusti, oppure realizzare automaticamente ciò che gli altri vogliono. Nel primo caso, egli sarebbe uno «schiavista», poiché costringerebbe gli altri a subire ciò che egli stesso vorrebbe subire, senza starli a sentire. Nel secondo caso, invece, egli perderebbe la propria autonomia di scelta e con essa la possibilità morale. Se, ad esempio, Tizio ci dicesse che il suo desiderio, che noi abbiamo deciso di realizzare seguendo la regola aurea, è quello di bastonare Caio, saremmo davvero etici ed altruisti nel farlo senza porci alcuna ulteriore riflessione?87

In nessuno dei due casi prospettati, dunque, la regola aurea potrebbe assurgere a principio etico universale. Dobbiamo perciò rifiutarla totalmente? Calogero non crede che nemmeno questa soluzione sia soddisfacente. La regola aurea, a suo parere, è in realtà posteriore ad una regola davvero universale, che è il principio dialogico. Per sapere, infatti, ciò che gli altri vogliono, dobbiamo ascoltarli, dobbiamo cioè entrare in relazione dialogica con loro. Inoltre, comprenderli e agire affinché possano esprimersi e possano manifestare i loro bisogni, non significa affatto obbedire alle loro richieste indiscriminatamente, ma significa recepirle e seguirle solo qualora esse non rischino di impedire ad altri di essere compresi a loro volta. In questo modo la regola aurea si inserisce all'interno della filosofia del dialogo, trasformando la sua formulazione classica in quella del principio dialogico: «La stessa "regola aurea" si manifesta più adeguata se, invece, di suonare "Fa agli altri ciò che vuoi che gli altri facciano a te", si precisa nella norma "Intendi gli altri così come vuoi che gli altri intendano te, e opera in conseguenza"».88 Capitini valuta criticamente questo capovolgimento, ribadendo, contrariamente a Calogero, che la regola aurea cristiana ha una maggiore ampiezza, e quindi universalità, rispetto al principio dialogico. Per Capitini, infatti, la regola del dialogo

non è che un aspetto della più larga apertura intesa nel detto di Gesù. Che probabilmente vuol dire: sta aperto agli altri, alla loro esistenza, libertà, sviluppo (nel quale rientra anche il perdono dato alle offese ricevute), capovolgi l'atteggiamento abituale della gente che aspetta per stabilire il comportamento verso altri, il vedere come altri si comporta, e tu, invece, prendi l'iniziativa (è meglio dare che ricevere diceva Gesù), anticipa i tempi e brucia l'attesa di essere trattato come apertura: fatti avanti e stabilisci affetto, perdono, aiuto agli altri (e certamente anche il colloquio, anche ascoltare).89

Da queste parole, il confronto tra il socratico Calogero e il cristiano, e rivoluzionario, Capitini, emerge chiarissimo. Da una parte, infatti, troviamo l'ideale della pòlis democratica e civile, dall'altra l'ideale della società «aperta», pervasa da un afflato religioso che spinge ognuno all'amore verso anche l'ultimo degli uomini, vivo o morto che sia. Che vi siano aspetti comuni tra la filosofia del dialogo di Calogero e la «religione aperta» di Capitini, in quanto entrambe sostenitrici di un'apertura completa verso il Tu, è lo stesso Calogero a ribadirlo.90 Tuttavia, a nostro avviso, i due pensatori divergono in particolare su tre punti: il tema della non violenza, la visione escatologica, presente soltanto in Capitini91 e appunto la distanza, rilevata soprattutto da Capitini, tra i loro ideali di società. Mentre i primi due punti separano effettivamente le due posizioni, il terzo pretende di cogliere una distanza che, a nostro avviso, non è proprio così netta. Benché l'ideale capitiniano sia molto più incentrato sull'aspetto religioso e su un'apertura all'Altro che prediliga un rapporto più intimo e amorevole, rispetto all'ideale più politico e laico di Calogero, la società del dialogo calogeriana non è la semplice società dell'ascolto, come sembrerebbe emergere dalle precedenti parole di Capitini. La società civile di Calogero, infatti, oltre che essere la società dell'ascolto, è una società che si fonda sulla piena comprensione dell'Altro. E comprendere è molto più che ascoltare soltanto.
Dall'ascolto alla comprensione

La filosofia calogeriana, a nostro parere, raggiunge con questo ultimo passaggio la sua piena eticità, delineando compiutamente l'azione altruista ed etica. L'uomo altruista, per Calogero, non solo deve ascoltare l'Altro, ma deve aprirsi a lui, tanto che «il riconoscimento del tu non si attua solo con le parole (anzi, in tanti casi, si vuole che non accada solo "a parole")».92 L'Altro va compreso in tutte le sue esigenze, le quali dunque, possono esprimersi anche senza parole: «La volontà di dialogo non è soltanto volontà di parlare e d'ascoltare, di chiedere e di rispondere, ma anche, più universalmente, volontà di tener conto della presenza altrui, sia quando essa entri in uno specifico rapporto semantico, sia quando invece preferisca di coesistere in silenzio».93 L'Altro, quindi, anche silenzioso, deve essere compreso. Calogero ribadisce più volte questo concetto, affinché si possa cogliere la portata più ampia della sua filosofia: «La comprensione in cui si attua il dialogo [...] è un capire non soltanto gli argomenti dell'altro, ma anche le sue esigenze, persino nel caso in cui esse non siano espresse in parole».94

L'Altro, dunque, non solo va ascoltato in tutte le situazioni, ma va anche favorito nella sua espressione. Scrive al riguardo ancora Calogero: «Comprendere gli altri significa capire non solo le loro idee, le loro religioni, le loro filosofie, ma anche le loro aspirazioni, i loro desideri, i loro bisogni. Non esiste quindi alcuna giustificabile differenza di fondo tra società intellettuale e società civile e politica».95 Per garantire, quindi, che l'Altro sia effettivamente compreso da noi, è necessario che noi facciamo tutto il possibile affinché egli sia in grado di costruirsi delle idee, di vivere delle emozioni e poi comunicarcele. L'uomo morale, per Calogero, ha un ruolo estremamente attivo e il suo deve essere un impegno a salvaguardare la possibilità altrui non solo di comunicare, ma anche di farsi un'opinione,96 di vivere dignitosamente, pure nella sua originalità e diversità.97 Calogero è categorico in questo senso, poiché vuole evitare che la sua filosofia venga fraintesa:

Il dovere di comprendere non può, evidentemente, attuarsi in pieno se non tenendo conto delle possibilità di espressione altrui, e cercando di svilupparle al massimo. Il che significa non più soltanto «stare a sentire», ma anche «aiutare a parlare»: e non lo si fa solo suggerendo idee, bensì sviluppando ed accrescendo l'altrui potere di manifestare se medesimo. Se io voglio davvero capire quali nuove prospettive possa significare al mio mondo l'esperienza di Caio, debbo anzitutto aiutarlo a costruirsela. E s'intende tutto ciò che è implicito in questo aiuto.98

La filosofia del dialogo prevede, dunque, una società attenta ai bisogni dell'Altro e rispettosa di tutti i suoi diritti. Tutti i diritti dell'uomo, infatti, secondo Calogero, prendono avvio dalla comprensione tra gli uomini, e quindi dal principio del dialogo: «Capire gli altri, significa volere che essi possano esprimersi: e non c'è riconoscimento di loro diritto fondamentale che non sia implicito in questa volontà».99

La comprensione, per essere universalmente etica, deve allargarsi a tutti, e ciò presuppone che nessuno possa pretendere una comprensione tale che vada a scapito della comprensione di altri. L'altruismo calogeriano, infatti, non si ferma ad un unico Tu, ma si impegna per la promozione di tutti i Tu possibili, affinché ognuno possa coesistere con gli altri senza rinunciare alla propria libertà di vita, in tutte le sue manifestazioni. Una libertà di vita che però sarà limitata in quanto rispettosa delle altrui libertà di vita. La filosofia del dialogo e della comprensione ribadisce, dunque, il suo carattere onnicomprensivo, in cui non si elevi una libertà sulle altre, ma si proclami l'atmosfera di tutte le libertà. In una società dialogica si abbandona la società del conflitto ad ogni costo, per lasciar spazio alla società della coesistenza.

In questo, il messaggio calogeriano va oltre l'etica dell'ascolto e si propone come etica universale, capace, cioè, di rispondere alle problematiche poste da una società veramente universale, in cui ognuno possa essere considerato senza cadere nell'oblio. La speculazione calogeriana, a questo punto, abbandona l'inchiostro e i dibattiti accademici, per fornire il proprio apporto nella costruzione di una società globale e civile.

Copyright © 2004 Mattia Maistri

Mattia Maistri. «L'etica dialogica di Guido Calogero». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 6 (2004) [inserito il 20 febbraio 2004], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [126 KB], ISSN 1128-5478.
Note

1.

Luigi Gallo, Guido Calogero. Etica, politica e filosofia estetica nel pensiero dell'esponente del «moralismo assoluto», Atheneum, Firenze 2000, p. 33. <
2.

G. Calogero, La scuola dell'uomo, Sansoni, Firenze 1956, II ed., p. 6. <
3.

G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, II vol. delle Lezioni di filosofia, Einaudi, Torino 1960, III ed., p. 9. <
4.

Ivi, p. 22. <
5.

G. Calogero, L'immortale, in Quaderno laico, Laterza, Bari 1967, pp. 21-22, la citaz. è a p. 22. <
6.

Ibid. <
7.

Su una possibile distinzione tra «etica» e «morale» cfr. Paul Valadier, Inevitabile morale, (tit. orig. Inévitable morale, 1990), Morcelliana, Brescia 1998. In ogni caso, qualunque sia il significato assegnato alle due parole, rimane il fatto che, per Calogero, è sempre l'Io a decidere di comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, sia che questo lo chiamiamo «etico», «morale» o «immorale». Queste sono definizioni indispensabili, all'interno di una comunicazione, per comprendere a cosa ci stiamo riferendo, ma non determinano affatto l'andamento del nostro agire. Se, ad esempio, vogliamo rispettare gli altri, li rispettiamo perché così decidiamo di fare noi, indipendentemente dal fatto che questa nostra azione venga chiamata «etica», «morale» o «immorale». <
8.

G. Calogero, Un dilemma di Aristotele, in Quaderno laico, cit., pp. 321-322, la citaz. è a p. 322. <
9.

G. Calogero, La scuola dell'uomo, cit., p. 157. <
10.

Mario Peretti, La filosofia del dialogo di Guido Calogero, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 1968, LX, n. 1, pp. 70-95, la citaz. è a p. 76. <
11.

G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 25. <
12.

Ivi, p. 27. <
13.

Cfr. ivi, p. 30. <
14.

Ivi, p. 110. <
15.

Ivi, p. 69. <
16.

Cfr. ivi, p. 105. <
17.

Cfr. Mauro Visentin, La fine della gnoseologia e la posizione del problema speculativo di Guido Calogero, in AA. VV., Guido Calogero a Pisa tra la Sapienza e la Normale, a cura di Claudio Cesa e Gennaro Sasso, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 275-357, si veda p. 283. <
18.

G. Calogero, La scuola dell'uomo, cit., p. 18. <
19.

G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 106. <
20.

Ivi, p. 44. <
21.

G. Calogero, Cinismo e stoicismo in Epitteto, in Saggi di etica e di teoria del diritto, Laterza, Bari 1947, pp. 140-157, la citaz. è a p. 141. <
22.

G. Calogero, Schizzo di una storia dell'etica, in Saggi di etica e di teoria del diritto, cit, pp. 106-139, la citaz. è a p. 110. <
23.

G. Calogero, La scuola dell'uomo, cit., pp. 21-22. <
24.

G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 116. <
25.

Ibid. <
26.

Cfr. ivi, p. 117. <
27.

G. Calogero, La scuola dell'uomo, cit., p. 120. <
28.

Ivi, p. 24. <
29.

Ivi, p. 25. <
30.

Ivi, p. 26. <
31.

G. Calogero, Il criterio etico, in Saggi di etica e di teoria del diritto, cit., pp. 3-22, la citaz. è a p. 3. <
32.

Cfr. G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 200. <
33.

Ivi, p. 184. <
34.

G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 338. <
35.

G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 157. <
36.

Ivi, p. 160. <
37.

Ivi, p. 164. <
38.

G. Calogero, Autonomia ed eteronomia della morale, in Saggi di etica e di teoria del diritto, cit., pp. 48-55, la citaz. è a p. 53. <
39.

G. Calogero, Il criterio etico, cit., pp. 21-22. <
40.

Cfr. G. Calogero, L'uomo, l'automa e lo schiavo, in «La Cultura», 1966, IV, n. 1, pp. 1-11, si veda p. 8. <
41.

Per le affinità tra il principio calogeriano qui schematizzato e il principio etico della filosofia di Karl Otto Apel cfr. il bel saggio di Stefano Petrucciani, Filosofia del dialogo ed etica del discorso: Guido Calogero e Karl Otto Apel, in AA. VV., Guido Calogero a Pisa fra la Sapienza e la Normale, cit., pp. 227-260. <
42.

G. Calogero, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1977, (I ed., 1962; II ed., 1969), p. 73. Altri riferimenti all'indiscutibilità del principio della discussione si trovano disseminati in tutta l'opera calogeriana sul dialogo, cfr. ad esempio G. Calogero, intervento in AA. VV., Ideale del dialogo o ideale della scienza?, a cura di G. Calogero e Ugo Spirito, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1966, pp. 38-71, si vedano le pp. 52-53. <
43.

Ivi, p. 159. <
44.

G. Calogero, Verità e libertà, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 163-167, la citaz. è a p. 165. <
45.

G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 46. <
46.

Raffaele Gambino, Il monologo del dialogo, in «Sapienza», 1961, XIV, nn. 3-4, pp. 294-320, la citaz. è a p. 305. <
47.

Cfr. Mario Peretti, La filosofia del dialogo di Guido Calogero, cit., pp. 88-89. <
48.

G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 44. <
49.

Ivi, p. 45. <
50.

Stefano Petrucciani, Filosofia del dialogo ed etica del discorso: Guido Calogero e Karl Otto Apel, cit., p. 238. <
51.

Cfr. ivi, p. 239. <
52.

Cfr. G. Calogero, Il muro, in Quaderno laico, cit., pp. 29-30, si veda p. 29. <
53.

Cfr. G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 69. <
54.

Cfr. G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., pp. 79-80. <
55.

G. Calogero, Il principio del laicismo, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 279-294, la citaz. è a p. 283. <
56.

G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 117. <
57.

G. Calogero, Il principio del laicismo, cit., p. 280. <
58.

G. Calogero, Religione e laicismo, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 263-268, la citaz. è a p. 268. <
59.

Cfr. ivi, pp. 265-268. <
60.

G. Calogero, Alcune questioni intorno allo spirito di tolleranza, in «La Cultura», 1971, IX, n. 1, pp. 1-14, la citaz. è a p. 5. <
61.

Cfr. G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, I vol. degli Atti del XXII congresso nazionale di filosofia. Padova 24-27 aprile 1969, a cura della Società Filosofica Italiana, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1969, pp. 20-30, si veda p. 28. <
62.

G. Calogero, Moralità e moralismo, in Quaderno laico, cit., pp. 234-236, la citaz. è a p. 236. <
63.

Cfr. G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 69-71, si veda p. 71. <
64.

G. Calogero, Uno scambio di lettere con Jemolo, in Scuola sotto inchiesta, Einaudi, Torino 1965, II ed., (I ed., 1957), pp. 46-56, la citaz. è a p. 50. <
65.

Ibid. <
66.

G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 105. <
67.

Cfr. ivi, p. 106. <
68.

G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 71-78, la citaz. è a p. 77. <
69.

G. Calogero-Norberto Bobbio, Moralità e logica, in «Rivista di filosofia», 1951, XLII, n. 1, pp. 74-91, la citaz. è a p. 89. <
70.

Calogero cita un articolo di Gonseth, dal titolo La loi du dialogue, presente in «Comprendre», luglio 1952, III, nn. 5-6. <
71.

G. Calogero, Principio del dialogo e diritti dell'individuo, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 357-371, la citaz. è a p. 359. <
72.

Ibid. <
73.

G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 131-152, la citaz. è a p. 144. <
74.

Augusto Guzzo, Per una fenomenologia dell'etica e del dialogo, in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 89-114, la citaz. è a p. 112. <
75.

Cfr. G. Calogero, Socratismo e scetticismo nel pensiero antico, in Scritti minori di filosofia antica, Bibliopolis, Roma 1984, pp. 127-135, si veda p. 134. <
76.

Cfr. G. Calogero, introduzione a Platone, Simposio, a cura di G. Calogero, Laterza, Bari 1928, pp. 3-74, si veda p. 38. <
77.

Cfr. ivi, p. 55. <
78.

G. Calogero, Socrate, in Scritti minori di filosofia antica, cit., pp. 106-126, la citaz. è a p. 121. <
79.

Ivi, p. 113. <
80.

Cfr. ivi, p. 115. <
81.

Cfr. G. Calogero, La regola di Socrate, in «La Cultura», 1963, I, n. 2, pp. 182-196, si veda p. 183. <
82.

Ivi, p. 192. <
83.

G. Calogero, Socratismo e scetticismo, cit., p. 133. <
84.

G. Calogero, Contrattualismo e polemica antisofistica nel «Critone», in Scritti minori di filosofia antica, cit., pp. 247-261, la citaz. è alle pp. 259-260. <
85.

Cfr. G. Calogero, Il messaggio di Socrate, in «La Cultura», 1966, IV, n. 3, pp. 289-301, si veda p. 301. <
86.

Cfr. G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 47. <
87.

Cfr. ivi, pp. 48-49. <
88.

G. Calogero, I gusti degli altri, in Quaderno laico, cit., pp. 6-7, la citaz. è a p. 7. <
89.

Aldo Capitini, Apertura e dialogo, in «La Cultura», 1963, I, n. 1, pp. 78-98, la citaz. è a p. 96. <
90.

Cfr. G. Calogero, Apertura e dialogo. Risposta ad Aldo Capitini, in «La Cultura», 1963, I, n. 2, pp. 197-214, si vedano le pp. 198-200. <
91.

Cfr. G. Calogero, ivi, pp. 208-209. <
92.

Ivi, p. 210. <
93.

G. Calogero, Polemica sulla logica e sulla metodologia, in «Rivista di filosofia», 1959, L, n. 3, pp. 336-350, la citaz. è alle pp. 349-350. <
94.

G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Ideale del dialogo o ideale della scienza?, cit., pp. 378-396, la citaz. è a p. 379. <
95.

G. Calogero, Principio del dialogo e diritti dell'individuo, cit., p. 358. <
96.

Cfr. G. Calogero, Comprensione storica e volontà d'intendere, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 169-184, si vedano le pp. 180-181. <
97.

Cfr. G. Calogero, Verità e coesistenza: l'inversione del rapporto etico-metafisico, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 373-386, si veda p. 373. <
98.

G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., pp. 51-52. <
99.

Ivi, p. 52. <

Cyrus
01-02-10, 01:43
ALBERTO LEISS
L'utopía della libertà uguale
Norberto Bobbio, "Teoria generale della politica", Einaudi, pag. 684, lire 58.000
Franco Sbarberi, "L'utopia della libertà uguale", Bollati Boringhieri pag. 218, lire 35.000
Arnaldo Bagnasco, "Tracce di comunità", Il Mulino, pag. 179, lire 20.000
Rispondendo a Guido Calogero, che nel novembre del '45 lo invitava a collaborare alla sua nuova rivista "Liberalsocialismo", Norberto Bobbio scriveva: "Mi interessa e mi piace il programma della tua rivista ( .. ) per quanto l'esperienza ci abbia insegnato che le premesse per una politica "liberalsocialista" in Italia non ci sono, o ci saranno tra due secoli. Faremo i predicatori nel deserto, come del resto "abbiamo sempre fatto...".Di secolo ne è passato solo mezzo, e oggi sembra che la prospettiva più forte, se non l'unica, per ridare "anima", come si dice, e un fondamento etico-teorico alla sinistra erede del socialismo e del comunismo, sia proprio un approccio molto vicino al "liberal-socialismo".
Termine tuttavia controverso ancor oggi. Nel volume recentemente pubblicato da Einaudi che raccoglie, a cura di Michelangelo Bovero, una quarantina dì saggi di Bobbio ordinandoli sotto il titolo "Teoria generale della politica", si ritrova la discussione (pag. 306 e seguenti) che lo stesso Bobbio sviluppa a partire dall'osservazione di Dahrendorf sulla parola "liberalsocíalismo", un "termine italiano che mi sembra leggermente assurdo".Siamo negli anni '90 e il filosofo torinese ripercorre in sintesi la storia europea del "termine leggermente assurdo", rivendicandone la fondatezza e storicizzandone la funzione. Nato per rimediare in nome del socialismo agli effetti pratici negativi del liberalismo, ora è il fallimento del comunismo che lo ha "resuscitato".
Gran parte della genealogia citata da Bobbio in questo scritto è ripresa e sviluppata nel libro di Franco Sbarberi "L'utopia della libertà eguale" (Boringhieri): una galleria di ritratti concettuali che va dal rapporto tra Gramsci e Gobetti alle tesi di Carlo Rosselli, di Guido Calogero, Calamandrei fino allo stesso Bobbio, in un ultimo capitolo denso di informazioni sul carteggio tra Bobbio e Calogero, dal quale abbiamo tratto la citazione iniziale.
Uno degli elementi di interesse, naturalmente, è il rapporto sempre stretto e difficile tra questa tradizione "liberalsocialista" italiana e il comunismo italiano. Dall'amicizia e la stima reciproca tra Gramsci e Gobetti, il quale vedeva nella classe operaia torinese le capacità egemoniche e democratiche "borghesi" che mancavano alla borghesia italiana, alla rozza stroncatura che Togliatti scrisse nel 1931 delle tesi di Rosselli, alla nota frase di Bobbio a Amendola negli anni '60: "Noi abbiamo bisogno della vostra forza, ma voi avete bisogno dei nostri principi". In fondo l'attrazione tra queste due culture politiche può essere rintracciata nel fatto che la sensibilità "sociale" dei comunisti italiani non era impermeabile al tema della libertà, mentre i liberal-socialisti erano ben consapevoli che senza libertà "dal bisogno" non ci sono veri diritti di cittadinanza.
Questa sorta di "pendolo teorico" della sinistra tra libertà e uguaglianza, e che investe il rapporto tra motivazioni etiche della politica e forme della democrazia si è sicuramente spostato dopo l'89 sul primo dei due termini. Ma oggi la discussione torna sui nessi contraddittori tra le due polarità. Passando da un'approccio di teoria politica a uno di sociologia della politica è interessante il percorso del binomio etica-libertà-solidarietà che Arnaldo Bagnasco disegna nel suo "Tracce di comunità" (Il Mulino) calandolo nelle realtà concrete della moderna "società di mercato".Tra l'ottimismo di Antony Giddens per una ripresa di comportamenti sociali razionali liberi e solidali e il pessimismo "morale" di Zygmut Bauman, Bagnasco alla fine sembra inclinare per il secondo, a dimostrazione del fatto che molto lavoro teorico e analitico deve ancora essere fatto da una sinistra orfana del comunismo ma anche dello "stato sociale".

Cyrus
01-02-10, 01:43
ARTURO COLOMBO
Calogero, l'abc della democrazia integrale

Il titolo, specie nella seconda parte, può rendere "datato" il libro di Guido Calogero, uscito nel 1968 (ma il primo saggio risale al 1944) e riproposto adesso a cura di Thomas Casadei, con una testimonianza di Bobbio su "il più giovane dei miei maestri". E invece, a leggere queste pagine, dove si riflette tutta l'intelligenza e la lucidità di stile di quel grande intellettuale che fu Calogero (1904-1986), ci si accorge di avere in mano uno straordinario abc per una moderna convivenza civile, ancora da rendere operante. Altro che riempirci la bocca dello stucchevole slogan odierno, per cui dovremmo già essere tutti "liberaldemocratici"! L'obiettivo di Calogero è un altro. Solo una democrazia "integrale" è in grado di legare insieme le tre sfere del diritto, della politica e della morale, ancora troppo distinte (e distanti), eppure indissolubilmente complementari. Infatti, se non vogliamo rimanere vittime del volto demoniaco del potere, dobbiamo convincerci che la libertà politica è sì indispensabile, ma esige la contemporanea ricerca di una "maggiore eguaglianza possibile": e un simile traguardo, anche in termini economico-sociali, richiede una continua "opera di civiltà", quella concreta fiducia nel gradualismo e nella politica delle riforme, di cui Calogero è stato coerente sostenitore, in polemica coi massimalisti parolai e inconcludenti. Ecco perché il tema dei diritti umani, da garantire a tutti, fuori da ogni ostracismo e discriminazione, diventa il concreto banco di prova, affinché la si faccia finita coi governanti di turno che impongono il bello e il cattivo tempo, e tocchi a ciascuno di noi poter costruire responsabilmente un modo diverso, e meno ingiusto, di "vivere insieme". Può farsi che ci sia una carica etica troppo idealistica nel progetto-programma di Calogero; ma il suo invito al colloquio, al dialogo, al costante "tener conto degli altri" rimane ancora oggi la regola aurea, senza la quale non fruttificherà mai il binomio educazione e democrazia.

Cyrus
01-02-10, 01:44
CORRADO OCONE
Calogero, la lezione del dialogo

A chi è avvezzo agli schematismi e alle semplificazioni, accostarsi alla figura e al pensiero di Guido Calogero (1904-1986) farà senz'altro bene.
Attento conoscitore della logica e della filosofia antica (soprattutto di Platone), Calogero era nel contempo inserito pienamente nei temi e nei moduli espressivi del suo paese e del suo tempo. Aderiva pertanto alla «filosofia dominante» dell'Italia del primo Novecento, quella idealistica, nella versione gentiliana. Eppure riusciva a torcere così tanto i temi e i moduli espressivi del pensiero di Gentile da riuscire a trarne una «filosofia del dialogo» e della democrazia, rigorosamente laica e immanentistica, moderna e persino anticipatrice.
Mai come nel caso di Calogero può dirsi che un autore italiano abbia precorso, con largo anticipo, tematiche e persino espressioni della filosofia contemporanea: in particolare quelle della «democrazia deliberativa» di Apel e Habermas e quelle sul rapporto fra giustizia e libertà del contrattualismo di John Rawls (lo sottolinea, fra l'altro, Thomas Casadei nell'introduzione di Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, Diabasis, Reggio Emilia 2001, pagine 151, euro 15.50, che verrà presentato mercoledì 5 giugno all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici da Maurizio Viroli, Gennaro Sasso, Stefano Petrucciani e Giovanni Melillo).
Cominciamo dalla democrazia. Essa, per Calogero, non coincide semplicemente con un sistema di regole o un insieme di istituzioni, ma significa anche adesione ad una concezione del mondo. Il democratico è infatti colui che confida nella discussione argomentata, nel rispetto delle opinioni altrui, nella decisione da prendere in comune dopo un discorso appropriato volto a soppesare i pro e i contro di ogni problema concreto senza preconcetti e senza filtri ideologici. Le pagine di L'abbiccì della democrazia (che aprono il volume), scritte nell'autunno 1944 nella Roma appena liberata, sono così semplici e lineari da poter sembrare banali (in esse Calogero dice, fra le altre cose, che «la democrazia è dialogo, reciprocità e senso del limite»).
Eppure quelle pagine non dovevano sembrare ovvie a chi allora le leggeva, dopo venti anni di dittatura, quando al discutere ci si era ormai disabituati e si conosceva solo l'asserzione declamatoria e le parole urlate dei potenti di turno. Quelle «regole della discussione», che oggi l'inquinamento mediatico sembra di nuovo farci dimenticare, non erano poi nulla più che le regole del conversare socratico a cui il filosofo antichista aveva a piene mani attinto nell'età della formazione e dei suoi primi importanti scritti speculativi.
Ma ancor più attuale è forse il discorso sul liberalsocialismo (Calogero fondò con Capitini il movimento che doveva poi confluire nella breve esperienza del Partito d'Azione). All'umorale Croce, che lo definiva un ircocervo (cioè un favoloso e ibrido animale: né carne né pesce), Calogero opponeva l'idea della convergenza di giustizia e libertà: io non posso essere libero in astratto, ma devo essere in grado di esercitare la mia libertà e devo vivere in un sistema di relazioni sociali in cui tutti siano di diritto (e possibilmente di fatto) egualmente liberi.
Come dice Bobbio (nella testimonianza che chiude questo interessante libro), già negli anni Quaranta e Cinquanta Calogero guardava all'esperienza del laburismo inglese «come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra». Non dimentichiamo che l’Italia, in quel momento, finita la guerra, era di nuovo divisa in due: questa volta dalle opposte ideologie del marxismo e del cattolicesimo. Calogero non poté che combatterle aspramente (memorabili le sue battaglie per i diritti umani e la scuola laica), anche dalle pagine dei giornali (soprattutto da quelle de «L'Espresso», un giornale che ha contribuito non poco a modernizzare il paese e del quale il professore divenne persino «garante» del lettore).

Cyrus
06-02-10, 17:39
Leonardo Sciascia parlamentare radicale, il caso Moro, il terrorismo, la mafia, il compromesso storico, la giustizia, la partitocrazia
Radio13 novembre 2009 - 12:33 - Di Aurelio Aversa
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Sciascia 16 mag 79 Sciascia 10 agosto 79 Camera Sciascia 3 nov 80 XXIV Cong Pr Sciascia 10 marzo 81 Sciascia 17 dic 79, 24 gen 80, feb 80, 23 lug 80, nov 80, marzo 81, 23 marzo 82, 27 gen 83 Camera Jannuzzi, Sciascia 2 giugno 80 int Sciascia nov 88 conv
Leonardo Sciascia parlamentare radicale, il caso Moro, il terrorismo, la mafia, il compromesso storico, la giustizia, la partitocrazia | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/291131/leonardo-sciascia-parlamentare-radicale-il-caso-moro-il-terrorismo-la-mafia-il-compromesso-storico-la-gius)

Cyrus
06-02-10, 17:39
Giuseppe Di Salvo: LEONARDO SCIASCIA E GL'INCORAGGIANTI SONDAGGI PER I RADICALI. VIVE OGGI LA SUA MEMORIA!
salvo87211
salvo87211
05/06/2009 - 13:08

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Primavera 1979, Leonardo Sciascia accetta la proposta di Marco Pannella di candidarsi al Parlamento italiano in vista delle elezioni politiche anticipate.

Riportiamo parte di un'intervista contenuta nel libro "Leonardo Sciascia, deputato radicale" a cura di Lanfranco Palazzolo, KAOS ed., pp.145-152.

"...So soltanto che l'unica cosa che si muove proprio nel senso della vita contro la morte in questo Paese è il Partito radicale. (...) Il bello del Partito radicale è che non è un partito in senso tradizionale, burocratico, organizzato. E' un partito di indipendenti. (...) Se andassi al Parlamento europeo allora si presenterebbe il problema del Sud. Noi stiamo pigliando sottogamba il Parlamento europeo. Credo che i partiti abbiano adottato il criterio di liberarsi di qualcuno mandandolo al Parlamento europeo. Invece il Parlamento europeo è importante. Bisogna difendere gli interessi del Sud. (...)

Lei sa che i sondaggi di questi giorni dicono che i radicali... cioè tutte le previsioni contemplano una crescita clamorosa del Partito radicale. Qualcuno ha azzardato la previsione del 5%...

E Leonardo Sciascia così rispondeva: "Stando alle apparenze credo di sì. Io sabato sono andato al mio paese. Il mio paese è sempre un barometro per me. Ho incontrato una ventina di persone: almeno sette mi hanno detto che avrebbero votato radicale... giovani e donne."

Sono passasti trent'anni. Noi oggi, in occasione di queste elezioni europee, nei confronti della Lista Bonino-Pannella avvertiamo un clima di disponibilità certamente diverso, ma analogo.

Comunque sia, la memoria di Leonardo Sciascia arricchisce sempre il nostro presente e, come si vede, sta avendo un concreto futuro.

Giuseppe Di Salvo (Giuseppe Di Salvo (http://www.giuseppedisalvo.blog.tiscali.it))

Cyrus
06-02-10, 17:40
20 dicembre 2009

LE INTERPELLANZE PARLAMENTARI DI LEONARDO SCIASCIA

ANDREA CAMILLERI “UN ONOREVOLE SICILIANO” Bompiani, Milano 2009


Scrive Andrea Camilleri “Sciascia è stato e continua a essere sempre un politico, sia che scriva romanzi sia che pubblichi articoli d’attualità destinati a suscitare vivaci polemiche”.


Leonardo Sciascia non è stato e non è un semplice romanziere. I suoi romanzi hanno come protagonista la società italiana. Basta rileggersi “Il Contesto”. Scrive Camilleri “è il potere, qui sotto forma della ragion di Stato, a rendere del tutto impossibile il raggiungimento della verità.” La verità, ecco la regola delle sue scelte. Quasi con rigore calvinista.


Sciascia fu consigliere comunale, a Palermo, eletto come indipendente nelle liste del PCI, senza essere comunista. Eletto nel 1975, nel gennaio successivo si dimise e così spiegò il suo allontanamente “Poiché si doveva stare in consiglio comunale soltanto per lasciare fare le cose che non si dovevano fare, me ne sono andato”.


Successivamente fu candidato e fu eletto in Parlamento con la lista dei radicali di Marco Pannella. Da uomo libero e indipendente, disse, non posso non stare con i radicali, persone libere e indipendenti.


Questo libro raccoglie 19 interpellanze del deputato radicale Leonardo Sciascia. Parlava poco, ma quel poco era di uno spessore particolare. In occasione della discussione di un decreto legge che intendeva prolungare il tempo della carcerazione preventiva disse che l’approvazione sarebbe stata il frutto dell’alleanza “fra la stupidità e la malafede”. Il decreto legge fu approvato il 6 febbraio 1980 con il voto della DC, del PCI, del PSI, del PLI, del PRI, e del PSDI, nonostante l’ostruzionismo dei deputati radicali.


In altra occasione Sciascia disse “Leggi speciali e poteri più ampi fanno demagogia e sono oltre che inutili, ovviamente pericolosi per noi cittadini e per la polizia stessa. Sono soltanto degli sfoghi che i cattivi governi offrono alle polizie incapaci e che finiscono con l’essere esercitati più sui cittadini incolpevoli che sui colpevoli. Sono gesti di disprezzo e non solo verso tutti i cittadini, ma particolarmente verso quei cittadini che di un corpo di polizia fanno parte.”


Una riflessione molto utile anche oggi. Per questo di Sciascia si può parlare anche al presente, non solo al passato.


A dir la verità al libro di Camilleri preferisco la raccolta fatta da Lanfranco Palazzolo per la Kaos edizioni nel 2004 con il titolo “Leonardo Sciascia deputato radicale, 1979 – 1983”. In quella raccolta, oltre alle interpellanze alla relazione di minoranza sul sequestro Moro, presenti anche nel libro di Camilleri, si trovano, tra l’altro, alcuni interventi a Radio Radicale che rendono ancora più eloquente la figura di Sciascia, uomo libero e indipendente. (bl)

Cyrus
06-02-10, 17:41
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Cyrus
06-02-10, 17:42
L’eredità di Leonardo Sciascia
sabato 21 novembre 2009
di pietro ancona

L’Eredità di Leonardo Sciascia

Vengono compiuti vari tentativi di annessione della memoria di Leonardo Sciascia. I cattolici, con un articolo pubblicato dall’Avvenire di oggi, a firma di Vincenzo Arnone, descrivono Sciascia alla ricerca di una fede che in effetti non ebbe mai tranne che nella Ragione; i radicali lo ricordano come membro del loro gruppo parlamentare dove lo vollero nella Commissione Moro e come uomo di punta in tante battaglie per “una giustizia giusta”. In effetti Sciascia trovava congeniale i radicali nei tanti versanti dei diritti civili negati o calpestati, ma sono convinto che se ne sarebbe allontanato come a suo tempo si allontanò dal PCI. Il suo sentimento di giustizia era troppo profondo perchè continuasse un sodalizio con Pannella ed il suo Partito accettandone tutte le politiche. Non credo che avrebbe condiviso la posizione dei radicali per la spartizione della Jugoslavia e di acritico appoggio agli israeliani nella loro opera genocida del popolo palestinese nè credo che condividesse il liberismo radicale per cui i contratti di lavoro debbono essere individuali e trattati soltanto tra datore di lavoro e lavoratore. Si era allontanato dal PCI non condividendone la somiglianza di comportamenti della DC. Il compromesso storico, la teoria che con il 51% non si possa e non si debba governare, era quanto di più lontano potesse esserci dalla sua cultura ed intelligenza razionalista che rifiutava collaborazionismi che diventerebbero cappe di piombo e prigioni per
la società civile. I suoi libri sono popolati da figure di monaci e di preti ma la fede nel cattolicesimo non c’entra per niente. Quando scrive di Monsignor Ficarra “Dalla parte degli infedeli”parla di un Vescovo originario di Canicattì e poi a Patti che nonostante il divieto di Pio XII e le ingiunzioni mafiose del Cardinale Ruffini sposava in chiesa i comunisti e non faceva da spalla alla DC nella sua diocesi. La figura dell’Abate Vella viene disegnata come quella di un leggendario falsario che si era improvvisato conoscitore della lingua araba fino al punto di inventarsi un testo per fare saltare in aria i privilegi feudali o frate Diego La Mattina che uccide l’Inquisitore che lo tiene prigioniero e pretende
la confessione della sua eresia. Tutti i personaggi religiosi di Sciascia non c’entrano niente con la Fede
e tutta la sua opera ne è assai distante. In Todo Modo lo sfondo è l’Istituzione Religiosa dove si consumano i delitti dei tre giorni di esercizi spirituali tra politici, banchieri, industriali. Istituzione come ricettacolo e sede del Potere e della sua malvagia logica di morte.
Venti anni dopo la sua morte, la realtà ha travalicato di molto la sua visione pessimistica.
La democrazia si è mostrificata e l’Italia è diventata un paese di gran lunga più incivile e malvagio di quanto non fosse durante la vita di Sciascia. Morì poco dopo il crollo del muro di Berlino
che avrebbe salutato come fatto di liberazione e di libertà ma che, se fosse vissuto fino ai nostri giorni,avrebbe analizzato anche come il via libera ad una nuova fase di sfruttamento e di crudeltà sociali del capitalismo. In Italia stanno diventando famigerate le prigioni dove i detenuti vengono picchiati e molti di loro si uccidono. Ad oggi sono 65 dal primo gennaio di quest’anno. L’Italia si è dato leggi razziste che differenziano le pene a seconda del colore della pelle. Abbiamo un ministro
che incita ad essere “cattivi” verso gli immigrati ed i poveri. I senza casa vengono schedati dalla polizia. I rom vengono allontanati dalle ruspe e dagli incendi dei loro miseri accampamenti. I giovani italiani, a milioni, vengono sfruttati con i mille sotterfugi della legge Biagi. Il Parlamento serve soltanto per votare, senza discutere, i decreti predisposti dal Padrone dello Stato che pretende per se di stare al disopra della Legge come gli antichi Faraoni. I deputati ed i senatori sono diventati Oligarchi con privilegi scandalosi.
Venti anni dopo la sua morte tutto è degenerato e la società italiana è in avanzato stato di decomposizione. Si è realizzata nel peggiore dei modi la società asociale della signora Tatcher.
Stamane, ho visto vicino casa mia una anziana signora frugare in un cassonetto di immondezze per prendervi un vecchio e moscio broccolo buttatovi dal fruttivendolo. Una signora vestita con decenza munita di un borsone con carrello con il quale (presumo) si fa il giro dei cassonetti della città.
I mostri nascosti alla vista nel mistero del Potere al quale il nostro grande scrittore si è accostato tante volte
sono in parte usciti allo scoperto. Al suo laico civilissimo ragionare oppongono la rozzezza brutale del “me ne frego” fascista. L’Italia di oggi è distantissima dalla civiltà della Ragione di cui Leonardo Sciascia era esponente. La Mafia è al potere.

Pietro Ancona
medioevo sociale (http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/)
Informazione laica - di sinistra - pacifista - per il socialismo e la libertà (http://www.spazioamico.it)

Cyrus
06-02-10, 17:43
A. Maori: Leonardo Sciascia Elogio dell'eresia PDF Stampa E-mail

Maggio 1995

Nel riordinare per due anni l'archivio del Partito Radicale a Roma Andrea Maori si è imbattuto in un cospicuo numero di interventi politici di Leonardo Sciascia. Solo una parte di essi - come gli interventi parlamentari di recente pubblicazione - era nota, mentre la maggioranza era per lo più sconosciuta.
Da qui l'idea di un accurato saggio critico che, senza mai perdere di vista il lettore, perseguisse l'obiettivo dell'invito a meditare nuovamente sulle parole note, meno note, dimenticate o ignorate di Leonardo Sciascia.
A. Maori
LEONARDO SCIASCIA
Elogio Dell'Eresia


cp_eler.jpg ANDREA MAORI

LEONARDO SCIASCIA -

Elogio dell'Eresia

L'impegno fuori e dentro il Parlamento, per i diritti civili, per una giustizia giusta (1979-1989)
Con una prefazione di Massimo Teodori
un ricordo di Gianluigi Melega
una nota di Marco Pannella
e due disegni inediti di Mino Maccari
Porte aperte, 1
160 pp. - L. 20.000
88-86314-35-3
f.to 12 x 17 cm

maggio 1995


il libro

Nel ripercorrere la sua vita pubblica, così come affiora da queste pagine circostanziate (che vanno dalle numerose prese di posizione sul fenomeno mafioso al rapimento del magistrato d'Urso, dal rifiuto della Legge Cossiga al caso Moro, dall'affaire Tortora al referendum sulla responsabilità dei giudici, fino alla lotta contro lo sterminio per fame), prende vita un personaggio che non è solo scrittore e fine polemista interessato alla realtà, ma uomo la cui pagina è la cosa più vicina all'azione che si possa immaginare, pagina che diventa azione essa stessa.

La messa a fuoco di questo aspetto dell'opera di Leonardo Sciascia, finora schermata da un perdurante silenzio, rotto talvolta da fiammeggianti polemiche postume, è il rispettoso contributo di ricerca del libro che inaugura la collana Porte aperte, curata dalla associazione degli Amici di Leonardo Sciascia, per una controstoria del'Italia letteraria e civile nel segno del grande scrittore scomparso.

l'autore

Andrea Maori (Perugia, 1960), da anni impegnato nel riordino di archivi pubblici e privati, ha già al suo attivo, tra l'altro: L'obiezione di coscienza al servizio militare: un diritto in profonda evoluzione, (1987) e Gli eretici della pace, breve storia dell'antimilitarismo pacifista dal fascismo al 1979, (1988).

l'indice dei capitoli

* Prefazione
* Introduzione

leonardo sciascia, elegio dell'eresia
* L'elezione a deputato nel 1979

1. Perché con i radicali
2. La polemica con Renato Guttuso e Lucio Lombardo Radice
3. L'analisi del calo elettorale comunista

* Gli interventi parlamentari

1. Discussione sul programma del governo Cossiga
2. Il caso Cossiga-Donat Cattin
3. Leggi speciali e decreti antiterrorismo
4. Gli interventi sulla mafia
5. Le ammissioni del ministro Franco Evangelisti
6. La ricostruzione della Valle del Belice
7. Il caso Pecorelli

* La commissione sulla strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro

1. La conflittualità nella commissione
2. Le domande ad Andreotti
3. La polemica con Berlinguer
4. La relazione di minoranza
5. Le conseguenze per la dc della morte di Moro.

* Il rapimento del magistrato D'Urso

1. Le dichiarazioni delle brigate rosse
2. La linea della fermezza
3. La chiusura dell'Asinara
4. Il black-out
5. Gli appelli.

* L'affaire Tortora

1. L'arresto di Tortora
2. La campagna per una giustizia giusta
3. Il referendum sulla responsabilità dei giudici

* Le iniziative radicali

1. I referendum del 1981
2. La lotta contro lo sterminio per fame. Il digiuno nonviolento di Marco Pannella
3. Marco Pannella al congresso del msi-dn
4. Marco Pannella e lo Stato di diritto
5. Dichiarazioni di voto per le liste radicali nel 1983.

* Identikit del mio collega deputato radicale Leonardo Sciaiscia di Gianluigi Melega
* Con Leonardo di Marco Pannella
* Indice dei nomi

Cyrus
06-02-10, 17:44
Leonardo Sciascia

Una contraddizione in nome della vita, della speranza
“Accettando di essere candidato del Partito Radicale nelle prossime elezioni per il Parlamento nazionale ed europeo, so di contraddirmi rispetto a dichiarazioni che anche recentemente ho fatto sulla mia vocazione e decisione di essere soltanto scrittore. Ma un uomo vivo ha diritto alla contraddizione. Mi piacerebbe anzi che l’epigrafe sulla mia vita fosse semplicemente questa: “Contraddisse e si contraddisse”. Una contraddizione, appunto, in nome della vita, in nome della speranza.
(da “Notizie Radicali” del 27 aprile 1979)

Perché con i radicali. Il mio programma è la verità
“E’ stata una decisione improvvisa e sorprendente anche per me. Ero fermamente deciso a non entrare in nessuna competizione elettorale, con nessun partito, con nessuno dei partiti che potevano interessarmi, che sono una ristrettissima area per altro. Poi mi sono incontrato con Pannella, ed è accaduto questo fatto imprevisto della mia accettazione. Ecco, non so se è una spiegazione, ma comunque posso dire quel che pensavo: mentre Pannella mi parlava, io pensavo per esempio a quel dialogo di Pasternak con Stalin, per telefono. Una volta Pasternak aveva chiesto di parlare con Stalin per perorare la causa di Mandelstam, il poeta che era stato arrestato. E una sera suona il telefono. Pasternak va a rispondere, era Stalin. Parlando di Mandelstam, molto duramente da parte di Stalin, e poi a un certo punto Pasternak dice: ‘Vorrei incontrarvi’. ‘E perché?’, domanda Stalin. ‘Ma – dice Pasternak – per parlare della vita e della morte’, ed a questo punto sente il telefono che si chiude. Stalin non voleva parlare della vita e della morte, si capisce. Ecco, io ho pensato che bisognava parlare della vita e della morte in questo paese, e che ne parlassi io come scrittore…e in quel partito, i radicali, che è l’unica cosa che si muove proprio nel senso della vita e contro la morte”.
(da “Telegiornale del Giornale di Sicilia” 5 maggio 1979)

Voglio confondere politica con etica
“Parlando di politica Borges diceva – in un’intervista di quindici anni addietro – che se ne era occupato il meno possibile, tranne che nel periodo della dittatura. Ma quella – aggiungeva – non era politica, era etica. Al contrario, io mi sono sempre occupato di politica; e sempre nel senso etico. Qualcuno dirà che questa è la mia confusione o il mio errore: il voler scambiare la politica con l’etica. Ma sarebbe una ben salutare confusione e un bel felice errore se gli italiani, e specialmente in questo momento, vi cadessero. Io mi sono deciso, improvvisamente a testimoniare questa confusione e questo errore nel modo più esplicito e diretto del far politica; e col partito che, in questo momento, meglio degli altri, e forse unicamente, lo consente”.
(da “Tuttolibri” del 9 maggio 1979)

No all’indifferenza, no all’ignavia
“Per quel che il Partito Radicale nella sua nonviolenza, vuole e tenta di fare e fa, credo si possa usare il verbo rompere in tutta la sua violenza morale e metaforica. Rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto tra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane; rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata; e così via…
Come dice il titolo di un libro di Jean Daniel, questa è l’era della rottura – o soltanto l’ora.
Non bisogna lasciarla scivolare sulla nostra indifferenza, sulla nostra ignavia”.
(da “Notizie Radicali” del 15 maggio 1979)

Manzoni, per combattere la mafia
“C’è un rischio. Il rischio è questo: tutti si occupano di mafia. Tranne la polizia. Non si può perdere di vista questo: di mafia si deve occupare anche e soprattutto la polizia. Poi va benissimo che se ne parli a scuola, nelle famiglie, sui giornali e ovunque. L’educazione civica totale si può fare anche attraverso la letteratura italiana. Se il professore, quando arriva ad aprire il capitolo dei “Promessi Sposi” al capitolo dei bravi, si ferma a dire: guardate, questa è la Lombardia del Seicento. La Lombardia di oggi non ha più questi fenomeni, mentre in altre regioni noi li abbiamo. La Lombardia non li ha più perché ha avuto la fortuna di avere il governo austriaco di Maria Teresa; e se spiega in che cosa consisteva il governo di Maria Teresa, l’illuminismo austriaco, allora credo che si avrebbe una nozione della mafia molto più precisa di quella che si può trovare nei testi mafiologhi”.
(a un gruppo di studenti di Lipari che, nel maggio del 1984 lo interrogava sulla mafia)

Cyrus
06-02-10, 17:45
Come Leonardo Sciascia fu messo ai margini della società civile
Blogroll
Blogroll
09/01/2007 - 16:03

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di Roberta Jannuzzi Pierluigi Battista, qualche giorno fa sulla prima pagina della Cultura del Corriere della sera, ha auspicato il riconoscimento della «necessià di chiedere scusa a Leonardo Sciascia per il trattamento riservatogli» vent'anni fa in occasione della pubblicazione sullo stesso giornale, allora diretto da Piero Ostellino, dell'articolo intitolato *I professionisti dell'antimafia*. L'auspicio è rivolto innanzitutto agli animatori del *Coordinamento antimafia* che nel gennaio del 1987 collocarono lo scrittore siciliano ai margini della società civile e in un documento anonimo lo definirono un «quaquaraquà», ma anche a firme come Marcelle Padovani, Giampaolo Pansa, Eugenio Scalfari, e a tutti coloro che, con l'eccezione dei Radicali ai quali Sciascia si era avvicinato, fecero il vuoto intorno a lui. L'*ammiraglia delle polemiche*, come è stata più volte definita, è stata ricostruita anche da Attilio Bolzoni su *Repubblica* e da Leoluca Orlando in un'intervista a Sandra Amurri per l'*Unità*, in cui l'ex sindaco di Palermo distingue le parole di Sciascia dall'uso degli *sciasciani di borgata* che a suo dire le strumentalizzarono. ### **Le *scuse dovute* a Leonardo Sciascia** [Radioradicale.it](RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/)), sulle *scuse dovute* a Leonardo Sciascia, ha pubblicato un [approfondimento]((Le scuse dovute a Leonardo Sciascia | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/le-scuse-dovute-a-leonardo-sciascia-0)) in cui sono raccolti tutti gli articoli pubblicati sui quotidiani in questi giorni e, soprattutto, alcuni documenti d'archivio. A cominciare da quell'articolo del 10 gennaio 1987 con cui lo scrittore di Racalmuto conclude *simbolicamente* la sua collaborazione con il *Corriere della sera*. > Partendo dall’analisi dello storico inglese Christopher Duggan sul fenomeno criminale sotto il fascismo, Sciascia arriva alla conclusione che anche nel sistema democratico può avvenire che qualcuno tragga profitto personale dalla lotta alla delinquenza organizzata. E’ il caso ipotetico (in cui, tuttavia, si intravede il profilo dell’allora sindaco di Palermo, Leoluca Orlando) dell’uomo pubblico che esibisce il suo impegno contro le cosche e trascura i propri doveri amministrativi. E’ il caso effettuale dell’assegnazione del posto di procuratore della Repubblica di Marsala a Paolo Borsellino da parte del Consiglio superiore della magistratura, con superamento in graduatoria degli altri candidati. Il 16 gennaio 1987 il quotidiano di Via Solferino apre in prima pagina con il titolo *Perché siamo con Sciascia*. *Il Corriere della Sera* si schiera contro i *chierici dell’intolleranza*. >Scrive Piero Ostellino, allora direttore: «Di fatto, si rimprovera a Sciascia di aver adempiuto alla sua funzione di uomo di cultura, cioè di aver rimesso in discussione i luoghi comuni, la retorica, che nascono, all’interno della collettività civile, anche in rapporto a iniziative rispettabilissime. E la tecnica usata è quella di sempre: l’equiparazione dell’anticonformista al nemico. E’ una vecchia storia che si ripete. (…) Non ci sorprende, dunque, che ci sia chi scrive di non riconoscerlo più perché, in realtà, non lo ha mai conosciuto. Sciascia è di un’altra pasta rispetto ai suoi detrattori, ai chierici del pensiero totalizzante». La collaborazione di Leonardo Sciascia con il *Corriere della sera* comincia qualche anno prima con la rubrica *Nero su Nero*. Il rapporto è alterno: dal 1962 al 1972, quando alla direzione c’è Giovanni Spadolini. Poi, dopo qualche anno, sotto la direzione di Piero Ottone, che ospita voci e istanze nuove, cambiando ruolo alla figura del letterato che da pagina tre si sposta in prima pagina. Sciascia si allontana simbolicamente dal quotidiano proprio il 10 gennaio 1987, giorno della pubblicazione dell’articolo sui professionisti dell’antimafia. I pochi articoli che seguono insistono sullo stesso tema. A proposito, un blog che si chiama [Penalpolis.splinder.com](le riflessioni di sciascia | penalpolis (http://penalpolis.splinder.com/post/10443547)) riporta alcuni stralci di un articolo pubblicato dal *Corriere della sera* del 26 gennaio 1987. Sciascia stavolta parla della *cultura del sospetto* e della *cultura delle manette* delle quali solo qualche anno dopo farà le spese gran parte della classe politica. > Scrive Sciascia: «La democrazia non è impotente a combattere la mafia. O meglio: non c'è nulla nel suo sistema, nei suoi principi, che necessariamente la porti a non poter combattere la mafia, a imporle una convivenza con la mafia. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia. Se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette -come alcuni fanatici dell'antimafia in cuor loro desiderano - saremmo perduti irrimediabilmente...» Il *pensiero totalizzante* che rispuntava allora nelle tesi degli accusatori dello scrittore siciliano, secondo Piero Ostellino, rispunta oggi nelle tesi di Nando Dalla Chiesa, che replica a Pierluigi Battista dalle pagine dell'*Unità*. >«Sono giunto alla conclusione che non ci sia da chiedere scusa di nulla». A proposito il sottosegretario all’Università e alla ricerca, fondatore della Rete e poi coordinatore a Milano della Margherita, rievoca la sera del 25 giugno del 1992, quando alla Biblioteca comunale di Palermo si svolge un dibattito in cui, tra gli altri, prende la parola Paolo Borsellino. Giovanni Falcone è stato assasinato non più di un mese prima, Borsellino lo sarà di lì a poco. In quell’intervento, il suo ultimo intervento pubblico, - racconta Dalla Chiesa - Borsellino fa «la ricostruzione storica della campagna volta a distruggere e deligittimare i magistrati palermitani impegnati sulla trincea della lotta alla mafia». Scrive ancora Dalla Chiesa: «A un certo punto fece una pausa e disse: *Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia*». Per la verità, le cronache raccontano anche di un chiarimento nel gennaio del 1989 tra Sciascia e Borsellino. Nel luglio del 1991, a Racalmuto, quando lo scrittore è già scomparso da qualche anno, partecipando a un faccia a faccia con Claudio Martelli, Borsellino accenna a un incontro e dichiara: «Scontro tra me e Sciascia non ve ne fu». *Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia*, avrebbe detto Paolo Borsellino durante l'intervento pubblico citato da Nando Dalla Chiesa, quello di poche settimane precedente al suo assassinio insieme con la scorta. E tuttavia, nella registrazione che abbiamo trovato nell'archivio di *Radio Radicale*, il magistrato individua in due momenti l'inizio di quel processo che porterà alla strage di Capaci. Il primo è stato ricordato da Leoluca Orlando, che è intervenuto prima di lui. Il secondo è la nomina da parte del Csm, a capo dell'ufficio istruzione, dopo la vittoria di Giovanni Falcone nel maxiprocesso del 1987, del consigliere Antonino Meli, che poi avocò a sé tutti gli atti. >Dichiara Paolo Borsellino: «Ho letto giorni fa, oppure ho ascoltato alla televisione, una affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone, che è stato ucciso or sono un mese, cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988, che questa strage del maggio 1992 sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero. Perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo di come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura (che forse ha più colpe di ogni altro), cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che or ora ha ricordato Leoluca Orlando. Cioé quella dell'articolo di Leonardo Sciascia sul *Corriere della sera*, che bollava me come un professionista dell'antimafia e l'amico Leoluca Orlando come un professionista dell'antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Giovanni Falcone manifestò la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo». Entrambi i documenti, il faccia a faccia di Racalmuto tra Martelli e Borsellino, così come l'ultimo intervento pubblico del magistrato antimafia a Palermo, sono disponibili in audio e scaricabili nell'approfondimento di *Radioradicale.it*. ### I protagonisti: Nando Dalla Chiesa Un paragrafo a parte merita il ricordo di come nacque la polemica tra Nando Dalla Chiesa, [www.nandodallachiesa.it](http://www.nandodallachiesa.it/public/index.php), e lo scrittore siciliano entrato in Parlamento con i Radicali. >Leonardo Sciascia, nel febbraio 1982, come membro della Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, interroga il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa sulla scomparsa del *Memoriale Moro*, ovvero delle prime copie della trascrizioni degli interrogatori da parte delle Brigate Rosse. Nel settembre del 1982, dopo la nomina a prefetto di Palermo e l'assassinio di Dalla Chiesa, il deputato radicale, rifiutatosi di elogiare la sua azione incondizionatamente, viene accusato dal figlio del generale, Nando Dalla Chiesa, di voler «fare il gioco della mafia». La polemica si riapre nel 1987. Nel 1993, in un libro-intervista sulla *nuova resistenza* al *regime della corruzione*, Nando Dalla Chiesa dichiara: «La funzione legittimatrice di Sciascia sta a questo regime come quella di Gentile sta al fascismo». ### Francesco Petruzzella Quanto all'autore del documento anonimo del Coordinamento antimafia che, usando la sua stessa classificazione, definì lo scrittore siciliano un «quaquaraquà», ne parleremo invece tra qualche istante leggendo un altro articolo di Attilio Bolzoni, pubblicato da *Repubblica* e linkato nell'approfondimento. Prima, però, riprendiamo quel famoso passo tratto dal *Giorno della civetta* e riportato da un blog che ha un indirizzo piuttosto illegibile e che suona più o meno così [P t Fà Capì Comm A Penz](Grande Sciascia... - Windows Live (http://ptfacapicommapenz.spaces.live.com/Blog/cns!8477F9EECC972B28!216.entry)). >«Umanità bella parola, piena di vento, io la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaraquà… pochissimi gli uomini, i mezzi uomini pochi, che mi contenterei che l’umanità si fermasse qui… e invece no, scende ancora più in giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi. E ancora più in giù, i piglianculo, che stanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, perché la loro vita non ha più senso». La vita di Leonardo Sciascia non aveva più senso, almeno secondo Francesco Petruzzella, tra i fondatori del Coordinamento antimafia e autore del documento. Di fatto lo scrittore muore due anni dopo. Nel 1987, Petruzzella, ha ventiquattro anni, è laureato in giurisprudenza e fa pratica con le parti civili al maxiprocesso. Oggi fa l'impiegato pubblico e, come Dalla Chiesa, tiene a precisare che non si pente di nulla. La storia del Coordinamento antimafia è invece ricostruita in una sorta di opuscolo online che si chiama [Mnemonia.altervista.com](Storia del movimento antimafia: 1979-oggi - Antimafia civile, antimafia sociale, antimafia istituzionale dagli anni 80 a oggi (http://mnemonia.altervista.org/antimafia/oggi.php)) e su [Centroimpastato.it](CSD - Thesaurus - Definizioni della mafia (http://www.centroimpastato.it/tesauro/antimafia.htm)). > «Nel 1984 il Centro Impastato dà vita al Coordinamento antimafia, che coinvolge sulla carta 38 organizzazioni, ma di fatto 19 di esse non parteciperanno a nessuna riunione. I problemi sono diversi: coordinare realtà eterogenee, gestire la precarietà di associazioni, nate spesso sulla scia dell'emozione per i grandi delitti, che spesso hanno vita breve, trovare una via unitaria rispetto alle forze politiche e sindacali. La strada del Coordinamento sarà spesso autonoma e alternativa rispetto a quella delle manifestazioni ufficiali, rispetto alle caute iniziative della Curia, del PCI e delle ACLI (associazioni cristiane lavoratori italiani)». ### Tano Grasso Diverse da quelle di Dalla Chiesa e Petruzzella le dichiarazioni di un altro esponente della società civile. Si tratta di Tano Grasso, presidente della prima associazione antiracket costituita in Italia, che nell'ultimo intervento di Paolo Borsellino a Palermo, quello citato da Dalla Chiesa, sedeva accanto all'ex procuratore di Trapani. Grasso, ripreso da moltissimi blog (tra gli altri, [Mafiazero.blog](MAFIA ZERO: Riprendendo Sciascia (http://mafiazero.blogspot.com/2007/01/riprendendo-sciascia.html))), a *Repubblica* dichiara: >«Io che sono un professionista dell'antimafia, e non me ne vergogno, vi dico che vent'anni fa Leonardo Sciascia aveva ragione. Ma come non bisognava strumentalizzarlo allora, bisogna evitare di farlo oggi». ### Leoluca Orlando Quanto a Leoluca Orlando nell'approfondimento trovate il link all'articolo pubblicato da *Il Giornale* in cui Lino Jannuzzi racconta di una visita dell'ex sindaco di Palermo a Leonardo Sciascia avvenuta nel 1989: >«Ero a Palermo, a casa di Scascia, due anni dopo quell’articolo, una settimana prima che morisse. Sciascia era pallido, magrissimo, sofferente, girava per lo studio in pigiama, non si vestiva più, non usciva nemmeno per andare a farsi la dialisi. Mi allontanai per qualche ora perché Sciascia doveva ricevere Leoluca Orlando, che insisteva da tempo per parlargli. Quando tornai, lo trovai seduto sulla poltrona, lo sguardo perso nel vuoto. Restò a lungo silenzioso, poi mi disse, prima che glielo chiedessi: “Ha parlato solo lui. Non ho capito perché ha voluto vedermi. Ha parlato contro i magistrati e la Procura di Palermo, forse per scusarsi della polemica di due anni fa. Ha detto che io resterò nella storia e che mi portava la stima della città. Ho capito che sono finito. Siamo finiti…». ### Leonardo Sciascia e i Radicali Fin qui l'approfondimento su Leonardo Scascia pubblicato da *Radioradicale.it*. Alle motivazioni, *attualissime*, che spinsero lo scrittore ad avvicinarsi ai Radicali è dedicato invece un editoriale di Gualtiero Vecellio, pubblicato sul quotidiano online, [Notizie Radicali](:: Radicali.it :: (http://www.radicali.it)), e rispreso da alcuni blog ([Ecosperanze.splinder.com](| Ecosperanze...dove batte il cuore del Petrolchimico (http://ecosperanze.splinder.com/post/10445716)), [Tellusfolio.it](TELLUS folio (http://www.tellusfolio.it/index.php?prec=%2Findex.php&cmd=v&id=2183))). > «È stata una decisione improvvisa e sorprendente anche per me. Ero fermamente deciso a non entrare in nessuna competizione elettorale, con nessun partito, con nessuno dei partiti che potevano interessarmi, che sono una ristrettissima area, peraltro». Così raccontava Leonardo Sciascia a chi gli chiedeva come mai aveva accettato la candidatura nelle liste radicali, per quelle elezioni – era il 1979 – contrassegnate dal simbolo della Rosa nel Pugno. «Poi mi sono incontrato con Pannella», aggiungeva Sciascia, «ed è accaduto questo fatto imprevisto della mia accettazione». Fatto imprevisto, ma meno sorprendente di quanto, a prima vista, poteva sembrare. Lo stesso Sciascia dava a quel suo SÌ una spiegazione che si ricava da quello che pensava nei minuti in cui Pannella, volato a Palermo, gli chiedeva di scendere in campo in prima persona. «Io pensavo», raccontò poi Sciascia, «a quel dialogo di Boris Pasternak con Stalin, per telefono. Una volta Pasternak aveva chiesto di parlare con Stalin per perorare la causa di Mandelstam, il poeta che era stato arrestato. E una sera suona il telefono. Pasternak va a rispondere ed era Stalin. Parlano di Mandelstam, molto duramente da parte di Stalin, e poi ad un certo punto Pasternak dice: vorrei incontrarvi. E perché?, domanda Stalin. Per parlare della vita e della morte, dice Pasternak; e a questo punto sente il telefono che si chiude. Stalin non voleva parlare della vita e della morte, si capisce». Finisce il racconto, e Sciascia conclude: «Ecco: io ho pensato che bisognava parlare della vita e della morte, in questo paese». E infine: «Io penso che Pannella intenda la democrazia nel senso pieno, totale della parola: parlare con tutti. So che l’unica cosa che si muove, nel senso della vita contro la morte, in questo paese, sono i radicali…». >Blogroll è la rassegna settimanale che Radio Radicale dedica ai blog e alle riviste on line. La trasmissione va in onda ogni martedì sera dopo le 23 in chiusura della programmazione. A curarla tre redattori di Radioradicale.it e blogger a loro volta: Roberta Jannuzzi ([www.robba.net](http://www.robba.net/)), Michele Lembo ([www.michelelembo.blogspot.com](http://michelelembo.blogspot.com)) e Federico Punzi ([www.jimmomo.blogspot.com](http://jimmomo.blogspot.com)). Tutte le puntate sono scaricabili in formato mp3 e disponibili in podcasting nella pagina delle [Rubriche di Radioradicale.it](RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/rubriche)). In queste pagine ogni settimana sono pubblicati i link dei blog e i permalink dei post segnalati durante la trasmissione. Per scrivere a Blogroll, [blogroll@radioradicale.it](mail to:blogroll@radioradicale.it)

Cyrus
06-02-10, 17:45
Leonardo Sciascia
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Monogramma della Camera dei deputati Parlamento Italiano
Camera dei deputati
On. Leonardo Sciascia
Leonardo Sciascia
Luogo nascita Racalmuto
Data nascita 8 gennaio 1921
Luogo morte Palermo
Data morte 20 novembre 1989
Titolo di studio Diploma magistrale
Professione scrittore
Partito Partito Radicale
Legislatura VIII
Gruppo Partito Radicale
Coalizione
Circoscrizione
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Collegio Roma
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Senatore a vita
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Data {{{data_nomina_senatore_a_vita}}}
Incarichi parlamentari

* Componente della 3a Commissione (Esteri) dall'11 luglio 1979 al 26 luglio 1979
* Componente della 11a Commissione (Agricolture e Foreste) dal 26 luglio 1979 all'11 luglio 1983
* Componente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia dal 20 dicembre 1979 al 7 marzo 1980 e dal 20 marzo 1980 al 29 giugno 1983

Pagina istituzionale

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) è stato uno scrittore, saggista e politico italiano.
Indice
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* 1 Biografia
o 1.1 Gli studi: il periodo nisseno
o 1.2 Le prime opere: poesie e saggi
o 1.3 A Roma: I racconti
+ 1.3.1 Gli zii di Sicilia
o 1.4 A Caltanissetta: i romanzi
o 1.5 Il ritorno al saggio
o 1.6 La commedia
o 1.7 Il ritorno al romanzo
o 1.8 A Palermo
o 1.9 La pensione
o 1.10 Il ritorno al genere poliziesco
o 1.11 L'incarico politico
o 1.12 I contatti con la cultura francese
o 1.13 L'inchiesta sulla strage di via Fani
o 1.14 Gli ultimi anni di vita
o 1.15 La morte
* 2 Amici di Leonardo Sciascia
* 3 Riconoscimenti
* 4 Bibliografia
o 4.1 Opere di Leonardo Sciascia
o 4.2 Monografie dedicate a Leonardo Sciascia
o 4.3 Articoli su testate nazionali
o 4.4 Articoli, recensioni, testi su Il giorno della civetta
* 5 Recensioni e studi sull'opera di Sciascia
* 6 Sciascia al cinema
* 7 Note
* 8 Altri progetti
* 9 Curiosità
* 10 Voci correlate
* 11 Collegamenti esterni

Biografia [modifica]

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, in provincia di Agrigento (allora chiamata Girgenti), primo di tre fratelli, da un impiegato, Pasquale Sciascia, e da una casalinga, Genoveffa Artorelli. La madre proviene da una famiglia di artigiani mentre il padre è impiegato presso una delle miniere di zolfo locali e la storia dello scrittore ha le sue radici nella zolfara dove hanno lavorato il nonno e il padre.
Gli studi: il periodo nisseno [modifica]

A sette anni Sciascia inizia la scuola elementare a Racalmuto e ben presto si dimostra intenso lettore. Nel 1935 si trasferisce con la famiglia a Caltanissetta dove si iscrive all'Istituto Magistrale "IX Maggio" nel quale insegna Vitaliano Brancati, che diventerà il suo modello e che lo guida nella lettura degli autori francesi, mentre l'incontro con un giovane insegnante, Giuseppe Granata (che fu in seguito senatore comunista), gli fa conoscere gli illuministi e la letteratura americana.

Nel capoluogo nisseno trascorrerà gli anni più indimenticabili della sua vita, come lui stesso confessa nella sua autobiografia, fatti delle prime esperienze e delle prime scoperte della vita oltre ad imprimersi la sua formazione culturale.

Richiamato alla visita di leva viene considerato per due volte non idoneo, ma alla terza viene finalmente accettato e assegnato ai servizi sedentari.

Nel 1941 prende il diploma magistrale e nello stesso anno si impiega al Consorzio Agrario, occupandosi dell'ammasso del grano a Racalmuto, dove rimane fino al 1948. Ebbe così modo di avere un rapporto intenso con la piccola realtà contadina.

Nel 1944 si unisce in matrimonio con Maria Andronico, maestra nella scuola elementare di Racalmuto. Da lei Sciascia avrà le sue due figlie, Laura e Anna Maria.

Il suicidio del fratello Giuseppe, avvenuto nel 1948, sconvolge Sciascia lasciandogli un profondo segno nell'animo. Nel 1949 inizia ad insegnare nella scuola elementare di Racalmuto.
Le prime opere: poesie e saggi [modifica]

Nel 1950 pubblica le "Favole della dittatura", che Pier Paolo Pasolini nota e recensisce. Il libro comprende ventisette brevi testi poetici.

Nel 1952, esce la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore, che viene illustrata con disegni dello scultore catanese Emilio Greco.

Nel 1953 vince il Premio Pirandello, assegnatogli dalla Regione Siciliana per il suo saggio "Pirandello e il pirandellismo".

Inizia nel 1954 a collaborare a riviste antologiche dedicate alla letteratura e agli studi etnologici, assumendo l'incarico di direttore di «Galleria» e de «I quaderni di Galleria» edite dall'omonimo Salvatore Sciascia di Caltanissetta.

Nel 1954 Italo Calvino scrive, riferendosi a un'opera di Sciascia:
« Ti accludo uno scritto d'un maestro elementare di Racalmuto (Agrigento) che mi sembra molto impressionante »

(Lettera di Italo Calvino a Alberto Carocci, 8 ottobre 1954)

Nel 1956 pubblica "Le parrocchie di Regalpetra", una sintesi autobiografica dell'esperienza vissuta come maestro nelle scuole elementari del suo paese. Nello stesso anno viene distaccato in un ufficio scolastico di Caltanissetta.
A Roma: I racconti [modifica]
Gli zii di Sicilia [modifica]

Nell'anno scolastico 1957-1958 viene assegnato al Ministero della Pubblica Istruzione a Roma e in autunno pubblica i tre racconti che vanno sotto il titolo "Gli zii di Sicilia". La breve raccolta si apre con la "La zia d'America", un tentativo di dissacrare il mito dello "Zio Sam", visto come dispensatore di doni e libertà.

Il secondo racconto è intitolato "La morte di Stalin", nel quale, ancora una volta, il personaggio è un mito, quello del comunismo che viene incarnato, agli occhi del siciliano Calogero Schirò, da Stalin. Il terzo racconto, "Il quarantotto", è ambientato nel periodo del Risorgimento (precisamente tra il 1848 e il 1860) e tratta del tema dell'unificazione del Regno d'Italia vista attraverso gli occhi di un siciliano. Nel racconto l'autore vuole mettere in evidenza l'indifferenza ed il cinismo della classe dominante affrontando un tema già trattato da Federico De Roberto ne I Viceré (1894) e da Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo.

Alla raccolta si aggiunge, nel 1960, un quarto racconto, "L'antimonio", che ebbe favorevole consenso della critica ed al quale Pasolini dedicherà un articolo sulla rivista Officina. In esso si narra la storia di un minatore che, scampato ad uno scoppio di grisou (chiamato dagli zolfatari antimonio), parte come volontario per la guerra d'Abissinia ed, in seguito, per la guerra civile in Spagna.
A Caltanissetta: i romanzi [modifica]

Sciascia rimane a Roma un anno e al suo ritorno si stabilisce con la famiglia a Caltanissetta, assumendo un impiego in un ufficio del Patronato scolastico.

Nel 1961 esce "Il giorno della civetta" con il quale lo scrittore indica nel giallo il genere di riferimento delle sue opere. Al romanzo si ispira il film omonimo del regista Damiano Damiani, uscito nel 1968.

Gli anni '60 vedranno nascere alcuni dei romanzi più sentiti dallo stesso autore, dedicati alle ricerche storiche sulla cultura siciliana.

Nel 1963 pubblica "Il consiglio d'Egitto", ambientato in una Palermo del '700 dove vive e agisce un abile falsario, l'abate Giuseppe Vella, che "inventa" un antico codice arabo che dovrebbe togliere ogni legittimità ai privilegi e ai poteri dei baroni siciliani a favore del Viceré Caracciolo.
Il ritorno al saggio [modifica]

Nel 1964 pubblica il breve saggio o racconto, come dice lo stesso Sciascia nella prefazione alla ristampa del 1967, "Morte dell'Inquisitore", ambientato nel '600, che prende spunto dalla figura dell'eretico siciliano Fra Diego La Matina, vittima del Tribunale dell'Inquisizione, che uccide Juan Lopez De Cisneros, inquisitore nel Regno di Sicilia.

La Compagnia del Teatro Stabile di Catania, diretta da Turi Ferro, mette in scena "Il giorno della civetta", con la riduzione teatrale di Giancarlo Sbragia.

Risale al 1965 il saggio "Feste religiose in Sicilia", che fa da cornice alla presentazione ad una raccolta fotografica ad opera di Ferdinando Scianna, fotografo di Bagheria, dove torna l'accostamento della Sicilia alla Spagna, soprattutto per quanto riguarda il valore e l'importanza, in ambedue le società, della superstizione religiosa e del mito.
La commedia [modifica]

Sempre nel 1965 esce la sua commedia "L'onorevole" che è una impietosa denuncia delle complicità tra governo e mafia.
Il ritorno al romanzo [modifica]
Statua di Sciascia a Racalmuto

Nel 1966 ritorna con un romanzo, A ciascuno il suo, che riprende le modalità del "giallo" già utilizzate ne "Il giorno della civetta".

La vicenda narrata è quella di un professore di liceo, Paolo Laurana, che inizia per curiosità personale le indagini sulla morte del farmacista del paese e dell'amico dottore, ma che si scontra con il silenzio di tutti i paesani, silenzio dovuto alla paura ed alla corruzione. Come commento alla tenacia nelle indagini del professore e alla sua tragica fine, l'explicit del libro si risolve in una frase lapidaria:
« "Era un cretino." disse don Luigi »


Dal romanzo, il regista Elio Petri trae, nel 1967, il film omonimo.
A Palermo [modifica]

Nel 1967 si trasferisce a Palermo per seguire negli studi le figlie e per scrivere. Esce intanto per l'editore Mursia una antologia "Narratori di Sicilia", curata da Sciascia in collaborazione con Salvatore Guglielmino.

Nel 1969 inizia la sua collaborazione con il Corriere della Sera e pubblica "Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.", che racconta, attraverso una rappresentazione teatrale, la controversia per la vendita di una partita di ceci per la quale il vescovado di Lipari non vuole pagare la tassa (siamo all'inizio del '700). Il vescovo aveva scomunicato i gabellieri, ma il re, mediante l'appello per abuso, aveva annullato la scomunica. La storia, apparentemente banale, in realtà denuncia i rapporti tra Stato-guida dell'ex Urss e gli Stati satelliti. Le iniziali A.D. identificano Alexander Dubček, che fu protagonista nel 1968 della Primavera di Praga.
La pensione [modifica]

Nel 1970 Sciascia va in pensione e pubblica la raccolta di saggi "La corda pazza", nella quale l'autore chiarisce la propria idea di "sicilitudine" e dimostra una rara sensibilità artistica espressa per mezzo di sottili capacità saggistiche. Quest'opera riporta, già dal titolo, a Luigi Pirandello che nel suo libro "Berretto a sonagli" sostiene che ognuno di noi ha in testa "come tre corde d'orologio, quella "seria", quella "civile", quella "pazza"".

Sciascia vuole indagare sulla "corda pazza" che, a suo parere, coglie le contraddizioni e le ambiguità ma anche la forza razionalizzante di quella Sicilia che è tanto oggetto dei suoi studi.
Il ritorno al genere poliziesco [modifica]

Il 1971 è l'anno de "Il contesto", con il quale l'autore ritorna al genere poliziesco. La vicenda si svolge intorno all'ispettore Rogas che deve risolvere una complicata vicenda che origina da un errore di giustizia e una serie di omicidi di giudici. Benché il romanzo sia ambientato in un paese immaginario, il lettore riconosce senza sforzo l'Italia contemporanea. Il libro desta molte polemiche, più politiche che estetiche, alle quali Sciascia non vuole partecipare, ritirando così la candidatura del romanzo al premio Campiello.

Dal romanzo venne ispirato il film di Francesco Rosi, uscito nel 1976 ed intitolato Cadaveri eccellenti.

Con gli "Atti relativi alla morte di Raymond Roussel" del 1971, si comprende che in Sciascia la propensione ad includere la denuncia sociale nella narrazione di episodi veri di cronaca nera si fa sempre più forte. Così sarà ne "I pugnalatori" del 1976 e ne "L'affaire Moro" del 1978.

Nel 1973 pubblica "Il mare colore del vino" e scrive la prefazione ad un'edizione della "Storia della colonna infame" di Alessandro Manzoni.

Nel 1974 pubblica la prefazione ad una ristampa dei "Dialoghi" dello scrittore greco Luciano di Samosata dal titolo "Luciano e le fedi".

Esce intanto Todo modo, un libro che parla "di cattolici che fanno politica" e che viene stroncato dalle gerarchie ecclesiastiche. Il racconto, di genere poliziesco, è ambientato in un eremo/albergo dove si effettuano esercizi spirituali. In questo luogo, durante il ritiro annuale di un gruppo di "potenti", tra i quali cardinali, uomini politici e industriali, si verifica una serie di inquietanti delitti.

Anche da questo romanzo verrà tratto un film dallo stesso titolo diretto dal regista Elio Petri nel 1976.
L'incarico politico [modifica]

Alle elezioni comunali di Palermo nel giugno 1975 lo scrittore si candida come indipendente nelle liste del PCI e viene eletto con un forte numero di preferenze come consigliere al comune.

Nello stesso anno pubblica "La scomparsa di Majorana", una indagine sulla scomparsa del fisico Ettore Majorana avvenuta negli anni '30.

Nel 1976 esce una ristampa delle commedie "L'onorevole" e "Recitazione della controversia liparitana" con l'aggiunta de "I mafiosi".

Nello stesso anno pubblica l'indagine "I pugnalatori", un libro inchiesta su una vicenda avvenuta a Palermo nel 1862 che vide uccise a pugnalate 13 persone.

All'inizio del 1977 Sciascia si dimette dalla carica di consigliere del PCI. La sua contrarietà al compromesso storico e il rifiuto per certe forme di estremismo lo portano infatti a scontri molto duri con la dirigenza del Partito comunista[1].

Successivamente sarà parlamentare nazionale ed europeo per il Partito Radicale.

Pubblica in quell'anno "Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia", dove è chiaro il riferimento al "Candido" di Voltaire.
I contatti con la cultura francese [modifica]

In questi anni aumenta i suoi viaggi a Parigi e si intensificano i contatti con la cultura francese e nel 1978 pubblica "L'affaire Moro" sul sequestro e il processo nella cosiddetta "prigione del popolo" ad Aldo Moro organizzato dalle Brigate Rosse.
L'inchiesta sulla strage di via Fani [modifica]

Nel 1979 accetta la proposta dei Radicali e si candida sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi istituzionali opta per Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983 occupandosi quasi esclusivamente dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro.

Esce in quell'anno "Nero su Nero", una raccolta di commenti ai fatti relativi al decennio precedente, "La Sicilia come metafora", un'intervista a Marcelle Padovani e "Dalle parti degli infedeli", lettere di persecuzione politica inviate negli anni '50 dalle alte gerarchie ecclesiastiche al vescovo Patti, con il quale inaugura la collana della casa editrice Sellerio intitolata "La memoria" che festeggia nel 1985 la centesima pubblicazione con le sue "Cronachette".

Nel 1980 pubblica "Il volto sulla maschera" e la traduzione di un'opera di Anatole France, "Il procuratore della Giudea".

Nel 1981 pubblica "Il teatro della memoria" e, in collaborazione con Davide Lajolo, "Conversazioni in una stanza chiusa".

Nel 1982 esce "Kermesse" e "La sentenza memorabile", nel 1983 "Cruciverba", una raccolta di suoi scritti già pubblicati su riviste, giornali e prefazioni a libri.

Pubblica nel 1984 "Stendhal e la Sicilia", un saggio per commemorare la nascita dello scrittore francese.
Gli ultimi anni di vita [modifica]
Ricordo di Sciascia a Racalmuto

Gli ultimi anni di vita dello scrittore sono segnati dalla malattia che lo costringe a frequenti trasferimenti a Milano per curarsi ma egli continua, sia pure con fatica, la sua attività di scrittore.

Nel 1985 pubblica "Cronachette" e "Occhio di capra", una raccolta di modi di dire e proverbi siciliani, e nel 1986 "La strega e il capitano", un saggio per commemorare la nascita di Alessandro Manzoni.

Carichi di tristi motivi autobiografici sono i brevi romanzi gialli "Porte aperte" del 1987, "Il cavaliere e la morte" del 1988 e "Una storia semplice", ispirato al furto della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d'Assisi del Caravaggio, che uscirà in libreria il giorno stesso della sua morte.

Nel 1986 Sciascia scrive a Bettino Craxi, comunicandogli di aver votato per il PSI nelle elezioni regionali siciliane di quell'anno ed invitando il leader socialista a favorire il ricambio della classe dirigente siciliana del partito.

Nel 1987 cura una mostra molto suggestiva, all'interno della Mole Antonelliana a Torino, dal titolo "Ignoto a me stesso" (aprile-giugno). Erano esposte quasi 200 rare fotografie scelte da Leonardo Sciascia e concesse in originale da importanti istituzioni di tutto il mondo. Si tratta di ritratti di scrittori famosi, dai primi dagherrotipi ai giorni nostri, da Edgar Allan Poe a Rabindranath Tagore a Gorkij a Jorge Luis Borges. Il catalogo viene stampato da Bompiani e oltre il saggio di Sciascia "Il ritratto fotografico come entelechia" contiene 163 ritratti e altrettante citazioni dei relativi scrittori. La chiave della mostra è forse la citazione di Antoine de Saint-Exupéry:
« Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza »


Dopo la pubblicazione dell'articolo "I professionisti dell'antimafia", apparso sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1987, Sciascia subisce attacchi da molte personalità della cultura italiana a causa delle accuse rivolte al pool di magistrati dell'antimafia palermitana: a suo dire, alcuni di essi si sarebbero macchiati di carrierismo, utilizzando la sacrosanta battaglia per la rinascita morale della Sicilia come titolo di merito all'interno del sistema correntizio delle promozioni in magistratura. A causa di questo, Sciascia viene isolato da più parti eccezion fatta per i Radicali ed i Socialisti. Solo di recente è stata proposta una rivalutazione dell'intervento sciasciano al quale hanno aderito Leoluca Orlando (favorevole), allora sindaco di Palermo, e Nando Dalla Chiesa (contrario), fra gli altri.

Pochi mesi prima di morire scrive "Alfabeto pirandelliano", "A futura memoria (se la memoria ha un futuro)", che verrà pubblicato postumo, e "Fatti diversi di storia letteraria e civile" edito da Sellerio.
La morte [modifica]

Leonardo Sciascia muore a Palermo il 20 novembre 1989 e chiede i funerali in Chiesa. Con lui nella sua bara si volle portare un crocifisso d'argento. Al funerale viene ricordato da numerose parole di stima, fra cui quelle del grande amico Gesualdo Bufalino.

È sepolto a Racalmuto, suo paese natale, all'ingresso del cimitero. Sulla lapide bianca una sola frase:
« Ce ne ricorderemo di questo pianeta »


Il senso di una frase simile su una tomba per la verità appare già molto chiaro e ben poco "laico e agnostico". Su un manoscritto, conservato dalla famiglia, Sciascia scrive:
« Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de l'Isle-Adam: "Ce ne ricorderemo, di questo pianeta". E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano »

Amici di Leonardo Sciascia [modifica]

Fondata il 26 giugno 1993 a Milano, nella sede storica presso la Biblioteca Comunale, Palazzo Sormani, l'associazione degli Amici di Leonardo Sciascia si propone di incoraggiare la lettura e la ricerca in merito al pensiero e all'opera dello scrittore. È attualmente presieduta (2009) dall'ispanista José Luis Gotor. L'associazione è priva di scopi di lucro e si autofinanzia con i contributi dei soci e di terzi.

Tra le attività più importanti dell'Associazione vi sono la realizzazione dei Quaderni Leonardo Sciascia, rivista annuale che ospita scritti monografici o di rassegna, atti di convegni, contributi originali, studi, ricerche, riflessioni, dibattiti sui diversi aspetti dell'opera di Sciascia. La collana Porte aperte, che alterna testi di autori particolarmente amati da Sciascia a saggi critici sulla sua opera; le cartelle annuali di Omaggio a Sciascia, contenenti un'incisione a tiratura limitata e un breve testo letterario.

Il Premio internazionale e biennale Leonardo Sciascia Amateur d'Estampes per ricordare la passione di Leonardo Sciascia per l'incisione originale d'arte, il servizio Internet del Leonardo Sciascia Web che offre, tra l'altro, l'opportunità di consultare La memoria di carta, la bibliografia più completa ad oggi realizzata (ed in costante aggiornamento) sulle opere dello scrittore; Seminari di studio e incontri pubblici per avvicinare soprattutto i giovani all'opera di Sciascia. In occasione del ventennale della scomparsa dello scrittore,l'associazione si è fatta promotrice dell'anno sciasciano (20 novembre 2008 - 20 novembre 2009)che ha visto il sostegno della Regione Toscana per un ciclo di manifestazioni in tutta Italia. Nella circostanza è stata altresì' pubblicata nella sedicesima cartella della collana "Omaggio a Sciascia",arricchita da otto incisioni originali, una poesia inedita di Leonardo Sciascia dal titolo "Due cartoline dal mio paese", rinvenuta da Francesco Izzo tra le carte del Gabinetto Vieusseux di Firenze nel 2007.

Il 30 ottobre 2008 è stato lanciato ufficialmente a Firenze un manifesto per ricordare Leonardo Sciascia dal titolo Ce ne ricorderemo di questo maestro che è stato firmato da decine di uomini di cultura in varie parti del mondo: il Nobel 2006 per la letteratura, Orhan Pamuk, il direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Salvatore Settis, scrittori come Andrea Camilleri, Dacia Maraini, Mario Andrea Rigoni, Guido Ceronetti, Yves Bonnefoy e Vincenzo Consolo, filosofi come Fernando Savater e Massimo Piattelli-Palmarini, il senatore ed ex-presidente della Repubblica Italiana Francesco Cossiga, uomini politici come Marco Pannella ed Emanuele Macaluso, l'editore Elvira Sellerio, pittori come Piero Guccione e Bruno Caruso, ecc.
Riconoscimenti [modifica]

Gli è stato dedicato un asteroide, 12380 Sciascia.
Bibliografia [modifica]
Opere di Leonardo Sciascia [modifica]

* Le favole della dittatura, Bardi, Roma 1950
* La Sicilia, il suo cuore, Bardi, Roma, 1952
* Pirandello e il pirandellismo, Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1953
* Le parrocchie di Regalpetra, Laterza, Bari, 1956 e 1967
* Gli zii di Sicilia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1958 e Einaudi, Torino, 1960 con l'aggiunta de L'antimonio
* Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961
* Il consiglio d'Egitto, Einaudi, Torino, 1963
* Morte dell'Inquisitore, Laterza, Bari, 1964
* L'Onorevole, Einaudi, Torino, 1965
* Feste religiose in Sicilia (fotografie di Ferdinando Scianna), Leonardo da Vinci, Bari, 1965
* A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966
* Narratori in Sicilia, (in collaborazione con S. Guglielmino), Mursia, milano, 1967
* Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., Einaudi, Torino, 1969
* La corda pazza, Einaudi, Torino, 1970
* Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, Esse Editrice, Palermo, 1971
* Il contesto, Einaudi, Torino, 1971
* Il mare color del vino, Einaudi, Torino, 1973
* Todo modo, Einaudi, Torino, 1974
* Luciano e le fedi (Prefazione ai Dialoghi di Luciano), Einaudi, Torino, 1974
* La scomparsa di Majorana, Einaudi, Torino, 1975
* Cola pesce, Emme Edizioni, 1975
* I pugnalatori, Einaudi, Torino, 1976
* Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino, 1977
* L'affaire Moro, Sellerio, Palermo, 1978
* Nero su nero, Einaudi, Torino, 1979
* Dalle parti degli infedeli, Sellerio, Palermo, 1979
* Il teatro della memoria, Einaudi, Torino, 1981
* Conversazioni in una stanza chiusa, (con Davide Lajolo), Sperling & Kupfer, Milano, 1981
* Kermesse, Sellerio, Palermo, 1982
* La sentenza memorabile, Sellerio, Palermo, 1982
* Cruciverba, Einaudi, Torino, 1983
* Cronachette, Sellerio, Palermo, 1983
* Per un ritratto dello scrittore da giovane, Sellerio, Palermo, 1985
* La strega e il capitano, Bompiani, Milano, 1986
* 1912+1, Adelphi, Milano, 1986
* Porte aperte, Adelphi, Milano, 1987
* Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano, 1988
* Ore di Spagna, Pungitopo, Marina di Patti, 1988
* Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano, 1989
* Una storia semplice, Adelphi, Milano 1989
* Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo, 1989
* A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano, 1989
* Occhio di capra, Piccola Biblioteca Adelphi, Adelphi, Milano, 1990
* Opere – 1956.1971, A cura di Claude Ambroise, Classici Bompiani, ISBN 88-452-4413-X
* Opere – 1971.1983, A cura di Claude Ambroise, Classici Bompiani, ISBN 88-452-5001-6
* Opere – 1984.1989, A cura di Claude Ambroise, Classici Bompiani, ISBN 88-452-5302-3

Monografie dedicate a Leonardo Sciascia [modifica]

* Filippo Cilluffo, Leonardo Sciascia: cinque immagini della Sicilia, Fondazione Ignazio Mormino, Palermo, 1965
* Walter Mauro, Leonardo Sciascia, La Nuova Italia, Firenze, 1970 (e poi 1973, edizione ampliata e riveduta)
* Claude Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano, 1974 (e poi 1983, edizione riveduta e ampliata)
* Antonio Di Grado, "Leonardo Sciascia. La figura e l'opera", Il Pungitopo, Marina di Patti, 1992.
* Antonio Di Grado, "Quale in lui stesso alfine l'eternità lo muta", Sciascia, Caltanissetta, 1999.
* Gaetano Compagnino, Leonardo Sciascia nella terra dei letterati, Catania, Bonanno Editore, 1994.
* Massimo Onofri, "Storia di Sciascia", Laterza, Roma, 1994, nuova edizione 2004
* Matteo Collura, "Il maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia", Longanesi, (1996).
* V. Fascia, F. Izzo, A. Maori, La memoria di carta: Bibliografia delle opere di Leonardo Sciascia, Edizioni Otto/Novecento, Milano, 1998
* Leonardo Sciascia di Giuseppe Traina, Bruno Mondadori,1992
* Valter Vecellio (a cura di), L'uomo solo: L'Affaire Moro di Leonardo Sciascia, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2002
* Valter Vecellio, Saremo perduti senza la verità, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2003
* G. Jackson, Nel labirinto di Sciascia, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2004
* Lanfranco Palazzolo. Leonardo Sciascia. Deputato Radicale, 1979-1983. Kaos edizioni, 2004. ISBN 88-7953-128-X.
* E. Palazzolo, Sciascia. Il romanzo quotidiano, Edizioni Kalós, 2005
* L. Pogliaghi (a cura di), Giustizia come ossessione: forme della giustizia nella pagina di Leonardo Sciascia, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2005
* J. Cannon, The Novel As Investigation: Leonardo Sciascia, Dacia Maraini, and Antonio Tabucchi, Toronto Italian studies, Toronto: University of Toronto Press, 2006.
* M. D'Alessandra e S. Salis (a cura di), Nero su giallo: Leonardo Sciascia eretico del genere poliziesco, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2006.
* P. Milone, L'enciclopedia di Leonardo Sciascia: caos, ordine e caso : atti del 10 ciclo di incontri (Roma, gennaio-aprile 2006). Quaderni Leonardo Sciascia, 11. Milano: La Vita Felice, 2007.
* G. Lombardo, Il critico collaterale: Leonardo Sciascia e i suoi editori, Collana Porte Aperte. Milano: La Vita Felice, 2008.
* Andrea Camilleri, Un onorevole siciliano. Le inchieste parlamentari di Leonardo Sciascia, Milano, Bompiani, 2009. ISBN 978-88-452-6351-4.

Articoli su testate nazionali [modifica]

* Corriere della Sera - 10 gennaio 1987 - "I professionisti dell'Antimafia" Secondo Sciascia il protagonismo e la spettacolarità delle indagini inquinano un serio e doveroso contrasto a Cosa Nostra.

Articoli, recensioni, testi su Il giorno della civetta [modifica]

* M. Prisco, "Il giorno della civetta", in Baretti, n°8, marzo-aprile, 1961
* D. Giuliana, "Sicilia di Sciascia", in La Fiera Letteraria, 28 maggio 1961
* P. Milano, "Un carabiniere di sinistra", in L'Espresso, 4 giugno 1961
* P. Dallamano, "L'ora della civetta", in L'Ora, 8 luglio 1961
* V. De Martinis, "Il giorno della civetta", in Letture, n°7, luglio 1961.

Recensioni e studi sull'opera di Sciascia [modifica]

* Giorgio Trombatore, "Sicilia amara", in Scrittori del nostro tempo, Palermo, Manfredi, 1959
* Carlo Salinari, "L'Ironia di Sciascia", in Vie Nuove, 12 marzo 1960
* Alessandro Galante Garrone, "Quasi un anti-Gattopardo l'ultimo racconto di Sciascia", in La Stampa, 27 febbraio 1963
* Giorgio Manacorda, "Il Consiglio d'Egitto", in Il Contemporaneo , n° 62, luglio 1963
* Giuliano Gramigna, "Il professore indaga", in La Fiera Letteraria , 31 marzo 1966
* Geno Pampaloni, "La prigione dei moralisti", in L'espresso, 24 aprile 1966
* Salvatore Battaglia, "La verità pubblica di Leonardo Sciascia", in Il Dramma, n°5, maggio 1970
* Ferdinando Camon, "Il contesto di Leonardo Sciascia", in Nuovi Argomenti, n°26 marzo 1972
* Giovanni Raboni, "Amarezze poliziesche", in Quaderni Piacentini, n°46, marzo 1972
* Carlo Bo, "Todo modo", in Interventi sulla narrativa italiana contemporanea 1973-1975, Treviso, Matteo Editore, 1976
* Furio Colombo, «"Il contesto" di Sciascia e "I cadaveri" di Rosi» in La Stampa (Tuttolibri), 28 febbraio 1976
* Enzo Siciliano, "Candido in Sicilia", in Corriere della Sera, 28 dicembre 1977
* Eugenio Scalfari, "La passione di Moro secondo Sciascia", in La Repubblica, 17-18 settembre 1978
* Angelo Guglielmi, "Leonardo Sciascia", in Il piacere della letteratura, Feltrinelli, Milano, 1981
* Giulio Nascimbeni, "Sciascia alla festa della memoria" in Corriere della Sera, 22 maggio 1982
* Nello Ajello, "Parola di Sciascia", in La Repubblica, 5 gennaio 1985
* Giovanni Raboni, "Un filo di speranza", in L'Europeo, 2 febbraio 1990
* Pino Arlacchi, "Perché non amo Sciascia", in La Repubblica, 14 dicembre 1993

Sciascia al cinema [modifica]
Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Elenco_di_film_tratti_da_opere_letterarie#Leonardo _Sciascia.

* 1967: A ciascuno il suo di Elio Petri
* 1968: Il giorno della civetta di Damiano Damiani
* 1969: Un caso di coscienza di Giovanni Grimaldi
* 1976:
o Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, tratto dal romanzo Il contesto
o Todo modo di Elio Petri
o Una vita venduta di Aldo Florio, dalla novella L'antimonio
* 1990: Porte aperte di Gianni Amelio
* 1991: Una storia semplice di Emidio Greco
* 2000: Ce ne ricorderemo, di questo pianeta. Un sogno di Sciascia in Sicilia di Davide Camarrone e Salvo Cuccia
* 2001: Il consiglio d'Egitto di Emidio Greco

Cyrus
06-02-10, 17:46
LEONARDO SCIASCIA E IL PCI

di Agostino Spataro

1.. Il 20° anniversario della morte di Leonardo Sciascia rischia di passare quasi inosservato. Il 2009 doveva essere l’anno sciasciano, specie in Sicilia. La visita del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla tomba dello scrittore, a Racalmuto, lasciava ben sperare.

Purtroppo, così non è stato per ragioni che ai più restano ignote.

Anche per novembre, il mese della ricorrenza, non si annunciano eventi importanti.

Questo passa il convento, anzi il governo. C’è da sperare che qualcuno non pensi di scaricarne la colpa sulla concomitanza con un altro, memorabile ventennale: quello del crollo del muro di Berlino che cade 11 giorni prima della morte di Sciascia.

Come dire, oltre al danno, la beffa irriverente della morte che si è preso lo scrittore a 68 anni e per giunta 9 giorni dopo lo storico crollo. D’altra parte, nessuno può decidere né quando nascere né quando, e come, morire. Solo ai suicidi è concesso il secondo, tragico “privilegio”.

2.. Ma lasciamo questo infausto preambolo e andiamo ad alcune cose, che ancora ricordo, riguardanti il rapporto di Leonardo Sciascia con il Pci che, prima del partito radicale, fu per lui la forza politica di riferimento.

Con questo partito, specie a livello siciliano, lo scrittore ebbe, una relazione lunga e intermittente che si romperà nella seconda metà degli anni ’70 quando, nel volgere di quattro anni, (1975-79) passò da consigliere comunale di Palermo eletto nelle liste del Pci a deputato radicale.

Discutendo con lui, a più riprese, ho cercato di indagarne i motivi, almeno quelli più connessi con taluni passaggi importanti della vita del Pci isolano.

Nei miei appunti non c’è molto, perciò scrivo quel che rammento (magari rischiando qualche imprecisione e omissione), prima che il ricordo svanisca fra le nebbie della memoria.

Può darsi che qualcuno non apprezzerà o se ne lagnerà. Pazienza. Posso, comunque, assicurare che questo ricordo corrisponde alla realtà dei fatti vissuti o raccontatemi; in ogni caso non è esaustivo del rapporto più complesso fra Sciascia e il Pci che, forse, andrebbe meglio indagato.

L’anniversario potrebbe essere l’occasione per stimolare gli studiosi ad avviare la ricerca anche su questo versante della personalità dello scrittore che resta poco conosciuto, specialmente dalle nuove generazioni.

3.. Premetto anche che non sono stato “amico” di Sciascia nel senso che con lui non ebbi mai un’intimità, una frequentazione intensa sul piano personale.

L’ho incontrato in qualche convegno. Una sola volta lo andai a trovare alla “Noce”, nella sua casa di campagna, a Racalmuto e un’altra volta lo vidi a Porta di Ponte, ad Agrigento, mentre, con la busta della spesa in mano, usciva dalla Standa con a fianco la moglie. Prendemmo un caffè al bar Milano.

Di più mi è capitato d’incontrarlo alla Camera dove, di tanto in tanto, veniva quando era deputato radicale.

Nelle lunghe attese si rifugiava nella sala dei giornali. Sebbene fossimo colleghi, lo salutavo con un rispettoso “professù” come lo chiamavano i compagni di Racalmuto.

Incontri casuali, dunque, (per me molto graditi) come possono avvenire fra due compaesani che si ritrovano in una piazza di una città lontana.

Un caffè alla buvette e poi quattro chiacchiere, avanti e indietro, nel corridoio dei “passi perduti”. Sciascia, talvolta, si appoggiava al bastone anche se apparentemente sembrava non averne bisogno.

4.. Prima che politico, il mio approccio con lo scrittore era quello del lettore, dell’estimatore del suo stile letterario, del suo scrivere conciso ed efficace nella rappresentazione e nell’intuizione. Tuttavia, quasi mai parlammo dei suoi libri e di letteratura in genere.

Eravamo nel tempio della politica ed era giocoforza parlare di cose politiche sulle quali, per altro, non sempre si era d’accordo. Del resto, eravamo deputati di due partiti diversi e sovente in polemica. Tuttavia, ero molto interessato a conoscere il suo punto di vista di scrittore su determinate questioni politiche.

L’elezione a deputato non gli aveva fatto superare del tutto il disagio verso la politica attiva.

Nei suoi scritti Sciascia aveva mostrato un buon fiuto politico, ma non riusciva ad adattarsi al ruolo di parlamentare. O, forse, non desiderava adattarvisi. Credo che sia venuto in Parlamento solo per far parte della Commissione d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.

5.. Leonardo Sciascia, pur essendo nativo di Racalmuto, centro minerario dell’agrigentino a cui rimase legato per tutta la vita, non ebbe molte frequentazioni col Partito e i dirigenti della provincia di Agrigento.

Di più frequentò alcuni dirigenti e intellettuali comunisti di Caltanissetta (Giuseppe Granata, Emanuele Macaluso, Calogero Roxas, Gino Cortese, ecc) dove studiò e visse per un certo tempo.

Tuttavia, per quanto a me risulta, la Federazione comunista di Agrigento lo interpellò per averlo candidato, anche per il Senato.

Sciascia, pur dichiarando una certa affinità d’idee col Pci, rifiutò dicendo che desiderava continuare a scrivere senza essere distratto dall’attività politica verso la quale non si sentiva portato.

6.. La sua “discesa in campo” avvenne nel 1974, in occasione della campagna per il referendum per l’abolizione della legge sul divorzio. Una battaglia importante per i diritti civili e di libertà molto cari allo scrittore il quale decise d’impegnarsi in prima persona nel fronte del “No” (pro-divorzio) che in Sicilia non era, sulla carta, maggioritario.

Ad Agrigento eravamo ancor più preoccupati poiché in questa provincia periferica era forte l’influenza politica e culturale della Dc e della Chiesa cattolica.

Sciascia non si limitò a firmare qualche appello, ma diede una mano in concreto, partecipando a conferenze e incontri pubblici che, credo, in altre circostanze avrebbe evitato. Ad Agrigento tenne un’affollata conferenza al cinema Astor. Ricordo che nella città dei Templi gli eventi più rimarchevoli di quella campagna referendaria furono la citata conferenza di Sciascia e la memorabile manifestazione popolare con Enrico Berlinguer. Per la cronaca, nell’agrigentino il “No” vinse alla grande.

L’impegno di Sciascia, di Renato Guttuso e di altri intellettuali di sinistra e progressisti fu decisivo per scuotere il mondo della cultura, dell’Università e della scuola in genere che, per la prima volta, dopo il 1968, si schierava a difesa di una conquista laica, di civiltà, che rischiava di essere travolta.

7.. Dopo la vittoria, per noi si pose il problema di assicurare continuità a questa battaglia di progresso estendendola ad altri campi della condizione civile e sociale siciliana e soprattutto di non disperdere il grande patrimonio di forze intellettuali, anche di tendenza moderata, che sull’onda della vittoria referendaria potevano spostarsi a sinistra.

Per altro, il referendum trovò il partito siciliano nel vivo di un confronto interno, a tratti anche duro, per il rinnovamento dei gruppi dirigenti e del modo di fare politica.

Anche la vecchia struttura, prevalentemente, contadina del Pci siciliano stava facendo i conti col ’68. Non quello importato da Milano o da Roma, ma quello più fecondo esploso, anche per tutto il ’69, nelle università e nelle scuole siciliane.

A quel tempo, (dal 1973) segretario regionale del Pci era Achille Occhetto (inviato in Sicilia da Longo nel 1970, per “punizione” dicevano le malelingue) il quale s’intestò la battaglia del rinnovamento che in alcune federazioni era già iniziata qualche tempo prima e con successo.

Significativa quella che abbiamo combattuto, e vinto, ad Agrigento che culminò nel congresso provinciale del febbraio 1972.

Subito dopo quel congresso, fu sciolto il Parlamento e quindi fummo costretti a correre per preparare le liste e la campagna elettorale.

Per dare un chiaro segnale di rinnovamento anche della nostra rappresentanza parlamentare ponemmo il problema di non ricandidare due compagni di grande prestigio, ma avanti con le legislature: il senatore Francesco Renda e l’on. Salvatore Di Benedetto.

Iniziò la ricerca di nomi alternativi. Per il collegio del Senato formulammo una rosa ristretta fra cui Leonardo Sciascia che, interpellato, declinò l’invito.

8.. Dopo la campagna elettorale del 1972, Achille Occhetto subentrò ad Emanuele Macaluso alla segreteria regionale.

Il cambio si caratterizzò all’insegna del rinnovamento generazionale e del “nuovo modo di fare politica” in Sicilia. Sotto accusa andò il cosiddetto “notabilato rosso” ossia una serie di personalità carismatiche, di capipopolo, affermatisi durante le lotte del dopoguerra, che il tempo aveva logorato. Per altro, Occhetto chiamò in segreteria e alla guida di alcune federazioni provinciali alcuni compagni esterni, suoi collaboratori ai tempi della Federazione giovanile comunista italiana.

L’intento era quello d’innestare nel gruppo dirigente siciliano, già in fase di rinnovamento, un gruppo di giovani provenienti dal Nord.

Una folata di “vento del nord” per modernizzare, cambiare gli assetti dirigente del Partito in terra di mafia e di predominio della Democrazia cristiana.

E così, oltre a Michele Figurelli già in loco, giunsero, fra gli altri, Valerio Veltroni (fratello di Walter) che dalla segretaria regionale sarà catapultato a Trapani, e i toscani Giulio Quercini segretario a Catania e Alessandro Vigni segretario a Enna.

Qualcuno parlò di “colonizzazione” del partito siciliano.

Leonardo Sciascia, invece- mi dirà alla Camera- la vide di buon occhio, anzi la ritenne necessaria.

Occhetto fece leva su questo suo interesse per avviare, tramite Figurelli e V. Veltroni, un contatto piuttosto intenso con lo scrittore.

Sciascia, dunque, approvò la “calata” in Sicilia di questi giovani dirigenti del nord, anche se rimase restio verso l’adesione a un partito-chiesa come un po’ gli appariva il Pci, verso il quale, per altro,

aveva accumulato alcune perplessità riferite a fatti antichi (la contrastata esperienza del milazzismo) e più recenti riconducibili alla segreteria di Macaluso.

9.. Occhetto e i suoi inviati del Nord garantirono a Sciascia che quel tempo era finito, per sempre.

Ora a dirigere il Partito c’erano loro, forze nuove, fresche formatesi in altri contesti, nell’alveo delle lotte per la pace e del movimento studentesco e affermatisi in Sicilia dopo una lotta durissima proprio contro i personaggi verso i quali lui aveva riserve.

L’idea che si voleva accreditare era quella che nel partito siciliano e negli organismi collaterali fosse in atto una sorta di “rivoluzione culturale” che stava liquidando ogni residua mentalità compromissoria e aperto il Partito alla società civile, agli intellettuali progressisti, agli imprenditori onesti.

Insomma, a Sciascia fu prospettato un mondo nuovo, una sorta di rivoluzione copernicana della politica siciliana.

Lo scrittore- ammetterà- che un po’ si lasciò sedurre dai discorsi di questi giovani “colonizzatori” i quali, provenendo dal nord, erano immuni dai difetti mostrati dai dirigenti siciliani.

10.. Perciò ruppe gli indugi e nel 1974 partecipò attivamente alla campagna referendaria e l’anno successivo accettò la candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di Palermo nella lista del Pci.

Un bel colpo per Occhetto che era riuscito dove tanti avevano fallito. Quello stesso Sciascia che aveva rifiutato le profferte del Pci per un seggio nel Parlamento nazionale ora accettava di candidarsi per un posto al consiglio comunale di Palermo, insieme a Renato Guttuso e allo stesso Occhetto, capolista. Ovviamente, sarà eletto.

Si parlò di svolta per Palermo, ma nel nuovo consiglio i numeri non promettevano facili cambiamenti. Nonostante la discreta avanzata del Pci, la Dc e il centro-sinistra (di allora) conservavano una solida maggioranza.

Per di più, Sciascia a ogni riunione del consiglio comunale era costretto a bighellonare per ore fra i banchi di Sala delle Lapidi, impacciato e nervoso, in attesa che s’iniziassero quelle interminabili, e spesso inconcludenti, sedute notturne.

Una situazione frustrante che lo porterà, a pochi mesi dall’insediamento, alle dimissioni dal consiglio comunale di Palermo. Lo scrittore, che mesi dopo sarà seguito da Guttuso, motivò la sua inattesa decisione con i lunghi ritardi sui tempi d’inizio delle sedute e in generale col confuso andamento dei lavori d’aula.

Tutto ciò era vero, ma oltre quelle motivazioni c’era un disagio politico che l’inquietava. Probabilmente, Sciascia, in quei pochi mesi d’impegno attivo nel gruppo consiliare del Pci, cominciò ad avvertire una certa delusione rispetto alle attese e alle promesse di cambiamento annunciate da Occhetto e dai suoi inviati.

11.. Ne parlammo in quelle chiacchierate a Montecitorio. Mi fece capire che presto si accorse che il cambiamento dato per avvenuto in realtà era in gran parte di facciata, anzi di facce. Insomma, un po’ millantato dai dirigenti del nord per indurlo ad entrare in lista a Palermo.

E - aggiungo io- per fare di Sciascia un bel fiore all’occhiello da esibire nelle riunioni romane e nei salotti buoni dell’intellighenzia di sinistra.

Lo scrittore riteneva (e diversi fra noi) che Emanuele Macaluso, anche da Roma, continuasse

a influire sul partito siciliano, soprattutto sul gruppo parlamentare all’Ars dove operava Michelangelo Russo, uomo di sua stretta fiducia.

A parte l’amarezza per l’esperienza del milazzismo, citava in particolare l’episodio, verificatosi ai primissimi anni ’70, della fusione tra Realmonte-Sali (società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della regione on. Giuseppe La Loggia.

Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof. Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte e comproprietario di una miniera di salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams.

Lauricella non sapendo più dove sbattere la testa (gli amici democristiani gli avevano chiuso la porta in faccia) si rivolse all’uomo di cultura di sinistra, quasi compaesano, che sapeva sensibile ai temi della trasparenza e della moralità pubblica.

Consegnò a Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si evidenziava la supervalutazione degli apporti privati (Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti politici di maggioranza e d’opposizione.

12.. Anche molti fra noi consideravano quella fusione un inganno che avrebbe fruttato miliardi alla Sams di Morgante e soci e non avrebbe dato corso ai programmi di sfruttamento dei grandi giacimenti di salgemma esistenti e di quelli scoperti, di recente, lungo la costa agrigentina, da Realmonte a Ribera. Così è stato.

Sciascia prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta di banco di prova per verificare la loro coerenza politica.

Vista la sordità dei suoi interlocutori, inviò il memoriale alla segreteria nazionale del Pci, accompagnato da una sua lettera in cui chiedeva un intervento di Roma sul partito siciliano.

Non ebbe risposta. La fusione si fece, con la benedizione anche dei vertici regionali del Pci.

Non cercai riscontri su ciò che Sciascia mi disse anche perché avendo seguito, da responsabile economico del Pci agrigentino, quella vicenda e i comportamenti dei vari protagonisti, fui incline a crederlo per vero.

Per altro quella chiacchierata fusione finirà in tribunale. Chi ne avesse voglia potrà consultare le carte del processo, soprattutto, consiglio, le relazioni del prof. Piga, perito della pubblica accusa.

13.. Ma torniamo al percorso politico di Leonardo Sciascia che nel 1979 è pluri - capolista alla Camera per i radicali.

Sarà eletto in più collegi con una valanga di voti di preferenza. Il grande scrittore arriva, dunque, alla Camera nella veste di deputato radicale, accompagnato dalla stima generale anche da parte di tanti esponenti siciliani di quella Democrazia cristiana che lui accusava di contiguità con la mafia e col malaffare.

Confesso che vedere lo scrittore tra i banchi radicali mi procurava un certo rammarico. Ero convinto che se ci fosse stata più correttezza l’avremmo potuto portare noi in Parlamento, anche se- vedendolo all’opera - mi persuasi che quella radicale fosse la casacca a lui più appropriata. Politicamente, Sciascia era un libertario. Mai sarebbe diventato un comunista, anche se anticomunista non fu mai.

Nemmeno dopo l’increscioso episodio delle presunte “rivelazioni” che Enrico Berlinguer gli avrebbe fatto sui collegamenti delle Brigate Rosse con i servizi di Praga.

Sciascia mi raccontò questa vicenda un paio di volte, in Transatlantico, una prima su mia richiesta e una seconda in uno sfogo contro Guttuso.

14.. Cos’era successo? Secondo Sciascia, in un incontro informale e alla presenza di Guttuso, Berlinguer gli avrebbe confidato che, da informazioni in suo possesso, risultava che settori della Brigate Rosse erano in collegamento con i servizi di Praga, fra i più fedeli al Kgb. La qualcosa, detta dal segretario generale del Pci, avvalorava la tesi, da taluni sostenuta durante il sequestro Moro, di un interesse di Mosca a eliminare il presidente della Dc per impedire l’attuazione del progetto del “compromesso storico” che avrebbe aperto al Pci le porte del governo.

Com’è noto, tale progetto era stato propugnato da Berlinguer e non condiviso dalle alte sfere del Pcus che temevano un distacco, una deriva “revisionista” del Pci e di altri partiti comunisti europei (Pcf e Pce), impegnati nella svolta dell’eurocomunismo.

Sciascia, troppo preso della vicenda umana e politica di Aldo Moro, sulla quale scrisse un pamphlet controcorrente (“L’affaire Moro”), svelò la confidenza fattagli da Berlinguer creando scandalo nell’opinione pubblica e gravissimo imbarazzo nel gruppo dirigente del Pci.

Berlinguer smentì su tutta la linea e minacciò querela. Sciascia, invece, confermò e chiamò Guttuso a testimone. Quest’ultimo si venne a trovare in una situazione davvero drammatica giacché doveva scegliere di confermare la parola del segretario del Partito, del cui Comitato centrale era membro prestigioso, o quella del suo amico scrittore, siciliano come lui e compagno di tante battaglie.

Guttuso diede ragione a Berlinguer. Non sapremo mai se scelse la verità o l’onorabilità del suo segretario generale.

Mentre raccontava queste cose, Sciascia più che indignato mi parve amareggiato.

Credo che, in cuor suo, se ne fosse fatta una ragione. Fra i due capiva di più Berlinguer che certo non poteva ammettere d’aver detto quelle cose. Le conseguenze sarebbero state davvero disastrose, incalcolabili. Lo ferì di più la testimonianza sfavorevole del suo amico Guttuso, che, da artista, aveva il dovere della verità facendola prevalere sull’appartenenza politica.



15.. Ricordo che in quel periodo il suo chiodo fisso era la drammatica condizione della Dc dopo i delitti Moro e Mattarella.

Una domenica, (19 settembre 1982) andai a trovarlo alla Noce, pochi giorni dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Gli portai una copia del mio libro “Per la Sicilia”. Lo trovai fisicamente un po’ giù. Mi elencò quattro - cinque malattie di cui soffriva. Soprattutto si lamentò di una fastidiosa cervicale.

Ovviamente, parlammo del fatto di Dalla Chiesa e del suo articolo, apparso sul “Corriere della Sera” quella mattina, in cui sosteneva la tesi, un po’ ardita, della mafia come fenomeno eversivo.

Una mafia che, avendo perduto la protezione della Dc e quindi dello Stato, uccide tutti quelli che incontra sulla sua strada.

Gli feci osservare che questi delitti potevano essere letti anche come la sfida tracotante di una mafia che aspirava al predominio sulla Sicilia.

Anche la strage di via Carini poteva essere interpretata come una dimostrazione di forza attuata come da prassi. Quando cioè fu chiaro a tutti che il generale-prefetto era stato un po’ abbandonato dallo Stato in una condizione di solitudine e diffusa ostilità, (non solo mafiosa) e senza i poteri speciali promessi.

Gli riferii le “difficoltà”, soprattutto di carattere giuridico, prospettatemi dal ministro dell’interno, on. Virginio Rognoni, a proposito dei poteri non attribuiti a Dalla Chiesa e le “preoccupazioni”

circolanti a Montecitorio, prima dell’assassinio, a proposito dei trascorsi piduisti di Dalla Chiesa e di certe riserve provenienti dagli uffici giudiziari di Milano.

Sciascia ascoltò, ma restò fermo nella sua posizione. Secondo lui, la Dc, a differenza dei tempi di Portella della Ginestra, oggi vorrebbe distaccarsi dalla mafia. Molti democristiani vivono nel terrore d’essere uccisi. Perciò, non capiva il motivo di tanto accanimento contro la Dc quando, invece, bisognerebbe incoraggiarla in quest’opera di distacco.

Accennò a un colloquio avuto, di recente, con l’on. Calogero Mannino.

16.. Si passò, infine, all’argomento che più mi premeva conoscere: il suo futuro politico.

Sciascia fu chiarissimo e conciso. Mi ribadì l’intenzione di dimettersi da deputato a conclusione della commissione d’inchiesta sul delitto Moro e di non volersi ripresentare alle prossime elezioni.

Smentì anche la voce secondo la quale potrebbe ricandidarsi col Psi di Craxi.

Mi rispose: “Se dovessi rifare questa “pazzia” mi ripresenterei coi radicali”

Nel PR si era trovato bene, giacché il regime interno gli consentiva la più ampia libertà, anche se era destinato a dissolversi.

In ultimo, il discorso ri-cadde sul suo impegno nelle liste del Pci a Palermo. Sciascia scosse la testa e chiuse con un laconico “Si è sbagliato da entrambe le parti”.

(novembre 2009)

* Agostino Spataro è stato dirigente e parlamentare nazionale del Pci. E’ direttore di “Informazioni dal Mediterraneo” (www.infomedi.it) e collaboratore di “La Repubblica”.

Cyrus
06-02-10, 17:49
02-10-96 15:03
COSI' SCIASCIA SCELSE PANNELLA E LASCIO' IL PCI


IL CORRIERE DELLA SERA 2 OTTOBRE 1996
La prima biografia dello scrittore svela il mistero dell'adesione al Partito radicale e l'addio al Pci (1979). Pannella disse: "Non dovrai aderire alla nostra politica, noi faremo nostro il tuo pensiero"
(Titolo in prima pagina)

In Cultura:
SCIASCIA POLITICO. IL MISTERO SVELATO
esce la prima biografia del grande scrittore: una vita tra letteratura e impegno civile. La verità sull'addio al Pci e sulla candidatura nel Partito radicale.

di Matteo Collura

"Gli Intellettuali aderiscono ad uno schieramento. Noi, invece, aderiamo alle tue idee". Così Pannella lo convinse a diventare capolista. E intanto Leonardo pensava a Pastenak e a Stalin...

Il 5 aprile 1979, intervistato sulle imminenti elezioni politiche nazionali ed europee, Sciascia aveva dichiarato di non avere più nessun rapporto attivo con la politica e che si sarebbe limitato ad andare a votare. L'esperienza di "scendere in campo", l'aveva fatta con i comunisti al consiglio comunale di Palermo. Chiuso. Ventidue giorni dopo, il colpo di scena: lo scrittore rendeva noto di aver accettato la candidatura offertagli dal Partito radicale. Cos'era successo? Altri partiti lo avevano interpellato, corteggiato, pressato. Craxi gli aveva fatto sapere che nella lista del Psi vi era un posto per lui, ma Sciascia aveva rifiutato. Niente sembrava lo avrebbe potuto convincere a cambiare idea. C'era riuscito Marco Pannella. E' la sera del 26 aprile quando il leader radicale chiede dello scrittore telefonando alla casa editrice Sellerio. Pannella ha urgenza di parlargli. Da Roma, dice, prenderà il primo aereo per Palermo, se Sciascia accetterà di vederlo. L'incontro viene fissato per l'indomani mattina, negli uffici della Sellerio. Nell'uscire da casa, lo scrittore dice alla moglie di non sentirsi bene. E' inquieto. Non si erano mai incontrati Pannella e Sciascia, il quale - era noto - condivideva le battaglie del segretario radicale, ma non ne approvava i digiuni e gli atteggiamenti estremistici che riteneva conseguenza di una sorta di misticismo. Quando Pannella arriva negli uffici di via Siracusa, Sciascia lo accoglie con espressione preoccupata. Restano soli. La porta aperta, dalle altre stanze non si ode il minimo rumore. Elvira ed Enzo Sellerio aspettano che venga loro detto qualcosa. "Di solito" esordisce Pannella, "gli intellettuali aderiscono ad un partito, al suo programma, alla sua ideologia. Noi radicali sentiamo di far nostro il suo pensiero politico. Noi faremmo esattamente il contrario di quello che fanno gli altri partiti. Siamo noi che aderiamo alla sua politica. Per questo lei sarebbe il nostro capolista ideale". E' come se una circolarità venisse a determinarsi nelle parole di Pannella: la politica di Sciascia è nei suoi libri e le sue scelte ne sono la conseguenza. Se è così, i suoi libri hanno aderito al Partito radicale prima che lo facesse lui. "Quindi lei mi propone di candidarmi nel Partito radicale?" si anima appena Sciascia. "Sì, e so che per lei può essere pesante contraddirsi". Pannella è agitato. "Quanto tempo ho per riflettere?" chiede Sciascia. "Non c'è tempo" dice Pannella. "Le liste sono già chiuse, bisogna parlare con un notaio. Non so neanche se tecnicamente sarà possibile". "Permetti?" Ora Sciascia dà del tu al suo interlocutore. "Vado un momento a fumare una sigaretta". Un paio di minuti e torna. "Sei venuto perché sapevi che la porta era aperta", è la risposta, la voce tremante per la forte emozione. Pannella scatta in piedi incredulo. Dice: "Bisogna telefonare al partito, c'è da mettere a posto le liste. Davvero non so se sarà possibile, se ne avremo il tempo". Negli uffici della Sellerio c'è qualche attimo di scompiglio. Poi Pannella telefona al notaio di riferimento per i radicali di Palermo. Una breve consultazione e sì si può fare: Leonardo Sciascia è candidato nelle liste radicali per le elezioni nazionali ed europee del 3 e del 10 giugno. Gli amici si chiedono come sia possibile. Anna maria, all'ultimo mese della sua seconda gravidanza, tenta di dissuadere il padre, ma invano. Vito, il quarto nipote dello scrittore, nasce in una clinica di Palermo il 12 maggio, nel pieno della campagna elettorale. Ma nella famiglia Sciascia il lieto evento non attenua il malumore. Anna Maria e Laura sono preoccupate per la salute del padre. Insistono perché rinunci alla candidatura. "noi non ti voteremo", gli dicono alla fine. E così faranno. Lo scrittore, incalzato da amici e parenti, confessa di scoprirsi sorpreso a sua volta: qualcosa in quel brevissimo incontro con Pannella lo aveva messo in crisi, toccandolo là dove era più vulnerabile. E quel qualcosa doveva avere a che fare con il suo essere scrittore. Lo spiegherà in seguito: "Mentre Pannella mi parlava, io pensavo a quel dialogo per telefono di Pastenak con Stalin. Una volta Pastenak aveva chiesto di parlare con Stalin per perorare la causa di Mandelstam, il poeta che era stato arrestato. E una sera suona il telefono. Pasternak va a rispondere ed era Stalin. Parlano di Mandelstam, molto duramente da parte di Stalin e poi ad un certo punto Pasternak dice "Vorrei incontrarvi". "E perchè?" domanda Stalin. "Ma" dice Pasternak, "per parlare della vita e della morte", e a questo punto sente il telefono che si chiude. Stalin non voleva parlare della vita e della morte, si capisce. Ecco, io ho pensato che bisognava parlare della vita e della morte in questo Paese. Ed era giusto che a parlarne fossi io, scrittore la cui pagina è molto vicina all'azione, al suo limite. Per questo la tentazione di entrare nell'azione diretta per me è forte". Rituffandosi nell'"azione diretta", la scelta radicale è quella che più gli si addice; scelta fatta anche da Vittorini nell'ultimo scorcio della sua vita. E' come se Sciascia tornasse ad un antico amore, trovando uno sbocco alla sua eresia: "Mi sentivo d'accordo con me stesso quando votavo il vecchio partito radicale. Una volta, poi, che ho votato radicale con preferenza ad Elio Vittorini, mi sono sentito addirittura felice. Sono, dunque, un vecchio radicale; non so fino a che punto anche nuovo, ma il radicalismo, tutto sommato, non invecchia". Da questo punto di vista, l'affettuosa e convinta adesione all'invito rivologli un anno prima dal giovane giornalista Valter Vecellio, perché scrivesse su Quaderni Radicali, era stata preludio alla sua inattesa candidatura. Ma non tutti si ricordano del suo vecchio radicalismo. Tra questi, Renato Guttuso, candidato anche lui, ma nel partito che ormai politicamente li divide. In una lettera aperta che affida a Repubblica, il pittore intona: "Caro Leonardo, il senso di sgomento che ho provato nell'apprendere la notizia della tua candidatura nel Pr mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te...". L'amicizia: Sciascia è disposto a sacrificare anche quella, quando diventa di ostacolo alla sua ricerca di verità. "Tu vuoi salvarmi l'anima, e io non voglio salvare la tua", risponde lo scrittore sullo stesso giornale, attribuendo, i "sentimenti" e i "turbamenti" dell'amico al suo modo di intendere l'amicizia, che definisce "molto siciliano". E sul modo di essere siciliano di Guttuso rispetto a quello dello scrittore, Montanelli racconterà che Sciascia, riferendosi all'amico pittore, una volta gli aveva detto di sentirsi, al confronto, "un londinese". E così ecco di nuovo Sciascia al centro delle polemiche, bersaglio delle critiche. Con "Candido" sembrava aver raggiunto un distacco dalla politica che assomigliava ad una forma di liberazione (così libero da poter modificare, aggiungendo ironia ad ironia, una celebre battuta di Woody Allen: "Dio è morto, Marx pure, ma io mi sento benissimo"), mentre invece, con la nuova candidatura, si accingeva ad entrare nel Parlamento, nel labirinto del potere dove l'affaire Moro si era consumato. Certo, si sarebbe mosso "con molta diffidenza e con molto scetticismo", parlando della vita e della morte in un luogo dove della vita e della morte si decideva senza mai parlarne. E già le parole venivano ad evidenziare una distanza, mettevano in risalto la
frattura.

Cyrus
06-02-10, 17:52
Archivio Partito radicale
Sciascia Leonardo - 5 agosto 1985
I RADICALI E DON ABBONDIO
(L'ITALIA DEL MANZONI)

di Leonardo Sciascia

SOMMARIO: Ricorda la pagina dei Promessi Sposi in cui il Manzoni descrive lo straordinario rovesciamento delle parti che investe Don Abbondio , Renzo e Lucia nella notte degli inganni: chi è il vero sopraffattore? La pagina manzoniana si riferisce non solo all'Italia del secolo decimosettimo, ma anche a quella di oggi. E qui Sciascia invita a riflettere sulle iniziative di radicali e socialisti in merito al processo Tortora, iniziative che hanno provocato allarme nel paese. Forse sarebbe stato meglio che radicali e socialisti fossero stati più prudenti, perché le grida allo scandalo che hanno suscitato "sovrastano e sommergono lo scandalo che loro intendono denunciare..."

(NOTIZIE RADICALI, ANNO XIX N.177, 5 AGOSTO 1985)

Nel capitolo VIII dei Promessi Sposi - quello in cui Renzo e Lucia si introducono con uno stratagemma in casa di Don Abbondio a che, suo malgrado, li faccia marito e moglie - nel descrivere la confusione che ne segue per la pronta reazione di don Abbondio, Manzoni dice: "In mezzo a questa serra serra, non possiam lasciare di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo".

La battuta ironica che conclude la riflessione dice della ragione stessa che l'ha suscitata: Manzoni non sta parlando soltanto del secolo decimo settimo, ma anche del suo, del nostro, dell'Italia di sempre. E del resto tutto il romanzo - ma non so quando si capirà appieno e, soprattutto, quando in questa chiave lo si farà leggere a scuola - è un disperato ritratto dell'Italia.

Su questa riflessione conviene - è il caso di dire - riflettere in rapporto alla questione del processo di Napoli che socialisti e radicali stanno agitando, ricevendone l'accusa di una intrusione e aggressione che sta facendo scampanare ad allarme le campane della retorica nazionale così come quella notte le campane della chiesa di cui don Abbondio era curato. E con questo voglio anche dire che conoscendo l'Italia, l'Italia del Manzoni, l'Italia di cui Pirandello diceva che le parole vanno nell'aria aprendo la coda come tacchini, radicali e socialisti avrebbero forse dovuto essere più cauti, meno intempestivi: aspettare, insomma, la sentenza. E non perché il loro intervento davvero costituisca una intrusione, una interferenza, un'aggressione: ma perché hanno dato modo alla retorica nazionale di scampanare allarme per l'attentato alla libertà e indipendenza del potere giudiziario. Hanno dato modo, insomma, di far gridare allo scandalo: e queste grida sovrastano e sommergono lo scandalo che loro intendono denu

nciare, fanno perdere di vista gli argomenti - a dir poco inquietanti - che accompagnano la loro denuncia e le danno inequivoca ragion d'essere e forza.

E' facile, scampanando retorica e sollecitando un mai sopito plebeismo, fare apparire una vittima come un privilegiato : ed è quel che si sta tentando di fare con Enzo Tortora. Ma il caso Tortora non sta soltanto nell'angosciosa vicenda che lui sta vivendo: è il caso del diritto, il caso della giustizia.

Cyrus
06-02-10, 17:54
http://www.spaziovitale.eu/multimedia/58-primavera-1979-la-sfida-di-leonardo-sciascia-alla-doppia-egemonia.pdf

Cyrus
06-02-10, 17:58
CANDIDO, OVVERO UN SOGNO FATTO IN SICILIA

Leonardo Sciascia

NOTIZIE BIOGRAFICHE

Leonardo Sciascia è nato a Racalmuto in provincia di Agrigento nel 1921, Leonardo Sciascia si distingue nel panorama della narrativa contemporanea per la fedeltà, nella tematica delle sue opere, alla sua terra: la Sicilia, con la sua storia e con i suoi problemi.

Ha pubblicato Le parrocchie di Regalpeira nel 1956, 1 racconti de Gli zii di Sicilia nel 1958, Il giorno della civetta nel 1961, Il consiglio d'Egitto nel 1964, A ciascuno il suo nel 1966. Notevoli anche i suoi scritti su Pirandello e stilla cultura siciliana raccolti in Pirandello e la Sicilia (1901) e ne La corda pazza (1970). Negli anni Settanta Sciascia si è particolarmente imposto all'attenzione: sia per il vivace dibattito, che per le ultime sue opere Il contesto, 1971; Todo modo, 1975 - hanno suscitato, sia per le sue analisi del (mal) costume della società italiana sottese da lina tensione di moralista deluso, sia per i suoi interventi sulla cronaca politica (L'affaire Moro, 1978, fra l'altro) che - al di là delle scelte contingenti (prima “ scomodo ” compagno di strada de con-itinisti, poi dei radicali) - si, distinguono sempre per lucidità intellettuale e anticonformismo. È morto nel 1989 a Palermo.

ANALISI CRITICA DELL'OPERA

Invece che Un sogno fatto in Sicilia, il sottotitolo di questo romanzo di Sciascia, avrebbe potuto essere: “ come salvare la propria infanzia e cioè se stessi ”. Non l'infanzia quale mondo chiuso cui ripiegare, un po' alla Proust, tanto per intenderci, bensì lo slancio esistenziale che, in quegli anni, verso il mondo della vita e della cultura, della vita che è cultura e della cultura che è vita, ci porta (il tema è già riscontrabile ne Gli zii di Sicilia). Candido Munafò nasce nel 1943, in Sicilia; più precisamente, in una grotta, nella notte dal 9 al 10 luglio. Se erano tempi avversi (stavano arrivando gli angloamericani, bombardando e mitragliando), non era il neonato figlio di povera gente: padre avvocato, madre bella e giovane, figlia di un generale fascista; dei beni al sole anche. La madre s'invaghisce di un ufficiale americano con cui, a guerra finita, si sposa, lasciando l'Europa e il figlio. Questi , affidato dal tribunale al padre, trascorre la prima infanzia curato amorosamente da Concetta, la cameriera che, intensamente lo ama benché, o, meglio, perché nato “un po' nella mente annebbiato ” , per via di quella “ notte d'inferno ” del luglio '43. Per colpa del bambino che ha rivelato ingenuamente un grave segreto d'ufficio, l'avvocato Munafò si suicida. Così, Candido cresce tra il nonno, diventato deputato democristiano e Concetta. Un po' più avanti negli anni (età scolastica), nella educazione del giovane interviene un terzo personaggio, l'arciprete Lepanto. Strana figura di prete (da aggiungere alla collezione già lunga dei preti sciasciani) il quale, di spirito modernissimo, si applica a capire, in chiave psicanalitica il suo pupillo. Il che aiuta, a sua insaputa, il sacerdote a liberarsi dal formalismo religioso (sempre meglio si afferma il rapporto con la psicanalisi nell'opera di Sciascia). Evolvendosi nel senso di una ]progressiva liberazione interiore, l'arciprete finirà con lo spretarsi (senza grandi crisi o plateali rotture), per poi dare l'adesione al partito comunista. E per poco non si spreterà dalla chiesa comunista. Anzi, lo si può definire uno spretato dall'interno.

Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, ad una lettura immediata, appare come il romanzo della perdita di una fede comunista. Non in chiave tragica, magniloquente o piagnona, come altri ci hanno abituato a sopportare, ma ironicamente -essendosi la ferita tramutata nel suo contrario e cioè in tagliente punta. Come la vecchia, la nuova religione è una illusione e Sciascia diventa il suo Voltaire. Di lì l'importanza del costante riferimento al Candido settecentesco, dove, sarcasticamente, veniva deriso il finalismo ottimistico alla Leibniz e alla Pope. Tale dottrina, dal suo Maestro Pangloss, era stata insegnata all'ingenuo Candido che, nelle sue concrete esperienze del mondo, tra guerre e catastrofi naturali, personali disavventure e narrazioni di casi altrui, scopriva la anti-illustrazione di quell'ideologia. Ma don Antonio - così viene chiamato l'ex-arciprete Lepanto - non è un nuovo Pangloss. Anzi, qui, maestro e discepolo vivono una reciproca dialettica della illuminazione dell'uno attraverso l'esperienza dell'altro. La loro presa di coscienza è progressiva, lunga liberazione dalla ideologia che porta al ricupero della vera religiosità: quella di un inquieto godersi ed esperire l'esistenza (sensi, sentimento, cultura). Un pieno ricupero, tuttavia, don Antonio non lo raggiunge. In lui permangono antiche incrostazioni: un che di pretesco che, egli stesso, nei confronti della donna, per esempio, percepisce. Ideologicamente, pure. Vogliamo vedere in questo tratto del personaggio la volontà, da parte di Sciascia, di non disgiungere la storicizzazione dalla concreta finitezza cui l'individuo sottostà. Libero, liberato è invece Candido. Il buon prete ha provveduto a proteggerlo dal cattolicesimo, con la immagine di se stesso, anche con un viaggio a Lourdes, durante il quale il giovane fa la sua prima esperienza amorosa. P, ancora in seguito a questo secondo viaggio (già ci era andato, circa una ventina d'anni prima) che don Antonio prende la decisione di spretarsi, definitivamente preso dalla ripugnanza... “ non per quei corpi, per quelle piaghe, per quegli occhi acquosi o bianchi, per quelle bave; ma per quella speranza organizzata, convogliata ” (e qui, si capisce che, nella mente di Sciascia, il santuario francese, con i suoi pellegrinaggi di vittime della divina creazione, ha una specie di valore paradigmatico e rimanda ai vari sotto Lourdes verso cui viene convogliata la miseria delle plebi meridionali).

Il vero problema per Candido non è il cattolicesimo ma “ la religione dei nostri tempi ”: il comunismo. Teorica e pratica insieme è l'esperienza che da Candido ne viene fatta. Romanzo della formazione è Candido, ma più sul tipo dell'Henry Brulard stendhaliano che non del “ Bildungsroman ”. Le letture del protagonista, quindi, vi hanno una notevole importanza, come testimonia, ad esempio, questa riflessione in margine ai Quaderni del carcere:

“ I cattolici italiani: e dove li aveva visti Gramsci? La domenica alla messa di mezzogiorno: poiché non altrimenti esistevano. Erano una debolezza, e Gramsci aveva cominciato a farne una forza: nella storia d'Italia, nell'avvenire del paese ”.

E ancora l'affermazione di una capacità persuasiva, di una maggiore attualità degli scrittori rivoluzionari - Hugo o Zola - che non dei teorici o dei politici. Più rabbinico, più legato ai testi nel suo essere marxista, don Antonio dissente e il giovane non sa “ altro rispondere che se avesse solo letto Marx e Lenin non sarebbe stato comunista se non come a una specie di ballo mascherato: vestito come al tempo di Marx, come al tempo di Lenin ”.

Per Candido, infatti, il sentire marxista non rimanda ad una dottrina, è un fatto vitale, un po' come il fare all'amore.

Col senno di poi, anche noi diremo che non c'è da stupirsi se i rapporti del giovane Munafò con il partito comunista saranno una serie di dure delusioni. Al momento dell'ingresso, non mancano i sospetti nei suoi confronti: egli è ricco (ma meno del locale deputato del partito), è figlio di quella madre scappata con l'americano. Delle perplessità ce ne sono pure nei confronti di don Antonio la cui rottura con la chiesa non è stata clamorosa e non può dare adito ad un chiassoso sfruttamento politico. Diremo noi che l'ex-arciprete Lepanto ha il merito di non essere un istrione. intorno a lui i giovani cominciano a riunirsi e a parlare di marxismo e di psicanalisi. S'impone quindi un ricupero di quell'intellettuale inorganico e del suo discepolo. Ma la vita di partito sarà un susseguirsi di disavventure attraverso le quali Candido si accorgerà che il suo marxismo vitale non ha niente a che -vedere con quello dei burocrati. Questi intervengono pesantemente nella sua vita privata in ossequio ad un gretto moralismo piccolo-borghese. Viceversa non vogliono impegnarsi per la costruzione di un ospedale su un terreno regalato dal giovane barone; non denunciano la speculazione fatta su un altro terreno per la costruzione di quello Stesso ospedale. Candido viene espulso dal partito. Intanto la sua famiglia l'ha fatto interdire. Ma viaggia per il mondo in compagnia della giovane e simpatica cugina. A Torino comincia la liberazione quando, tornando amareggiato da una riunione con i compagni, Francesca - la cugina gli dice: “ E se fossero soltanto degli imbecilli ”. Francesca e Candido partono per Parigi.

Parigi, dove don Antonio li raggiungerà e dove, ultima peripezia da conte settecentesco, Candido ritrova per caso -* da Lipp -, invecchiati, la madre col suo marito americano, le strade di Parigi, diciamo, sono lo straordinario scenario del finale del romanzo. E queste pagine vanno aggiunte a quelle già numerose del “ Mito di Parigi ”: Eldorado spirituale, utopia (in senso etimologico) cui approda Candido, l'uomo (ormai ha trentaquattro anni) che ha saputo attraversare tutte le istituzioni (oltre la chiesa e il partito comunista: la scuola, la giustizia, l'ospedale psichiatrico), salvando l'ingenua spregiudicatezza dell'infanzia.

Se Candido riesce a salvarsi è perché figlio della fortuna (ultima frase del romanzo). La sua fortuna è stata di non dover sottostare alla legge della istituzione princeps: alla famiglia. La madre se n'è andata al momento giusto con l'americano e, incontratala a Parigi il tempo di una serata in un grande ristorante, ne sarà di nuovo liberato grazie all'America. Il padre, con una imprudenza verbale, Candido l'ha ucciso al momento giusto (periodo edipico). Facendolo partecipare alla soluzione di un enigma poliziesco piú avanti negli anni, l'arciprete si assicurerà che l'inconscio del giovane si è perfettamente assestato. Probabilmente, uno psicanalista avrebbe non poche chiose da fare al libro di Sciascia. Ma al lettore piace godere ingenuamente di quella permanenza nell'adulto della forza affascinante del bambino onnipotente e trasgressore capace di aggirare l'inferno, la follia delle istituzioni per esperire il vivo delle passioni (anche sconvolgenti) e dell'intelligenza.

Non pochi aspetti di questa opera fanno pensare che forse già si profila una nuova maniera di Sciascia. Ma piuttosto che cercare d'indovinare il futuro dello scrittore, considereremo Candido come il punto d'arrivo di un travaglio ideologico e personale (il rapporto tra i due, s'intende, è dialettico) che ci riporta alla svolta della seconda metà degli anni '60, tra A ciascuno il suo e Il contesto. Sciascia ha sempre affermato che le sue origini culturali sono di stampo illuministico. Legati all'ideologia del secolo di Voltaire sono Bellodi e Di Blasi. Si capisce che, laddove la meridiana della Matrice segna sempre quella data del 13 luglio 1789, l'ideale illuministico possa svolgere la funzione di una aspirazione a cambiare la società per chi si ribella alla ingiustizia “ feudale ”. Paul-Louis Courier, scrittore all'opposizione ai tempi della Restaurazione è il maestro di chi compone Le parrocchie. Se non che, proprio perché è una filosofia “ mondana ” che alla ragione pratica si affida, l'illuminismo deve trovare, nei fatti una sua verificabilità. A lungo Sciascia si è sentito solidale con coloro che nella sinistra e in modo specifico, nel partito comunista, riponevano tale capacità operativa. Probabilmente, intorno al momento di A ciascuno il suo (1966) si attua la disperata presa di coscienza che si tratta di una illusione. In una prospettiva diversa - sebbene esistano punti di contatto - nello stesso periodo, la opposizione di sinistra al P.C.I. esce dalla confidenzialità. Ma Sciascia che non è né un ideologo, né tanto meno, un militante politico, non cerca uno sbocco nella teorizzazione o nell'azione. Egli ha scelto la letteratura e sarà attraverso una rappresentazione fantastica - Il contesto - che quella dilacerazione si manifesterà.

L'illuminismo (rimandiamo all'esempio classico del '700 lombardo o, in area siculo-sciasciana, al periodo del vice ré Caracciolo) rappresenta il tentativo di far coincidere tra di loro, all'insegna della Ragione, i tre discorsi dello Stato, dell'intellettuale, del progresso civile e morale. Ne Il contesto, a Cusan viene chiaramente detto dal successore di Amar che ragione di partito e ragione di Stato (due ragioni particolari che sono la negazione della Ragione universale) possono coincidere tra di loro, cancellando il razionale confine che dalla menzogna separa la verità. Questa distinzione Cusan scopre di essere l'unico rimasto a darle importanza; anche a Rogas importava, ma è stato fatto fuori. Per la ragione non c'è piú spazio. In Sciascia, il momento della disintegrazione è sempre quello in cui si abolisce l'opposizione su cui si fondava la ragion d'essere di un impegno e si confondono le parti. Già Il quarantotto è la storia di un compromesso storico.

La coincidenza - non l'identità - del discorso sciasciano con quello del P.C.I. funzionava per l'autore de Il giorno della civetta come una garanzia di razionalità nella misura in cui il pensiero illuministico o trova la sua verifica nella dialettica sociale o non ha piú senso. Al di là o al di qua delle circostanze, contingenti, la candidatura alle elezioni del '75 e le dimissioni, due anni dopo, possono essere interpretate la prima come volontà di non perdere il contatto con la realtà socio-politica rappresentata dal partito comunista, la seconda come la drastica risoluzione della schizofrenia oggettiva di chi la pensa in un modo e sembra, nel comportamento pubblico, servire da cauzione a chi la pensa in un altro, nella fattispecie, diametralmente opposto. Proprio per quell'assunto illuministico di fondo, la rottura con il partito comunista, dallo scrittore, non può essere vissuta come un banale dissenso su scelte di strategia o di tattica politica.

D'altra parte, la crisi della razionalità non è un discorso in sé. È la crisi della razionalità per Sciascia, in Sciascia. Perciò, interpretiamo il periodo che va da Il contesto a Candido come sforzo verso la conquista di una nuova razionalità. Il discorso della follia (Il contesto) prosegue attraverso il Majorana che costituisce una specie di variante scientifica. Sistematicamente tutte le istituzioni vengono liquidate: ne Il contesto viene ucciso il segretario del Partito Rivoluzionario Internazionale (P.C.I.), in Todo modo un prete della Chiesa cattolica. I pugnalatori mostrano che, fin dall'inizio lo Stato unitario era stato delinquenziale. Candido, è, per eccellenza, l'uomo anti-istituzionale. In Sciascia la nuova razionalità trova il suo baricentro nell'atto di scrivere, nel suo essere uno scrittore. Scrivere significa attuare il sogno fatto in Sicilia di essere onnipotente e libero, fuori dalle istituzioni come il giovane Munafò.

ANALISI CRITICA di LEONARDO SCIASCIA

Il conflitto fra narrazione e riflessione appare fondamentale per uno scrittore come Leonardo Sciascia che, per il prevalere, a un certo punto della sua esperienza di scrittore, della passione del saggista, del moralista, del maitre-à-penser, ha vista sollevata a grande popolarità la propria figura, proprio nel momento in cui la scrittura veniva a perdere di invenzione e di incisività. Le Favole della dittatura (1950) e Gli zii di Sicilia, del 1957 (usciti nei “Gettoni” vittoriniani), rappresentano molto bene il carattere grottesco, “umoristico” (nel senso pirandelliano), della narrativa di Sciascia alle sue origini. Una Sicilia fra fascismo, occupazione alleata e dopoguerra, nei racconti de Gli zii di Sicilia, viene a proporsi come il luogo deputato dallo scrittore per far scattare le sue moralità acuminate, feroci, ma anche condotte sulla linea di un'indagine di costume politico e di caratteri che segna, sulla strada del Pirandello novelliere e dei siciliani autori di “ caratteri”, come Serafino Amabile Guastella e Francesco Lanza, la secca, razionale, lucida indicazione di una scrittura del tutto alternativa rispetto al fasto barocco di altri siciliani, come De Roberto, la Morante, più tardi Bufalino e Mazzaglia e altri ancora. I personaggi dei racconti di Sciascia sono tutti portatori di un'esemplarità negativa, all'interno di una società ipocrita, complice di mali ancestrali che si perpetuano senza nessun sussulto più di verità, neppure nel cambiamento dei regimi e dopo gli sconvolgimenti di un'ennesima guerra che ha avuto come teatro la Sicilia stessa. Ma la loro misura è il grottesco, non la serietà del tragico; e la scrittura così secca e netta rileva perfettamente, con un che di alacre aggressività, tale disposizione di giudizio. L'altra faccia di questo modo di narrare è data da Le parrocchie di Regalpetra, del 1956, che rientra in una breve moda di libri-testimonianza, ma che trascende tale occasione. La città che è oggetto della descrizione di Sciascía è Racalmuto, la patria dello scrittore. Dominata dalle cento chiese, dalla tradizionale alleanza del potere economico e sociale e di quello religioso, Regalpetra è il luogo della memoria, che si offre come reattivo esemplare della condizione dell'Italia del dopoguerra, nella peggíore incarnazione siciliana, dove il potere democristiano e la mafia, almeno, la difesa feroce dei privilegi e dei beni, nonché della tradizione come garanzia del non mutamento e, di conseguenza, della conservazione sicura del dominio nelle mani di chi da sempre lo detiene, costituiscono la regola del vivere, a malgrado della popolazione misera, e per parte sua superstiziosa, e dei tentativi di riformare e trasformare qualcosa attraverso la scuola. Ne Le parrocchie la scrittura, sfuggendo al rischio della pura documentazione, si muove fra indignazione e denuncia, ironia ed esaltazione della memoria che rievoca pietre ed edifici con una straordinaria levità e grazia (che sono, naturalmente, escluse dalle pagine sulla società e sul mondo politico). Un autore assume la parte dell'illuminista, che si affida alla ragione per rivelare e mostrare in ogni cosa il male che sono le superstizioni, gli inganni, le complicità politiche, le consorterie mafiose, la religione fatta strumento di potere politico attraverso la democrazia cristiana e l'appoggio che a essa danno i preti. E lo spirito illuminista domina anche il romanzo Il giorno della civetta (1961), il più celebre di Sciascia, anche perché è incentrato intorno a una vicenda di mafia. La ragione vi è incarnata dal capitano dei carabinieri Bellodi, che, in una cittadina della Sicilia occidentale, decide di andare a fondo in un delitto di mafia, anche al prezzo di colpire i potenti, quelli che sono considerati intoccabili. E capitano riesce a trovare chi testimonia sugli esecutori del delitto e sul mandante; e anche se il testimone viene assassinato, tuttavia questi lascia pure una lettera che, postumamente, racconta come sono andate le cose; e il capomafia può essere arrestato. Ma ben presto il capitano si trova di fronte al dissolversi non soltanto di quella che ha accertato essere la verità, ma del movente stesso: da delitto di mafia a delitto di onore. Spuntano altri testimoni che raccontano di aver visto i sicari in luoghi lontani da quello degli omicidi, e sono sostenuti da personaggi insospettabili e autorevolissimi. Interviene il potere politico a favore dell'accusato; il capitano Bellodi, a Parma per rendere una testimonianza, apprende dai giornali che l'accusato è stato prosciolto per mancanza di prove. Deciderà tuttavia di ritornare al suo posto, nell'Isola. t un atto di fiducia nella ragione che, dopo, verrà incrinandosi nell'opera di Sciascia. Ma, intanto, rende possibile anche la rappresentazione del capo mafioso con un certo rispetto.

E' un uomo, appunto, “di rispetto”, che giudica lucidamente gli altri e non nasconde ammirazione e simpatia per l'ufficiale dei carabinieri che ha avuto il coraggio di scoprire la verità dei fatti e di arrestarlo. Lo sconfigge in forza della complicità mafiosa dei poteri politici e della società siciliana, ma ne riconosce il coraggio e l'onestà. Sciascia, insomma, nel suo primo romanzo di mafia, dà ai capi di essa un riconoscimento di pur diabolica e malvagia grandezza di idee e di visione del mondo; e dalla loro è lo scetticismo fondamentalmente siciliano, poi sempre più presente nelle opere di Sciascia intorno alla verità, alla storia, alla politica, alla vita stessa. Un altro romanzo di mafia, A ciascuno il suo (1966), è già sotto il segno di tale scetticismo della verità. Il professore ingenuo e sprovveduto, che scopre una storia che sembra molto comunemente di adulterio. in cui sono implicati personaggi dell'alta società della sua cittadina siciliana, e anche un sacerdote particolarmente autorevole nella gestione del potere politico ed economico del luogo, arriva a poco a poco, in virtù di una pervicace curiosità e a malgrado degli avvertimenti a tenersi lontano dalla faccenda, alla verità delle responsabilità e delle colpe; ma non giunge a cogliere e comprendere fino in fondo la rete delle omertà e delle complicità, e si lascia sorprendere dalla tentazione amorosa, così da perdersi, alla fine, e da saltare per aria con la sua auto, in una zona di scavi e sbancamenti per la costruzione di un nuovo quartiere a Palermo. E' la sconfitta della verità. Non c'è nessun capitano Bellodi, emiliano, a portare con sé la verità e a fame ancora in futuro lo scopo delle sue azioni. Nell'esplosione si cancella l'unico indagatore, quasi involontariamente coraggioso fino all'incoscienza. La mafia vince in modo radicale, irrimediabile, definitivo.

La tecnica poliziesca ritorna in due romanzi politici come Il contesto (1971) e Todo modo (1974). Nel primo una vicenda mafiosa è riflessa sulla situazione politica dell'intera Italia, divisa fra il potere democristiano e l'opposizione comunista, tuttavia sottilmente complice anch'essa del sistema del primo, e anche della mafia, in ultima analisi. Per questo il giornalista che, ingenuo e audace, ha sciolto un mistero di mafia in Sicilia, che coinvolge le alte autorità dello Stato e della politica, quando si rivolgerà all'amico comunista perché almeno lui pubblichi la verità sul suo giornale, finirà cancellato dall'agguato che, proprio con la complicità del giornalista d'opposizione, gli viene teso dall'organizzazione mafiosa. Alla mafia di paese, di provincia, di piccoli potentati politici ed economici, di complicità ecclesiastiche e dello stesso apparato dello Stato, adesso Sciascia contrappone un kafkiano ordine onnipotente, che comanda ovunque, sa tutto, tutti fa complici del proprio potere. Di fronte alla potenza assoluta, che è la mafia, ogni sfida di intelligenza e di onestà è donchisciottescamente vana quanto penosa. Il personaggio dell'indagatore della verità, del poliziotto onesto e lucidamente razionale, che rifiuta di credere all'onnipotenza mafiosa e crede di poterla combattere o almeno svelare alla coscienza di chi non è ancora del tutto asservito, è ormai impotente, e la sua morte, a cui collaborano gli uomini del governo e quelli dell'opposizione, è emblematica del pessimismo di Sciascia, che rappresenta il fallimento dell'ipotesi illuminista dei libri precedenti, della possibilità, cioè, di riformare il sistema politico e di vincere la mafia.

In Todo modo la struttura poliziesca si rivela ormai non più che il supporto narrativo di una proclamazione dell'insensatezza assoluta del mondo, politico e religioso, nei colori lividi di un grottesco che, dal “giallo”, ricava soprattutto la sequenza delle morti tutte inspiegabili, apparentemente illogiche e senza relazioni l'una con l'altra, il luogo separato dal mondo, dove sono raccolte le persone che via via appaiono come possibili colpevoli degli assassini e poi, magari, si rivelano vittime. Il convento per gli esercizi spirituali di un gruppo di uomini politici democristiani, che approfittano dell'occasione per tessere intrighi e coltivare progetti e complicità con un sacerdote, che pronuncia le omelie giornaliere con concetti che ricordano quelli del gesuita Naphta ne La montagna incantata di Thomas Mann, è il luogo deputato alla dissacrazione più radicale della religione, che pure dovrebbe essere la ragione della riunione. Il cinismo vi regna, nelle forme più ambigue e subdole. Chi sia il misterioso assassino che uccide i vari notabili democristiani, misteriosamente, non si saprà mai. Il poliziesco di Sciascia non ci dà più colpevoli, perché tutti sono colpevoli e complici. Ma il dubbio di fondo di Todo modo è un altro, più profondo: se, cioè, l'uccisione dei notabili democristiani risponda a un disegno criminale oppure sia un atto di radicale giustizia, grandiosamente barocco nella sua radicalità che non conosce pietà, perché nessuno la merita; e allora il sacerdote che governa gli esercizi spirituali potrebbe essere lui il giustiziere in nome di quel Dio che i politici hanno sempre in bocca, ma che hanno tradito coinvolgendolo nelle proprie mene di potere e facendosene uno scudo o un alibi.

Da questa sfiducia così radicale nella storia italiana nasce l'ulteriore fase dell'opera di Sciascia: quella, anzitutto, dell'autore di romanzi storici, che lo scrittore alterna alle opere di argomento contemporaneo, per poi dedicarsi presso che completamente alla narrazione della storia del passato come specchio di un male incurabile di ogni tempo, onde il mondo contemporaneo della mafia e del potere democristiano viene a essere rispecchiato in vicende esemplari del passato. A un certo punto, Sciascia finisce con il dedicarsi all'intervento nella cronaca, dalla posizione, che si assume, di maitre-à-penser, chiarendo così ai lettori meno abbagliati della risonanza delle sue prese di posizione e meno facilmente adescabili dall'indubbio fascino del polemista e del moralista, come, nella vicenda letteraria del dopoguerra, sia molto più significativo come intellettuale organico a un'idea della scrittura come “lezione”, ammaestramento, indicazione del bene e del male della cronaca, rivelatore e portatore sempre della verità e, come tale, non discutibile e non contestabile, che non come narratore, molto più episodico nei risultati, discontinuo, contraddittorio.

Tuttavia, proprio nell'ambito del romanzo storico Sciascia scrive la sua opera più alta e sicura: Il consiglio d'Egitto (1963). Già emblematica è la scelta del tempo storico del romanzo: il tardo Settecento e il primo Ottocento, nella Palermo esclusa dai grandi moti di rinnovamento della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche, perché rimasta sotto i Borboni, difesi dalla flotta inglese, ma percorsa anche da qualche fermento, dall'illusione del mutamento politico e sociale. Alla base del romanzo sta il falso che un abate palermitano mette in opera per gioco, dapprima, ma poi credendo sempre di più alla sua stessa invenzione, componendo dei falsi documenti che metterebbero in crisi l'intero sistema feudale ancora vigente nella Sicilia proprio perché essa è rimasta esclusa dalla possibilità di godere delle leggi che aboliscono la feudalità nel Regno di Napoli, emesse durante il periodo in cui fu re Gioacchino Murat, Per un poco, finché il falso non è scoperto, sembra che l'ordine plurisecolare della feudalità siciliana sia destinato a cadere, sia pure non in senso illuministico e moderno, ma per effetto di quel “Consiglio d'Egitto” che durante la dominazione araba avrebbe posto le basi di un ordinamento politico-amministrativo ben diverso da quello poi instaurato con la sottrazione dei documenti e la loro distruzione a opera dei feudatari posteriori, che in questo modo avrebbero fondato potere e ricchezze. Nel pessimismo di Sciascia, che si riverbera sulla storia della contemporaneità siciliana e mafiosa, soltanto una falsificazione può, sia pure per poco, mettere in crisi il potere sociale e politico: non la ragione, tanto è vero che il giovane ed entusiasta illuminista e riformatore viene condannato a morte e ucciso, quando tenta, con pochi altri spiriti moderni, nutriti delle idee della ragione e dell'Encyclopédie, di suscitare un'insurrezione a Palermo.

E' certamente l'eroe della storia, ma non riesce a nulla, e il suo fallimento e la morte significano la presa di coscienza, nell'allegoria degli eventi di quasi duecento anni prima, da parte di Sciascia alla speranza del rinnovamento, della trasformazione, dell'instaurazione. sia pure parziale o faticosa, della giustizia e della chiarezza della ragione moderna nel mondo oscuro, delittuoso, omertoso, della Sicilia e dell'Italia. Anche in Morte dell'inquisitore (1964) Sciascía rappresenta il personaggio del pensiero libero, dell'indagine della ragione, della lotta contro la superstizione nella sua sconfitta. Il protagonista di un minimo fatto storico del Seicento siciliano finisce anch'egli vinto e schiacciato dalla forza del sistema inquisitoriale, che ha trasformato la religione in superstizione. Sì, l'inquisitore muore anch'egli, orribilmente, ma Sciascia si affida all'ultima risorsa degli oppressi, quella delle origini cristiane durante le persecuzioni imperiali, che è l'intima certezza che anche gli oppressori sono destinati alla morte, e i loro trionfi, di conseguenza, sono effimeri, e gli oppressi possono attendere con disperata fiducia che la morte se li porti via. Anche l'altro romanzo storico di derivazione manzoniana, nel senso che racconta un episodio di caccia alle streghe nella Milano dei tempi dei Promessi Sposi, facendovi capitare dentro anche il cardinale Federigo, ha lo stesso tono di disperata pietà per le vittime delle superstizioni e degli inganni nella storia.

E' un modo di narrare la storia che è ben manzoniano, non tanto del Manzoni del romanzo quanto di quello della Storia della colonna infame. Non c'è altro da fare, per lo scrittore, che andare a cercare nelle cronache del passato episodi di ingiustizia e di crudeltà, per risarcire le vittime almeno con il ricordo delle loro sofferenze e l'ammonimento sui mali che portano con sé la superstizione e l'esercizio del potere come prevaricazione e oppressione dei deboli. La Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A. D., del 1969, è, invece, piuttosto un esercizio di abilità dialettica, quanto mai ironica fino al grottesco, nella raffigurazione della capziosità, delle contorsioni, delle complicazioni e degli intrichi del rapporto fra i poteri e i potenti, sul vuoto della ragione. Ma, intanto, la cronaca passata e recente finisce a sostituirsi alla storia, e proprio il gusto dialettico, della trovata un poco a effetto, da avvocato dei processi dell'attualità, sofistico, dedito al ritrovamento di misteri e di complicità politiche dietro ogni fatto preso in esame, diviene la guida di numerose opere di Sciascia, fra le meno felici, anche se sono state quelle che hanno suscitato maggiore clamore di reazioni giornalistiche; e anche lo stile si adegua al basso di tale concetto dell'uso della parola, con un fondo di popolaresco piacere del colpo di scena e dell'indagine e della scoperta del mistero attraverso ipotesi ingegnose da investigatore un poco esagerato e fantasioso, ma avvincente.

E' il caso de La scomparsa di Majorana (1975), che ha come protagonista il matematico sparito durante il tragitto in nave fra Palermo e Napoli negli anni Trenta, a proposito del quale Sciascia ipotizza il ritiro in convento, per sfuggire alla responsabilità di collaborare alla preparazione dell'atroce strumento di morte della bomba atomica, per di più sotto il fascismo. I pugnalatori (1976) rievoca un oscuro evento di cronaca nera nella Palermo dell'Ottocento, dopo l'Unità d'Italia: anche qui immagina complicità e omertà del potere politico nazionale con quello siciliano e con la mafia. Gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (197 1) e Eaffaire Moro (1978) hanno anche strutturalmente la forma dell'inchiesta giornalistica, ma perfettamente rappresentano la scelta della letteratura non più come invenzione e scrittura, ma come ipotesi interpretativa dei “misteri” antichi e recentissimi, scoperta di colpevoli, rivelazione di fatti tenuti celati, analisi psicologica dei protagonisti in funzione della concezione che Sciascia si è fatto intorno a ciò che è accaduto, in modo ormai indolore per quel che riguarda il poeta Roussel morto a Palermo misteriosamente, molto più pensosamente e con peggiore responsabilità per quel che riguarda Aldo Moro, il rapimento a opera delle brigate rosse, la detenzione, infine l'assassinio da parte dei rapitori. Sciascía si costruisce H personaggio, e sulla base di tali idee racconta come sono andate secondo lui le cose, nell'intrico delle complicità e delle responsabilità, naturalmente attribuite a quel sistema politico, democristiano e d'opposizione puramente infinta, che già era stato oggetto di accusa e condanna ne Il contesto. Nero su nero (1979), Cruciverba (1983), 0cchio di capra (1985) hanno, pur nella brevità degli scritti giornalistici e polemici che li compongono, lo stesso carattere, che diviene sempre più quello di una predicazione abbastanza funebre, di una denuncia intinta nel buio della negazione e della condanna universale.

Significativamente, quando in mezzo a opere del genere Sciascía introduce ancora un romanzo, questo (Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, 1977) è un rifacimento e una riscrittura. Il “Candido” di Sciascia è siciliano, si trova a confrontarsi con l'orrore e le violenze della storia nel periodo che va dalla guerra allo sbarco alleato, al dopoguerra di banditi e mafiosi, che attraversa con il suo ottimismo, ma non fino al punto, in questo molto allontanandosi dal modello voltairiano, da restare nella sua isola a scontrarsi con pericoli e rovine, ma, al contrario, a un certo punto andandosene a Parigi. Se anche il romanzo A futura memoria (se la memoria ha un futuro), uscito postumo nel 1990, non è che la ripresa o, meglio, il rifacimento del modulo poliziesco di opere precedenti e particolarmente fortunate, s ha da dire allora che, nell'attività letteraria di Sciascia degli ultimi decenni faccia eccezione, per altezza di concezione e per assoluta purezza e forza di stile, Il Cavaliere e la Morte (1988). Romanzo filosofico, anzi metafisico, a cui bene si addice il titolo dureriano, è il racconto del viaggio verso la Morte da parte dell'uomo che, emblematicamente, ha combattuto la buona battaglia nel mondo con le armi della ragione, con decoro, con onore, con dignità. C'è una limpida, divina misura di malinconia e di distacco dal mondo, ma anche di profondo quanto vano, ormai, amore nel Cavaliere che va all'incontro con la Morte; e anche il linguaggio subisce una trasformazione profonda, perdendo ogni eccesso di capziosità alla ricerca di spiegazioni sempre troppo ingegnose per i “misteri” della cronaca italiana. Di fronte all'autentico mistero della vita e della morte, Sciascia ritrova di colpo la lucidità del grande razionalista e la trepidazione di fronte alla prova decisiva che è la morte, con l'ombra del sigillo su quanto c'è (o non c'è) al di là, e sul senso, allora, di quanto accade al di qua, nel mondo.

Sciascia è stato anche un grande saggista letterario più che di costume. Opere come Pirandello e il pirandellismo (1953), Pirandello e la Sicilia (1961) e, soprattutto, La corda pazza (1970), che ha un così efficace ed emblematico titolo pirandelliano (da Il berretto a sonagli), sono fra le più vive e acute della saggistica italiana del Novecento, su quella linea di intelligenza arguta e un poco sofistica che è tipica della scrittura di Sciascía, sempre. Sciascia, come molti scrittori e intellettuali siciliani, finisce a essere preso dall'idea della specificità isolana della letteratura di scrittori nati e operanti in Sicilia, nell'ambizione di poterne dare una definizione che tutti li possa comprendere, e anche se stesso, i propri caratteri distintivi nei confronti della letteratura nazionale, con un misto di orgoglio e di ansia di trovare una collocazione, compagnia, somiglianza, segni di onore e, al tempo stesso, il pericolo della solitudine, dell'impossibilità di avere una collocazione, un punto di riferimento in Europa, avendo, in qualche misura, allontanato molto al di là dello Stretto l'Italia e la tradizione italiana; e, in più, c'è un brivido di sospetto di una follia isolana, che nasce ed è coltivata nella stessa rivendicazione della “sicilianità” non soltanto letteraria, ma anche di visione del mondo, con un omaggio, in ultima analisi, alle idee che Tomasi di Lampedusa mette in bocca al suo principe di Salina.

BIBLIOGRAFIA

Opere di Leonardo Sciascia

* A ciascuno il suo. Audiolibro. CD Audio formato MP3. Ediz. integrale, 2009, Il Narratore Audiolibri
* L'affaire Moro, 2009, Sellerio Editore Palermo
* Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, 2009, Sellerio Editore Palermo
* Il Consiglio d'Egitto, 2009, Adelphi
* La contea di Modica (con Leone Giuseppe), 2009, Edizioni di Passaggio
* Fatti diversi di storia letteraria e civile, 2009, Adelphi
* Invenzione di una prefettura. Le tempere di Duilio Cambellotti nel Palazzo del Governo di Ragusa, 2009, Bompiani
* Il cavaliere e la morte, 2007, Adelphi
* Il contesto. Una parodia, 2006, Adelphi
* La scomparsa di Majorana, 2004, Adelphi
* Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia, 2005, Adelphi
* Il teatro della memoria-La sentenza memorabile, 2004, Adelphi
* L'adorabile Stendhal, 2003, Adelphi
* Il contesto. Una parodia, 2003, Feltrinelli
* I pugnalatori, 2003, Adelphi
* Il giorno della civetta, 2002, Adelphi
* A ciascuno il suo, 2000, Adelphi
* Opere. Vol. 1: 1956-1971, 2004, Bompiani
* Opere. Vol. 2: 1971-1983, 2004, Bompiani
* Opere. Vol. 3: 1984-1989, 2004, Bompiani

“STORIA DELLA CIVILTA' LETTERARIA ITALIANA” (UTET)
“GRANDE DIZIONARIO ENCICLOPEDICO” (UTET)
“RICERCA SU INTERNET”
“CANDIDO: OVVERO UN SOGNO FATTO IN SICILIA” collana FABULA.

Scarpellini Mario <skifox@uninetcom.it>

Cyrus
06-02-10, 17:59
si avrebbe una nozione della mafia molto più precisa…
11 dicembre 2009 – 21:21
sciascia.jpg

C’è un rischio. Il rischio è questo: tutti si occupano di mafia. Tranne la polizia. Non si può perdere di vista questo: di mafia si deve occupare anche e soprattutto la polizia. Poi va benissimo che se ne parli a scuola, nelle famiglie, sui giornali e ovunque. L’educazione civica totale si può fare anche attraverso la letteratura italiana. Se il professore, quando arriva ad aprire il capitolo dei “Promessi Sposi” al capitolo dei bravi, si ferma a dire: guardate, questa è la Lombardia del Seicento. La Lombardia di oggi non ha più questi fenomeni, mentre in altre regioni noi li abbiamo. La Lombardia non li ha più perché ha avuto la fortuna di avere il governo austriaco di Maria Teresa; e se spiega in che cosa consisteva il governo di Maria Teresa, l’illuminismo austriaco, allora credo che si avrebbe una nozione della mafia molto più precisa di quella che si può trovare nei testi mafiologhi.
Leonardo Sciascia, maggio 1984
Leonardo Sciascia – Diary (http://www.raucci.net/tag/leonardo-sciascia/)

zulux
09-02-10, 00:42
...ti ringrazio per l'ottima qualità del materiale su guido calogero... lo riprenderò per il mio thread sul liberalsocialismo...

Cyrus
20-02-10, 20:05
...ti ringrazio per l'ottima qualità del materiale su guido calogero... lo riprenderò per il mio thread sul liberalsocialismo...

Prego, fa sempre piacere essere utile. :)

Cyrus
20-02-10, 20:09
indice
pag 1 Mario Pannunzio
pag 2 Ernesto Rossi
pag 3 Adelaide Aglietta
pag 4 Leo Valiani
pag 5 Felice Cavallotti
pag 6 Ernesto Nathan
pag 8 Ernesto Rossi (2ap)
pag 9 Luigi Del Gatto
pag 9 Adele Faccio
pag 12 Antonio Russo
pag 14 Guido Calogero
pag 15 Leonardo Sciascia

Cyrus
08-03-10, 20:02
Guido Calogero organizzatore politico
Di Paolo Soddu
Nel 1979, ritornando sulla stagione del liberalsocialismo, Guido Calogero definì sé stesso un «pigro antifascista da sempre», svegliatosi «nel 1935 essenzialmente quando vidi che Mussolini già spediva il fascismo sul piano internazionale, assaliva l’Etiopia, preparava la seconda guerra mondiale, si era già accordato con Hitler».
In effetti, sebbene fosse segnalato fin dal 1930 come antifascista e discretamente e continuativamente sorvegliato nei suoi movimenti interni ed esterni, il fascicolo di Calogero al Casellario politico centrale è costellato soltanto dalle richieste e dalle concessioni del passaporto necessario alla sua attività di studioso con vaste relazioni europee. E dai solleciti e dagli interventi in suo favore di Giovanni Gentile, che ne agevolò e sostenne le ragioni con Arturo Bocchini nella lunga mediazione con il ministero degli Esteri. Negli anni della dittatura Calogero visse di una vita tranquilla all’interno delle istituzioni culturali e in una comunanza intellettuale e umana con Gentile. Fu quindi la proiezione internazionale della dittatura a favorirne l’approdo a un antifascismo attivo e alla precisazione della proposta liberalsocialista. Un percorso analogo, di superamento cioè di un’analisi tutta incentrata sulle fondamenta nazionali del fascismo, sottolineandone aspetti di una sofferta trasformazione che investiva la contemporaneità, caratterizzò anche Giustizia e Libertà e il conflitto che oppose Carlo Rosselli e il gruppo raccolto attorno a lui ai cosiddetti “novatori”, Nicola Chiaromonte , Andrea Caffi, RenzoGiua, Mario Levi.
Fu nel caso di Calogero la guerra di Etiopia a risvegliare un antifascismo famigliare nutrito dalla lettura paterna del «Mondo» di Giovanni Amendola e a incamminarlo lungo un percorso di impegno politico che avrebbe costituito un tratto caratterizzante della sua lunga esistenza, come se la forza delle cose avesse condotto ad assumere l’impossibile separazione, nella loro autonomia, di cultura e politica. Si sarebbe espresso nella diretta partecipazione ai diversi tentativi del farsi di una sinistra democratica consistente e autorevole: in primo luogo l’antifascismo e la Resistenza con il ruolo creativo e dirigente nel Partito d’azione; in una seconda fase l’immersione tra il 1955 e il 1962 nell’intensa vicenda del Partito radicale con la partecipazione diretta alle elezioni del 1958 nelle liste congiunte con il Pri in Abruzzo, a Siena-Grosseto alla Camera e a Verona al Senato; nel terzo e ultimo momento l’adesione infine alla breve speranza dell’unificazione socialista nel 1966 con la candidatura al Senato in un collegio della Calabria di Giacomo Mancini, che si rivelò la sua ultima sconfitta.
Dalla seconda metà degli anni trenta e fino al 1942, quando tra la fine di maggio e i primi di giugno venne arrestato prima e condannato poi al confino insieme con i maggiori esponenti liberalsocialisti fiorentini, Calogero fu con Aldo Capitini animatore del movimento, attivo soprattutto nell’Italia centrale. Su quell’esperienza, che è stata oggetto di molti studi che investono anche la ramificazione pugliese, Calogero e Capitini ci hanno lasciato diverse testimonianze. Il liberalsocialismo consentì, alla generazione cresciuta nella dittatura e partecipe della sua dimensione di massa della politica, di oltrepassare quei confini, di gettare lo sguardo sul mondo e di affrontare i dilemmi scaturiti dalle profonde trasformazioni intercorse tra le due guerre. Per Calogero di lì si dipanò l’esperienza politicamente decisiva della sua vita. E se la sconfitta della prospettiva che ne seguì segnò l’effettivo disporsi della democrazia repubblicana, rivelò anche gli ambiti effettivi della realtà italiana a metà del Novecento immersa nella «grande trasformazione» e nel nuovo scenario che ne derivò con tutte le specificità della sua vicenda nazionale. L’azionismo nei suoi diversi orientamenti e nelle strategie che ne derivarono operò nel secondo dopoguerra in posizioni di minoranza. Ambivano però a dare un segno e a orientare la costruzione democratica. Per quanto autorevoli, gli azionisti non conseguirono risultati significativi e, anzi, gli anni settanta ne allontanarono per sempre le prospettive. E tuttavia la loro cultura politica indicò in anticipo – la presbiopia fu uno dei suoi caratteri qualificanti - non solo un percorso, ma un modo di essere che conteneva l’essenza stessa di una compiuta maturazione democratica del paese o, se si vuole, di un sempre maggiore indebolimento degli aspetti più squisitamente nazionali in una prospettiva europea e occidentale. Vi è chi ha ritenuto un esito essenzialmente felice per il paese la sconfitta della cultura politica derivante dal Partito d’azione, perché la sua cifra si sarebbe vieppiù irrigidita in una proposta profondamente condizionata dalla presenza del Pci, del quale volente o no, l’azionismo sarebbe al fondo stato subalterno. In questa interpretazione c’è di vero soltanto la comunanza per quelle due forze della centralità dell’esperienza antifascista, ancorché vissuta così diversamente da derivarne due strategie esattamente alternative. In effetti Pci e Pd’a furono i due “partiti nuovi” scaturiti dalla seconda guerra mondiale, ma con un’analisi diametralmente opposta analisi intorno alla vicenda unitaria e al nesso nazionale-internazionale sempre più stringente nel corso del Novecento. Ne derivò un’operare politico che non poteva non essere in aspra contesa. Anche se l’azionismo rigettava le forme religiose, familistiche e classiste dell’anticomunismo, propugnandone al contrario la versione democratica, che in quanto tale si proponeva di comprendere, per meglio contrastarle, le ragioni del radicamento e della forza di attrazione della prospettiva comunista in Italia. L’azionismo fu politicamente ed eticamente decisivo in tutti i passaggi del farsi dell’Italia democratica che conservava la memoria del suo sorgere in contrapposizione con la dittatura e accompagnò l’intero sviluppo della formazione della democrazia repubblicana. Negli anni di De Gasperi furono con La Malfa, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria le componenti del Partito d’azione a imprimere spirito innovativo e dinamico alle strutture portanti dell’economia italiana; a indicare con Parri e con Calamandrei, nel contempo, i limiti di una costruzione democratica incompiuta; a prospettare e a precisare con Altiero Spinelli la nuova dimensione europea; a proiettare il paese fuori d’Italia - Tarchiani ambasciatore a Washington, Fenoaltea a Ottawa, Franco Venturi addetto culturale all’ambasciata di Mosca, Guido Calogero dal 1950 al 1955 direttore dell’Istituto di cultura italiana a Londra. Nel centrosinistra dalle componenti derivate dal Partito d’azione – per tutti, La Malfa e Riccardo Lombardi - provenne il programma più rigorosamente riformatore che sia mai stato formulato nel nostro paese. E anche nella solidarietà nazionale fu quell’area a selezionare i contenuti di una politica per quel giro di svolta decisivo per il futuro del paese.
Fu la natura della democrazia italiana la questione centrale del Pda. Si traduceva nell’Italia di metà Novecento nell’esigenza storica di sconfiggere e liquidare l’intreccio costituito dall’antico dominio delle oligarchie, capaci per loro natura di alimentare le tendenze oclocratiche, all’interno di un perdurante, ossequioso e irrigidente senso delle gerarchie. Calogero, che era politicamente poco prudente, fu arrestato nel 1942 anche per questa ragione, per avere al termine di un consiglio di facoltà a Pisa perorato la sconfitta dell’Italia fascista. A tutto ciò il Partito d’azione oppose la democrazia e una proposta frutto di una riflessione nella quale tutte le componenti eretiche o comunque eterodosse delle culture politiche del Novecento si erano immerse prima di dare vita al partito. Il Partito d’azione guardò, sulla base delle diverse sensibilità che lo componevano, alla grande trasformazione realizzatasi tra le due guerre e di lì traeva i materiali che avrebbero consentito la costruzione di un sistema democratico dopo l’esperienza totalitaria.
I motivi diversi alle origini della ricerca azionista non derivavano tanto dal carattere radicale o moderato delle proposte o dalla divisione ideologica tra liberali, per quanto avanzati, e socialisti, ancorché poco marxisteggianti. Il lungo e aperto conflitto che intorno al liberalsocialismo oppose Calogero a La Malfa e che si è anche ripercorsa sulla riflessione storiografica sul Pda era più in generale un discorrere sul politico a metà del Novecento. Infatti, il dato originale, rispetto al quale si consumò la stessa sopravvivenza del partito, fu proprio la questione dell’autonomia del politico e, conseguentemente, della sua compiuta secolarità.
Per l’insieme delle culture che confluirono nel Partito d’azione la caduta del fascismo era cesura storica. Vi si condensava il precipitare di tutta la vicenda unitaria, la certezza di poter riconnettere passato - le origini - , con il presente per la consapevolezza infinitamente maggiore rispetto alle altre culture dei mutamenti epocali compiutisi tra le due guerre. E non era questa conoscenza meramente parziale, maturata sulla base di alcune e forse neppure delle più significative delle esperienze europee tra le due guerre. Era aspirazione a connettere il senso profondo della «grande trasformazione» e a tradurlo in una strategia consona a un paese che più di altri scontava il peso di una modernità arretrata. Fu indubbiamente La Malfa ad esprimere politicamente con maggiore lucidità questo percorso, questo sentire del Partito d’azione. Si poteva infatti realizzare, scrisse, «una democrazia nuova, ardita, fatta matura dalle esperienze e dagli errori del passato, senza pregiudizi di classe e di casta, senza timidezze e tentennamenti, con una visione chiara, precisa, inflessibile dei doveri collettivi, con una preoccupazione costante di realizzare un alto livello di umanità e di civiltà». Solo la democrazia consentiva di acquisire quelle «dignità e sicurezza di vita materiale e spirituale» imprescindibili per la trasformazione delle masse in cittadini. Questa società democratica sconosciuta al nostro paese era l’Occidente trasformato tra le due guerre, ammaestrato dalle «istituzioni liberali delle nazioni anglosassoni» e dagli «arditi rinnovamenti sociali della Russa sovietica». I contenuti della democrazia investivano innanzitutto lo Stato: andava «colpito al centro, con una fredda e calma valutazione dei suoi punti di forza e di debolezza». Poi, la questione meridionale, perché «la terribile minaccia di una frattura potrebbe incombere sull’Italia di domani». La democrazia imponeva una dimensione adulta, di «piena responsabilità» in quanto espressione della «presa del possesso dello Stato» da parte delle grandi masse popolari.
Anche per la componente cosiddetta liberaldemocratica e che storicamente sarebbe più coretto definire democratica tout court, il senso del Partito d’azione era la presa d’atto dell’esaurimento del paradigma liberale, tanto da rivendicare esplicitamente il porsi «al di fuori delle correnti tradizionali liberali». Per «questo partito che non ha storia prima del fascismo», «il compito economico e sociale dello Stato è altrettanto importante e prevalente che il compito di restaurare e conservare la democrazia politica». Era una visione compiutamente secolarizzata della politica. E lo era a tal punto dall’amplificare l’insofferenza nei riguardi delle ideologie, proprio perché riteneva che in un paese dal pluralismo debole, con fratture storicamente sedimentate, con il ruolo fondamentale della dittatura nell’affermazione della politica di massa, occorresse riannodare i fili con una tradizione della modernità, intravista per primo da Machiavelli, e che nel primo Novecento aveva animato le esperienze pur così diverse di Giovanni Amendola, giunto a una visione secolarizzata della politica soltanto dopo una piena immersione nel religioso e nella crisi della coscienza europea, e dello sperimentalismo di Piero Gobetti. […]

Cyrus
08-03-10, 20:02
Ricordo del pensatore di Monforte San Giorgio nel centenario della nascita
GUIDO CALOGERO E LA FILOSOFIA DEL DIALOGO
Il peso del progetto politico del "liberalsocialismo"


Girolamo Cotroneo

N on è raro che il nome di un filosofo evochi un libro, un concetto, un'idea, un problema particolare, qualcosa, cioè, che è stato al centro della sua attenzione, della sua fatica mentale, e costituisce il suo contributo originale alla cultura filosofica di un paese, o alla filosofia tout-court. Il nome di Guido Calogero, di cui ricorre quest'anno il primo centenario della nascita, e che merita questo ricordo anche per i suoi legami "naturali" con la Sicilia, in particolare con la provincia di Messina, essendo originario di Monforte San Giorgio; il nome di Guido Calogero, dicevo, evoca subito a chi conosca le vicende relative alla ripresa della vita politica italiana nei primi anni Quaranta del Novecento, un progetto politico - il "liberalsocialismo", di cui nel 1940 scrisse il primo manifesto - che ebbe pure qualche peso nel dibattito culturale e nelle vicende politiche di quegli anni. Intorno a esso nacque un partito - il Partito d'Azione - che raccolse sotto le sue insegne non pochi intellettuali di prestigio: poiché tuttavia il consenso ottenuto presso i cittadini fu relativamente modesto, ebbe scarsa incidenza sulle convulse vicende politiche di quegli anni. Accanto a questa esperienza filosofico-politica il nome di Guido Calogero evoca un altro indirizzo di pensiero, in apparenza meno legato alla prassi politica: la "filosofia del dialogo" che divenne l'impegno principale della sua ricerca a partire dal 1950, quando pubblicò un volume dal titolo Logo e dialogo, al quale, nel 1962, seguì l'opus majus degli ultimi anni della sua attività di pensiero: Filosofia del dialogo. Tema importante, destinato a suscitare non poco interesse, e ad avere una notevole ricaduta pratica, in una stagione, quella della "guerra fredda", contrassegnata in Italia della dura, non facilmente mediabile, contrapposizione tra cattolici e liberali da una parte e marxisti dall'altra. Tema delicato, al quale tuttavia Calogero seppe dare un taglio e una misura "forti", perché il rischio di scivolare dal dialogo alla tolleranza scettica è davvero grosso. Questi pensieri, questi progetti filosofico-politici, nati, come dicevo, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, costituiscono una fase ulteriore dell'attività filosofica di Guido Calogero, iniziata quando, nel 1927 - a soli ventitrè anni, quindi - aveva pubblicato un volume, ancora letto e discusso dagli studiosi del pensiero antico: I fondamenti della logica aristotelica; una ricerca a prima vista lontana da quelli che sarebbero stati gli esiti conclusivi del suo pensiero. In realtà, tra questo primo lavoro, al quale aveva dato una forte impronta teoretica, e quelli posteriori di cui ho detto prima, caratterizzati da un impegno soprattutto etico-politico, non esiste alcuna soluzione di continuità. Vediamo. Il nome di Guido Calogero evoca non soltanto alcuni momenti essenziali del dibattito filosofico italiano dei primi tre quarti del secolo scorso. Evoca soprattutto un altro nome: quello di Giovanni Gentile, il cui pensiero ha esercitato una forte egemonia sul pensiero filosofico italiano nella prima metà del Novecento, e una decisiva influenza sul suo pensiero. Un'egemonia superiore a quella esercitata da Benedetto Croce, nella cui filosofia Calogero non riuscì mai, pur meditando a lungo su di essa, a ritrovarsi, e con il quale ebbe un forte dissidio proprio a motivo di quel "liberalsocialismo", i cui presupposti filosofici Croce stroncò con notevole durezza. Questo perché mentre l'attualismo monistico di Gentile gli consentiva di "unificare" in un tertium quid liberalismo e socialismo, giustizia e libertà, la "teoria della distinzione" di Benedetto Croce vietava sul piano logico, prima ancora che su quello etico-politico, quella falsa unificazione, alla quale, come è noto, il filosofo dava ironicamente il nome di "ircocervo". Questo non significa che Guido Calogero - pur mantenendo sempre un atteggiamento positivo nei confronti di Gentile, come dimostrano le sue lettere con il "maestro", finemente analizzate qualche anno addietro da una giovane studiosa messinese, Rosella Faraone - fosse appiattito sulle posizioni speculative del filosofo siciliano. L'evoluzione del suo pensiero, infatti, vede l'asse della sua ricerca spostarsi - come dimostra, ad esempio un importante, volume del 1939, La scuola dell'uomo - dal piano "speculativo" a quello etico, modificando i termini in cui l'idealismo istituiva il rapporto soggetto-oggetto, convinto com'era che il mondo dei valori non si può costruire attraverso "giudizi determinanti", scelte necessarie, obbligate, ma soltanto attraverso opzioni possibili. In tale contesto di pensiero si inserisce uno dei suoi libri più importanti: La conclusione della filosofia del conoscere del 1938, dove il privilegio dell'attività pratica nei confronti di quella speculativa, veniva proclamato senza preoccupazioni di natura teoretica: "La filosofia del conoscere", affermava, "quando ha un contenuto concreto, non è filosofia del conoscere, ma filosofia dell'agire"; e concludeva che "se nel secolo decimottavo morì la metafisica, nel ventesimo muore la gnoseologia". Questo non comportava certo il rigetto della logica antica, alla quale aveva dedicato molte delle sue energie intellettuali: nella nuova fase del suo pensiero, questa non veniva espunta come momento della "filosofia del conoscere", ma riconosciuta quale condizione preliminare dell'intesa tra gli uomini, come precondizione del discorso e dell'argomentazione. Guido Calogero ha detto anche altro, su cui non posso, né ritengo indispensabile, indugiare. A conclusione, però, vorrei osservare che oggi i temi di fondo della filosofia, della morale, della politica - è quasi banale dirlo - sono altri. Ma ripensare, sia pure come in questo caso a motivo di una ricorrenza, alcuni aspetti e momenti della nostra tradizione filosofica, soprattutto quella degli anni "di ferro" vissuti da Guido Calogero, può farci capire che quella tradizione ha avuto un ruolo positivo nella rinascita delle nostre libertà e nella ricostituzione di rapporti "umani" tra i cittadini di questo paese. Di essa, quindi "non dobbiamo arrossire".
(dalla "Gazzetta del Sud" di domenica 19 settembre 2004)

Cyrus
08-03-10, 20:03
CALOGERO il più giovane dei miei maestri

di Norberto Bobbio

Il ricordo che ho di Calogero è quello di una bella amicizia, ma prima di tutto di una profonda, straordinaria, ammirazione: di quell'ammirazione che si prova di fronte ad un maestro. Mi viene subito alla mente quel disegno di Renato Guttuso che documenta anche il mio ingresso nell'antifascismo attivo, era il 1939. Prima a Camerino, dove dal 1935 ero docente di filosofia del diritto, poi a Siena, dove insegnavo, dopo aver vinto il concorso, dalla fine del 1938, avevo iniziato a frequentare le riunioni del movimento liberalsocialista, animato da Calogero e da Aldo Capitini. Il disegno di Guttuso, allora giovane e promettente pittore, rappresenta la testimonianza di una di queste riunioni: siamo raffigurati io, Umberto Morra (proprietario della villa presso Cortona dove spesso si tenevano le nostre riunioni e che ci presentò lo stesso Guttuso), Cesare Luporini (che poi divenne comunista), Capitini e, appunto, Calogero con il dito alzato. Entrambi tengono un libro in mano: su quello di Calogero si legge Liberalismo sociale, su quello di Capitini Non violenza. Dell'artefice del disegno si vede la nuca.

La prima volta che vidi Calogero fu nel 1933, a Roma, ad un Congresso hegeliano. Presiedeva Giovanni Gentile, che tenne il discorso d'apertura, Calogero era fra i relatori ed io ero fra il pubblico. Mi impressionarono la sua bravura, la sua intelligenza, il suo sguardo. Eravamo entrambi molto giovani (io avevo ventiquattro anni, lui era di soli cinque anni più grande di me), ma rimasi stupito dalla sua maturità: era giovane d'età, ma sembrava un uomo "già arrivato". Questo aspetto destava grande e profonda ammirazione in noi aspiranti studiosi. Calogero aveva un viso "aperto" e i suoi occhi esprimevano, per così dire, quella volontà di discussione che ne faceva un "maestro del dialogo".

Non è un caso che i ragazzi della Federazione giovanile del Partito d'Azione si rivolgessero a lui per farsi chiarire la struttura e il senso delle principali regole della discussione democratica, per essere educati alla procedura, nella fase in cui la dittatura fascista sembrava realmente potersi sostituire con un nuovo ordine. I diversi interventi apparvero, in un primo momento, su quello che era il giornale del Partito d'Azione, l'Italia libera.

Calogero era dunque per noi più giovani un simbolo, un esempio da ammirare e possibilmente da seguire. Era diventato professore universitario molto presto. Oltre che essere di una intelligenza precoce aveva una grande capacità di apprendere: si era dedicato alla filosofia, ma avrebbe potuto insegnare lettere classiche; oltre al latino, sapeva benissimo il greco, lo leggeva perfettamente: del resto fu traduttore di opere come il Simposio e il Critone. Dimostrava una straordinaria facilità di apprendimento: oltre al greco, conosceva in modo approfondito il tedesco e sapeva anche l'inglese. Non so quando l'avesse studiato, ma lo parlava correntemente, tanto che nel 1950 fu chiamato a dirigere l'Istituto italiano di Cultura a Londra.

Era un uomo di un'intelligenza estremamente rapida. Cominciò prestissimo a scrivere: poesie, recensioni, apparse queste ultime sul Giornale critico della filosofia italiana diretto da Gentile. Compose la sua prima opera molto giovane, nel 1927, a ventitré anni: i Fondamenti della logica aristotelica, che ampliava e rielaborava la sua tesi di laurea (discussa nel 1925); ma il suo primo scritto risale a qualche anno prima, al 1923, ed era dedicato a Pindaro, l'autore al quale Calogero, giovane studente di filologia classica presso l'Università di Roma, pensava di dedicare la tesi; questo prima di conoscere Gentile e dedicarsi agli studi filosofici.

Dimostrava una precocità fuori dal comune nell'imparare le cose difficili, la logica, le lingue straniere, antiche e moderne. Tutto questo ci affascinava e ce lo faceva vedere, appunto, come un maestro. La sua sfortuna fu che così come aveva iniziato molto giovane finì il suo cammino di studioso non vecchio: ricordo benissimo quando la sua intelligenza cominciò a deperire, a degenerare. Mi vengono alla mente i colloqui che ebbi con sua moglie, Maria Comandini, e il racconto delle sue difficoltà. I suoi ultimi libri risalgono alla fine degli Anni Sessanta, per quanto poi continuasse a scrivere su periodici, riviste e quotidiani. Gli anni precedenti alla sua scomparsa furono terribili, si era appannata la sua intelligenza [...].

L'incontro con Capitini
A quel periodo risale anche la mia conoscenza dell'altro ispiratore del liberalsocialismo: Aldo Capitini. Prima di insegnare a Siena, come accennato, ero professore a Camerino. E ricordo di esserlo andato a trovare a Perugia, nel momento in cui stava per pubblicare il libro che lo rese noto, Elementi di un'esperienza religiosa, che è del 1937, mentre il libro di Calogero, altrettanto fondamentale per la mia generazione, La scuola dell'uomo, è del 1939. Questi sono i due libri che rappresentano come dire un precorrimento, una specie di anticipazione, di quella che era la lotta politica antifascista clandestina, che però si manifestava nelle opere scritte, con molta cautela come dimostra il titolo del libro di Capitini, che in realtà celava una trattazione strettamente politica.

Capitini e Calogero furono due figure assolutamente centrali per la mia formazione e per il mio ingresso nell'antifascismo attivo. E tuttavia erano personaggi molto diversi fra loro.

Si possono individuare due fasi del loro rapporto. Dapprima c'è un dialogo legato al liberalsocialismo, che sta a cavallo fra la fine degli Anni Trenta e l'inizio degli Anni Quaranta. In estrema sintesi, mentre il liberalsocialismo di Capitini era di evidente orientamento social-religioso e non soltanto politico, quello di Calogero si caratterizzava per l'approccio giuridico. C'è poi una seconda fase di scambio fra i due, a metà degli Anni Sessanta, poco prima della morte di Capitini (che avviene nel 1964), che riguarda la filosofia del dialogo. Sulle riviste Azione non violenta (diretta da Capitini) e La Cultura (diretta da Calogero) uscirono articoli dell'uno e dell'altro sulla nonviolenza, il dialogo e l'"apertura" in cui i due affrontavano queste tematiche: l'uno, Capitini, partendo da un profondo senso religioso, l'altro, Calogero, da un forte afflato morale di matrice laica, che già in La scuola dell'uomo trova una testimonianza esemplare.
Il problema centrale, comunque, nel quadro dei rapporti fra i due, è quello della nonviolenza. Calogero aveva una mentalità giuridica che Capitini certamente non aveva e questo portava il primo a sostenere (cosa che anch'io ho sempre pensato) che la nonviolenza finirebbe per essere una teoria disarmata, inefficace, senza il diritto. Come ho sottolineato in molti scritti, il diritto senza forza non si dà, come sanno tutti quelli che hanno studiato giurisprudenza, il diritto senza possibilità della sanzione, che operi qualora si verifichi la violazione delle norme, non esiste.

Calogero e Capitini avevano senz'altro qualcosa in comune sul piano intellettuale, legato alla formazione idealistica, all'insegnamento di Croce e Gentile, da cui poi entrambi si distaccarono.

Il modello Inghilterra
Calogero era un idealista immanentista, la sua filosofia derivava da quella che era allora la filosofia dominante in Italia. Ma sulla questione del diritto e della nonviolenza le loro posizioni erano senz'altro diverse, e alcuni passaggi del saggio I diritti dell'uomo e la natura della politica, contenuto in questa raccolta, ne sono una chiara dimostrazione.

Un altro punto su cui mi preme soffermarmi è il suo modo di intendere il socialismo. La sua simpatia per questa prospettiva culturale e politica va senz'altro attribuita alla sua ammirazione per l'Inghilterra e per il laburismo. Naturalmente bisognerebbe anche rivedere il suo libro sul marxismo, Il metodo dell'economia e il marxismo, che a suo tempo ebbe una certa fortuna tra coloro che si stavano avviando sulla strada dell'antifascismo. Sarebbe una buona occasione, fra l'altro, per richiamare l'attenzione su un testo ormai dimenticato e che pure presenta, ancora oggi, qualche interesse rispetto al dibattito continuato e sempre attuale sulla storia del marxismo.

Le istanze socialiste di Calogero si raccolgono attorno all'idea di una società giusta fondata sul dialogo e la reciprocità, su un'idea di democrazia come colloquio integrale perché tutti devono avere il diritto-dovere di prendervi parte. Scrive per esempio Calogero in L'abbiccì della democrazia: "L'unità della democrazia è l'unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze". E' un modo singolare e originale di definire la democrazia. Quando si parla di democrazia s'intende, primariamente, la partecipazione al potere, richiamando una nozione di potere dal basso.

L'uguaglianza è libertà
Calogero fa riferimento al rapporto fra gli individui, alla relazione dialogica, alla democrazia come ciò che rende possibile il dialogo, che non è la definizione più comune di democrazia, per cui usualmente si intende, appunto, il rapporto fra l'insieme dei singoli e il potere. Questo in Calogero è implicito. Egli si richiama costantemente al rapporto fra gli individui, al dialogo inteso come reciprocità, ad un continuo domandare e rispondere: la democrazia è vista attraverso il dialogo, che è regola fondamentale ma anche valore.

L'ideale della democrazia come colloquio spiega in qualche modo anche la sua visione sociale degli assetti democratici: tutti devono avere la possibilità di prendere parte allo scambio dialogico, devono avere l'effettiva capacità e l'effettivo potere di discutere con gli altri. E' forse qui che si può rinvenire un'istanza propriamente socialista, in quanto l'effettività presuppone forme di eguaglianza fra gli individui: l'idea di eguaglianza - principio guida dell'azione del movimento operaio fin dai suoi esordi - arricchisce il liberalismo, come ho sostenuto in più occasioni. Ma per Calogero eguaglianza e libertà sono intimamente unite, inseparabili e, attraverso la loro unità, definiscono i cardini di una società giusta. Qui può situarsi un fecondo spazio di congiunzione fra il liberalsocialismo e le odierne forme di contrattualismo rilanciate da John Rawls e ispirate al principio dell'equità.

La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra.

Il tentativo di enucleare alcuni caratteri irrinunciabili del sistema democratico, alla ricerca delle modalità e delle ragioni di una convivenza sostanziata di valori autentici, e la possibilità di sviluppare l'idea liberalsocialista al fine di realizzare una società giusta attestano, a tutt'oggi, la vitalità della riflessione politica di Calogero.
(La Stampa, 21 dicembre 2001)

Cyrus
08-03-10, 20:04
Quei mesi nella Resistenza una lezione di libertà

LA MEMORIA

di CARLO AZEGLIO CIAMPI


ARRIVAI a Scanno a metà settembre del 1943 quasi per caso; mi ci condusse un giovane ufficiale, come me fuggiasco, che avevo avuto occasione di conoscere dopo l'8 settembre a Roma, Nino Quaglione.
Quando egli mi disse che andava a Scanno, terra della sua famiglia, mi associai a lui, in due ricordi. Ero stato a Scanno per poche ore tre anni prima, quando da allievo ufficiale frequentavo la scuola di Pescara. Venimmo qui per fare una esercitazione di autocolonna da Pescara a Scanno in motocicletta.
Ricordavo Scanno perché sapevo che era diventato il luogo di confino di Guido Calogero. Arrivato qui mi fu facile ritrovare Guido, di cui ero stato discepolo nei miei anni alla Scuola Normale a Pisa fra il 1937 e il 1941.

Calogero, dopo l'arresto nel 1942 a Pisa, era stato confinato a Scanno e vi si era trasferito con la famiglia.
Dopo il suo secondo arresto nel luglio del 1943, che lo portò nel carcere di Bari, e la successiva liberazione il 27 di luglio, egli tornò subito a Scanno per riabbracciare la famiglia. Ebbi così la fortuna di frequentarlo assiduamente per sei mesi, dal settembre 1943 al marzo 1944.
Erano mesi bui, difficili ed io potei approfittare della sua vicinanza.
Era un uomo capace di mantenere una grande serenità anche nei momenti più drammatici.
Ricordo che in quell'inverno, tra le cose più care che aveva con sé, c'erano i manoscritti dei suoi volumi, poi pubblicati da Einaudi, su Estetica, logica ed etica, i manoscritti erano in copia unica e lui temeva di perderli con la guerra. Allora abbiamo cominciato a batterli a macchina: riportavano la data di ogni giornata di lavoro.
Ricordo che tentammo insieme di passare le linee attraverso la Maiella.
Poi ci dividemmo: a Calogero fu chiesto di rimanere nel territorio occupato dai tedeschi per svolgervi la sua attività politica; io il 24 marzo (il giorno delle Fosse Ardeatine) riuscii a passare le linee e ripresi servizio nell'esercito italiano.
I sei mesi trascorsi con Calogero furono estremamente intensi. Per me, così giovane, fu l'occasione di imparare da un grande nobile maestro, del quale divenni amico.
Ci insegnava i principi fondamentali del comportamento dell'uomo; prima di tutto il rispetto per gli altri. Oggi si parla spesso di tolleranza; non amo questa parola perché è un termine improprio, ma ciascun essere ha bisogno di conoscere e di essere pronto a lottare perché gli si riconoscano gli stessi diritti che noi riteniamo di dovere pretendere da tutti.
Ci insegnava inoltre che l'individuo ha un senso in quanto vive in una collettività e la base della collettività è il saper dialogare, il saper parlare, discutere e affrontare gli argomenti con libertà piena di convincimento delle proprie idee, con l'intendimento di farle affermare, ma pronto a riconoscere la ragione dell'altro e ad accettarla quando uno ne divenga convinto.
Questi i codici che ci insegnava Calogero nel suo comportamento.
Durante gli anni alla Normale, Calogero aveva pubblicato due libri fondamentali: "La filosofia della vita" (1936) e "La scuola dell'uomo" (1939).
Quest'ultimo libro è un vero e proprio manifesto della libertà. E' il libro con cui Calogero si rivolge ai giovani per mostrar loro come sia possibile uscire dal pessimismo dell'alternativa fra fascismo e comunismo.
La filosofia morale di Calogero è una morale concreta, di attuazione della libertà: prima dentro di noi, poi nella società. Calogero non perseguiva fini astratti, ma voleva realizzare i propri ideali nella società. Il richiamo continuo alla coscienza, criterio estremo della verità, era richiamo al senso di responsabilità dell'individuo, ne sottolineava il dovere di lottare per l'affermazione della libertà per sé e per gli altri, per cambiare la realtà.
Quella "religione della libertà" che avevamo appreso dai grandi italiani, a cominciare da Benedetto Croce.
Calogero c'insegnava a praticarla nella vita, avendo sempre presente che altrettanto importante del principio della libertà è il principio di giustizia, di giustizia sociale.
Il messaggio di Calogero è di dottrina civile. La norma superiore dello Stato è quella che regola i rapporti di convivenza. Calogero libera l'uomo dall'opportunismo e lo incardina su valori come il primato della coscienza, la civiltà come progresso dei diritti civili, come educazione al dialogo. Una testimonianza di questa visione è in un documento personale. Una lettera di Calogero a mia figlia, con cui egli accompagnava, nel 1975, il suo regalo di nozze: la ristampa della "Difesa del liberalsocialismo", da tempo esaurita, e una superstite copia dell'edizione originaria dell'ormai introvabile "La scuola dell'uomo".
Calogero aggiunge la traduzione di quattro versi in greco, che egli aveva composto per dar significato alla dedica del libro a sua moglie: "Quelle cose di cui ci convincemmo nelle nostre pacate discussioni,/ quello che apprendemmo dai nostri amati figli,/ quello che ci insegnò il condiviso tragitto della vita,/ accogli qui a testimonianza di una speranza immortale". La speranza immortale era quella del ritorno dal fascismo alla libertà.
E il proiettarsi della libertà e della vita verso il futuro, Calogero lo rendeva con un'immagine poetica e concettuale molto bella: sono i figli quelli dai quali abbiamo appreso, quasi invertendo il corso naturale delle cose.
In chi ha avuto la fortuna di essere stato allievo di Calogero il segno è rimasto profondo. Senza quell'insegnamento giovanile, la mia vita, la mia lunga attività nelle istituzioni fino ad oggi, sarebbero state diverse.
Per me è stato un maestro e un amico. Il maestro è per me colui che va al di là della disciplina specifica, che è capace di affrontare i problemi infondendo una visione della vita basata sui valori morali, che sa andare al di là della professionalità dell'insegnamento.
Da Guido Calogero ho imparato il rispetto dell'alterità, che non è tolleranza, bensì impegno perché i diritti degli altri abbiano uguale valenza dei propri.
Calogero vedeva il principio fondamentale della convivenza nel cercare di comprendere le opinioni e i bisogni altrui. Di qui l'importanza del dialogo.
Io credo che gli insegnamenti di Calogero siano il fondamento del modo di comportarsi: rispetto della dignità umana, onestà intellettuale, gusto del perché, dell'andare in fondo alle cose.
Nei miei lunghi conversari con Guido, tra le montagne abruzzesi, si parlava molto della responsabilità. Mi spiegava che la conoscenza è alla base dell'azione, ma aggiungeva che a un certo punto scatta, dando luogo all'azione, l'atto di volontà, atto autonomo che implica la responsabilità.
Non voglio cadere nella retorica, ma in un momento critico e drammatico, come era quello per l'Italia, bisognava assumersi responsabilità ed esserne consapevoli.
Nell'Italia di oggi, democrazia compiuta, orgogliosa della sua unità, fiduciosa e forte della sua vocazione europea, quei principi sono ancora validi.

Cyrus
08-03-10, 20:05
GUIDO CALOGERO
Filosofo e pedagogista

Roma 4 dicembre 1904 - Roma 17 aprile 1986.


Biografia: Professore di Storia della filosofia nelle Università di Firenze (1931) e di Pisa (1934), insegnò (1951) nella facoltà di magistero dell'Università di Roma; dal 1954 fu professore di Storia della filosofia antica nella facoltà di lettere della stessa Università. Arrestato per motivi politici dal fascismo (1942), in carcere scrisse le Lezioni di filosofia. Diresse l'Istituto italiano di cultura a Londra. Fu membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei.

Scritti: A soli 23 anni scrisse I fondamenti della logica aristotelica, (Firenze 1927, rist. 1962), che gli valse l'apprezzamento di Benedetto Croce e la cattedra universitaria ; seguirono: Studi sull'eleatismo, Roma 1932; La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova 1937(2a edizione 1960); La scuola dell'uomo, ivi 1939 2a edizione 1956); Il metodo dell'economia e il marxismo, Firenze 1944;Difesa del liberalsocialismo, Roma 1945;Saggi di etica e di teoria del diritto, Bari 1947; Lezioni di filosofia, I: Logica, gnoseologia,ontologia, Torino 1948; II: Etica, giuridica, politica, ivi 1946; III: Estetica, semantica, istorica, ivi 1947;Logo e dialogo, Milano 1950; La filosofia di Bernardino Varisco, Messina 1950; Scuola sotto inchiesta, Torino 1957; Verità e libertà, Palermo 1960; Quaderno laico, Bari 1967; Storia della logica antica,I: L'età arcaica, Bari 1967; Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, Roma 1968.

Pensiero: Guido Calogero è conosciuto come il filosofo del dialogo cioè del dover discutere e dello sforzo di capire gli altri; questa, per lui, è una doverosa possibilità: la volontà di discutere non ha bisogno di essere discussa, la volontà di intendere sarà sempre al di sopra della variabile storica del vero.
Calogero intende l'educazione come altruismo; il rapporto educatore-educando va oltre il mero rapporto dualistico: si deve formare l'educando in modo che, a sua volta, diventi educatore di altre persone.
La formazione consiste pertanto in quella forma di apertura verso il prossimo, di disponibilità che si concreta nella volontà di intendere gli altri.

Legami con Monforte: Figlio del monfortese prof. Giorgio Calogero, teneva moltissimo alle sue radici.
Quando i molteplici impegni glielo permettevano trascorreva volentieri qualche giorno di vacanza a Monforte. Gli piaceva la sovrana pace del paesello e i suoi splendidi panorami, l'aria purissima, l'onestà della popolazione. E nella tarda età quando, per motivi di salute, non ha avuto più la possibilità di viaggiare, Monforte è rimasto sempre un luogo di care memorie.
Lo ha ribadito con commozione la moglie signora Maria Comandini Calogero in un incontro avuto con Lei a Roma nel 1988 quando, interpretando il desiderio del marito, ha fatto dono alla Biblioteca Comunale di un cospicuo numero di scritti di Guido Calogero, del padre Giorgio e di un ricordo del figlio Francesco ordinario di Fisica teorica all'università di Roma che trascorse, bambino, un'estate col nonno Giorgio alla Trinità, lungo il torrente Niceto.

Bibliografia: è vastissima; viene riportato qualche titolo:
R. Coccio - C. Fabro. Logica, gnoseologia e ontologia in Guido Calogero, in Riv. Filos. Neoscol.,1949,n. 2; A. Caracciolo, L'estetica del Calogero, in Scritti di estetica, Brescia 1949; A. Vasa, Teoreticità e praticità del valore ontologico nel pensiero di Guido Calogero, in Riv. St. Filos., 1949, pp. 241-271; S. Zeppi, Il problema del dialogo, Firenze, 1960; Y. L. Austin, Philosophical Papers, Oxford 1961, p. 130; E. Severino, Nota su I fondamenti della logica aristotelica di Guido Calogero, in "Studi di filos. e storia della filos. in onore di F. Olgiati", Milano 1962, pp. 117-144; A. Negri, Il progetto della categoria estetica di Guido Calogero, in Riv. Estet., 1962, pp. 95-118; R. Raggiunti, Logica e linguistica nel pensiero di Guido Calogero, Firenze 1963; R. M. Hare, Freedom and Reason, Orford 1964, pp. 186-202.

Guglielmo Scoglio

Cyrus
08-03-10, 20:06
Guido Calogero, il filosofo del dialogo

Nel primo centenario della nascita di Guido Calogero, uno dei filosofi italiani più noti nella prima metà del ‘900, vale la pena di rammentarne per un verso le qualità, i meriti, i connotati del pensiero – non meno della vita -, per altro verso, se, quanto, perché l’attenzione acuita al personaggio e alle sue opere naturalmente coinvolga il pensiero laico, ed, ancora più specificatamente, l’esegesi muratoria.

I fondamenti della Logica Aristotelica, del 1927 hanno determinato, per riconoscimento unanime, una svolta fondamentale nello studio della logica tradizionale. In sede politologica, è noto il Manifesto del Liberalsocialismo del 1942. Opportuno appare ricordare anche la Scuola dell’Uomo, uno dei testi più fondamentali del teorico del Liberalsocialismo.

Discepolo di Giovanni Gentile, attento all’insegnamento di Benedetto Croce, Guido Calogero raggiunse fermamente il pieno distacco dal vecchio maestro e la più completa indipendenza rispetto al Croce, segnando e ribadendo un’autonomia di pensiero ed una assolutamente originale ed autonoma scelta politica, distante e critica, pur nella correttezza dei rapporti personali e nel rispetto dei due mostri sacri del pensiero italiano (e non solo).

Sempre più lontano dal Gentile, assurto a filosofo ufficiale del fascismo, non dissimulò il proprio crescente distacco dal filosofo liberale, dal quale ricevette reprimende e critiche sferzanti, culminate nella condanna della scelta politica e politologica di Calogero, il Liberalsocialismo, il “Partito d’Azione”.

Appena 25enne, Calogero è schedato come antifascista dalla Polizia. Stringe amicizia con intellettuali antifascisti come Bobbio, da Capitini ad Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola, Luigi Russo, Piero Calmandrei, a Romeo Bianchi Bandinelli, a Carocci, Francovich.

L’OVRA intervenne a disperdere questo grumo di pensiero, ma anche già di azione antifascista, e Calogero fu condannato a due anni di confino a Scanno d’Abruzzo. Nel dopoguerra l’adesione al Partito d’Azione, la battaglia per l’affermazione delle idee del liberalsocialismo. Calogero pone al centro della propria riflessione il valore della libertà. Ma, riprendendo criticamente i filosofi precedenti, da Hobbes a Jung a Locke a Smith, nega che la libertà individuale possa essere intesa egoisticamente, elaborando un’etica dell’altruismo, tesa ad assumere in chiave laica il messaggio di solidarietà della morale cristiana.

Significativi certi incontri, significativa la scelta di specifiche battaglie: sul primo versante la consonanza con i fratelli Rosselli, Salvatore Quasimodo; sul secondo, la collaborazione, alla fine degli anni quaranta, al Mondo di Mario Pannunzio, per la scuola laica.

L’abbandono dell’attualismo di Gentile per un “moralismo assoluto” (basato su un principio etico supremo, sul quale trova reale fondamento la coesistenza delle filosofie e delle varie religioni, della stessa convivenza sociale e civile), è per Calogero il riconoscimento della forza del dialogo, come tolleranza e insieme rispetto delle scelte altrui, della democrazia come colloquio. Non fu un caso che, “immerso”, da docente e, nel periodo della più accentuata contestazione studentesca, seppe mantenersi ben distante, vuoi dalla repressione reazionaria, vuoi dall’atteggiamento vile nell’accettazione acritica della violenza “dal basso”. Conservò, anche in tali circostanze, dignità, coerenza, volontà e capacità di insegnare “dialogando”, applicando nel concreto la sua filosofia e concezione anche politica e di vita.

Ancora una volta, non a caso la Massoneria gli affidò la direzione della propria rivista, che diresse con grande coerenza e vigore morale. Nel 1963, sulla rivista apparve un articolo di Calogero, dal titolo Il futuro e l’eterno. Egli nella “Filosofia del dialogo” ravvisa lo strumento idoneo per conoscere l’eterno. E dà nuovi fremiti d’ala alla scelta del filosofo (se incontrassi Dio, e questi mi offrisse nei suoi due pugni chiusi la verità, ovvero la ricerca della verità, non avrei incertezza nel chiedergli la ricerca della verità), affermando: anche nella scienza c’è un indiscutibile ed è l’assoluto della discutibilità. Ogni universo scientifico può mutare, non già la libertà nel discuterlo. Calogero individua nel dilemma dell’Io con gli altri o dell’Io da solo, l’eterno.

E, con i suoi libri, con il suo insegnamento, ma forse ancor più con la sua vita, le sue scelte coerenti, Calogero sceglie la vita con gli altri, e la addita al mondo. Potremmo dire massonicamente, quanto dall’esempio calogeriano sia esaltata la fratellanza, uguaglianza d’amore, ma, prima, razionalmente, la fratellanza e uguaglianza da ragione (l’altro può avere tanta ragione quanta ne ho io, od anche di più).

Se la figura del filosofo merita il ricordo ed il rimpianto tra la cultura italiana e della politica italiana (quella aristotelica, non certo quella partitocratica e faccendiera), le istanze laiche e l’opzione muratoria debbono sentire il gusto di pagare debiti specifici alla memoria e all’insegnamento di Lui.

Ernesto D’Ippolito, Gran Maestro On. del Goi

Cyrus
08-03-10, 20:06
Guido Calogero, Sul Congresso del Partito d'Azione. La sua natura, la sua storia, il suo possibile futuro. 1946.

Le seguenti riflessioni furono pubblicate nel numero 2 della rivista ’Liberalsocialismo’(vedi la news specifica ad essa dedicata in questo sito), fondata e diretta proprio da Calogero nel 1945.

Esse costituiscono la seconda parte dell’articolo di nove pagine dal titolo ’Dal Congresso comunista al Congresso del Partito d’Azione’, posto all’inizio della rivista..

“…Lungi dunque dal lasciarsi sedurre dalla vieta formula (del resto di eredità marxistico-storicistica), secondo la quale il mondo moderno va ormai sempre più eliminando i partiti a base ideologica, per far luogo, in cambio, a partiti costituiti solo come rappresentanze d’interessi, bisogna ripetere energicamente che non c’è partito serio il quale possa prescindere da una salda base ideologica, e che se in Italia oggi non ci sono partiti con salde basi ideologiche, questo significa appunto che oggi non c’è ancora, in Italia, una politica seria.

I partiti sono come gli uomini: devono avere uno stato civile, un biglietto da visita, e si deve poter prevedere con sufficiente sicurezza (se si vuoi far conto su di essi) quello che faranno negli anni e nei decenni venturi, e non soltanto fino alla prossima crisi ministeriale.

Di qui l’interesse che presenta l'imminente congresso del Partito che, quando nacque, manifestò veramente l'intenzione di essere, in questo senso, un partito serio, un partito non disposto più a credere alle vecchie ideologie, ma neppure a lasciar disperdere la politica in una mera tattica contingente: il Partito d'Azione.

Bisogna pur dire che, quando esso si costituì, sul principio del 1943, mercé la fusione dei diversi movimenti che già da lunghi anni avevano in vario modo propugnate le sue idee nella propaganda e nella lotta clandestina, anche tra le sue fila non mancavano alcuni che, timorosi delle precisazioni programmatiche, non tanto per le divisioni che avrebbero potuto provocare fra gli aderenti, quanto per l'impegno pratico che ne sa¬rebbe scaturito circa l'avvenire, avrebbero preferito non formulare alcun programma, e caratterizzare il partito solo attraverso l’indicazione della provenienza storica di chi lo componeva.

Ma chi allora assistè e cooperò ai primi passi della vita del nuovo Partito, ricorda bene come ciò non fu possibile, e come solo una più esatta precisazione ideologica e programmatica, data sul secondo numero dell “Italia Libera” clandestina, nella primavera del 1945, permise di superare le controversie e le minacce di crisi determinate dalla pubblicazione del primo numero.

E la precisazione ideologica e programmatica fu, allora, del tutto conforme a quelli che erano stati i motivi ideali di «Giustizia e Libertà», del “socialismo liberale” e del «liberalsocialismo», cioè, insomma, ai motivi di Gobetti e di Rosselli, che ciascuno di noi, qualunque fosse la sua specifica provenienza, riconosceva come suoi ideali maestri.

Dopo d'allora, il Partito d'Azione passò attraverso vicende varie.

Sopravvennero il 25 luglio, l’8 settembre, il 4 giugno, e ciascuna di queste date pose i suoi dirigenti di fronte a compiti nuovi, in cui si manifestò largamente la loro capacità direttiva della evoluzione democratica della nazione.

Ma per ciò stesso, questa fu anche una fase di relativa incertezza per la vita e per la fisionomia del partito.

Specialmente il periodo della lotta clandestina, nel Centro e soprattutto nel Nord, che doveva richiedergli tanto tributo di sangue e assicurargli tanto onore, accanto al Partito Comunista, lo condusse piuttosto a fare una politica di C.L.N., cioè di coesione democratica delle forze di tutti i partiti antifascisti, che giovò molto all’Italia e a tutti, ma non in particolare alla sua caratterizzazione quale partito nuovo.

Il C.L.N. centrale assicurò, e ancora assicura, la possibilità di un governo democratico, così come i C.L.N. del Nord sembrarono attuare il grande sogno della «rivoluzione democratica».

Sia, ora, quest’ultima una rivoluzione mancata, o semplicemente (come alcuni vorrebbero) una rivoluzione sospesa, certo è che il Partito d'Azione, il quale per lungo tempo è stato il più nobile alfiere del C.L.N. e dei C.L.N., non può più restringere il suo orientamento programmatico a tale motivo, e deve piuttosto tornare a quella più larga piattaforma, che già era venuto provvisoriamente delineando nei «Sedici Punti», e che lo stesso Congresso di Cosenza non aveva sostanzialmente modificata.

Essi si richiamavano, di fatto, alla vivente tradizione ideologica del liberalsocialismo rosselliano, e il Partito avrebbe potuto bensì rinvigorirli ed approfondirli, ma non mai trascurarli, perché con ciò avrebbe smarrito la sua stessa prima ragion d’essere.

La realtà è, infatti, che o il Partito d'Azione si presenta come portatore di una nuova concezione politica e sociale, destinata a conquistare gli spiriti e a tradursi così in forza politica, o non ha ragion d’essere.

Nell’imminenza del Congresso, da molte parti si viene discutendo della natura del Partito d’Azione: e quel che soprattutto si ricerca è se esso debba essere un partito di ceti medi o non di ceti medi, proletario o non proletario, se debba limitarsi ad essere partito di governo, o se debba addirittura cedere il campo di fronte alla progressiva democratizzazione del socialismo.

Ma la novità del Partito d’Azione consiste proprio nel fatto che esso non si pone,marxisticamente, come il rappresentante di un ceto o di una coalizione di interessi, bensì appunto come il creatore o il risvegliatore di nuovi interessi, cioè come il richiamo, rivolto a tutti gli onesti e laboriosi cittadini della Nazione, a scorgere veramente quali sono i loro interessi, e a non crederli più senz'altro interpretati dalle concezioni ideologiche e politiche dei partiti tradizionali.

La profonda serietà del Partito d’Azione sta in questo suo superiore senso di intelligenza politica, per il quale esso avverte l’inderogabile necessità della sua presenza nella vita democratica del paese: e della sua presenza non soltanto quale una specie di mastice democratico o di Stato- cuscinetto capace di far stare insieme destra e sinistra o di evitare fra loro conflitti irreparabili, bensì quale portatore di una parola nuova, di un’esperienza e di una speranza nuova, destinata a conquistare il più largamente possibile gli animi.

Di fatto, come si può sperare che il Partito d’Azione possa assolvere un compito di semplice coesione e risoluzione democratica, senza nello stesso tempo avere la forza a attirare a sé un largo consenso di votanti ?

Se non avrà questa forza, esso non potrà certamente essere il partito della garanzia democratica e costituzionale; e neppure potrà essere un partito di governo, quando è ormai facile vedere come i partiti di massa, in più paesi d'Europa, siano bene in grado di fare i loro governi, senza andare a chiedere ad altri partiti intermedi di fungere da cemento per le loro combinazioni.

Senza dire, poi, che non si vede perché si sarebbe dovuto dare tanto tributo di libertà personale e di sangue per diffondere nuove idee e per provarsene degni anche attraverso la lotta armata, se la conclusione di tutto ciò dovesse ridursi alla formazione di un modesto partito di governo.

Tanto valeva, allora, combattere nelle formazioni di altri partiti, e contribuire, per ciò che modestamente si fosse potuto, all'arricchimento dei loro quadri dirigenti.

Anche soltanto al fine di diventare «l’organo intorno a cui si stringa l’accordo delle correnti sinceramente democratiche per dar vita alla nuova società italiana» (come dice Mario Boneschi in ‘Realtà politica’, n. 23-4, p. 5), è quindi necessario che il Partito continui ad aver fiducia in sé stesso, e non dia per perduta, prima ancora di averla veramente tentata, la prova di «realizzare un grande partito di democrazia attraverso le adesioni personali di cittadini.”.

Di fatto, quello «stringere accordi» è cosa per cui, in certi momenti, possono bastare dieci persone, anche senza aver partiti alle spalle: ma se esse vorranno agire con efficacia sufficiente, dovranno ben avere questa forza alle spalle, e quindi non cominciare col mettersi in una situazione psicologica che è la più adatta per perdere anche la forza che si ha, o per non accrescerla mai.

La più sicura maniera di distruggere un partito è quella di cominciare a pensare che esso si fonderà con altri.

Molte fusioni avverranno nel futuro, e potranno essere utili.

Ma, di fronte a questo Congresso, il problema del Partito d’Azione è anzitutto il problema della natura e della vita sua.

E quindi bisogna anzitutto smetterla con l'autolesionismo, e con continuare a presupporre, e magari a dire (con grande divertimento degli avversari, e persino degli amichevoli competitori) che il Partito d’Azione non ha una sua ideologia (magari perché non la vuole, ma intanto anche perché non l’ha); e che quanto al «socialismo non marxista» «è già stato abbondantemente dimostrato che tale formula non significa nulla» (l.c.., p. 4); e via dicendo.

In tutta l'Europa, anzi in tutto il mondo, si vanno sempre più affermando forme di socialismo non marxista: per compiere una simile affermazione occorre quindi (come dire?) un certo coraggio teorico.

Il fatto è che anche il Partito d’Azione ha bisogno di un chiaro biglietto da visita (perché niente
lo ha tanto danneggiato, di fronte al pubblico ignaro, quanto l'etichetta di “azionista”): e questo non può essere che quello di un socialismo qualificato, cioè di un socialismo definito dalla stessa sintesi con la libertà, che è del resto la formula intorno alla quale tutti si aggirano, quando vogliono definire il suo carattere e la sua missione ideale.

In realtà, forse per lo sgomento cagionato in alcuni dalle contraddittorie critiche crociane del «liberalsocialismo », il Partito d'Azione si è trovato nella situazione singolarissima di avere alla sua radice storica e ideologica uno dei più bei libri di dottrina politica che siano mai stati scritti in Italia, il “Socialismo liberale” di Carlo Rosselli, e di essersene valso pochissimo per la sua propaganda.

E come si può organizzare e creare un grande partito, quando si comincia col non aver fiducia nelle idee che lo ispirano ?

Noi ci domandiamo se il Partito d'Azione dev’essere un partito proletario o un partito di ceti medi: se dobbiamo rivolgere il megafono a destra, o a sinistra, o al centro.

Ma nessun vero creatore di partito si è mai domandato cose simili.

Solo i piccoli marxisti si propongono il problema delle forze che ci sono, e che si tratta d’interpretare: Marx, che «non era marxista», non trovò le forze, le creò. Quanti erano gli operai consapevoli dei loro diritti e pronti a rivendicarli, quando Marx cominciò a predicare le sue idee ?

Allo stesso modo, ogni vero creatore di orientamenti politici ha sempre formato le coalizioni di interessi con le sue propagande e con i suoi argomenti e con i suoi miti, benefici o malefici che fossero.

Come se la maggior parte degli italiani non fosse ancora largamente disorientata, di fronte alla scelta che dovrà fare votando !

Datele idee chiare circa l’avvenire; fatele vedere che in base ai più ovvii principi di onestà e di rettitudine e di giustizia le cose, nella loro struttura generale, debbono essere orientate in quel modo e non in quell’altro; dimostratele, con piena cordialità democratica, ma con logica inesorabile e con insistenza assoluta, che le idee degli altri partiti sono meno buone e meno chiare delle idee vostre, e che quanto in esse c’è di meglio e di più moderno è stato proprio desunto dal vostro programma e dalle vostre idee; fate in questo senso propaganda, propaganda e propaganda; occupatevi sì di quel che succede al governo, ma ancora più di quel che succede nel cervello della gente, soprattutto nel cervello della grande massa di uomini che ancora non hanno fatto la loro scelta, e in primo luogo di quelli intel¬ligenti e colti (se volete, del ceto medio, ma ce ne sono in tutti i ceti) che sono in grado di apprezzare la migliore consistenza delle vostre idee a paragone delle idee altrui, e che diventeranno i quadri dirigenti dell’opinione di tutti gli altri; e, soprattutto, state sempre attentissimi alle critiche, d’ognuno, pronti a riconoscere, con la più franca sincerità, che sono sbagliate alcune delle vostre idee: ma fino a quel momento restate ben convinti che esse sono le migliori fra tutte, e che il vostro primo dovere non è quello di stare al governo e di risolvere singoli problemi concreti e neanche, a rigore, di ottenere una vittoria politica che sei mesi dopo può essere nuovamente messa in forse, ma di impiantare quelle idee nel più vasto numero di cervelli possibile.

Se avrete questa fede, potrete riuscire. Altrimenti, no.

Cyrus
08-03-10, 20:07
1. PRIMO MANIFESTO DEL LIBERALSOCIALISMO
Autore: Guido Calogero
Luogo e data e di redazione: Roma, 21 aprile 1940
Prima edizione a stampa: G. C., Difesa del liberalsocialismo, Ediz. Roma, 1945 (p. 64)
Fonte: Idem



Come ricorda Guido Calogero, il Manifesto del liberalsocialismo, qui riprodotto integralmente, riassumeva le discussioni e i dibattiti avvenuti fra il 1938 e il 1940 sulla libertà e la giustizia sociale. Quelle discussioni si erano svolte a Roma, a Pisa, a Firenze e vi avevano partecipato molti dei futuri protagonisti della vita politica e culturale italiana degli anni Cinquanta e Sessanta: Piero Calamandrei, Mario Delle Piane, Tristano Codignola, Carlo Ragghianti, Paolo Bufalini e molti altri. Incaricandosi di redigere un testo di sintesi, Calogero intendeva offrire uno strumento di divulgazione e mobilitazione, che peraltro, come illustrato più avanti, avrebbe potuto andare alle stampe soltanto nel ’45, all’interno di un volume, intitolato Difesa del liberalsocialismo e arricchito con altri saggi e interventi dell’autore.
Quando si affronta il tema del liberalsocialismo, è inevitabile il riferimento al socialismo liberale di Carlo Rosselli, ma parlare di continuità tra i due movimenti non è corretto. Mentre infatti il socialismo liberale, nella visione rosselliana, esercitò una profonda influenza sulla storia del socialismo italiano attraverso un programma ampio e complesso che si sviluppava su vari piani, dall’economia alla ristrutturazione dello stato, al ruolo delle masse, al problema dell’unificazione europea, per parte sua il liberalsocialismo fu «un movimento di opinione, una organizzazione per la propaganda ed il chiarimento delle idee», come affermava lo stesso Calogero nell’edizione del ‘45.
Peraltro, la definizione di Calogero era certamente riduttiva. In realtà, al di là della maggiore o minore capacità di influire sul movimento operaio italiano, la questione era più complessa. Partendo da una base prevalentemente filosofica e giuridica, il liberalsocialismo di Calogero si proponeva di rinnovare e radicare più diffusamente nella società il liberalismo italiano, tentando di conciliare l’esigenza crociana di libertà, intesa come valore etico-politico universale, e dunque apparentemente astratto, con il bisogno di giustizia sociale. Pertanto esso cercava di offrire una soluzione prima di tutto filosofica, politica e giuridico-istituzionale ai presunti di limiti di Croce. Viceversa il socialismo liberale di Carlo Rosselli, nel giudizio di Calogero, «nella più precisa determinazione della sua idea, prospettava la questione prevalentemente sul piano economico, facendo vedere i vantaggi della sintesi di un’economia socialista, o meglio, di un sistema produttivo basato sull’iniziativa individuale e di un sistema produttivo variamente collettivizzato». «A questo modo, però – proseguiva Calogero - il problema della sintesi della libertà politica e della giustizia sociale si trasferiva sul solo terreno dell’economia, trasformandosi nel più ristretto quesito della composizione di strutture liberistiche e di strutture socialistiche dell’organismo produttivo».
Non c’è dubbio dunque che per Calogero il liberalsocialismo intendesse rappresentare una sintesi ideale e teorica, prima ancora di una proposta concreta e operativa. Un’aspirazione, la sua, riassunta da Norberto Bobbio sulla Stampa del 21 dicembre 2001 nel modo seguente: «La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra».
Come accennato, Il Manifesto del liberalsocialismo era il risultato di una lunga fase di formazione durante la quale si svolsero discussioni, convegni e incontri, non solo fra uomini di cultura affine, ma anche con esponenti di altre correnti politiche e intellettuali dell’antifascismo. Tale contributo della cultura dell’epoca fu certamente di fondamentale importanza per la definizione dell’ideologia e del programma del movimento. Tuttavia la collaborazione più intensa di tutte quella tra Calogero e Aldo Capitini.
I rapporti con Capitini risalivano al comune impegno antifascista alla Normale di Pisa e «tra i due esisteva – come riassume Giovanni De Luna - una quasi perfetta complementarietà» . Calogero e Capitini fin dal 1937 avevano pensato di precisare programmaticamente il loro impegno educativo verso l’antifascismo, individuando nell’incontro tra liberali e socialisti il modo migliore per orientare le coscienze dei giovani.
Il Manifesto dunque rispondeva anche all’esigenza di definire ideologia e programma del movimento liberalsocialista.
La storia della redazione di tale documento programmatico ci è stata raccontata dallo stesso Calogero nell’edizione del ‘45. Come si evince da una nota a piè di pagina, una prima bozza del Manifesto fu redatta da Tommaso Fiore agli inizi del 1940. La stesura definitiva fu realizzata in quel di Roma, durante una riunione tenutasi in un piccolo centro della costa laziale, Pratica di Mare, precisamente il 21 aprile 1940. All’incontro erano presenti Wolf Giusti, Giacinto Cardona, Paolo Bufalini ed altri. Il Manifesto fu successivamente rielaborato durante l’estate e le trascrizioni del testo, che recava il titolo di Note sul concetto di stato, girarono clandestinamente per tutta l’Italia. Nel 1945 risultavano essere rimaste due sole copie, in quanto, in seguito agli arresti che seguirono subito dopo il 1940, le varie riproduzioni circolanti erano state distrutte dagli stessi aderenti al movimento perché non cadessero nelle mani della polizia, e per alcuni anni non se ne seppe più nulla . Un testimone di quei giorni, Giulio Butticci, avrebbe scritto molti anni dopo a proposito dell’arresto dello stesso Calogero: «fu mandato in Abruzzo, a Scanno, dove, nell’agosto, lo andai a trovare per comunicargli un’ultima redazione del Manifesto che, per precauzione, avevo mandata a memoria, nel caso che io potessi in qualche modo venire intercettato dalla polizia» . Solo nel 1945 il Manifesto del liberalsocialismo sarebbe stato definitivamente pubblicato, come “documento inedito”, nella già ricordata Difesa del Liberalsocialismo di Guido Calogero.
Il documento è suddiviso in dodici paragrafi e, pur non nominando mai la parola “fascismo” per ragioni di prudenza, delinea i principi e la struttura di un nuovo stato democratico totalmente opposto a quello fascista, uno stato non contaminato dal virus del nazionalismo e nel quale anche lo spirito europeo nasce da un necessario sincretismo tra liberalismo e socialismo.
I paragrafi undici e dodici sono dedicati alla politica estera del nuovo stato, con un approccio che è quello che a nostro avviso risente maggiormente di uno degli elementi più innovativi del socialismo liberale di Rosselli: la critica alla concezione nazionale e nazionalistica del mondo. Come aveva già fatto Rosselli nel 1935, Calogero supera la concezione politica legata allo stato nazionale in vista di un progetto di respiro internazionale: «[…] Il liberalsocialismo ispirerà di conseguenza la sua politica estera agli ideali della solidarietà internazionale, propugnando il rafforzamento e l’instaurazione di tutto ciò che possa contribuire a rinvigorirla (disarmo, federazione europea, organismi giurisdizionali e mezzi di coercizione per l’attuazione del diritto internazionale). […] il liberalsocialismo non si considera ristretto entro i confini del proprio stato. Esso auspica quindi la formazione di una comunità internazionale, composta di tutti coloro che, in qualsiasi nazione, ne condividano la teoria e gli ideali. Questa Internazionale, che, sulla pianta della libertà che non deve morire negli animi e nelle attuazioni, inserisce un rinnovamento morale ed un rinnovamento sociale, tende a realizzare una civiltà la quale, svolgendosi, dà origine nel suo ambito a varie correnti e a vari atteggiamenti, e prova così la propria complessità e fecondità storica».
Come si può notare, nel Manifesto non c’è ancora una elaborazione di ampio respiro sulla sovranità nazionale, ma appare evidente un bisogno di rinnovamento morale e di riorganizzazione internazionale su nuove basi. Nel ’40 la guerra era ormai una realtà e si imponeva una nuova visione degli equilibri mondiali, non più incentrati sui rapporti di forza, ma su alcuni organismi sovranazionali capaci di imporre regole uguali per tutti.
Non c’è in Calogero e Capitini, così come non c’era in Rosselli, l’idea forte, l’interpretazione rivoluzionaria dei federalisti di Ventotene, secondo la quale solo abbattendo lo stato nazionale a sovranità assoluta si potesse arrivare ad una federazione europea e che il fascismo non era altro che il prodotto della crisi del sistema europeo degli stati sovrani. Tuttavia era già presente l’idea che la ricostruzione europea si dovesse fondare su basi nuove nelle quali la sovranità statale avrebbe dovuto avere un peso minore rispetto al passato.

Nota sulla fonte: le prime pagine del Manifesto furono stampate nel 1944 sul n. 1, 1944 dell’edizione di Giustizia e Libertà di Palermo, con un commento di Giovanni Guaita. Nel ’45, il volume Difesa del liberalsocialismo, pubblicato a Roma, come si è detto, da Calogero, conteneva la versione integrale del Manifesto, insieme al Secondo Manifesto, scritto poco dopo il primo ( in pratica una sintesi molto breve per renderne più facile la diffusione) ed altri saggi. Infine, nel 1972, il Manifesto fu pubblicato nuovamente nella seconda edizione di Difesa del liberalsocialismo, edito a Milano con un’interessante introduzione di Michele Schiavone e Dino Cofrancesco. Il testo originale al momento risulta irreperibile. La fonte riprodotta è consultabile presso la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma.
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Primo manifesto del liberalsocialismo

1. A fondamento del liberalsocialismo sta il concetto della sostanziale unità e identità e della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo. Questa ragione ideale coincide con quello stesso principio etico, col cui metro, in ogni passato e in ogni avvenire, si è sempre misurata e si misurerà sempre, l’umanità e la civiltà: il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio. Nell’ambito di questa universale aspirazione etica, liberalismo e socialismo si distinguono solo come specificazioni concomitanti e complementari, l’una delle quali mira alla giusta commisurazione di certe libertà. Il liberalismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito – in modo tale che il suo uso da parte di ogni altro – quel grande bene che è la possibilità di esprimere liberamente la personalità propria, in tutte le concepibili forme di tale espressione. Il socialismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito – in modo tale che il suo uso da parte di ognuno non leda e non soverchi il suo uso da parte di ogni altro – l’altro grande bene che è la possibilità di fruire della ricchezza del mondo, in tutte le legittime forme di tale fruizione.
Così il liberalismo vuole l’uguaglianza e la stabilità dei diritti e delle leggi, senza distinzioni dipendenti da religione, razza, casta, censo, partito; vuole la derivazione di ogni norma giuridica dalla volontà dei cittadini, espressa secondo il principio della maggioranza; vuole l’ordinata partecipazione dei cittadini al governo, comunque specificato, delle cosa pubblica; vuole la libertà di pensiero, di stampa, di associazione, di partito, quale fondamento dell’esercizio del reciproco controllo e dell’autogoverno, e quale premessa e manifestazione a un tempo di ogni perfezionamento del costume politico; vuole la libertà di religione, che permetta ad ognuno di adorare in pace il suo Dio.
Parallelamente, il socialismo vuole che nella coscienza morale degli uomini s’impianti energicamente il principio, che, anche sul piano della ricchezza, l’ideale è quello cristiano e mazziniano della giustizia e dell’uguaglianza, e che perciò bisogna tanto suscitare nel proprio animo il gusto di lavorare e del produrre, quanto reprimervi quello del guadagnare e del possedere in misura soverchiante la media comune. Vuole, di conseguenza, che ciascuno sia compensato con la ricchezza prodotta, in misura congrua al suo effettivo lavoro; vuole che non sia riconosciuta la legittimità del possesso ed uso privato del puro interesse del capitale, ma solo quella del compenso della reale attività e fatica dell’imprenditore e del dirigente; vuole che con la ricchezza appartenente alla società (sia nella forma statale che in quella provinciale, comunale e cooperativa) venga assicurato ad ognuno il diritto di partecipare al lavoro comune e di raggiungere la piena esplicazione delle proprie attitudini, e parimenti venga assicurato speciale soccorso per tutti coloro che si trovino comunque in condizioni di inferiorità; vuole che la società tenda con la massima intensità possibile (e con la sola avvertenza che la rapidità e l’ampiezza delle innovazioni non siano tali da pregiudicare l’opportunità e la durat6a delle innovazioni stesse) ad elaborare ed instaurare tutti quei progressivi assetti politici e giuridici, che appaiano atti a far procedere la civiltà in direzione di questo ideale, della sempre maggiore socialità della ricchezza.
D’altronde, in tali aspirazioni, tanto il liberalismo quanto il socialismo non possono non avvertire come ciascuno dei due grandi complessi di ideali etico-politici da loro propugnati sia, nelle sue specificazioni concrete, legato da infiniti vincoli all’altro, e presupponga l’altro nelle sue particolari possibilità di realizzazione. A chi combatte con la miseria, non si può offrire e garantire senza ipocrisia la semplice libertà di opinare e di votare, di svolgere ed approfondire la propria spiritualità. A chi soggiace alla dittatura, non si può concedere senza perfidia un innalzamento del livello economico della vita, a cui non vada congiunta la libertà dell’intervento critico e pratico nell’amministrazione della ricchezza comune. Non si può fare avanzare la libertà senza l’ausilio della ricchezza della ricchezza, né amministrare secondo giustizia senza l’ausilio della libertà. Non si può essere seriamente liberali senza essere socialisti, né essere seriamente socialisti senza essere liberali. Chi è pervenuto a questa convinzione e si è persuaso che la civiltà tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano per inventare e ad instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera del la libertà, ha raggiunto il piano del liberalsocialismo.


2. Il liberalsocialismo intende in tal modo di riaffermare e di approfondire i principali valori etico-politici, che sono stati difesi e propugnati dalle due grandi tradizioni a cui si ricollega. Perciò esso respinge energicamente la tesi dell’intrinseca inconciliabilità del liberalismo e socialismo, pur non negando l’esistenza di un liberalismo che non si accorda con il socialismo, e di un socialismo che non si accorda col liberalismo.
Il primo è il liberalismo ingenuo: il liberalismo di coloro che pretendono la libertà per sé, e non si danno pensiero della libertà degli altri. A questi più elementari zelatori della libertà, già la migliore tradizione ricorda che amare la libertà significa amare la legge, la quale, limitando la libertà propria, concede eguale spazio alla libertà altrui. Oppure è il liberalismo antiquato e conservatore: il liberalismo di coloro che sono pronti a commisurare equamente la libertà propria con l’altrui finchè si tratta dei tradizionali diritti civili e politici, ma che nel campo dell’economia non tollerano legge, e lasciano al prossimo la possibilità di morire di fame. Sono i liberali per cui la libertà è concetto supremo, la giustizia concetto inferiore: laddove non c’è essenziale differenza tra ideale sociale della giustizia e ideale liberale della libertà, entrambi venendo a coincidere nell’unico ideale liberalsocialista della giusta norma della libertà. E la cura della giusta libertà altrui si manifesta non soltanto nel volere, poniamo, le norme che regolano la successione legittima o l’amministrazione delle società anonime o gli orari ed i salari dei lavoratori, sottraendoli al privato arbitrio economico del testante o dell’amministratore o del datore di lavoro: norme che nessun serio liberale potrebbe considerare senz’altro illiberali o indifferenti. I miglior liberalismo si è giù distinto dal liberismo: quello di cui ancora deve spogliarsi, è l’indifferenza per l’economia altrui.
Io secondo, cioè il socialismo che non si accorda col liberalismo, è il socialismo marxistico ed autoritario, che vede nella dittatura del proletariato la condizione della futura libertà. E’ il socialismo di chi ancora crede che l’ideale della giustizia sociale debba essere dedotto dalla scienza dell’economia, ed esser preveduto inevitabilmente vittorioso da chi intenda il razionale corso della storia.
Nella sua evoluzione interna, il migliore socialismo è sempre più venuto abbandonando questi vecchi motivi: e se ha opportunamente continuato ad irridere la libertà senza giustizia del liberalismo conservatore, ha nello stesso tempo cessato di credere nella giustizia senza libertà di ogni utopia totalitaria. Esso non s’illude più che la ricchezza comune possa essere amministrata onestamente da chi non si sia elevato al senso dell’interesse collettivo attraverso l’esercizio del controllo e l’esperienza della legale libertà, e non continui ad operare in un ambiente di critica, di legalità e di libertà.
Questo socialismo fondato sulla libertà e radicato nella più profonda aspirazione sociale dell’uomo, quel liberalismo assetato di giustizia e deciso a non contentarsi di libertà che possano essere irrise come vuote, convergono e coincidono con il liberalsocialismo.


3. Anche quando, del resto, si voglia considerare la questione del contrasto e dell’accordo tra liberalismo e socialismo non tanto dal più radicale punto di vista etico-politico quanto da quello storico-economico, al fine di trarre insegnamento da ciò che all’esperienza risulta dalla stessa evoluzione più moderna della tecnica e dell’economia, si trova riconfermato il principio che il miglior liberalismo è sostanzialmente concorde col miglior socialismo, e che quanto in essi non si concilia è solo il deteriore contenuto dell’uno e dell’altro.
Quanto sl socialismo, l’irrealizzabilità economica di un collettivismo totale è è risultata palese da tutte le esperienze che se ne sono scarpe e il fazzoletto. La loro collettivizzazione potrebbe significare in concreto soltanto questo, che le scarpe e il fazzoletto non si comprano né si vendono, perché li fornisce lo stato, il quale a sua volta non garantisce giurisdizionalmente alcun negozio giuridico privato di permuta o di compravendita. Ma per evitare che il singolo si disinteressi di aver cura e di far risparmio dei beni che lo stato collettivistico gli fornisce, bisogna almeno che tale stato gli fornisca questi beni non ininterrottamente, ma a intervalli determinati di tempo, e quindi con la minaccia di lasciarlo privo di essi se egli non li saprà saggiamente amministrare in quell’intervallo: il che è di nuovo una presupposizione e creazione dell’interesse privato e dell’economia privata. Niente, quindi, intanto, è più vago della tesi dell’abolizione totale ed integrale della proprietà privata, dell’universale conversione del diritto privato nel diritto pubblico.
A chi d’altronde replichi che si rimedia a tale assurdità restringendo l’ambito dell’auspicata collettivizzazione della proprietà privata a quella soltanto che sia “ mezzo di produzione”, bisogna osservare che anche questa discriminazione del tipo di proprietà dal punto di vista della funzione tecnico-economica, per quanto importante ed utile al fine di un primo orientamento, non può essere considerata come atta a risolvere senz’altro ogni difficoltà. “ Mezzo di produzione” per eccellenza è il capitale, e il capitale è, anche, il risparmio del proprio lavoro. Si vorrà perciò vietare ai lavoratori di possedere i loro risparmi, e togliere così ad essi quel grande movente di disciplina etica della vita, che è lo spirito della parsimonia e della previdenza? Quel che importa non è tanto l’appellarsi all’approssimativo concetto di “ mezzo di produzione”, quanto l’operare in base alla concreta idea che si deve combattere ogni forma di guadagno senza lavoro e di sfruttamento capitalistico del lavoro altrui, del tipo di quello che generalmente ha luogo nella grande proprietà agraria ed industriale: nel cui campo il liberalsocialismo è naturalmente favorevole, a instaurare tanto energicamente il sistema della proprietà e dell’amministrazione collettiva, quanto più ad esso si venga man mano elevando il ivello educativo e tecnico del lavoratori.
Quanto al liberalismo, la irrealizzabilità, in grado assoluto, del suo essenziale principio economico è parimenti risultata palese attraverso l’evoluzione della atecnica e dell’economia moderna. L’ipotesi di libera concorrenza di fronte a un libero mercato, che offra a tutti le stesse possibilità d’intervento e di gara, è notoriamente una ipotesi limite, che non si realizza mai pienamente nella realtà, e che tanto meno si realizza quanto più il naturale accentrarsi tecnico e finanziato della moderna produzione economica viene necessariamente a determinare situazioni di più o meno grave disparità della condizioni di gara di fronte al mercato. Il singolo concorrente e produttore viene sempre più assorbito nelle maggiori organizzazioni della tecnica capitalistica, in cui finisce per decadere alla situazione d’impiegato. Così, p. es., di fronte alle aziende fornitrici di servizi pubblici (comunicazioni, produzione di energia elettrica, gas, ec.) non ha più senso parlare oggi di liberalismo come il tipo optimum della produzione economica; e ogni buon liberale è ormai convinto che in tutti i casi del genere, in cui l’autocontrollo della concorrenza viene, per la necessità stessa delle cose, a realizzarsi sempre meno, è necessario che subentri il controllo della comunità, o nella nazionalizzazione o attraverso qualsiasi altro sistema di partecipazione amministrativa che assicuri i consumatori da un non equilibrato guadagno del produttore o dell’amministratore.
Ma ciò significa che, anche qui, l’unico problema è quello della sempre mutevole adeguazione degli strumenti tecnici e giuridici alla duplice esigenza di garantire ed eccitare l’individuo nella libera espansione del suo potere di produzione economica, e di procurargli il modo di correggere il meglio possibile le forme di meno equa distribuzione della ricchezza prodotta. Il regime della libera concorrenza va conservato e favorito in tutti quei casi in cui le condizioni necessarie per tale libera concorrenza sussistano in tal misura da promuovere il rigore dell’iniziativa individuale e da escludere insieme, col loro stesso gioco, una disuguaglianza eccessiva dei successi e dei premi; va ristretto ed abolito in tutti gli altri casi, in cui la minor funzionalità di un simile autoregolamento ponga l’esigenza di un regolamento diverso.
Né dunque ha senso l’ideale economico dell’assoluto ed esclusivi collettivismo, né quello dell’assoluto ed esclusivo individualismo. Non c’è da un lato collettività e dall’altro l’individuo, che deve essere educato tanto al personale gusto del suo lavoro, quanto al senso della divisione equa tra gli individui di tutto ciò che derivi da questo comune lavoro. Nell’esigenza di quel primo aspetto dell’educazione è la verità del liberalismo economico; nell’esigenza del secondo aspetto, la verità del collettivismo. L’uni educa l’uomo ad essere attivo nel produrre, l’altro ad essere equo nel distribuire; e come non si dà economia senza produzione e distribuzione, così non si dà economia senza individualismo e collettivismo.


4. Ispirandosi a questa premesse, la civiltà di domani dovrà quindi restaurare o innovare o creare tutti una serie di istituti, la cui più determinata fisionomia e il cui particolare succedersi non possono naturalmente esser previsti e preposti in ogni loro aspetto finchè non si abbia di fronte l’effettiva situazione storica in cui si tratti di recarli in atto. Bisogna, a questo proposito, guardarsi dal pericolo dell’utopismo, non meno che dallo spirito di inerte accettazione del fatto compiuto, incline ad attendere dal corso degli eventi storici non solo la soluzione di ogni problema, ma addirittura il criterio di ogni giudizio etico e politico.
Per evitare il duplice pericolo, dell’utopismo astratto che prevede tutto e dello storicismo inerte che non vuol prevedere nulla, bisogna anzitutto ben distinguere, anche nelle dottrine e nei programmi politici, tra quanto è assoluto valore e verità, che non trae norma dall’accadere perché è lo stesso criterio ultimo per giudicare l’accadere e reagire ad esso, e quanto è contingente escogitazione e proposta di strumenti atti ad agire sulla realtà per avvicinarla a quegli ideali e a quei valori: strumenti che devono essere studiati ed escogitati e previsti perché non ci si accosti più tardi alla realtà senza idee né programmi, ma la cui più specifica configurazione e adozione e successione deve poi naturalmente adattarsi alle determinate e sempre mutevoli esigenze della situazione storica. Quanto si è p. es. definito circa il contenuto essenziale del liberalsocialismo, in ordine ai supremi valori della giustizia e della libertà, non è cosa che possa comunque mutare con la storia, che la storia possa convalidare od infirmare con le vittorie o con le sconfitte. Quello che in linea di principio si è enunciato a questo proposito, è vero da sempre e sarà vero per sempre, finchè ci saranno uomini sulla terra; perché gli uomini possono bene essere giusti o ingiusti, possono anche sopprimere tutti gli uomini giusti, ma se pensano la giustizia non possono pensarla che in quel modo, non possono storcere il canone della moralità e della civiltà.
Chi quindi si sgomenta di certe sconfitte, e teme che la storia possa con esse insegnare che la giustizia e la libertà non sono quello che sono, e che non è vero che si deve continuare a creder in esse, a testimoniarne e a diffonderne la religione e il culto, anche quando si sia rimasti assolutamente soli a farlo, chi teme questo, ha smarrito l’orientamento, e non sa più distinguere i valori dai fatti. Quel che muta con la storia, e con essa patisce ritardi e sconfitte, è, certamente, tutto il resto: tutto il mondo delle esperienze, degli istituti, delle conquiste, degli istituti, delle conquiste educative e giuridiche, che possono di per sé corrompersi o rivelarsi fragili più di quanto sembrassero, o essere travolti da una soverchiante forza brutale. Su questo mondo passano i carri armati, che non hanno presa sulla Giustizia e sulla Libertà. E quando essi sono passati, occorre ricostruire quello che è stato distrutto, e la concreta opera di ricostruzione non può prescindere dalla precisa situazione storica del luogo del luogo e del momento, così come non può prescinderne ogni altro eventuale atto di innovazione e di avanzamento ulteriore. Ma, anche qui, non si può semplicemente aspettare l’avvenire, per improvvisare poi le decisioni in base ad esso. Bisogna studiare, escogitare, proporre, senza temere l’accusa di utopismo o di dottrinarismo; e bisogna escogitare e proporre quanto più possibile in concreto, come se si fosse già di fronte al bisogno di redigere articoli di legge, perché, per astratta che appaia, per altro verso, la considerazione giuridica, la traducibilità in ordinamenti positivi è pure una prova pratica, e molti sogni di riforma ab limis mostrano la loro inconsistenza proprio di fronte al tentativo di calarli in norme precise e capaci di funzionare. L’effettiva situazione storica servirà poi di correttivo, farà escludere certi strumenti e ne farà scegliere o modificare altri..
Di conseguenza, dopo che, in quanto precede, si sono enunciati quei principii generali del liberalsocialismo, che dalla storia non attendono conferme o smentite perché la loro convalida ultima è solo nella coscienza e nella intelligenza di chi li accoglie, si indicherà qui, a titolo di esemplificazione pratica, un certo complesso di riforme e di istituti, che il liberalsocialismo prospetta come di più plausibile ed opportuna instaurazione, e la cui delineazione serve ad orientare circa lo spirito ed il carattere dell’azione e dell’organizzazione politica, verso cui esso tende a indirizzare le volontà.

(fine parte -1)

Cyrus
08-03-10, 20:08
5. Anzitutto, in conformità con l’aspetto più propriamente liberale della concezione, lo stato di domani dovrà rinnovare in sé quanto di più efficace l’universale tradizione del liberalismo e della democrazia ha creato in fatto di istituti giuridici tandenti alla difesa ed alla promozione delle libertà civili e politiche.
Risorgerà, così, lo stato liberale: ma non senza l’esperienza delle ultime prove. Se non risorgerà come equivoco stato etico, non risorgerà neppure come vuoto stato agnostico, scevro di ideale e di fede religiosa. Chiunque ne sosterrà col suo volere le leggi e con le sue forze l’azione, dovrà avere una religione ben ferma: la religione della libertà. E di questa religione si costituirà custode.
Certo, egli non dimenticherà neppure allora che la più alta condizione civile è pur quella degli stati in cui il costume della ben regolata libertà sia ormai radicato per abitudine tanto secolare, da permetterne l’uso anche a quei pochi, che in un simile ambiente continuino a far propaganda contro la libertà. Ma terrà conto della delicata situazione storica a cui dovrà presumibilmente far fronte; e soprattutto ricorderà che, in quanto instauratore o difensore di norme costituzionali, egli sarà chiamato a porre e a tener fermi dei limiti alla libertà dei cittadini, che questi stessi non sarebbero capaci di imporsi senza quella coercizione legale. Posta dunque la necessità di fissare norme costituzionali, è chiara insieme anche l’esigenza massima a cui esse dovranno ispirarsi: quella di non contraddire intrinsecamente a se stesse. La futura costituzione garantirà a tutti la libertà, salvo a coloro che intendano valersene contro la stessa libertà.


6. Per compiere questa discriminazione, che non potrà naturalmente essere di competenza del potere esecutivo, espressione di un determinato partito, e che difficilmente potrebbe essere assegnata al legislativo o al giudiziario, dovrà operare nello stato un quarto potere, la cui istituzione in organo autonomo avrà per il nuovo ordinamento la stessa importanza reciproca dei tre poteri tradizionali.
Allo stesso modo, d’altronde, che tale autonomia ed indipendenza non ha mai significato supremazia dittatoriale di uno di tali poteri sugli altri, così anche per il quarto potere potrà essere previsto un sistema di controllo ( p. es. mercè il ricorso al legislativo, autorizzato a modificare le decisioni della Corte Costituzionale quando raggiunga la maggioranza dei tre quarti). Questa Corte dovrà controllare essenzialmente il giuoco dei partiti, in conformità del principio capitale che solo quei partiti potranno essere legalmente ammessi nel nuovo stato, i quali accettino la regola fondamentale del gioco, espressa da quanto si è in generale definito come contenuto essenziale del liberalismo. Ogni partito, che chieda il legale riconoscimento, dovrà presentare il suo preciso ed ufficiale programma, e questo avrà piena ed incondizionata libertà in tutta la sua formulazione, salvo che nel punto dell’accettazione obbligatoria dei canoni fondamentali del liberismo e della democrazia. Nessun partito potrà, in particolare, essere riconosciuto, il combatta il principio della libera formazione elettiva delle leggi e dei governi, e manifesti, o comunque tradisca, il suo intento di una futura eliminazione violenta degli altri partiti. Su questi punti non sarà ammesso neppure il silenzio: ciascun programma di partito, presentato per il riconoscimento, dovrà contenere in proposito un’esplicita professione di fede. Ogni propaganda di partito non conforme al programma riconosciuto sarà repressa severamente, del pari che ogni attività clandestina di partito non riconosciuto. Egualmente vietata e repressa sarà, in ogni partito, qualsiasi formazione o preparazione di carattere militare; ed insieme si curerà che all’interno stesso di ogni partito la disciplina dei suoi membri non abbia carattere di obbedienza militaresca, la quale coltivi nel loro ambito quello spirito e quella propaganda antiliberale, che si tende appunto a mettere fuori gioco col controllo dei programmi. Ciò potrà essere ottenuto stabilendo, p. es., l’obbligo di congressi annuali pubblici. Si potrà inoltre statuire, per evitare i pericoli del parlamentarismo, che l’adesione ad un partito sia condizione necessaria per la candidatura alle elezioni legislative, e che a queste stesse elezioni possano presentare candidati soltanto quei partiti che abbiano già conquistato un adeguato numero di aderenti in seno alla nazione.


7. Altra sfera a cui dovrà necessariamente estendersi la delicata opera di controllo del quarto potere, è quella della stampa. E’ chiaro che non potrà trattarsi, in questo caso, né di approvazioni preventive, né di eventuali divieti. Chi pone a fondamento del proprio ideale politico la difesa della migliore tradizione liberale e democratica, non può nello stesso tempo sognare indici di libri proibiti, o comunque repressioni della libertà di stampa. Per questo più generale aspetto, quindi, unica disciplina dovrà essere quella della legge comune, applicata dalla magistratura ordinaria, nei soli casi che possano essere considerati come atti, o come aperto incitamento ad atti, formalmente previsti come reati di diritto comune da un codice penale liberato da ogni motivo settario.
Ma per quanto concerne la stampa quotidiana ed il suo finanziamento, il liberalsocialismo non può ignorare che è ben vacua una libertà di stampa alla quale non si accompagni la possibilità economica di farne uso. Domani, proprio quei pochi che si sono arricchiti oggi per l’assenza di ogni controllo liberale della vita pubblica potranno essere in condizione di comprare e di fondare molti più giornali che non tutti gli intellettuali e i lavoratori della nazione presi insieme. Nell’attesa di uno sviluppo della situazione sociale che permetta di ovviare sempre più a questo gravissimo inconveniente, il quale falsa in larga misura il gioco delle opinioni dando maggior forza alla verità dei ricchi, bisognerà quindi, in primo luogo0, procurare almeno la massima pubblicità possibile in tale materia, in modo che ogni lettore sia direttamente informato, da accertamenti ufficiali obbligatoriamente ripetuti in ogni numero sotto il titolo del giornale, della proprietà e del fondamento finanziario del foglio che legge. Tali accertamenti saranno di competenza della Corte Costituzionale, che dovrà a questo scopo (così come a quello del controllo della costituzionalità dei partiti) disporre di tutti i necessari organi d’indagine e d’informazione. In secondo luogo, bisognerà agevolare al massimo la fondazione di giornali, in tutti quei casi in cui sia accertabile un minimo di interesse collettivo a tale fondazione (p. es. quando si abbia un certo numero di sottoscrizioni nominative per abbonamento annuo).
In simili casi, si potrà concedere agli organizzatori del nuovo giornale l’opera gratuita di grandi tipografie si stato. In terzo luogo, se non è concepibile una stampa del potere esecutivo diversa da quella del partito al potere, è ben concepibile, per il liberalismo, una stampa che, dipendendo direttamente dalla Corte Costituzionale, abbia per scopo d’informare il pubblico col più rigoroso rispetto dell’obbiettività e di rivolgere al massimo la sua attenzione verso i problemi dell’amministrazione pubblica e del suo controllo da parte dei cittadini, contribuendo in tal modo a sviluppare in essi il senso concreto della democrazia e dell’autogoverno.
Compiendo tale opera, la Corte Costituzionale servirà nel miglior modo non solo al compito dell’educazione nazionale, ma anche all’interesse dei partiti in lotta. Parimenti sotto il suo controllo, informato agli stessi principi per tutto quanto concerne l’educazione all’obbiettività storica ed allo spirito liberale, saranno la radio e la scuola.


8. Tutto questo aspetto, più universalmente liberale, dell’ordinamento dello Stato è, come si è visto, necessario momento comune di ogni partito e di ogni educazione e difesa non è quindi subordinata al principio della maggioranza. La legge del consenso non ha bisogno, per la sua validità, del consenso: chè qualsiasi consenso s’immaginasse per convalidarla, dovrebbe già presupporla per trarne tale virtù di convalida. Chiunque sia convinto, nella sua coscienza morale, del principio che gl’impone di non stringere l’altrui volontà della maggioranza, ha per ciò stesso acquistato il diritto di non tener conto del consenso, e di adoperare la forza, in tutti i casi in cui occorra instaurare a difendere il principio che solo dal consenso le leggi devono derivare la loro forza.
Ed ha, per ciò stesso, acquistato il diritto di usare la forza in tutti quei casi in cui, non solo la libera formazione delle leggi attraverso il consenso, ma la stessa libera formazione del consenso e del dissenso attraverso il gioco della pubblica opinione (in cui ciascuno deve contare solo per l’autorità della sua intelligenza, esperienza ed onestà individuale) appaia infirmata o gravemente ostacolata dal prepotere acquisito di certe posizioni finanziarie o politiche. Qui, nella fase di instaurazione costituzionale, ha luogo il diritto della forza, così come, a costituzione instaurata, deve aver luogo la ben regolata forza di un diritto che, attraverso il combinato intervento della Corte Costituzionale e della magistratura ordinaria, chiamate ad applicare un nuovo apposito capitolo del codice penale, colpisca severamente, soprattutto mediante l’espropriazione del mezzo finanziario, chi di tale mezzo si sia comunque valso per comprare le opinioni altrui.
E’ infatti evidente che il processo di instaurazione del nuovo stato non potrà non interferire con le colossali posizioni monopolistiche che si sono venute sviluppando sui privilegi di carattere politico. Esse, unite in naturale alleanza, costituiranno un complesso di forze tali da gravare in modo talvolta decisivo sull’opinione e sugli orientamenti politici del paese. D’altra parte, l’eliminazione di quei detersati privilegi di natura politica, che ne hanno provocato e favorito lo sviluppo, metterà in forse la loro stessa esistenza. Potrà quindi occorrere di prendere misure per fronteggiare la situazione eccezionale: misure di carattere egualmente eccezionale e non programmatico, e di cui quindi è impossibile prestabilire un piano dettagliato. In taluni casi potrà essere sufficiente l’assunzione del controllo da parte dello stato, in cui potrà occorrere l’esproprio. Quando non si tratti di istituti di vitale interesse sociale (grandi banche, società di assicurazioni, grandi imprese minerarie, ecc.) che sono già virtualmente statizzati, limitandosi in essi l’iniziativa privata al riscuotere le cedole azionarie o peggio al postulare l’appoggio dello stato, le imprese potranno di nuovo essere affidate alla responsabilità privata, e si favorirà e promuoverà in tutti i modi la costituzione, a tale scopo, di cooperative tra impiegati e gli operai di esse.
I provvedimenti di carattere economico, così prospettati come tali che la loro adozione s’imponga come necessità rivoluzionaria già nella fase di instaurazione del nuovo stato, resteranno in ogni modo, come si è detto, limitati essenzialmente a quella sfera in cui essi appaiono effettivamente richiesti per l’intrinseca possibilità di funzionamento della democrazia e della libertà. Tale funzionamento deve infatti essere la matrice di tutte le ulteriori riforme nel campo più specificamente sociale. A questo proposito, si è già detto che, se il liberalsocialismo respinge l’astratta tesi marxista secondo la quale l’uguaglianza giuridica del liberalismo è uguaglianza vuota e soltanto l’uguaglianza economica del socialismo è l’uguaglianza piena (non ritenendo “vuota”, p. es., l’eguaglianza che si è ottenuta con l’abolizioane della schiavitù e della servitù della gleba), esso non cade tuttavia nell’errore opposto, di considerare quella prima conquista egualitaria, di carattere giuridico, come sufficiente a sé stessa.Lavorando per l’ideale della maggior possibile eguaglianza delle fortune, il liberalsocialismo mira infatti a che gli uomini, nel più largo numero e nel modo più pprofondo e complesso, partecipino con il loro vario sviluppo alla civiltà comune.
>Ma appunto per ciò il liberalsocialismo vuole che le riforme sociali non piovano dall’alto, ma siano figlie della democrazia e delle libertà. Simili riforme costituiscono sempre, in maggiore o minor misura, una novità storica, rispetto alla quale la sussistenza di una maggioranza ad esse favorevole rappresenta da un lato la prima garanzia critica di plausibilità, e dall’altro un’assicurazione circa l’effettiva buona disposizione dei cittadini a recarle in atto e farle prosperare. Quanto perciò, al di là del contenuto più strettamente liberale dell’ordinamento, sarà nel nuovo Stato istituzione di ulteriori doveri e norme, nel senso di una sempre più profonda realizzazione degli ideali sociali, dovrà normalmente acquistare forza di legge solo attraverso il consenso della maggioranza. Il principio fondamentale di tutte le riforme sociali, che il liberalsocialismo sia per proporre nella sua più specifica attività di partito, sarà quindi quello stesso principio, la cui osservanza esso esige anche da ogni altro partito. Ogni legge dovrà essere votata da una libera maggioranza; ogni riforma sociale dovrà essere attuata attraverso l’esercizio legale della libertà, e rispondere allo spirito della libertà.


9. Tra queste riforme di carattere sociale, tendenti a una migliore realizzazione della giustizia economica, si prospettano qui (come già si è fatto per le riforme di carattere costituzionale, tendenti ad una più energica garanzia della libertà politica) quelle che, salvo ogni ulteriore suggerimento e specificazione derivante dalla concreta situazione storica, possono essere fin da ora plausibilmente attuabili.
La prima, e fondamentale, di tali riforme è quella della scuola. Non si intende con ciò una delle solite riforme di programmi o di istituzioni scolastiche. Riforma sociale della scuola significa organizzazione nazionale dell’insegnamento, tale da rispondere, al massimo, all’esigenza prima di ogni giustizia sociale: all’esigenza che ogni giovane possa sviluppare in pieno le sue attitudini, qualunque sia la sua posizione economica di partenza. Bisogna, anzitutto, creare insegnanti: attirerà alla scuola forze viventi della nazione, e non soltanto forze di scarto, come fatalmente deve avvenire, nonostante le nobilissime eccezioni, quando si trascura il lato economico della cosa. Bisogna, in secondo luogo, eliminare dappertutto la vergogna dell’analfabetismo, organizzando ed estendendo al massimo, anche nel numero degli anni, l’insegnamento obbligatorio, e dando ad ognuno la reale possibilità di adempiere a tale obbligo. Bisogna, ancora, concepire tale prima istruzione, necessaria ed uguale per tutti, non come educazione di tutto il popolo, compiuta nello spirito e sotto il controllo della Corte Costituzionale, ai più semplici e fondamentali principi della convivenza liberale, quale sua preparazione imprescindibile all’esercizio della vita politica. Bisogna, infine, combinando il sistema di una più adeguata e rigorosa selezione scolastica, resa possibile dal migliorato livello degli insegnanti, con quello di una larghissima distribuzione di borse di studio e dell’istituzione di convitti gratuiti per i meno abbienti che lo meritino, assicurare l’indipendenza della selezione dei valori umani da ogni iniziale di censo e di classe.
Solo in tal modo si potrà veramente avviare la fusione ed eliminazione delle classi, e preparare un’umanità capace di più avanzate conquiste sociali, sia perché proveniente dai più diversi ceti, sia perché costituita da masse meglio educate all’intelligenza dei problemi politici. Né a ciò sarà da opporre che, con una simile organizzazione, potrà determinarsi una fuga dalle occupazioni umili, ed una pletora di aspiranti alle professioni più elevate. Ciò sarà impedito tanto dalla migliorata forma della selezione, quanto dalla diminuzione del distacco economico tra le varie retribuzioni, verso cui progressivamente si tenderà. E d’altra parte i migliori tra gli operai ed i contadini avranno modo di far valere le proprie capacità anche in seno al loro stesso ambiente, nelle varie organizzazioni sociali ed amministrative, orientate anch’esse verso il sistema della libera elezione. Quel che soprattutto gioverà, in ogni caso, sarà la selezione e lo sviluppo delle competenze. Qualsiasi cosa si intenda creare in concreto in fatto di riforme degli istituti giuridici ed economici in senso socialista , bisogna insieme formare gli uomini (operai, tecnici, dirigenti) che siano all’altezza di tali nuovi ideali.


10. Sia questa organizzazione per il massimo potenziamento delle energie umane della nazione, sia ogni altro provvedimento di carattere sociale che nello stesso senso lo Stato sarà condotto a prendere, esigeranno, naturalmente, un cospicuo aumento delle disponibilità pubbliche di ricchezza. A ciò provvederanno, in certa misura, già le economie che saranno permesse da un’amministrazione più saggia e controllata del denaro dello Stato. La cessazione di ogni politica di avventure imperialistico-pubblicitarie permetterà di economizzare grandemente sui bilanci militari; l’esercizio costituzionale della vita politica interna ridurrà in larga misura le spese di polizia; il controllo della pubblica opinione e la stessa struttura interna dello stato liberale porranno un energico freno al flusso del denaro dei contribuenti nelle tasche dei funzionari e degli impresari; il decentramento amministrativo, che si cercherà di attuare nella massima misura compatibile con le esigenze tecniche ed economiche, renderà possibile, avvicinando sempre più l’amministrazione del denaro pubblico all’occhio dei cittadini, una sempre maggior misura di tale controllo e risparmio.
Ma bisognerà anche, in secondo luogo, adottare quelle energiche riforme del regime fiscale e del regime successorio, che d’altronde rispondono già di per sé stesse ad una stringente esigenza di giustizia sociale. Ad un regime di tassazione sostanzialmente proporzionale, andrà sostituito un regime sostanzialmente progressivo (cioè in cui aumenti proporzionalmente ai reddito anche l’aliquota dell’imposta).
E tale progressione dell’aliquota dovrà naturalmente essere più severa per quanto riguarda le tasse di successione; addirittura, a questo proposito, potrà essere stabilito un limite di valore, oltre il quale la successione dell’eccedenza spetti senz’altro alla comunità. In ambedue i campi, fiscale e successorio, la concreta commisurazione delle riforme dovrà, s’intende, essere compiuta tenendo presenti entrambe le opposte esigenze, di far tanto più contribuire alla ricchezza privata quanto più essa risulti esorbitante rispetto all’effettivo lavoro con cui è stata acquistata, e di non reprimere l’impulso al guadagno individuale e all’interessamento economico per la propria famiglia.
In terzo luogo, bisognerà passare gradualmente a tutte quelle riforme di carattere più radicale, che tendano ad escludere o a restringere al massimo il possesso e l’uso privato del capitale, per deferirlo all’uso e all’amministrazione comune. Canone essenziale, in questo campo, sarà quello che tanto più energicamente si dovrà espropriare, quanto meno il proprietario opererà come imprenditore o amministratore diretto, e quanto meno sussisteranno le condizioni di libera concorrenza, e quindi di autocontrollo dei profitti e dei redditi. Più immediatamente suscettibili di diventare oggetto di simili riforme appariranno quindi le aziende di assicurazione, di credito, di trasporti, di comunicazioni telefoniche, di produzione di energia, di estrazioni minerarie, di lavori pubblici, e le proprietà agrarie o immobiliari eccedenti un certo limite. Bisognerà, nello stesso tempo, creare pazientemente i quadri dei nuovi amministratori, sia per rendere possibili e vitali simili riforme, sia per aprire la via ad un loro ulteriore ampliamento. Bisognerà, cioè, educare i lavoratori a partecipare all’amministrazione, a rendersi conto dei costi e dei redditi, ad esercitare lo spirito di controllo e dell’autogoverno, attraverso ogni plausibile forma di consigli di fabbrica, di associazioni sindacali, di organizzazioni cooperative, sempre basate sul fondamento della libertà e del rispetto della legalità, incompatibile con lo scatenarsi incomposto degli egoismi di classe e di categoria.



11. In tema di politica estera, principio direttivo del liberalsocialismo è ovviamente quello stesso su cui si basa la sua politica interna. E’ il principio della pacifica ed armonica convivenza delle individualità nazionali, secondo il diritto della giustizia e della libertà.
Il liberalsocialismo respinge con ciò nel modo più reciso non solo ogni forma di imperialismo, di nazionalismo e di razzismo, ma anche il principio dell’ indipendenza della politica dall’etica, della mera ragion di Stato a cui il reggitore deve ispirarsi nella lotta per la sua nazione. La sola forma non volgare in cui possa concretizzarsi questo concetto, è quella del “sacro egoismo”, di cui lo statista dovrebbe necessariamente investirsi quando impersona e difende gli interessi dei suoi concittadini contro gli interessi dei cittadini delle altre nazioni. Ma neppure in questa forma esso regge alla critica. A nessuno è lecito interessarsi tanto della propria famiglia da disinteressarsi del tutto dalle famiglie altrui; a nessuno è lecito abnegarsi così esclusivamente per la propria città, da considerare come male tutto ciò che giovi alle altre città; a nessuno è lecito investirsi a tal segno del bene della sua nazione, da diventare cieco per il bene l’umanità. In nessun ambito l’ideale della forza, della potenza, del predominio ha una sfera di legittimità, in cui esso appaia giustificato di fronte al superiore ideale del diritto, della giustizia e della morale.
D’altronde, il rifiuto dell’ideale della guerra, e di tutto ciò che esso coinvolge (autarchia, protezionismo, isolamento economico e spirituale) non è soltanto un’esigenza etica: risponde anche al più evidente imperativo economico. In altri tempi, in cui combattevano gli eserciti e non le nazioni, il costo della guerra, a paragone di quello odierno, era irrisorio, ed era dato sperare che i vantaggi economici di una vittoria o di una conquista potessero compensarlo. Oggi la tecnica moderna ha portato le cose a tal punto, che solo la menzogna organizzata della propaganda può far credere ai popoli che la guerra sia un’impresa remunerativa. L’avvento della guerra totale segna veramente, in questo senso, una svolta nella storia: la fine dell’età della convenienza economica della guerra. E quindi chi continua a ripetere che la politica estera è sempre stata un gioco di forza e di predominio, e che non c’è ragione di credere ad una possibile conversione dei popoli e degli stati all’ideale di una ordinata e pacifica comunità di nazioni libere, manifesta con ciò non soltanto la sua grettezza morale, ma anche la sua incomprensione di quanto di nuovo la storia e l’economia gli pongono avanti.
Il liberalsocialismo ispirerà di conseguenza la sua politica estera agli ideali della solidarietà internazionale, propugnando il rafforzamento e l’instaurazione di tutto ciò che possa contribuire a rinvigorirla ( disarmo, federazione europea, organismi giurisdizionali e mezzi di coercizione per l’attuazione del diritto internazionale). Nello stesso tempo, farà tutto ciò che sarà in suo potere, nel campo dell’opera politica e della propaganda, affinché la comunità delle nazioni si configuri non soltanto nel senso di liberalismo internazionale, che garantisca le indipendenze degli stati e le soluzioni arbitrali e giurisdizionali delle controversie, ma anche in quello di un socialismo internazionale, che garantisca la parità dei diritti anche sul piano economico. Esso propugnerà, in tal senso, l’abolizione, o la massima riduzione possibile, delle barriere doganali, con eventuali disposizioni di compenso, ispirate al criterio di una giustizia comune, per gli stati che ne risultassero realmente danneggiati; l’internazionalizzazione delle colonie e delle grandi fonti di materie prime; la progressiva estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei confini delle singole nazioni.

12. Sia per tale orientamento internazionalistico della sua concezione dei problemi della politica estera, sia per la sostanziale indipendenza della sua complessiva dottrina etico-politica da ogni limite strettamente nazionale, il liberalsocialismo non si considera ristretto entro i confini del proprio stato. Esso auspica quindi la formazione di una comunità internazionale, composta di tutti coloro che, in qualsiasi nazione, ne condividano la teoria e gli ideali. Questa Internazionale, che, sulla pianta della libertà che non deve morire negli animi e nelle attuazioni, inserisce un rinnovamento morale ed un rinnovamento sociale, tende a realizzare una civiltà la quale, svolgendosi, dà origine nel suo ambito a varie correnti e a vari atteggiamenti, e prova così la propria complessità e fecondità storica.
D’altra parte, se in tal modo il liberalsocialismo si appella all’uomo in quanto cittadino del mondo, e tende a far coincidere le soluzioni dei problemi di politica interna e di politica esterna nel senso di un sempre maggiore avvento dei principi di libertà, di giustizia e di eguaglianza nell’universale ordinamento giuridico degli uomini, sul piano propriamente interno esso si presenta ad un tempo come programma di partito e come generale concezione costituzionale della convivenza dei partiti. Al primo aspetto corrisponde il suo complessivo programma liberalsocialista; al secondo, quando in esso si è definito come più propriamente liberale.
In questo secondo aspetto, il liberalsocialismo si presenta perciò quale comune base d’intesa per tutti i partiti e per tutte le tendenze, che accettino la fondamentale regola del giuoco: la regola della lealtà, la regola della libertà che non deve uccidere se stessa. Esso auspica in tal modo la formazione di un Fronte della libertà, a cui partecipano tutti coloro che pur divergendo, in qualsiasi senso e misura, dal resto del programma liberalsocialista, ne accolgano la teoria delle libertà costituzionali e la concezione degli istituti necessari per il loro ordinato funzionamento.
Chiunque ha il senso della convivenza civile e dell’onestà politica deve potere, almeno, appartenere a questo fronte. Esso è il fronte comune della libertà e della lealtà.

Cyrus
08-03-10, 20:11
Calogero, teorico della "società giusta"
La nascita italiana della filosofia civile

di STEFANO PETRUCCIANI


Alla scoperta di un grande maestro dimenticato; in libreria gli atti di un convegno dell'Università di Pisa.
"Liberalsocialismo", "etica del discorso", ormai se ne parla da anni. Ma a scoprirli per primi fu Guido Calogero, un figlio della tradizione idealistica, nella cui riflessione affiorano con singolare nettezza i temi delle etiche filosofiche più in voga.

Tra gli intellettuali italiani del Novecento che meriterebbero di essere riletti con attenzione, se non addirittura riscoperti, una delle personalità più singolari è senza dubbio quella di Guido Calogero (1904-1986). Formatosi filosoficamente alla scuola di Giovanni Gentile, come buona parte della sua generazione, Calogero non fu solo una grande studioso del pensiero greco, dai presocratici ad Aristotele, e un importante pensatore originale (come testimoniano innanzitutto i tre volumi einaudiani delle sue Lezioni di filosofia). Fu anche un intellettuale impegnato nella lotta politica, nel dibattito delle idee, nel giornalismo un protagonista di quella cultura laica e democratica che, numericamente minoritaria nell'Italia del dopoguerra, si ritrovò in una esperienza politica (di breve vita) come il Partito d'azione e in un giornale come "Il Mondo".

In anticipo su tutti
Di quest'area Calogero è stato, insieme a Bobbio, col quale molto discusse e si confrontò, la mente più lucida. Ed è abbastanza strano che la cultura italiana degli ultimi tempi si sia piuttosto disinteressata di lui, perché Calogero fu uno di quelli che più decisamente prospettarono, già diversi decenni fa, idee che oggi tornano a interessare e a suscitare discussioni, come il tema del liberalsocialismo e quello dell'etica del dialogo.
Molto tempo primo di Apel e di Habermas, i filosofi di Francoforte che, a partire dai tardi anni settanta, hanno lanciato sulla scena della filosofia europea la proposta teorica dell'"etica del discorso", Guido Calogero elaborò (nel volume del 1950 Logo e dialogo, poi ripreso nella più ampia raccolta Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1962) la sua etica del dialogo. In essa all'elogio laico dello spirito critico e della libertà di coscienza (una battaglia, questa, molto caratterizzante per il Calogero pubblicista, sempre impegnato sul fronte della laicità della scuola e della Cultura) si accompagna un interessantissimo ripensamento della natura stessa dell'etica che approfondisce e trasforma l'approccio alla moralità che era stato caratteristico del pensiero calogeriano fino a quel momento.
Nei suoi testi degli anni Trenta e Quaranta, infatti, Calogero aveva caratterizzato la moralità soprattutto come scelta altruistica. Vi è una scelta assoluta, diceva, alla quale nessun individuo si può mai sottrarre, ed è per l'appunto quella tra egoismo e altruismo, tra l'ignorare gli altri, l'usarli solo come strumenti, o invece tener conto di essi, non prevaricarli, aprirsi alla comprensione delle loro esperienze e delle loro necessità.
Quest'ultima è appunto la scelta morale, che è totalmente rimessa all'individuo e alla sua autonomia. Con l'elaborazione della filosofia del dialogo, però, questa impostazione subisce un mutamento di grande rilievo: se si riformula il principio morale non più semplicemente come altruismo, ma più specificamente come dovere di comprendere gli altri e di ascoltare le loro ragioni, allora si scopre una situazione nuova e per certi aspetti sorprendente.
Ci si avvede, in sostanza, che, formulato come principio del dialogo, il principio morale, pur restando rimesso alla scelta autonoma dell'individuo, ha però una sua forza peculiare, che ci autorizza a considerarlo come l'unico principio indiscutibile del quale noi disponiamo, la sola "piattaforma stabile", così lo definisce Calogero, nel grande e in inquieto mare delle convinzioni discutibili, delle teorie scientifiche rivedibili, delle opinioni destinate a mutare con la trasformazione del paesaggio storico. Ma donde trae il principio morale questa forza e sembra sottrarlo a ogni oscillazione e assicurargli una validità di ombre e di incertezze?
La risposta di Calogero, argentata come poteva fare un discepolo della dialettica platonica e aristotelica, è un buon esempio di sottigliezza filosofica. Il dovere di ascoltare le ragioni degli altri e di comprenderli è indiscutibile, sostiene Calogero, perché chi volesse contestarlo o demolirne la validità dovrebbe a sua volta entrare in un confronto di discorsi e di argomenti, e quindi sarebbe costretto proprio ad accettare quel principio del dialogo o della discussione che invece pretendeva di criticare o di rifiutare. Inteso come dovere di intendere gli altri, dunque, il dovere morale è un dovere che io prescrivo a me stesso in piena autonomia, ma di cui nessuno riuscirà mai a smentire la validità, perché per farlo dovrebbe appunto impegnarsi in una discussione con altri, ma con ciò avrebbe già accettato quel principio morale che intendeva respingere.

La polemica con Bobbio
A questa acuta argomentazione di Calogero fu a suo tempo obiettato, proprio da parte di Bobbio, che il dovere di discutere, e di prestare ascolto alle ragioni degli altri, è un imperativo dell'onestà intellettuale, ovvero dello spirito critico e antidogmatico, ma non esaurisce l'ambito della moralità. L'etica insomma, sosteneva Bobbio, non si può ridurre a un'etica della discussione. È questa un'obiezione molto simile a quelle che più di recente sono state rivolte all'etica del discorso di Apel e di Habermas. Acuto e non privo di forza persuasiva era però il modo in cui Calogero rispondeva ad essa: comprendere gli altri, prestare ascolto alle loro ragioni, implica il riconoscere, senza riserva alcuna, il loro diritto di esprimersi, di prendere la parola; ma con ciò è già implicitamente riconosciuto il diritto dell'individuo ad essere preso in considerazione e rispettato in tutta l'ampiezza delle sue esigenze e dei suoi bisogni. La legge del dialogo, dunque, non vale solo per la società degli intelletti, ma anche per quella degli uomini e dei cittadini: se ognuno ha diritto di essere ascoltato nelle sue idee, ha anche il diritto di vedere soddisfatti i suoi bisogni e le sue aspirazioni, in misura pari a come vengono soddisfatti i bisogni di ogni altro membro della società.
L'etica del dialogo quindi, nella visione che ne elabora Guido Calogero, si salda perfettamente con una prospettiva politica liberalsocialista, quella che Calogero stesso aveva delineato, collaborando anche con Aldo Capitini, nel famoso manifesto del liberalsocialismo redatto nel 1940.
Il nerbo teorico del liberalsocialismo viene enunciato da Calogero in modo chiarissimo in questo e nei tanti scritti successivi: esso si può riassumere nella convinzione che libertà e giustizia sociale, diversamente da quanto crede un pigro senso comune, non sono tra loro né confliggenti né tantomeno incompatibili ma, al contrario, sono a ben guardare profondamente e radicalmente solidali, fino al punto da costituire in realtà un ideale unitario. Le questioni concernenti la giustizia economica non sono altra cosa rispetto alla problematica della libertà, ma la riguardano direttamente: non è libero chi non ha la possibilità di fruire dei benefici della cooperazione sociale, e di soddisfare attraverso di essa i propri bisogni e le proprie aspirazioni. E d'altra parte è del tutto illusorio, ammoniva Calogero rivolto ai suo amici di sinistra, pensare che possa darsi giustizia sociale là dove man chino le condizioni essenziali di libertà politica. Le istituzioni della libertà politica e quelle della giustizia economica si sostengono e si richiedono vicendevolmente; esse sono legate, scriveva Calogero, da un "nesso indissolubile di reciproca presupposizione". Nella loro nettezza e radicalità (che sembrerà a qualcuno un po' utopistica) le sue pagine meriterebbero ancor oggi di essere meditate. Se non altro come antidoto rispetto a quelle forme di liberalismo socialmente insensibile e ultraliberista che oggi tornano in auge e di cui non pochi subiscono il fascino un po' sinistro.

Cyrus
08-03-10, 20:12
L'utopía della libertà uguale

di Alberto Leiss

Rispondendo a Guido Calogero, che nel novembre del '45 lo invitava a collaborare alla sua nuova rivista "Liberalsocialismo", Norberto Bobbio scriveva: "Mi interessa e mi piace il programma della tua rivista ( .. ) per quanto l'esperienza ci abbia insegnato che le premesse per una politica "liberalsocialista" in Italia non ci sono, o ci saranno tra due secoli. Faremo i predicatori nel deserto, come del resto "abbiamo sempre fatto...".Di secolo ne è passato solo mezzo, e oggi sembra che la prospettiva più forte, se non l'unica, per ridare "anima", come si dice, e un fondamento etico-teorico alla sinistra erede del socialismo e del comunismo, sia proprio un approccio molto vicino al "liberal-socialismo".
Termine tuttavia controverso ancor oggi. Nel volume recentemente pubblicato da Einaudi che raccoglie, a cura di Michelangelo Bovero, una quarantina dì saggi di Bobbio ordinandoli sotto il titolo "Teoria generale della politica", si ritrova la discussione (pag. 306 e seguenti) che lo stesso Bobbio sviluppa a partire dall'osservazione di Dahrendorf sulla parola "liberalsocíalismo", un "termine italiano che mi sembra leggermente assurdo".Siamo negli anni '90 e il filosofo torinese ripercorre in sintesi la storia europea del "termine leggermente assurdo", rivendicandone la fondatezza e storicizzandone la funzione. Nato per rimediare in nome del socialismo agli effetti pratici negativi del liberalismo, ora è il fallimento del comunismo che lo ha "resuscitato".
Gran parte della genealogia citata da Bobbio in questo scritto è ripresa e sviluppata nel libro di Franco Sbarberi "L'utopia della libertà eguale" (Boringhieri): una galleria di ritratti concettuali che va dal rapporto tra Gramsci e Gobetti alle tesi di Carlo Rosselli, di Guido Calogero, Calamandrei fino allo stesso Bobbio, in un ultimo capitolo denso di informazioni sul carteggio tra Bobbio e Calogero, dal quale abbiamo tratto la citazione iniziale.
Uno degli elementi di interesse, naturalmente, è il rapporto sempre stretto e difficile tra questa tradizione "liberalsocialista" italiana e il comunismo italiano. Dall'amicizia e la stima reciproca tra Gramsci e Gobetti, il quale vedeva nella classe operaia torinese le capacità egemoniche e democratiche "borghesi" che mancavano alla borghesia italiana, alla rozza stroncatura che Togliatti scrisse nel 1931 delle tesi di Rosselli, alla nota frase di Bobbio a Amendola negli anni '60: "Noi abbiamo bisogno della vostra forza, ma voi avete bisogno dei nostri principi". In fondo l'attrazione tra queste due culture politiche può essere rintracciata nel fatto che la sensibilità "sociale" dei comunisti italiani non era impermeabile al tema della libertà, mentre i liberal-socialisti erano ben consapevoli che senza libertà "dal bisogno" non ci sono veri diritti di cittadinanza.
Questa sorta di "pendolo teorico" della sinistra tra libertà e uguaglianza, e che investe il rapporto tra motivazioni etiche della politica e forme della democrazia si è sicuramente spostato dopo l'89 sul primo dei due termini. Ma oggi la discussione torna sui nessi contraddittori tra le due polarità. Passando da un'approccio di teoria politica a uno di sociologia della politica è interessante il percorso del binomio etica-libertà-solidarietà che Arnaldo Bagnasco disegna nel suo "Tracce di comunità" (Il Mulino) calandolo nelle realtà concrete della moderna "società di mercato".Tra l'ottimismo di Antony Giddens per una ripresa di comportamenti sociali razionali liberi e solidali e il pessimismo "morale" di Zygmut Bauman, Bagnasco alla fine sembra inclinare per il secondo, a dimostrazione del fatto che molto lavoro teorico e analitico deve ancora essere fatto da una sinistra orfana del comunismo ma anche dello "stato sociale".

Norberto Bobbio, "Teoria generale della politica", Einaudi, pag. 684, lire 58.000
Franco Sbarberi, "L'utopia della libertà uguale", Bollati Boringhieri pag. 218, lire 35.000
Arnaldo Bagnasco, "Tracce di comunità", Il Mulino, pag. 179, lire 20.000

La Stampa
30 dicembre 1999

Cyrus
08-03-10, 20:13
Norberto Bobbio ricorda Guido Calogero

"Lo conobbi nel 1933 a un congresso hegeliano M´impressionarono lo sguardo e la bravura"

Il testo inedito di Norberto Bobbio che pubblichiamo in versione quasi integrale è stato scritto per la riedizione del saggio di Guido Calogero Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, apparso la prima volta nel 1968 e ora riproposto da Diabasis (pagine 148, lire 30.000). La riedizione è curata dal giovane studioso Thomas Casadei, autore di un´ampia introduzione (Le radici della democrazia possibile). Il contributo di Bobbio (Il più giovane dei miei maestri) è stato raccolto dallo stesso Casadei (lo scorso febbraio) e rivisto, dopo la trascrizione, dal professore. Nato nel 1904, morto nel 1986, Calogero ha sviluppato l´attualismo di Gentile in prospettiva etica. E´ stato un grande amico di Bobbio, come documenta il loro epistolario. Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo è il suo libro più noto, in cui analizza i rapporti che si stabiliscono fra democrazia, politica e i diritti dell´uomo.

Il ricordo che ho di Calogero è quello di una bella amicizia, ma prima di tutto di una profonda, straordinaria, ammirazione: di quell´ammirazione che si prova di fronte ad un maestro. Mi viene subito alla mente quel disegno di Renato Guttuso che documenta anche il mio ingresso nell´antifascismo attivo, era il 1939. Prima a Camerino, dove dal 1935 ero docente di filosofia del diritto, poi a Siena, dove insegnavo, dopo aver vinto il concorso, dalla fine del 1938, avevo iniziato a frequentare le riunioni del movimento liberalsocialista, animato da Calogero e da Aldo Capitini. Il disegno di Guttuso, allora giovane e promettente pittore, rappresenta la testimonianza di una di queste riunioni: siamo raffigurati io, Umberto Morra (proprietario della villa presso Cortona dove spesso si tenevano le nostre riunioni e che ci presentò lo stesso Guttuso), Cesare Luporini (che poi divenne comunista), Capitini e, appunto, Calogero con il dito alzato. Entrambi tengono un libro in mano: su quello di Calogero si legge Liberalismo sociale, su quello di Capitini Non violenza. Dell´artefice del disegno si vede la nuca. La prima volta che vidi Calogero fu nel 1933, a Roma, ad un Congresso hegeliano. Presiedeva Giovanni Gentile, che tenne il discorso d´apertura, Calogero era fra i relatori ed io ero fra il pubblico. Mi impressionarono la sua bravura, la sua intelligenza, il suo sguardo. Eravamo entrambi molto giovani (io avevo ventiquattro anni, lui era di soli cinque anni più grande di me), ma rimasi stupito dalla sua maturità: era giovane d´età, ma sembrava un uomo "già arrivato". Questo aspetto destava grande e profonda ammirazione in noi aspiranti studiosi. Calogero aveva un viso "aperto" e i suoi occhi esprimevano, per così dire, quella volontà di discussione che ne faceva un "maestro del dialogo". Non è un caso che i ragazzi della Federazione giovanile del Partito d´Azione si rivolgessero a lui per farsi chiarire la struttura e il senso delle principali regole della discussione democratica, per essere educati alla procedura, nella fase in cui la dittatura fascista sembrava realmente potersi sostituire con un nuovo ordine. I diversi interventi apparvero, in un primo momento, su quello che era il giornale del Partito d´Azione, l´Italia libera. Calogero era dunque per noi più giovani un simbolo, un esempio da ammirare e possibilmente da seguire. Era diventato professore universitario molto presto. Oltre che essere di una intelligenza precoce aveva una grande capacità di apprendere: si era dedicato alla filosofia, ma avrebbe potuto insegnare lettere classiche; oltre al latino, sapeva benissimo il greco, lo leggeva perfettamente: del resto fu traduttore di opere come il Simposio e il Critone. Dimostrava una straordinaria facilità di apprendimento: oltre al greco, conosceva in modo approfondito il tedesco e sapeva anche l´inglese. Non so quando l´avesse studiato, ma lo parlava correntemente, tanto che nel 1950 fu chiamato a dirigere l´Istituto italiano di Cultura a Londra.

Era un uomo di un´intelligenza estremamente rapida. Cominciò prestissimo a scrivere: poesie, recensioni, apparse queste ultime sul Giornale critico della filosofia italiana diretto da Gentile. Compose la sua prima opera molto giovane, nel 1927, a ventitré anni: i Fondamenti della logica aristotelica, che ampliava e rielaborava la sua tesi di laurea (discussa nel 1925); ma il suo primo scritto risale a qualche anno prima, al 1923, ed era dedicato a Pindaro, l´autore al quale Calogero, giovane studente di filologia classica presso l´Università di Roma, pensava di dedicare la tesi; questo prima di conoscere Gentile e dedicarsi agli studi filosofici.

Dimostrava una precocità fuori dal comune nell´imparare le cose difficili, la logica, le lingue straniere, antiche e moderne. Tutto questo ci affascinava e ce lo faceva vedere, appunto, come un maestro. La sua sfortuna fu che così come aveva iniziato molto giovane finì il suo cammino di studioso non vecchio: ricordo benissimo quando la sua intelligenza cominciò a deperire, a degenerare. Mi vengono alla mente i colloqui che ebbi con sua moglie, Maria Comandini, e il racconto delle sue difficoltà. I suoi ultimi libri risalgono alla fine degli Anni Sessanta, per quanto poi continuasse a scrivere su periodici, riviste e quotidiani. Gli anni precedenti alla sua scomparsa furono terribili, si era appannata la sua intelligenza

L´incontro con Capitini

A quel periodo risale anche la mia conoscenza dell´altro ispiratore del liberalsocialismo: Aldo Capitini. Prima di insegnare a Siena, come accennato, ero professore a Camerino. E ricordo di esserlo andato a trovare a Perugia, nel momento in cui stava per pubblicare il libro che lo rese noto, Elementi di un´esperienza religiosa, che è del 1937, mentre il libro di Calogero, altrettanto fondamentale per la mia generazione, La scuola dell´uomo, è del 1939. Questi sono i due libri che rappresentano come dire un precorrimento, una specie di anticipazione, di quella che era la lotta politica antifascista clandestina, che però si manifestava nelle opere scritte, con molta cautela come dimostra il titolo del libro di Capitini, che in realtà celava una trattazione strettamente politica. Capitini e Calogero furono due figure assolutamente centrali per la mia formazione e per il mio ingresso nell´antifascismo attivo. E tuttavia erano personaggi molto diversi fra loro.

Si possono individuare due fasi del loro rapporto. Dapprima c´è un dialogo legato al liberalsocialismo, che sta a cavallo fra la fine degli Anni Trenta e l´inizio degli Anni Quaranta. In estrema sintesi, mentre il liberalsocialismo di Capitini era di evidente orientamento social-religioso e non soltanto politico, quello di Calogero si caratterizzava per l´approccio giuridico. C´è poi una seconda fase di scambio fra i due, a metà degli Anni Sessanta, poco prima della morte di Capitini (che avviene nel 1964), che riguarda la filosofia del dialogo. Sulle riviste Azione non violenta (diretta da Capitini) e La Cultura (diretta da Calogero) uscirono articoli dell´uno e dell´altro sulla nonviolenza, il dialogo e l´"apertura" in cui i due affrontavano queste tematiche: l´uno, Capitini, partendo da un profondo senso religioso, l´altro, Calogero, da un forte afflato morale di matrice laica, che già in La scuola dell´uomo trova una testimonianza esemplare. Il problema centrale, comunque, nel quadro dei rapporti fra i due, è quello della nonviolenza. Calogero aveva una mentalità giuridica che Capitini certamente non aveva e questo portava il primo a sostenere (cosa che anch´io ho sempre pensato) che la nonviolenza finirebbe per essere una teoria disarmata, inefficace, senza il diritto. Come ho sottolineato in molti scritti, il diritto senza forza non si dà, come sanno tutti quelli che hanno studiato giurisprudenza, il diritto senza possibilità della sanzione, che operi qualora si verifichi la violazione delle norme, non esiste. Calogero e Capitini avevano senz´altro qualcosa in comune sul piano intellettuale, legato alla formazione idealistica, all´insegnamento di Croce e Gentile, da cui poi entrambi si distaccarono.

Il modello Inghilterra

Calogero era un idealista immanentista, la sua filosofia derivava da quella che era allora la filosofia dominante in Italia. Ma sulla questione del diritto e della nonviolenza le loro posizioni erano senz´altro diverse, e alcuni passaggi del saggio I diritti dell´uomo e la natura della politica, contenuto in questa raccolta, ne sono una chiara dimostrazione. Un altro punto su cui mi preme soffermarmi è il suo modo di intendere il socialismo. La sua simpatia per questa prospettiva culturale e politica va senz´altro attribuita alla sua ammirazione per l´Inghilterra e per il laburismo. Naturalmente bisognerebbe anche rivedere il suo libro sul marxismo, Il metodo dell´economia e il marxismo, che a suo tempo ebbe una certa fortuna tra coloro che si stavano avviando sulla strada dell´antifascismo. Sarebbe una buona occasione, fra l´altro, per richiamare l´attenzione su un testo ormai dimenticato e che pure presenta, ancora oggi, qualche interesse rispetto al dibattito continuato e sempre attuale sulla storia del marxismo. Le istanze socialiste di Calogero si raccolgono attorno all´idea di una società giusta fondata sul dialogo e la reciprocità, su un´idea di democrazia come colloquio integrale perché tutti devono avere il diritto-dovere di prendervi parte. Scrive per esempio Calogero in L´abbiccì della democrazia: "L´unità della democrazia è l´unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze". E´ un modo singolare e originale di definire la democrazia. Quando si parla di democrazia s´intende, primariamente, la partecipazione al potere, richiamando una nozione di potere dal basso.

L´uguaglianza è libertà

Calogero fa riferimento al rapporto fra gli individui, alla relazione dialogica, alla democrazia come ciò che rende possibile il dialogo, che non è la definizione più comune di democrazia, per cui usualmente si intende, appunto, il rapporto fra l´insieme dei singoli e il potere. Questo in Calogero è implicito. Egli si richiama costantemente al rapporto fra gli individui, al dialogo inteso come reciprocità, ad un continuo domandare e rispondere: la democrazia è vista attraverso il dialogo, che è regola fondamentale ma anche valore. L´ideale della democrazia come colloquio spiega in qualche modo anche la sua visione sociale degli assetti democratici: tutti devono avere la possibilità di prendere parte allo scambio dialogico, devono avere l´effettiva capacità e l´effettivo potere di discutere con gli altri. E´ forse qui che si può rinvenire un´istanza propriamente socialista, in quanto l´effettività presuppone forme di eguaglianza fra gli individui: l´idea di eguaglianza - principio guida dell´azione del movimento operaio fin dai suoi esordi - arricchisce il liberalismo, come ho sostenuto in più occasioni. Ma per Calogero eguaglianza e libertà sono intimamente unite, inseparabili e, attraverso la loro unità, definiscono i cardini di una società giusta. Qui può situarsi un fecondo spazio di congiunzione fra il liberalsocialismo e le odierne forme di contrattualismo rilanciate da John Rawls e ispirate al principio dell´equità. La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra.

Il tentativo di enucleare alcuni caratteri irrinunciabili del sistema democratico, alla ricerca delle modalità e delle ragioni di una convivenza sostanziata di valori autentici, e la possibilità di sviluppare l´idea liberalsocialista al fine di realizzare una società giusta attestano, a tutt´oggi, la vitalità della riflessione politica di Calogero.

La Stampa
21 dicembre 2001

Cyrus
08-03-10, 20:13
COMMENTO DI WWW.SKEPSIS.IT

Tra gli intellettuali italiani del Novecento che meriterebbero di essere riletti con attenzione, se non addirittura riscoperti, una delle personalità più singolari è senza dubbio quella di Guido Calogero (1904-1986). Formatosi filosoficamente alla scuola di Giovanni Gentile, come buona parte della sua generazione, Calogero non fu solo una grande studioso del pensiero greco, dai presocratici ad Aristotele, e un importante pensatore originale (come testimoniano innanzitutto i tre volumi einaudiani delle sue Lezioni di filosofia). Fu anche un intellettuale impegnato nella lotta politica, nel dibattito delle idee, nel giornalismo ; un protagonista di quella cultura laica e democratica che, numericamente minoritaria nell'Italia del dopoguerra, si ritrovò in una esperienza politica (di breve vita) come il Partito d'azione e in un giornale come "Il Mondo". Di quest'area Calogero è stato una delle menti più lucide. Ed è abbastanza strano che la cultura italiana degli ultimi tempi si sia piuttosto disinteressata di lui, perché Calogero fu uno di quelli che più decisamente prospettarono, già diversi decenni fa, idee che oggi tornano a interessaree a suscitare discussioni, come il tema del liberalsocialismo e quello dell' etica del dialogo.

Nei suoi testi degli anni Trenta e Quaranta, infatti, Calogero aveva caratterizzato la moralità soprattutto come scelta altruistica. Vi è una scelta assoluta, diceva, alla quale nessun individuo si può mai sottrarre, ed è per l'appunto quella tra egoismo e altruismo, tra l'ignorare gli altri, l'usarli solo come strumenti, o invece tener conto di essi, non prevaricarli, aprirsi alla comprensione delle loro esperienze e delle loro necessità.

Quest'ultima è appunto la scelta morale, che è totalmente rimessa all'individuo e alla sua autonomia. Con l'elaborazione della filosofia del dialogo, però, questa impostazione subisce un mutamento di grande rilievo: se si riformula il principio morale non più semplicemente come altruismo, ma più specificamente come dovere di comprendere gli altri e di ascoltare le loro ragioni, allora si scopre una situazione nuova e per certi aspetti sorprendente.

Ci si avvede, in sostanza, che, formulato come principio del dialogo, il principio morale, pur restando rimesso alla scelta autonoma dell'individuo, ha però una sua forza peculiare, che ci autorizza a considerarlo come l'unico principio indiscutibile del quale noi disponiamo, la sola "piattaforrna stabile", così lo definisce Calogero, nel grande e inquieto mare delle convinzioni discutibili, delle teorie scientifiche rivedibili, delle opinioni destinate a mutare con la trasformazione del paesaggio storico.

L'etica del dialogo quindi, nella visione che ne elabora Guido Calogero, si salda perfettamente con una prospettiva politica liberalsocialista, quella che Calogero stesso aveva delineato, collaborando anche con Aldo Capitini, nel famoso manifesto del liberalsocialismo redatto nel 1940.

Il nerbo teorico del liberalsocialismo viene enunciato da Calogero in modo chiarissimo in questo e nei tanti scritti successivi: esso si può riassumere nella convinzione che libertà e giustizia sociale (diversamente da quanto crede un pigro senso comune) non sono tra loro né confliggenti né tantomeno incompatibili ma, al contrario, sono a ben guardare profondamente e radicalmente solidali, fino al punto da costituire in realtà un ideale unitario. Le questioni concernenti la giustizia economica non sono altra cosa rispetto alla problematica della libertà, ma la riguardano direttamente: non è libero chi non ha la possibilità di fruire dei benefici della cooperazione sociale, e di soddisfare attraverso di essa i propri bisogni e le proprie aspirazioni. E d'altra parte è del tutto illusorio, ammoniva Calogero rivolto ai suo amici di sinistra, pensare che possa darsi giustizia sociale là dove manchino le condizioni essenziali di libertà politica. Le istituzioni della libertà politica e quelle della giustizia economica si sostengono e si richiedono vicendevolmente; esse sono legate, scriveva Calogero, da un "nesso indissolubile di reciproca presupposizione".

Nella loro nettezza e radicalità (che sembrerà a qualcuno un po' utopistica) le sue pagine meriterebbero ancor oggi di essere meditate. Se non altro come antidoto rispetto a quelle forme di liberalismo socialmente insensibile e ultraliberista che oggi tornano in auge e di cui non pochi subiscono il fascino un po' sinistro.

Cyrus
08-03-10, 20:14
DAL MANIFESTO LIBERALSOCIALISTA DI GUIDO CALOGERO

Dal " MANIFESTO DEL LIBERALSOCIALISMO "

di Guido Calogero

Di fronte al conservatorismo che si dà veste liberale, e all'estremismo sociale che non risolve i problemi necessari della libertà, noi affermiamo la nostra volontà di combattere per l'unico e indivisibile ideale della giustizia e della libertà. Facciamo nostra la rivendicazione e l'ulteriore promozione di tutti quegli istituti della libertà democratica che hanno assicurato il fiorire dello stato moderno, ma siamo convinti di poter procedere in tal senso solo affrontando e risolvendo insieme anche il problema sociale.

Vogliamo che agli uomini siano assicurate non soltanto le garanzie istituzionali, giuridiche e politiche della libertà, ma anche le condizioni economiche, che permettano ad essi di valersene per la piena espansione della loro vita. Alla libertà di parola e di voto, non vogliamo che si accompagni la libertà di morire di fame. Ma nello stesso tempo sappiamo che nessuna riforma sociale può realmente assicurare agli uomini la giustizia, se in seno ad essa non opera, perenne, il controllo e l'iniziativa della libertà.

Né la libertà può essere un futuro, rispetto alla giustizia, né la giustizia un futuro rispetto alla libertà. Entrambe debbono essere presenti ed operanti, a garantirsi e a promuoversi a vicenda.


Contro l'attuazione di questi nostri ideali sta il fascismo, non solo come ideologia e come regime politico, ma anche come coalizione ed espressione di interessi oligarchici

1. Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati, ma specificazioni parallele di un unico principio etico, che è il canone universale di ogni storia e di ogni civiltà. Questo è il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio.

2. Cosi, è lo stesso dovere etico che impone ad ognuno di riconoscere agli altri un pari diritto di opinare di parlare di votare, e un pari diritto di valersi della ricchezza del mondo. Tanto l'uno quanto l'altro è un diritto di disposizione, un diritto di libertà; un ambito dell' individuale possibilità di azione, che dev'essere lasciato libero. E la giustizia non è che l'equa ripartizione di tali sfere di libertà.

3. Ma la distinzione, che non ha luogo nell'idea, ha avuto luogo nella storia. Essa è costituita dal fatto che, nella civiltà del mondo, lo sviluppo etico e giuridico delle abitudini e delle istituzioni dirette ad attuare la libertà del liberalismo è stato finora assai più vasto di quello delle abitudini e delle istituzioni dirette ad attuare la giustizia del socialismo.

La tradizione morale ed istituzionale ha ormai tolto ad ogni uomo civile il gusto di negare al suo interlocutore un pari diritto di interloquire, ma non gli ha ancora tolto il gusto di possedere più di lui. Molti, che non tollererebbero più di disporre di due voti elettorali quando ogni altro cittadino disponesse di un voto solo, tollerano ancora di disporre di beni economici in misura decupla di quella di cui dispone la media del loro prossimo.

4. Di conseguenza, dovunque sia lecito, con formula sommaria, dire che sussiste meno giustizia che libertà, lo sforzo etico-politico dev'essere prevalentemente diretto all'educazione socialista dell'uomo, il quale, sulla via ascendente della giustizia, non deve restare più in basso che sulla via della libertà.

5. Sarebbe tuttavia un errore ristabilire il livello facendo retrocedere l'uomo sulla via della libertà. Ciò significherebbe non solo distruggere un già raggiunto grado di giustizia, non solo perdere una già compiuta conquista egualitaria, ma annientare lo stesso più efficace e pratico strumento delle conquiste ulteriori. Solo la libertà ci farà più liberi. Essa infatti è la stessa libertà di creare il socialismo. Noi dobbiamo mantenerla tale, renderla veramente tale dove non è, e servircene.

6. Di qui i due principi fondamentali del liberalsocialismo:

assicurare la libertà nel suo funzionamento effettivo, costruire il socialismo attraverso questa libertà.Alla stregua del primo principio, esso considera parte integrante del suo programma l'instaurazione e la difesa di quel "liberalismo armato ", che dev'essere, come si è visto, la base universale di ogni convivenza politica, e fin da oggi il fondamento del comune fronte della libertà. Alla stregua del secondo principio, esso vuole riforme sociali che non piovano dall'alto, ma siano figlie della democrazia e della libertà.

7. Una delle prime mete di tali riforme sociali dev'essere il raggiungimento della massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone. Questa non è che una prima tappa sulla via del socialismo (ed è già superata, tutte le volte che con la ricchezza comune si soccorrono i deboli e gl'infermi, incapaci di lavorare). Comunque, è quella che si deve intanto cercar di percorrere. Di qui la fondamentale istanza anticapitalistica, che il liberalsocialismo fa propria: bisogna portare sempre più oltre la battaglia contro il godimento sedentario dell'accumulato e dell'ereditato.

8. I mezzi tecnici e giuridici atti a realizzare progressivamente questo intento dovranno essere commisurati, caso per caso, alle possibilità della situazione. Quanto più i contadini, gli operai, i tecnici, i dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori, tanto meno dovrà esistere la figura del proprietario puro. Quanto più si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell'uguaglianza, tanto più sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell'operosità e l'iniziativa creatrice. Di qui la fondamentale importanza dell'educazione delle persone, e quindi, tra l'altro, del problema della scuola.

9. Sul piano internazionale, il liberalsocialismo difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti. Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo: niente distinzione di principio fra politica ed etica. Le assise fondamentali della civiltà debbono essere le stesse tra gli uomini e tra le nazioni: il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui diritto, non è soltanto una faccenda privata. Di conseguenza: difesa di ogni organismo che possa favorire la realizzazione di questi principi nel mondo; internazionalizzazione, almeno dal punto di vista economico, delle colonie e delle grandi fonti di materie prime; progressiva estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei limiti delle singole nazioni.

10. In queste sue concezioni, il liberalsocialismo è convinto di aver fatto tesoro del meglio dell'esperienza politica dei grandi partiti tradizionali.

Ai liberali esso quindi dice: - Voi siete stati, in altri tempi, i protagonisti della lotta per la libertà, i primi alfieri della sua bandiera. Ma siete stati anche angosciati dall'incertezza circa il limite a cui vi fosse concesso di giungere nel disciplinare la libertà; e così, tra il desiderio dello stato forte e il timore di tradire la libertà per l'autorità, tra la nostalgia del laissez-faire e la simpatia iniziale per il fascismo, avete lasciato la libertà ai nemici della libertà, avete permesso alla dittatura di nascere, di crescere, di battervi. Il liberalsocialismo segna oggi il punto preciso che divide la libertà dall'autorità, chiarendo come la libertà sia solo per chi lavora per la libertà, e come per i suoi nemici ci sia la forza e la coercizione.


11. Ai marxisti, del socialismo e comunismo, esso dice d'altronde: - La nostra aspirazione è la vostra aspirazione, la nostra verità è la vostra verità, quando essa sia liberata dai miti del materialismo storico e del socialismo scientifico. Ricordatevi del Marx agitatore infiammato dall'ideale etico della giustizia, e dimenticate il Marx teorico, che presupponendo quell'ideale nelle sue indagini economiche pensò, viceversa, di poterlo dedurre dalle sue stesse indagini economiche. E soprattutto non dimenticate che Marx scrisse il Manifesto e il Capitale a Londra, all'ombra delle libertà inglesi.

12. Infine, ai cattolici, ai cristiani, a tutti gli uomini di vera religione esso dice: - L'ideale del liberalsocialismo non è che l'eterno ideale del Vangelo. Esso non è che una forma di cristianesimo pratico, di servizio a Dio calato nella realtà. Chi ama il suo prossimo come se stesso, non può non lavorare per la giustizia e per la libertà.

A fondamento del liberalsocialismo sta il concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia, quanto il liberalismo nella sua esigenza di libertà. Questa ragione ideale coincide con quello stesso principio etico, col cui metro, in ogni passato e in ogni avvenire, si è sempre misurata, e si misurerà sempre, l'umanità e la civiltà: il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio.

Nell'ambito di questa universale aspirazione etica, liberalismo e socialismo si distinguono solo come specificazioni concomitanti e complementari, l'una delle quali mira alla giusta commisurazione di certe libertà, e l'altra alla giusta commisurazione di certe altre libertà. Il liberalismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito - in modo tale che il suo uso da parte di ognuno non leda e non soverchi il suo uso da parte di ogni altro - quel grande bene che è la possibilità di esprimere liberamente la personalità propria, in tutte le concepibili forme di tale espressione. Il socialismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito - in modo tale che il suo uso da parte di ognuno non leda e non soverchi il suo uso da parte di ogni altro - l'altro grande bene che è la possibilità di fruire della ricchezza del mondo, in tutte le legittime forme di tale fruizione.

Così, il liberalismo vuole l'eguaglianza e la stabilità dei diritti e delle leggi, senza distinzioni dipendenti da religione, razza, casta, censo, partito; vuole la certa, imparziale, indipendente amministrazione della giustizia; vuole la derivazione di ogni norma giuridica dalla volontà dei cittadini, espressa secondo il principio della maggioranza; vuole l'ordinata partecipazione dei cittadini al governo, comunque specificato, della cosa pubblica; vuole la libertà di pensiero, di stampa, di associazione, di partito, quale fondamento dell'esercizio del reciproco controllo e dell'autogoverno, e quale premessa e manifestazione a un tempo di ogni perfezionamento del costume politico; vuole la libertà di religione, che permetta ad ognuno di adorare in pace il suo Dio.

Parallelamente, il socialismo vuole che nella coscienza morale degli uomini s'impianti energicamente il principio che, anche sul piano della ricchezza, l'ideale è quello cristiano e mazziniano della giustizia e dell'eguaglianza, e che perciò bisogna tanto suscitare nel proprio animo il gusto del lavorare e del produrre, quanto reprimervi quello del guadagnare e del possedere in misura soverchiante la media comune. Vuole, di conseguenza, che ciascuno sia compensato, con la ricchezza prodotta, in misura congrua al suo effettivo lavoro; vuole che non sia riconosciuta la legittimità del possesso ed uso privato del puro interesse del capitale, ma solo quella del compenso della reale attività e fatica dell'imprenditore e del dirigente; vuole che con la ricchezza appartenente alla società (sia nella forma statale sia in quella provinciale, comunale e cooperativa) venga assicurato ad ognuno il diritto di partecipare al lavoro comune e di raggiungere la piena esplicazione delle proprie attitudini, e parimenti venga assicurato uno speciale soccorso per tutti coloro che si trovino comunque in condizioni di inferiorità; vuole che la società tenda con la massima intensità possibile (e con la sola avvertenza che la rapidità e l'ampiezza delle innovazioni non siano tali da pregiudicare l'opportunità e la durata delle innovazioni stesse) ad elaborare ed instaurare tutti quei progressivi assetti politici e giuridici, che appaiano atti a far procedere la civiltà in direzione della sempre maggiore socialità della ricchezza.

D'altronde, in tali loro aspirazioni, tanto il liberalismo quanto il socialismo non possono non avvertire come ciascuno dei due grandi complessi di ideali etico-politici da loro propugnati sia, nelle sue specificazioni concrete, legato da infiniti vincoli all'altro, e presupponga l'altro nelle sue particolari possibilità di realizzazione. A chi combatte con la miseria, non si può offrire e garantire senza ipocrisia la semplice libertà di opinare e di votare, di svolgere ed approfondire la propria spiritualità. A chi soggiace alla dittatura, non si può concedere senza perfidia un innalzamento del livello economico della vita, a cui non vada congiunta la libertà dell'intervento critico e pratico nell'amministrazione della ricchezza comune. Non si può fare avanzare la libertà senza l'ausilio della ricchezza, né amministrare secondo giustizia la ricchezza senza l'ausilio della libertà. Non si può essere seriamente liberali senza essere socialisti, né essere seriamente socialisti senza essere liberali. Chi è pervenuto a questa convinzione, e si è persuaso che la civiltà tanto meglio procede quanto più la coscienza e gl'istituti del liberalismo lavorano ad inventare e ad instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gl'istituti del socialismo a rendere sempre più possibile , intensa e diffusa tale opera della libertà, ha raggiunto il piano del liberalsocialismo.

Il liberalsocialismo intende riaffermare ed approfondire i principali valori etico-politici, che sono stati difesi e propugnati dalle due grandi tradizioni a cui si ricollega. Perciò esso respinge energicamente la tesi dell'intrinseca inconciliabilità di liberalismo e socialismo, pur non negando l'esistenza di un liberalismo che non si accorda col socialismo, e di un socialismo che non si accorda col liberalismo.



Il primo è il liberalismo ingenuo: il liberalismo di coloro che pretendono la libertà per sé, e non si danno pensiero della libertà degli altri. A questi più elementari zelatori della libertà, già la migliore tradizione ricorda che amare la libertà significa amare la legge, la quale, limitando la libertà propria, concede eguale spazio alla libertà altrui. Oppure è il liberalismo antiquato e conservatore: il liberalismo di coloro che sono pronti a commisurare equamente la libertà propria con l'altrui finché si tratta dei tradizionali diritti civili e politici, ma che nel campo dell'economia non tollerano legge, e lasciano al prossimo la libertà di morire di fame.

Sono i liberali per cui la libertà è concetto supremo, la giustizia concetto inferiore.

La giusta libertà altrui si dovrebbe manifestare invece non soltanto nel volere le norme che assicurano a tutti il diritto di parola e di stampa , di associazione e di voto, ma anche nel volere, poniamo, le norme che regolano la successione legittima, o l'amministrazione delle società anonime, o gli orari ed i salari dei lavoratori, sottraendoli al privato arbitrio economico del testante o dell'amministratore o del datore di lavoro.

Il miglior liberalismo si è già distinto dal liberismo: quello di cui ancora deve spogliarsi, è l'indiferrenza per l'economia altrui.

Il secondo, cioè il socialismo che non si accorda col liberalismo, è il socialismo marxistico ed autoritario, che vede nella dittatura del proletariato la condizione della futura libertà. E' il socialismo di chi ancora crede che l'ideale della giustizia sociale debba esser dedotto dalla scienza dell'economia, ed esser preveduto inevitabilmente vittorioso da chi intenda il razionale corso della storia. Nella sua evoluzione interna, il miglior socialismo è sempre più venuto abbandonando questi vecchi motivi: e se ha opportunamente continuato ad irridere la libertà senza giustizia del liberalismo conservatore, ha nello stesso tempo cessato di credere nella giustizia senza libertà di ogni utopia totalitaria. Esso non s'illude più che la ricchezza comune possa essere amministrata onestamente da chi non si sia elevato al senso dell'interesse collettivo attraverso l'esercizio del controllo e l'esperienza della legale libertà, e non continui ad operare in un ambiente di critica, di legalità e di libertà.

Questo socialismo fondato sulla libertà e radicato nella più profonda aspirazione morale dell'uomo, quel liberalismo assetato di giustizia e deciso a non contentarsi di libertà che possano essere irrise come vuote, convergono e coincidono nel liberal-socialismo.

Anche quando, del resto, si voglia considerare la questione del contrasto e dell'accordo tra liberalismo e socialismo non tanto dal più radicale punto di vista etico-politico quanto da quello storico-economico, al fine di trarre insegnamento da ciò che all'esperienza risulta dalla stessa evoluzione più moderna della tecnica e dell'economia, si trova riconfermato il principio che il miglior liberalismo è sostanzialmente concorde col miglior socialismo, e che quanto in essi non si concilia è solo il deteriore contenuto estremistico dell'uno e dell'altro.

Quanto al socialismo, l'irrealizzabilità economica di un collettivismo totale è risultata palese da tutte le esperienze che se ne sono tentate.

Il regime della libera concorrenza va conservato e favorito in tutti quei casi in cui le condizioni necessarie per tale libera concorrenza sussistono in tal misura da promuovere il vigore dell'iniziativa individuale e da escludere insieme, col loro stesso gioco, una disuguaglianza eccessiva dei successi e dei premi; va ristretto in tutti gli altri casi, in cui la minor funzionalità di un simile autoregolamento ponga l'esigenza di un regolamento diverso.

Né dunque ha senso l'ideale economico dell'assoluto ed esclusivo collettivismo, né quello dell'assoluto ed esclusivo individualismo.

Non c'è da un lato la collettività e dall'altro l'individuo; c'è solo, e sempre, l'individuo, che dev'essere educato tanto al personale gusto del suo lavoro, quanto al senso della divisione equa tra gl'individui di tutto ciò che derivi da questo comune lavoro. Nell'esigenza di quel primo aspetto dell'educazione è la verità del liberalismo economico; nell'esigenza del secondo aspetto, la verità del collettivismo. L'uno educa l'uomo ad essere attivo nel produrre, l'altro ad essere equo nel distribuire; e come non si dà economia senza produzione e distribuzione, cosi non si dà economia senza individualismo e collettivismo.


( dal " MANIFESTO DEL LIBERALSOCIALISMO "elaborato nel 1940 da Guido Calogero)

Cyrus
21-03-10, 08:44
indice
pag 1 Mario Pannunzio
pag 2 Ernesto Rossi
pag 3 Adelaide Aglietta
pag 4 Leo Valiani
pag 5 Felice Cavallotti
pag 6 Ernesto Nathan
pag 8 Ernesto Rossi (2ap)
pag 9 Luigi Del Gatto
pag 9 Adele Faccio
pag 12 Antonio Russo
pag 14 Guido Calogero
pag 15 Leonardo Sciascia
pag 17 Guido Calogero (2ap)

Cyrus
21-03-10, 08:45
[50825] - Un ricordo di Franco Roccella | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/50762/50825-un-ricordo-di-franco-roccella)

Cyrus
21-03-10, 08:45
La nuova rissa di Pannella & Co
Radicale e gentiluomo

Filippo Ceccarelli

Panorama, 16/3/1986

Amicizie decennali che si spezzano, amori che finiscono male, malissimo. Insulti, recriminazioni, risse sugli alimenti.
Quando deve attaccare Franco Roccella, vecchio amico e compagno di battaglie, Marco Pannella non ne fa nemmeno il nome. Dice: "Un povero essere attorcigliato agli emolumenti", parla di "una vita politica fallimentare e umiliante", ricorda che "quando sta per essere acchiappato, lo scippatore approfitta della confusione e si mette a gridare 'al ladro', 'al ladro'".
Roccella risponde duro all'antico compagno dell'Ugi, all'uomo che per tanti anni, ormai lontani, e' stato considerato quasi il suo figlioccio spirituale. Si difende cosi': "Pannella vuole distruggermi, mi infanga, deforma la mia immagine. Mette da parte il dissenso politico e mi tratta come un immorale e come un pazzo. Se avesse il potere mi farebbe rinchiudere in una clinica".
Cronache viscerali dal mondo radicale, vicende prepolitiche, politiche, psicopolitiche: "Attacco Roccella per il suo bene. "Come un fratello dentro una famiglia", spiega Pannella "Se fossi accondiscendente sarebbe peggio. Il partito radicale non e' la mafia".
"Gia', "ribatte amaro Roccella, "anche l'Inquisizione bruciava gli eretici per salvargli l'anima". Roccella, subentrato come deputato a Giovanni Negri nell'ottobre '84, non vuole dimettersi dal seggio di deputato, preferisce lasciare il gruppo parlamentare.
Anche un altro deputato, il milanese Marcello Crivellini, ex tesoriere del PR, trova ingiusto il sistema e le eccezioni previste (oltre a Pannella non ruoteranno ne' il capogruppo Francesco Rutelli ne' Massimo Teodori, la cui uscita dal Parlamento farebbe subentrare Sergio Turone, primo dei non eletti ma dissenziente). Pur assicurando che a settembre abbandonera' Montecitorio, Crivellini si e' dimesso dal partito contro l'"editto monarchico" del segretario Giovanni Negri. Anche nel suo caso si e' sfiorato lo psicodramma.
Per anni Pannella e Crivellini hanno lavorato gomito a gomito, ma da Bruxelles Pannella ha telefonato in diretta a Radio radicale prendendosela contro questo "signorino, questo farfallino" (Crivellini usa sempre il papillon) che sta per ottenere una cattedra universitaria.
In nessun altro partito gli scontri interni si presentano cosi' densi di ragioni politiche e personali, di contrasti laceranti, di rancori e vicende messe in piazza senza tanti riguardi per i protagonisti. Il caso Roccella, al di la' delle ragioni politiche ("Per quattro congressi ho fatto l'opposizione a Pannella", dice lui; "E' solo cronaca nera", ribatte il leader radicale) si treascina appresso un poco edificante retroscena con risvolti anche economici.
"Roccella non fa niente in Parlamento", accusa Rutelli, "ogni richiamo e' inutile". Per mesi Roccella non versa la quota di stipendio che ogni deputato radicale si e' impegnato a lasciare al partito. Lettere, perorazioni, inseguimenti, richieste di dimissioni, scontri quasi fisici.
Alla fine Roccella salda il debito (38 milioni), ma la rottura e' definitiva. (...) Il dissenso radicale esplode periodicamente in modo quasi fisiologico. "Raramente ho conosciuto tanta intolleranza come all'interno dell'universo radicale", ricorda Marco Boato, eletto deputato radicale nel '79 e scappato nell'82.
Nel congresso '77 a Bologna Teodori, dopo uno scontro con Spadaccia, comunica in lacrime la sua rinuncia alla candidatura a presidente del consiglio federale. E' tradizione che con enorme disinvoltura volino insulti sanguinosi. Gli oppositori vengono pubblicamente qualificati da Pannella "lanciatori di merda". Spesso i radicali continuano le battaglie interne davanti ai giudici. Adelaide Aglietta denuncio' Angelo Pezzana che l'aveva accusata di gestire il partito in Piemonte "con metodi mafiosi". Nei congressi Pannella, leader troppo carismatico e autoritario, finisce spesso sotto accusa, ma da politico consumato e trascinante oratore sconfigge e mortifica personaggi come il professor Caputo, l'avvocato Taramelli, o se la vede con il trio Laurini-Ercolessi-Ramadori.
Querele, accuse personali, lacrime.
La ex suora Marisa Galli molla nell'81 il seggio da parlamentare, e i radicali ne sottolineano "i gravi limiti e problemi". Poi e' la volta di Aldo Aiello, che definisce i radicali "una casta sacerdotale". L'uscita di Franco De Cataldo, fraterno amico di Pannella, e' accompagnato da scambio di accuse feroci con tanto di giuri' d'onore. L'ex segeratrio Geppi Rippa esce minacciando querele, Boato e' querelato, per ultimo abbandona Mimmo Pinto che in congresso parla di "gioco al massacro" e aggiunge: "Tutti gli amori finiscono, ma non sempre cosi' male, a suon di avvocati, liti giudiziarie, risse pubbliche..." Con Roccella, amico dagli anni 50, e con Crivellini, la storia psicopolitica del dissenso radicale si ripete.

Filippo Ceccarelli (http://www.eclettico.org/cr/temi/dentro/ceccarelli.htm)

Cyrus
21-03-10, 08:46
23.11.05
Della Vedova e Taradash risalgono la corrente anche sui temi etici, ricordando Franco Roccella

Da Il Foglio del 23 novembre 2005
Roma. “Un omicidio non è uccidere il passato di una persona, ma ilsuo futuro, e una legge sull’aborto non significa far valere il principio culturale che attribuisce all’aborto un valore nullo”. Marco Taradash ricorda le parole di uno dei fondatori del Partito radicale, Franco Roccella, per dire “che non è strano, all’interno della cultura radicale, avere, come me, una posizione insieme pro choice e pro life, anche se non accetto che l’aborto venga equiparato all’uccisione di una persona nata.

Bisogna offrire anche la libertà di non abortire e mi va bene pure che ci siano i volontari del Movimento per la vita nei consultori, se è un’opportunità in più per la donna e non un’imposizione”. Taradash, Peppino Calderisi, Carmelo Palma e Benedetto Della Vedova stanno lanciando la proposta politica dei Riformatori liberali, e preparano la prima assemblea del movimento, alla quale parteciperà
Silvio Berlusconi, per il prossimo 30 novembre, a Roma, allo spazio Etoile di piazza San Lorenzo in Lucina. Hanno un sito (Portail d'informationsCe site est en vente! (http://www.riformatoriliberali.org)) e come simbolo un salmone che risale la corrente. La corrente, si sa, è quella che sta spingendo i radicali nelle braccia del centrosinistra dato vincente il 9 aprile, mentre loro, radicali di lungo corso e contrari a legarsi al carro di Prodi, scommettono, come dice al Foglio Benedetto Della Vedova, “che ci sia tuttora spazio per una scelta radicale, liberale e liberista per il centrodestra. Stiamo raccogliendo molti riscontri positivi, non solo da parte di radicali che con Prodi non vogliono stare, ma anche da elettori delusi, potenziali o ‘in sonno’, del centrodestra, che resistono su posizioni americane, liberiste e laiche.
Ma di una laicità consapevole del fatto che siamo in un paese di cattolici con i quali è giusto e spesso anche utile avere a che fare”. Taradash aggiunge che “la scommessa guarda alla parte di elettorato di centrodestra che potremmo definire ‘edonista reaganiano’. E’ una cosa seria, perché Reagan ha sconfitto il comunismo, non con i libri di preghiere ma con le guerre stellari e con gli euromissili, rinnovando l’economia degli Stati Uniti e puntando su rapporti transatlantici”.
La scelta, dice ancora, non è tra destra e sinistra, “ma tra un’ipotesi blairiana e un’ipotesi zapateriana, e non soltanto sul piano economico ma anche su quello etico. Ci piace Blair, che rivendica la libertà individuale, mentre Zapatero è un anticlericale che impone una concezione etica dello Stato.
Nella scuola, per esempio, Zapatero unifica filosofia ed etica per creare un modello di cittadino, sì democratico, ma conformista. Blair, invece, vuole la concorrenza tra scuole private e scuole pubbliche e realizza una vera libertà d’insegnamento. Preferiamo un leader cattolico che apra spazi laici di libertà,
alla Aznar, a uno Zapatero che vuole imporre una verità laica e anticlericale contro una parte del paese”. Un punto di vista che, secondo Della Vedova, “al centrodestra conviene valorizzare. Così come gli conviene la presenza di un’area che può funzionare da polo di attrazione rispetto al mondo liberale
e laico. Berlusconi non è credibile come leader clericale tout court, anche se oggi gran parte del centrodestra sembra avere relazioni non semplicemente con ambienti cattolici, ma con quelli più clericali. Noi pensiamo che Berlusconi possa ancora essere credibile come portatore di modernizzazione, e di una ‘fantasia’ che al brontosauro Prodi è preclusa, ingabbiato com’è tra sindacato, comunisti, verdi fondamentalisti”.
Il programma di Berlusconi ci va bene, dice ancora Taradash, “il problema è che ne è stata realizzata soltanto una parte. La direzione di marcia però rimane quella, e sul piano dell’economia e soprattutto della politica estera la sintonia è totale. Le cose fatte da Berlusconi il centrosinistra le definisce macelleria sociale e massacro dei diritti, ma loro sono condannati all’immobilismo.
La nostra voce liberista, con il valore aggiunto della determinazione radicale, può essere molto utile per il centrodestra. Non credo che molti tra coloro che alle scorse elezioni hanno votato per Berlusconi passeranno al centrosinistra, c’è piuttosto il rischio che rimangano a casa. A loro vogliamo offrire un’opportunità”. Se ne parlerà il 30 a Roma, mentre lo stesso Marco Pannella, conclude Della Vedova, “che pure ci avverte che stiamo facendo un errore politico, d’altra parte ci augura che il progetto dei Riformatori liberali vada avanti”. Un viatico che non era per niente scontato.

Benedetto Della Vedova: Della Vedova e Taradash risalgono la corrente anche sui temi etici, ricordando Franco Roccella (http://www.benedettodellavedova.com/blog_archive/000695.html)

Cyrus
21-03-10, 08:47
ritratto di Franco Roccella (BN) | Parti Radical Nonviolent Transnational et Transparti (http://www.radicalparty.org/fr/node/5080157)

Cyrus
21-03-10, 08:48
Archivio Partito radicale
Jannuzzi Lino, Capecelatro Ennio, Roccella Franco, Vecellio Valter - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: SOMMARIO
a chi serviva

chi se l'è venduta

come è stata salvata

A cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Edizioni Radio Radicale - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

SOMMARIO (1766)

QUI RADIO RADICALE (1767)

I 33 GIORNI (1768, 1769, 1770)

IL PARTITO DELLA FORCA (1771)

I GIORNALI SIETE VOI (1772, 1773)

DOCUMENTAZIONE

Il primo comunicato delle BR (13 dicembre) (1774)

Il secondo comunicato delle BR (15 dicembre) (1775)

Il primo dibattito alla Camera dei deputati: le comunicazioni del Ministro degli Interni, l'intervento di Marco Boato (16 dicembre) (1776)

Il falso comunicato delle BR (18 dicembre) (1777)

Il terzo comunicato delle BR (18 dicembre) (1778)

Le prime iniziative del Gruppo parlamentare radicale (22 dicembre)

Il quarto comunicato delle BR (23 dicembre) (1779)

La lettera di Leonardo Sciascia (23 dicembre) (1780)

L'appello di intellettuali, deputati ei giornalisti (24 dicembre) (1781)

La lettera di Marco Pannella alle BR (24 dicembre) )1782)

Il comunicato numero uno dei detenuti di Trani (28 dicembre) (1783)

Il quinto comunicato delle BR (28 dicembre) (1784)

La lettera di Giovanni D'Urso a Sisti (28 dicembre) (1785)

Il sesto comunicato delle BR (29 dicembre) (1786)

Il settimo comunicato delle BR (1· gennaio) (1787)

Il filo diretto di Franco Roccella da Radio Radicale (4 gennaio) (1788)

L'ottavo comunicato delle BR (4 gennaio) (1789)

La conferenza stampa di Marco Pannella sulla decisione dei (1790) parlamentari radicali di recarsi nel carcere di Trani (5 gennaio) (1791)

La visita dei parlamentari radicali nel carcere di Trani (la relazione scritta sarà consegnata dai parlamentari radicali ai presidenti delle due camere il 22 gennaio) (1792)

Il documento consegnato dai detenuti di Trani ai parlamentari radicali trasmesso da Radio Radicale l'8 gennaio con un preambolo del Gruppo e del Partito radicale (1793)

L'appello di Corrado D'Urso (9 gennaio) (1794)

Il secondo dibattito alla Camera dei deputati: l'intervento del ministro Sarti, i due interventi di Franco Roccella e l'intervento di Marco Boato (9 e 10 gennaio) (1795, 1796)

Il nono comunicato delle BR (10 gennaio) (1797)

L'appello di Franca D'Urso (10 gennaio) (1798)

Il primo appello di Leonardo Sciascia ai giornali e le adesioni all'appello (10 gennaio) (1799)

L'appello del Partito e del Gruppo parlamentare radicale ai giornali, agli editori, ai direttori, ai redattori, ai lavoratori della stampa. A tutti e a ciascuno (11 gennaio) (1800)

La polemica sul comunicato di Palmi (11 gennaio) (1801)

Il documento del ``Comitato unitario di campo'' del carcere di Palmi con un preambolo del Partito e del Gruppo parlamentare radicale trasmesso da Radio Radicale il 12 gennaio (1802)

Il secondo appello di Leonardo Sciascia ai giornali (12 gennaio) (1803)

La falsa telefonata delle BR a Radio Radicale (12 gennaio) (1804)

L'appello di Lorena D'Urso in televisione nella Tribuna Politica Flash del Partito radicale (12 gennaio) (1805)

La dichiarazione all'ANSA di Lorena D'Urso (13 gennaio) e un commento di Maria Fida Moro (2 febbraio) (1806)

La lettera di Giovanni D'Urso al direttore dell'"Avanti" (13 gennaio) (1807)

Il documento degli autonomi di dissociazione dalla rivolta di Trani (13 gennaio) (1808)

Il tentativo dei parlamentari radicali di leggere alla camera la lettera di Giovanni D'Urso: l'espulsione di Roberto Cicciomessere, gli interventi di Franco De Cataldo, Adelaide Aglietta e Gerardo Bianco (13 gennaio) (1809)

Le proteste dei parlamentari radicali sul processo verbale della seduta del 13 gennaio (14 gennaio) (1810)

La telefonata di Franca D'Urso a Radio Radicale (13 gennaio) (1811)

L'appello di Leonardo Sciascia alle BR (14 gennaio) (1812)

Il decimo comunicato delle BR (14 gennaio) (1813)

Dichiarazione di Marco Pannella (14 gennaio) (1814)

Il terzo dibattito alla Camera dei deputati: le comunicazioni di Forlani (14 gennaio), gli interventi di Adelaide Aglietta e Marco Boato (15 gennaio) (1815, 1816)

La polemica di Marco Pannella sul Quirinale e sul golpe strisciante del ``partito della forca'' (15-18 gennaio) (1817)

La polemica con il Ministro di Grazia e Giustizia Sarti (17-27 gennaio) (1818, 1819)

CRONOLOGIA (1820)

Cyrus
21-03-10, 08:49
Archivio Partito radicale
Capecelatro Ennio, Roccella Franco - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (2) I 33 giorni (prima parte)
di Ennio Capelcelatro e Franco Roccella

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

I 33 giorni

di Ennio Capecelatro e Franco Roccella

"Ci sembra mostruoso che una classe politica che detiene, al governo o all'opposizione, il potere, gestendolo in modo da compromettere lo Stato e la società civile sino al punto in cui sono compromessi, recuperi la sua forza e riscatti la sua incapacità sulla pelle di un uomo. Ebbene, in questo non contate su di noi: noi faremo di tutto per salvare la vita di D'Urso, per quello che questo vuol dire: faremo tutto il dovuto e il giusto".

Franco Roccella, deputato radicale

(intervento alla Camera del 9 gennaio 1981)

Il Rapimento

Sono poco più delle 22 del 12 dicembre 1980. A quest'ora i quotidiani del mattino hanno fatto il pieno, e la prima edizione è già in viaggio verso le sedi periferiche. Soltanto in cronaca si continua a lavorare a ritmo abbastanza sostenuto. Negli altri settori i più se la sono squagliata; i pochi redattori rimasti per l'aggiornamento della ribattuta, o per l'emergenza, spesso bruciano il tempo morto con un pocherino possibilmente indolore. Poi, non si sa mai, potrebbe sempre arrivare improvviso e sconvolgente ``il mostro da sbattere in prima pagina''.

Al "Messaggero" di Roma, come negli altri giornali, la giornata è trascorsa senza traumi. Il carnet degli eventi è nutrito, ma sostanzialmente ripetitivo; i piatti forti sono ancora lo scandalo delle frodi petrolifere e la tragedia del terremoto nelle regioni meridionali, aventi per contorno minacce di inasprimenti fiscali, di aumenti dei prezzi dei prodotti petroliferi e di crescita dei tassi di inflazione. Certo sono pietanze inquietanti, a base di spezie terroristiche, ma delle loro proteine politiche e morali siamo a dieta da decenni. Il fatto nuovo è rappresentato dalla richiesta di condanna all'ergastolo di Valpreda e Merlino per la strage di piazza Fontana a Milano nel 1969. Nuovo da un punto di vista congiunturale, non strutturale, poiché in effetti ripropone una logica già consumata, che fa tutt'uno con la logica degli scandali. In conclusione da qualunque parte si annusi, sul panorama informativo la solita atmosfera maleodorante.

Il clima relativamente di sonnolenza nella cronaca del "Messaggero" si interrompe perentoriamente alle 22.15 esatte. Il centralino avverte che uno sconosciuto vuole urgentemente parlare con un redattore. Risponde il capo servizio Mario Spetia. Dall'altra parte dell'apparecchio vi è evidentemente un giovane, si avverte dal timbro di voce che parla con precipitazione e in tono concitato. Dalle sue parole non sempre comprensibili si stacca tuttavia con chiarezza questo messaggio: "Qui Br. Abbiamo prelevato il magistrato Giovanni D'Urso. Chiediamo soppressione carcere dell'Asinara. Segue comunicato".

I balordi che telefonano ai giornali annunciando notizie strabilianti non sono rari. Ma Spetia sente che in questo caso non deve trattarsi del solito burlone o mitomane. Soprattutto il nome D'Urso, non ricorrente nelle cronache e ignoto all'opinione pubblica, lo insospettisce; chi avesse voluto far uno scherzo di pessimo gusto avrebbe più probabilmente scelto il nome di un personaggio immediatamente riconoscibile. Così ne parla al caporedattore Pino Geraci, e insieme concordano di verificare l'attendibilità del messaggio telefonando alla Digos e ai Carabinieri.

Né la prima né i secondi sanno di un sequestro ad opera dei brigatisti. Conoscendo Giovanni D'Urso, però, si rendono conto che la probabilità di un suo eventuale rapimento può essere attendibile. Comincia a questo punto un balletto convulso di telefonate. Digos e Carabinieri telefonano in casa D'Urso e dalla figlia maggiore del magistrato apprendono che il papà alle 22.30 non è ancora rientrato, nonostante avesse preannunciato di essere a casa non oltre le 20.30. Al Ministero di grazia e giustizia assicurano che il magistrato ha lasciato il suo ufficio per recarsi a casa poco prima delle ore venti. Allora non ci sono più dubbi, il magistrato è stato rapito. Se ne dà conferma al "Messaggero", che subito spara la notizia in prima pagina su sette colonne di spalla. Non tutti gli altri giornali danno analoga valutazione, ed alcuni la relegano verso il centro o il basso della pagina.

Scattano immediatamente i cosiddetti dispositivi di sicurezza. Il sostituto procuratore della repubblica, Domenico Sica, si precipita in questura per il coordinamento delle indagini. Posti di blocco vengono tempestivamente istituiti, a babbo morto, lungo le principali arterie, soprattutto quelle di accesso alla città; ma dopo circa tre ore, durante le quali i rapitori hanno agito in assoluta tranquillità, effettuando un prelievo morbido, le speranze di intercettare il commando brigatista sono pressoché inesistenti. Alle 22.30, sicuramente da un buon pezzo era stato raggiunto il rifugio predisposto per la prigionia.

Giovanni D'Urso, 47 anni, originario di Catania, a Roma da cinque anni, con domicilio in via Ludovico Micara 34, nel quartiere Aurelio, è tra i massimi funzionari della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena del Ministero di grazia e giustizia. Dipende in gran parte da lui il movimento e la sistemazione dei detenuti nelle diverse carceri del paese, ed è lui a decidere i trasferimenti e le assegnazioni di questo o quel prigioniero nelle sezioni speciali di massima sicurezza.

Entrato in magistratura il 10 aprile 1959, fu nominato consigliere di Cassazione nel 1979, dopo appena venti anni di carriera. A favorire la sua rapida ascesa fu una legge del 1978, abrogativa di una precedente legge che escludeva ai fini dell'avanzamento il calcolo del triennio trascorso in qualità di aggiunto giudiziario. Senza la legge del 1978 avrebbe dovuto attendere il 1982 per la nomina a consigliere della Suprema Corte, condizione indispensabile per assumere funzioni direttive nell'amministrazione della giustizia, per di più in un settore che ne avrebbe fatto il regista della vita carceraria dei brigatisti o presunti tali catturati.

Le indagini a caldo non approdano a niente. La tumultuosa mobilitazione degli strumenti d'indagine ritualizza un'intenzione efficientistica andata fin qui disastrosamente delusa; ricalca peraltro un copione che ha già provocato crisi di rigetto nei potenziali spettatori. Conformemente alle generali attese di fallimento degli appostamenti inquisitoriali la prima notte di rapimento trascorre senza che affiori un solo barlume sull'identità degli autori del sequestro e soprattutto su dove si trovi la cosiddetta ``prigione del popolo''. Pare che Giovanni D'Urso, queste le prime ipotesi degli organi di indagine, fosse stato spiato per parecchi mesi, come a suo tempo lo era stato Aldo Moro.

Egli stesso in una sera di febbraio del 1980 avrebbe notato due macchine, una 500 e una Renault, con a bordo degli individui che lo avevano insospettito. Sulla base di questi elementi molto vaghi i magistrati inquirenti tracciano una prima mappa della possibile ``colonna'' rapitrice, a loro avviso costituita dai soliti imprendibili Mario Moretti e Barbara Balzarani, che come il padreterno sono in terra in cielo e ovunque si consumi un massacro, un assassinio, un rapimento o un assalto terroristico. Oltre a questi gli inquirenti suppongono che facciano parte della ``colonna'' anche Nadia Ponti, Vincenzo Guagliardi, Antonio Savasta ed Emilio Libera.

La verità è che frattanto si brancola nel buio. Ci vogliono ventiquattr'ore per cominciare a orientarsi nella dinamica dell'operazione. La prima ipotesi presa in considerazione è che il magistrato sia stato bloccato in via Arenula o nelle adiacenze, subito dopo essere uscito dal Ministero di grazia e giustizia, verso le 20. Ma non tarda a rivelarsi fragile: è impossibile che i brigatisti, in un'ora di traffico intenso, abbiano agito indisturbati senza essere minimamente notati.

Solo in un secondo momento ci si rende conto che l'agguato è avvenuto presso l'abitazione del magistrato, probabilmente in via Pio IV, perpendicolarmente a via Leone XIII, dove è parcheggiata la 124 con la quale il funzionario è rientrato dall'ufficio. A una trentina di metri dalla macchina si trovano infatti vetri frantumati di occhiali, sull'asfalto segni striscianti di pneumatici; il magistrato ha reagito all'aggressione forse anche energicamente, ma ha dovuto soccombere all'impari lotta ed è stato caricato su una vettura allontanatasi subito a forte velocità.

Impugnare le armi non basta

Il rapimento di D'Urso, questo appare subito evidente, rimette in discussione l'intera strategia antiterroristica del Governo, culminante nell'azione del generale Dalla Chiesa, il quale è più ispiratore che esecutore di tale strategia, per cui sarebbe più corretto parlare di strategia Dalla Chiesa anziché di strategia governativa. Si ha un contraccolpo psicologico che ripropone gli interrogativi inquietanti avanzati all'indomani del rapimento Moro. La disinvoltura con cui l'operazione è stata portata a termine insinua il sospetto che la capacità operativa delle brigate rosse sia tutt'altro che in via di esaurimento, come da più mesi gli organi di stampa vorrebbero far credere facendo leva sugli arresti a grappoli in corso da tempo nel paese.

Benché dal rapimento Moro al 12 dicembre 1980 le organizzazioni terroristiche non se ne siano state con le mani in mano, abbiano anzi messo a segno colpi dal loro punto di vista clamorosi, come gli assassini del giornalista Walter Tobagi, del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, professor Giovanni Bachelet, e più recentemente del dottor Giuseppe Furci, medico del carcere romano di Regina Coeli, la parola d'ordine era che esse fossero in via di liquidazione. Cancellate, secondo le assicurazioni di Dalla Chiesa, "Prima Linea", i "Nap" e le altre organizzazioni minori, non rimarrebbero che le brigate rosse, a loro volta decimate dagli arresti, dalle defezioni e pentimenti, e inoltre dilaniate dai contrasti interni tra falchi e colombe, come dire tra la ``colonna Walter Alasia'' e l'originario gruppo storico, che ne avrebbero ridotto enormemente la forza d'urto. Proprio due giorni prima del rapimento D'Urso, tra l'altro, due componenti della ``colonna Walter Alasia'', Roberto Serafini e Wa

lter Pezzoli, sono stati ammazzati dai carabinieri di Milano in zona Certosa.

Non manca chi mette in guardia contro i ``facili ottimismi''. I giudici torinesi ammoniscono che se il partito armato è in crisi bisogna comunque continuare energicamente ad incalzarlo perché se si ricostituisse sarebbe un pericolo mortale per tutti; ma sempre in una logica che dà per buona la liquidazione, né tiene conto del terrorismo nero, che sebbene abbia sortite estemporanee, di tipo avventuristico, quando colpisce si abbatte preferibilmente sul mucchio come nell'estate scorsa alla stazione di Bologna (84 morti e centinaia di feriti). L'impresa ricalcava una tecnica collaudata dal 1969 a Milano, quindi sul treno Italicus e a Brescia.

Se non fosse per il processo di Catanzaro, che oramai si srotola come un "flash-back", forse nessuno più si ricorderebbe del terrorismo nero. Né la recente strage di Bologna, nonostante l'agghiacciante ferocia esecutiva, sembra aver rilanciato le gravi preoccupazioni in ordine alla compromissione di apparati dello Stato serpeggianti agli inizi degli anni settanta, rivelatesi successivamente più che fondate, e neutralizzate con operazioni di chirurgia plastica agli organi più macroscopicamente coinvolti.

Il rapimento D'Urso ha richiamato automaticamente alla memoria il più clamoroso precedente rapimento del presidente della DC, Aldo Moro, anche se di quest'ultimo non ha avuto lo svolgimento spettacolare né ha richiesto il massacro di cinque uomini di scorta, o anche di uno solo. Il consigliere D'Urso, almeno secondo le affermazioni della moglie, aveva volontariamente rinunciato sia all'auto blindata che alla scorta, non per fatalismo o perché non temesse di essere possibilmente oggetto di un attentato, ma perché riteneva quelle misure inutili e pericolose: un commando deciso a tutto agisce improvvisamente e imprevedibilmente, e per prima cosa quanto meno elimina la scorta, senza darle minimamente il tempo di accennare a una reazione.

Tuttavia proprio la semplicità con cui è stato eseguito il sequestro, la sua ovvietà, rivela semmai un rinnovamento tattico che porta direttamente all'essenziale, affrancando dall'obbligo di azioni a vasto raggio che inevitabilmente producono devastazione sostanzialmente superflue e forse politicamente controproducenti. V'è però, tra i due rapimenti, una differenza anche più profonda, una frattura che se non attesta una discontinuità ideologica, è certamente sintomatica di un aggiornamento strategico, e forse politico.

E' scontato che con entrambe le operazioni si vuole portare l'attacco ``al cuore dello Stato''. Ma mentre nel caso Moro la strategia punta a una destabilizzazione generale, nel caso D'Urso, fermo restando l'obiettivo di fondo, l'azione è specificamente finalizzata allo smantellamento del sistema carcerario, che tuttavia nell'immediato può essere circoscritto alla chiusura dell'Asinara e delle sezioni di massima sicurezza delle altre carceri. L'obiettivo finale è sempre l'abbattimento dello Stato delle multinazionali, ma la strategia insurrezionale sembra abbandonata per una strategia ancorata con più articolata puntualità a scadenze immediate, fondata su un'"escalation" che passa attraverso lo smantellamento delle strutture di sostegno dello Stato, a cominciare da quelle repressive.

Questa volta, che d'altronde non rappresenta una novità, è abbastanza nettamente enunciata dagli stessi interessati. Coerenti con la promessa fatta al "Messaggero", nelle prime ore del pomeriggio del 13 dicembre i rapitori depositano in un cestino dei rifiuti di fronte al cinema Ambassade in via Accademia degli Agiati, il primo comunicato avvertendo poi i giornali perché lo ritirino. Accluso al comunicato è una foto dell'ostaggio, in cui, sullo sfondo di un pannello che reca la scritta ``brigate rosse'' a caratteri cubitali, con al centro la stella a cinque punte, risalta l'immagine scritta: ``chiudere immediatamente l'Asinara''. Il copione è lo stesso di quello usato a suo tempo per il giudice Mario Sossi, per il giudice Giuseppe di Gennaro e per Aldo Moro.

Il comunicato esordisce con queste parole: "venerdì 12 novembre, un nucleo armato delle brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Giovanni D'Urso, magistrato di cassazione, direttore dell'ufficio III della direzione generale degli istituti di pena del Ministero di grazia e giustizia. D'Urso è definito "boia, aguzzino di migliaia di proletari... massimo responsabile per tutto ciò che concerne il trattamento di tutti i proletari prigionieri sia nelle carceri normali sia nelle carceri speciali... A lui si deve il trattamento generale e particolare dei prigionieri, la differenziazione tra le carceri, i trasferimenti, le pratiche di tortura e annientamento politico-psichico-fisico". Ora, prosegue il comunicato, "è in un carcere del popolo e verrà sottoposto al giudizio del proletariato, che il porco credeva di poter massacrare impunemente".

Quanto al possibile esito del processo, per adesso i brigatisti non si sbottonano molto, ma dalla truculenza del linguaggio lasciano intuire che non c'è da aspettarsi niente di buono. Anticipazioni concrete non ne danno, ma preannunciano comunque una severità inquietante. Il nostro processo, essi dicono, "non ha nulla a che spartire con i riti e i codici della giustizia borghese... Ci atterremo ai criteri della giustizia proletaria, che non manca mai di manifestarsi con puntuale e inesorabile fermezza".

Tuttavia, ed è questa la prima novità, il processo al magistrato figura come un obiettivo fine a se stesso, o momento culminante dell'assalto al sistema carcerario che deve concludersi quanto meno con la chiusura dell'Asinara, la neutralizzazione delle carceri di maggiore sicurezza e l'annullamento del cosiddetto circuito di differenziazione. "Processare questo servo del potere preposto alla gestione del più infame strumento di annientamento usato dall'imperialismo - affermano i brigatisti - vuol dire oggi processare l'intera borghesia imperialista e combattere perché i rapporti di forza nelle carceri si ribaltino a favore dei proletari".

L'obiettivo si precisa meglio là dove si dice che i punti più alti dello scontro sarebbero la Fiat e le carceri. Però la priorità, secondo la strategia dell'"escalation", è assegnata alle carceri, in quanto luoghi abituali ``di vita del proletariato extralegale, cioè di quello strato di classe che subisce fino in fondo il costo della crisi e il peso della ristrutturazione produttiva''. Le carceri diventano perciò ``il terreno decisivo dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione'', ed in tale prospettiva si inseriscono ``la battaglia del 2 ottobre all'Asinara, la lotta di Volterra, di Fossombrone, di Firenze, la distruzione del campo di Nuoro e l'esecuzione delle spie e degli infiltrati''. Quindi per adesso non resta che ``organizzare la liberazione dei proletari prigionieri, smantellare il circuito della differenziazione, costruire e rafforzare i comitati di lotta ("all'interno delle carceri"), chiudere immediatamente l'Asinara''.

Da queste affermazioni traspare abbastanza chiaramente il rinnovamento strategico del partito armato, il rifiuto, in pratica, del ricorso indifferenziato alle armi senza un obiettivo razionalmente selezionato. Ma vi sono riferimenti anche più diretti, contenenti in pratica un critica alla strategia dei falchi, come dire alla ``colonna Walter Alasia'', accusata esplicitamente di avventurismo. "Dobbiamo accettare la guerra e attaccare al cuore dello Stato - affermano i brigatisi nel loro comunicato - facendo vivere i contenuti di distruzione e disarticolazione dentro una linea di massa che dialettizza i programmi immediati con il programma generale di transizione al comunismo".

I connotati della nuova strategia sono evidenti, anche se di qui in avanti il discorso si enfatizza diventando scopertamente accusatorio: "Chi non fa questo oggi è un opportunista, perché non collega l'azione di partito ai programmi immediati dei vari starati di classe, non costruisce il potere proletario armato, ma svincola dal compito storico che spetta alle organizzazioni comuniste combattenti. Chi crede che il problema sia sparare o eliminare qualche nemico del popolo, costruisce nel vuoto. Lo abbiamo già detto e lo ripeteremo all'infinito: impugnare le armi non basta! Chi si limita a questo dimostra di non aver capito nulla del percorso fin qui compiuto dalla lotta armata e il suo avvenire".

``I duri'' all'offensiva

Il giorno 15 dicembre viene diffuso un altro volantino, prevalentemente informativo "Il prigioniero Giovanni D'Urso sta bene - vi si legge - e l'interrogatorio cui è sottoposto avviene con la sua piena collaborazione e sta mettendo in chiara luce le sue dirette responsabilità... Il ruolo da lui fin qui svolto nelle carceri speciali non lascia dubbi, tutti i proletari prigionieri lo conoscono bene: boia e aguzzino". Il momento della sentenza è prematuro, ma la dichiarata acquisizione, delle prove di ``colpevolezza'', preannuncia in pratica un verdetto di condanna. Resta da controllare soltanto come questa si articolerà, sebbene, dopo l'affare Moro, non c'è da farsi illusioni sull'entità e qualità della pena. Certo ci sono i precedenti positivi di Sossi e Di Gennaro, casi risoltisi con il rilascio dei prigionieri, ma le condizioni storiche sono profondamente mutate, e meno categoricamente precisati, allora, erano gli obiettivi perseguiti.

Sul fronte delle indagini si segna ovviamente il passo. In concreto non v'è stato alcun progresso, e si continua a girare a vuoto nonostante gli sforzi per dare prove di efficienza. Si eseguono massicci rastrellamenti in diverse zone, secondo un cerimoniale rivelatosi fallimentare in tutte le altre occasioni. L'unico elemento acquisito è l'identikit di uno dei rapitori tracciato a matita sulle indicazioni di alcuni testimoni. Ne risulta un giovane tra i 25-30 anni con le seguenti caratteristiche: capelli neri e lisci rovesciati ordinatamente verso la nuca e folti ai lati, verso le basette, naso sottile, rettilineo, viso ovale, labbra sfuggenti, occhi neri a mandorla.

Questo improbabile personaggio, secondo le testimonianze che ne hanno consentita la ricostruzione, avrebbe fatto parte del commando che ha eseguito il rapimento fungendo da palo. La sua partecipazione all'aggressione, e il ruolo che nell'operazione avrebbe ricoperto, sono dedotti dal fatto che qualcuno non meglio identificato, verso le 15 del giorno del sequestro, lo avrebbe visto aggirarsi nei pressi dell'abitazione del magistrato.

Meno di così, per la verità, non sarebbe possibile. Ma questo, unito alla soffiata secondo cui sarebbe in via di applicazione, per l'individuazione del covo, un ``piano dettagliato'', ma segretissimo, elaborato all'epoca del sequestro Moro, dovrebbe assicurare l'opinione pubblica che le indagini procedono alacremente lungo itinerari fruttuosi. Ad accreditare l'agibilità del ``piano dettagliato'' concorre la circostanza che la sua messa a punto segue, non precede, l'affare Moro, quindi avrebbe tenuto conto degli errori allora compiuti per la formulazione di un progetto operativo altamente perfezionato.

E' sul piano politico, però, che il problema non tarda a diventare incandescente. Il primo a scendere in campo, immediatamente dopo il rapimento, è il senatore a vita Leo Valiani, oramai istituzionale editorialista del "Corriere della Sera", sostenitore, da tempo, del pugno di ferro senza neppure la finzione del guanto di velluto, o di una generalizzazione repressiva. "Al rapimento D'Urso - si affretta a scrivere sul foglio rizzoliano - è necessario rispondere con la stessa fermezza con cui si rispose al sequestro Moro". E' lo stesso che dire alle brigate rosse: "spicciativi a spedirci un cadavere, e non se ne parli più". Poi Valiani esulta per la proroga del fermo di polizia, esortando però a farne ``finalmente energico uso''.

Il misticismo repressivo di Valiani, purtroppo non è un fenomeno isolato, né è teorizzato per vocazione ideologica del solo MSI. Il repubblicano Mammì ne è fortemente imbevuto, ed infatti lo troviamo sempre in prima linea quando ci sono da varare leggi speciali, fermi di polizia o norme comunque di restrizione degli spazi di libertà. In relazione al rapimento del giudice D'Urso interviene prontamente con una dichiarazione in apparenza problematica, che lo porrebbe formalmente al di sopra di trattativisti e non, ma nella sostanza di rifiuto aprioristico di ogni atto o gesto che potrebbe concorrere, in via presuntiva, a salvare la vita dell'ostaggio.

"Non si tratta di dividersi in falchi e colombe, afferma Mammì, ma di chiederci se al sequestro non seguirebbe sequestro, a ricatto ricatto, a cedimento cedimento, qualora si venisse a trattare con un partito armato che ha disperato bisogno di ricostruire attorno a sé fasce di solidarietà presentandosi come valido contropotere". Non diversamente Ugo Picchioli, responsabile della sezione problemi dello Stato del PCI, aveva il giorno prima, poche ore dopo il rapimento, rilasciata questa perentoria affermazione pubblicata in un riquadro sulla prima pagina dell'"Unità" (particolare che ne fa risaltare il carattere ufficiale convolgendo la responsabilità di tutto il partito): "Ogni cedimento ai ricatti sarebbe inaccettabile. Oltretutto, se si cedesse, si ridarebbe spazio e forza al terrorismo, lo aiuterebbe a superare la crisi in cui si trova".

In effetti con queste dichiarazioni si mettono le mani avanti. Al momento non c'è alcun ricatto terrorista e nessuna richiesta rivolta allo Stato e al Governo. Nei volantini diffusi si enunciano finalità e strategia del partito armato.

La richiesta di chiusura dell'Asinara è avanzata come intimazione perentoria: o sarà attuata da chi ne ha il potere o conquistata con la lotta; non è prospettata come possibile condizione per il rilascio del prigioniero o come merce di scambio. Non c'è offerta di opportunità negoziali; non c'è un solo passo, nei comunicati sin qui diramati, che accenni alla prassi compromissoria del "do ut des". Lo fa rilevare il liberale Bozzi: ``Il discorso del cedere o non cedere prima che i terroristi abbiano avanzato richieste serve solo a dividere di più le forze politiche''.

La prematura indisponibilità repubblicana a una trattativa peraltro non richiesta si rifà alla vicenda Moro, ed è in realtà un avvertimento ai socialisti oltre che a Forlani, un tentativo di premere sul Presidente del Consiglio e predisporlo ad esercitare tutta la sua influenza sulle altre forze della maggioranza che avessero possibilmente tentazioni umanitarie.

Forlani, fin qui, ha avuto soltanto contatti informali, telefonici, con Piccoli, Craxi, Spadolini e Longo, ma attende di convocarli intorno a un tavolo per decidere una linea unitaria. Craxi ha già espresso un punto di vista che frattanto si differenzia sensibilmente da quello repubblicano, avendo a presupposto non la ``fermezza'' ma l'istanza umanitaria. Per lui ``la lotta a fondo contro il terrorismo impone di difendere e di salvare le vite umane in pericolo, e ora la vita da salvare è quella di Giovanni D'Urso''; e i socialdemocratici, ai quali non gioverebbe un aperto contrasto coi socialisti, per bocca di Saragat e Longo fanno sapere che ``bisogna fare ogni tentativo per salvare la vita del magistrato D'Urso, nella consapevolezza che quest'obiettivo va perseguito in modo tale da ridare forza e credibilità alle istituzioni''.

Per i radicali il problema di trattare o meno è pretestuoso. Se lo Stato deve affermare una sua fermezza, non può farlo omettendo gli adempimenti democratici ai quali è tenuto, dinanzi a se stesso, per lealtà democratica; non può in altri termini usare l'alibi di un ``ricatto'' per legittimare la sua mancanza di tenuta democratica. La chiusura di un'istituzione della violenza come il lager dell'Asinara, alla quale si sono già impegnati la classe politica e il governo - obietta Massimo Teodori ai fautori della cosiddetta ``linea dura'', - sarebbe semmai ``un segno di forza da parte dello Stato'', non di debolezza; a prescindere da qualsiasi richiesta dei terroristi - aggiunge Franco De Cataldo - ``l'Asinara va chiuso perché è indegno di una qualsiasi società civile''.

Non esistendo di fatto un ``ricatto'' terrorista, o una sia pur larvata proposta di negoziato, la chiusura in un'intransigenza antinegoziale è rivolta all'indietro, non in avanti; non può essere interpretata diversamente che come un siluro verso provvedimenti in via di attuazione o comunque dovuti. Poiché l'Asinara stava per essere chiuso, ne era stato insomma già deciso e programmato lo smantellamento, che era anzi in corso molto prima del comunicato numero uno delle brigate rosse, una sospensione dell'operazione già avviata rischiava di dar corpo, di determinare il ricatto delle Br e conseguentemente di onorarlo, nella misura in cui per non subirlo lo Stato avrebbe dovuto dimettere le proprie autonome valutazioni assunte per valutazioni di giustizia e di civiltà. Lo conferma in qualche misura il liberale Raffaele Costa, sottosegretario alla Giustizia nel precedente Governo Cossiga: "La progressione dei tempi cronologici avrebbe portato alla chiusura anche dell'Asinara ("dopo Favignana"), non per rispetto v

erso i capi storici delle Br, ma nei confronti di una decisione che era preventivata e che si trattava soltanto di attuare man mano che si aveva la possibilità di decentrare i detenuti altrove".

Con il sistema carcerario, secondo Costa, noi siamo in forte ritardo, perdura una situazione carceraria pesante e in via di aggravamento che amplia gli spazi della protesta, e in un certo senso la legittima. Si attaccano le carceri perché sono il corpo molle del paese; e l'intenzione delle brigate rosse, secondo Costa, ``non è certamente quella di migliorarle. Vogliono anzi che restino nelle condizioni di adesso'', diversamente perderebbero una delle piattaforme più salde della loro strategia eversiva. Dovrebbe conseguirne, benché Costa non lo dica, che affrettare la chiusura di carceri come l'Asinara, e procedere all'attuazione di misure che rendano praticabile la riforma penitenziaria, rimasta fin qui un libro dei sogni, significherebbe tagliare l'erba sotto i piedi al terrorismo, sarebbe davvero una prova di coerenza e di illuminata fermezza.

Almeno per lo smantellamento della sezione di massima sicurezza del carcere dell'Asinara vi è uno schieramento pressoché unanime. La divergenza è sui tempi, che i duri, capeggiati contingentemente dai repubblicani, vorrebbero posporre per non subire il ricatto dei brigatisti nonostante sia in gioco la vita di un uomo. La logica che sta alla base di un tale atteggiamento riduce il confronto con il terrorismo ad uno scontro gladiatorio e trascura totalmente di considerarne le implicazioni sulla sopravvivenza di D'Urso. Il governo, per adesso, si tiene prudenzialmente a distanza attendendo che almeno tra le forze di maggioranza vi sia un decongestionamento. E la DC, avendo sempre chi le tira la volata nelle direzioni che poi deciderà di percorrere, può restare al coperto ostentando una neutrale equidistanza.

:: Radicali.it :: (http://www.radicali.it/search_view.php?id=47430&lang=&cms=) (fine prima parte)

Cyrus
21-03-10, 08:50
Primo dibattito alla Camera

Di questa vischiosità non prometterte per la signora D'Urso, che frattanto si reca anche dal Capo dello Stato per invocare la salvezza del marito, si ha una conferma più tangibile nel dibattito che si svolge a Montecitorio la mattina del 16 dicembre. Le numerose interpellanze e interrogazioni presentate si possono dividere in due gruppi: quelle preoccupate prioritariamente per la sorte dell'ostaggio, e le altre intese a sollecitare una ``grinta'' che relega in secondo piano il problema della vita del magistrato.

Al primo gruppo appartengono soltanto le interpellanze radicali, volte a ``conoscere gli intendimenti del Governo in relazione al sequestro del giudice Giovanni D'Urso'', oppure a ``sapere quali iniziative ha preso ("il Governo") per ottenere la liberazione del magistrato''; al secondo le altre, dalle democristiane alle missine, ``per conoscere le circostanze del rapimento'' (DC), o per conoscere ``quale sia lo stato delle indagini per liberare il giudice D'Urso e per scoprire e assicurare alla giustizia i suoi rapitori'' (PCI). Non si equivochi sulla sostanza della domanda. I comunisti non chiedono iniziative politiche dirette a favorire la liberazione, ma un'azione diretta a colpire i sequestratori che sia innanzi tutto una prova di forza e solo in misura ridotta un concorso alla liberazione del prigioniero. La richiesta è oltretutto velleitaria perché della ubicazione della prigione non c'è il minimo sentore. La interpellanza del PSI sfugge per la tangente, intesa come è a capire ``quale riferimento quest

o episodio possa e debba avere con il quadro articolato del terrorismo politico italiano''.

Il ministro Rognoni, rispondendo, si tiene alla larga. Quanto alla meccanica del rapimento non rivela niente di più di quanto sia stato ampiamente riportato dalle cronache. Egualmente per quanto riguarda le indagini in corso, che però, assicura, assumerebbero ``contorni sempre più definiti'', ma su questo punto ritiene di dover osservare un riserbo che dovrebbe essere ``compreso ed apprezzato dal Parlamento''. Circa le misure di protezione di chi è esposto ad azioni terroristiche ritiene appropriate quelle adottate (macchine blindate a disposizione dei magistrati), e semmai il problema è di come ``fare osservare le massime precauzioni da chi non le ritenga necessarie e opportune'' (come nel caso del magistrato rapito).

In materia di atteggiamenti e iniziative del Governo, Rognoni dà un colpo al cerchio e uno alla botte. "Contro il terrorismo - dice - in nessun modo possono essere allentate la vigilanza e la più ferma determinazione. Il Governo, mentre conferma la sua disponibilità al dibattito sulla politica carceraria e sulla situazione in atto negli stabilimenti penitenziari, preannunziata dal Ministro guardasigilli giovedì scorso presso la commissione giustizia della Camera, assicura di essere egualmente pronto ad un dibattito sui temi della sicurezza, dal quale ritiene di poter trarre elementi destinati a rafforzare l'impegno nella difesa di una giusta e pacifica convivenza civile".

L'intervento di Rognoni, dopo quest'acrobatica incursione tra i problemi della sicurezza, si conclude però con una dichiarazione aperturista: "Il Governo non lascerà nulla d'intentato nei limiti delle sue possibilità, per raggiungere l'obiettivo, oggi primario, della restituzione del giudice D'Urso alla sua famiglia... In questa prospettiva il Governo praticherà ogni strada e non trascurerà alcuna opportunità che possa condurre ad un esito positivo di questa vicenda, che partecipa obiettivamente dei valori più profondi del ``privato'' e nello stesso tempo si inserisce duramente nella vicenda più complessa ed articolata della comunità nazionale".

Il radicale Franco De Cataldo benché prenda atto della disponibilità del Governo a dibattere i problemi della sicurezza, obietta al Ministro che l'azione del Governo è fallimentare da ogni punto di vista, e l'ultima iniziativa, presa in concomitanza con il sequestro del magistrato, di prolungare per sessanta giorni il fermo di polizia, serve semmai ad ``incrudelire la spirale della violenza''. Qualsiasi tentativo, aggiunge, ``nel rispetto della legge e della Costituzione'', deve essere fatto per salvare la vita del magistrato D'Urso. Qualsiasi tentativo. Uno Stato è forte non perché sia forte oggettivamente, ma perché dimostra dentro di sé la sua forza, nel momento in cui è anche capace di verificare le condizioni per cui un membro, una componente della società, non venga spietatamente, barbaramente ucciso. Comunque, a prescindere dalla richieste brigatiste, l'occasione è propizia perché si ``arrivi nel giro di poche ore a decretare la chiusura del carcere dell'Asinara... Mi sembra che non si possa porre ind

ugio. E non ci si dica che lo Stato non agisce sotto la pressione delle brigate rosse; non sarebbe vero, sarebbe una giustificazione falsa, perché, se bisogna agire, occorre farlo subito. E se questo potrà servire a risolvere, sia pure in parte, il problema della vita e della libertà di D'Urso, tanto meglio: avremo la soddisfazione di aver compiuto due opere eticamente e socialmente rilevanti''.

Marco Boato, radicale, risale ancora più indietro, e accusa il Governo di gravi omissioni che lo hanno messo nelle condizioni di essere ricattato e hanno preparato il terreno al sequestro del magistrato. "Lo fate il vostro mestiere tutti i giorni?" - chiede ai rappresentanti del Governo presenti in aula - "Avevate letto nei fatti che succedevano in questi mesi nel nostro paese che questo che oggi abbiamo di fronte stava per succedere? Evidentemente non che avrebbero sequestrato proprio D'Urso: questo non lo sapeva nessuno, spero. Ma li avevate letto i fatti che stavano accadendo? Avevate letto i documenti delle brigate rosse, da mesi e mesi a questa parte, riguardo ad un unico, ossessivo, paranoico obiettivo: chiudere l'Asinara, chiudere l'Asinara, chiudere l'Asinara! Questa era l'unica cosa paranoica che veniva detta. Allora come potevate non sapere che a questo sarebbero giunti? La rivolta di Nuoro, la rivolta di Firenze avevano questo unico obiettivo: chiudere l'Asinara".

Boato ricorda che alcuni giorni prima, e quando D'Urso non era stato ancora rapito, aveva concluso il suo intervento nella commissione Giustizia della Camera con queste parole: "non arrivate a dover accettare il ricatto dei brigatisti sul carcere dell'Asinara". Comunque, prosegue, "chiudere l'Asinara e rivedere tutto il regime delle carceri speciali, delle carceri di massima sicurezza nel nostro paese, è una rivendicazione sacrosanta che noi, forze politiche democratiche, di maggioranza o di opposizione, dobbiamo portare avanti autonomamente e con forza, per ragioni di giustizia, di civiltà del diritto, di democrazia nel nostro paese".

L'unica via percorribile è quella dell'azione democratica, che passa attraverso tali adempimenti e tutti gli altri inerenti al sistema carcerario, non certo attraverso le leggi speciali e il fermo di polizia, che perfino l'ex ministro della giustizia Bonifacio (DC), ricorda Boato, considera "un ostacolo a ritornare su un terreno istituzionale diverso da quello su cui il terrorismo ha costretto il nostro paese in questi anni". Quindi, conclude, "se vogliamo ripercorrere le vecchie strade, e magari ripeterle ancora più stancamente, in modo più becero, sarà questa una tragedia non solo, e prima di tutto, purtroppo, per il dottor D'Urso e la sua famiglia, ma una tragedia anche per la democrazia nel nostro paese. Risolverete infatti - apparentemente - questo caso, seppellendo un cadavere, e dicendo "non abbiamo ceduto", ma vi ritroverete di fronte ad un fenomeno ormai reso endemico, che non avrete saputo sconfiggere perché non sarete stati neppure in grado di capirlo".

Gli interventi di democristiani e socialisti sono sguscianti: Gerardo Bianco, per la DC, se la cava sottoscrivendo la promessa di Rognoni secondo la quale non sarà lasciato nulla d'intentato per la liberazione di D'Urso, ricordando però che le leggi di questo Stato, che è uno stato di diritto, vanno rispettate in modo puntuale; e Labriola, per il PSI, si preoccupa principalmente di sollecitare un dibattito sullo stato della sicurezza in Italia, omettendo ogni riferimento diretto a iniziative per la salvezza di D'Urso. A parte il missino Pazzaglia, che non solo non vorrebbe la chiusura dell'Asinara, ma pretenderebbe che si creasse un costellazioni di carceri specialissime e di massima sicurezza, il comunista Fracchia è poi l'unico che almeno ha il dono della sincerità in ordine all'atteggiamento che dovrebbe avere il Governo verso il terrorismo e la vicenda specifica del sequestro. Per lui non ci sono dubbi, l'atteggiamento deve essere ``di decisione, di fermezza, di rigore e di coerenza'', come fu in occasio

ne del sequestro dell'onorevole Aldo Moro.

Br: ``dov'è il piano segreto?''

Con il dibattito del 16 dicembre a Montecitorio la vicenda D'Urso si fa sorda. Subentra un clima di suspence, che potrebbe essere di riflessione, come comunemente si dice, ma che più spesso tradisce il vuoto d'iniziativa. Le indagini proseguono, ci si dice, a ritmo serrato, ma non progrediscono minimamente: la speranza di venire in possesso di qualche indicazione utile è rimessa alla possibilità che ``i pentiti'' forniscano qualche elemento nuovo che permetta di seguire una pista meno vaga di quelle fin qui ipotizzate. Alla stampa che chiede incessantemente notizie alla magistratura, carabinieri e Digos si limitano ad assicurare di muoversi su precise direttrici, ma non hanno tuttavia un solo dato da fornire. Contemporaneamente si accertano alcune circostanze di contorno: la prima è che ai magistrati sono state assegnate soltanto 330 auto blindate su 1200 promesse, e questo smentisce ampiamente l'efficientismo protettivo vantato da Rognoni nel suo intervento alla Camera; la seconda è che il giorno del rapime

nto D'Urso si recò in ufficio per sostituire un collega che glielo aveva richiesto: se i brigatisti lo hanno braccato e catturato proprio in tale giorno potrebbero voler dire che avrebbero ricevuto una tempestiva segnalazione dall'interno (si prospetta insomma la solita ipotesi di talpe annidate nella pubblica amministrazione).

Ad accentuare il clima di suspence contribuisce anche l'incertezza sulle intenzioni e sull'orientamento del Governo. L'atteso vertice di Forlani con i quattro segretari dei partiti della maggioranza c'è stato lo stesso giorno del dibattito a Montecitorio, ma non appare chiaro se sia stato decisivo o interlocutorio. Al termine viene diramato questo secco e protocollare comunicato: "Il Presidente del Consiglio dei ministri si è incontrato con i segretari dei quattro partiti della maggioranza governativa. I segretari dei quattro partiti hanno assicurato il sostegno solidale al Governo nell'affrontare con determinazione i problemi di emergenza come la lotta al terrorismo, la ricostruzione delle zone terremotate, gli impegni di programmazione economica".

Tutto qui. Sulla base di quanto è emerso nei giorni precedenti alcuni azzardano l'ipotesi che forse un qualche accordo per la chiusura immediata dell'Asinara sia stato raggiunto; tuttavia proprio mentre è in corso il vertice, Mammì ci tiene a ribadire che il PRI "è favorevole alle supercarceri intese come luoghi dove detenere criminali partecipi di una criminalità organizzata che potrebbero perciò più facilmente evadere se fossero rinchiusi altrove". Molto probabilmente questa posizione deve essere stata mantenuta nel corso della riunione dei segretari con Forlani. Certo essa non è ostativa in assoluto, per cui l'ipotesi di una disposizione a chiudere l'Asinara resta valida, ma costituisce sempre uno scoglio che il Governo deve in ogni modo superare per evitare i clamorosi contrasti all'interno della maggioranza. D'altra parte la partita non è tra un Forlani neutrale e un PRI intransigente sulla cosiddetta linea della fermezza; il conto va fatto con i quattro partiti della maggioranza, e tra essi la DC, lo s

tesso partito di Forlani, che sembra avvertire il richiamo dei repubblicani. Da indiscrezioni trapelate, infatti, Piccoli avrebbe convenuto con Spadolini sulla necessità della massima intransigenza di fronte a qualsiasi richiesta dei terroristi, pena la perdita di ``credibilità dello Stato'', che sarebbe stata fatalmente compromessa ``dal più piccolo cedimento''.

Dall'esterno i comunisti infittiscono le iniziative per far prevalere la linea della fermezza contrapponendola ad una inesistente linea della trattativa. Il 19 dicembre "L'Unità" pubblica una lunga e dettagliata intervista al magistrato Pietro Calogero, l'autore del ``teorema Negri'', nella quale si sostiene che soprattutto oggi, più che all'epoca di Moro, bisogna respingere ogni ipotesi di trattativa e cedimento, proprio in considerazione dell'obiettivo politico minore, e di più facile percorribilità, perseguito con l'odierno sequestro. "Scegliendo un obiettivo politico meno importante - afferma Calogero - e richiedendo implicitamente allo Stato di trattare con modalità meno onerose, le br mirano, probabilmente, ad infrangere quel fronte della fermezza che, nel '78, fu causa della loro sconfitta. Ritengo che anche questa volta il rifiuto di trattare sia indispensabile non già per un'astratta questione di principio o per una antistorica ragione di Stato, ma perché solo quel rifiuto impedisce alle br di raggi

ungere un obiettivo che è strumentale alla realizzazione di una strategia di sovvertimento. Il sequestro D'Urso è, a mio parere, il primo atto, riveduto e corretto rispetto a quello del '78, di una programmazione graduale e inesorabile, che punta a scompaginare lo Stato, spingendo il Paese nel vortice di una guerra civile".

L'intervistato dava per scontata l'autorità dello Stato coniugandola in termini di forza e bandiva da sé la preoccupazione di recuperare allo Stato la sua forza in termini di tensione democratica per derivarne una autentica capacità di efficienza. La stessa ostinazione a porre la trattativa come una obbligata alternativa alla fermezza, a chiamare cioè, con allarme ed esecrazione, trattativa ogni sforzo di individuare le vie percorribili per conservare allo Stato la sua consapevolezza di Stato democratico, tanto più consapevole di sé e della sua autorevolezza quanto più non mutuava una pretesa di forza da un olocausto (la vita di D'Urso), questa stessa ostinazione era l'indice più smaccato di una violenza logica e morale, come se la società politica non avesse responsabilità nei confronti del fenomeno terroristico, come se essa non fosse chiamata in causa e investita dalla ipotesi di morte che incombeva su un uomo, di fronte alla quale altra risposta non sapeva dare se non l'ostinazione non a misurarsi con se

stessa, i propri doveri e i propri valori, ma a proiettare una immagine gladiatoria della sua ``vittoria'' in un match con le br. In ultima analisi, Calogero e chiunque si affidava a quella logica, trovava del tutto naturale che un uomo fosse immolato sull'altare dell'inadempienza e delle omissioni dello Stato.

Lo smantellamento dell'Asinara era stato da tempo riconosciuto autonomamente dal Governo e dalle forze politiche come atto giusto e dovuto alla democrazia; non si era tempestivamente provveduto al conseguente e già deliberato adempimento; si voleva ora lasciare che un uomo del tutto innocente pagasse con la propria vita questa sorda e colpevole pigrizia; si trovava naturale che Stato, Governo, partiti e società politica scaricassero sulla vita di D'Urso le proprie inadempienze.

Le dichiarazioni di Calogero erano all'unisono con la disinvoltura allarmistica del PCI, che, sincronizzata sintomaticamente sulle apocalittiche enunciazioni dei comunicati terroristici, dava per scontata l'ipotesi di comodo della trattativa, in effetti neppure avanzata, che consentiva di ignorare lo spessore politico che comunque conservava il confronto fra democrazia e terrorismo. Ne sembravano invece avvertiti consistenti settori della magistratura che dalle tesi di Calogero, cominciavano a prendere le distanze.

Nei documenti delle br, secondo Neppi Modona, "vi sono segni di forza, ma per fortuna anche molti sintomi di debolezza e di contraddizioni politiche senza via d'uscita: è dall'analisi di queste debolezze e di queste contraddizioni che bisogna prendere le mosse per dare alle br una risposta che consenta di salvare una vita umana e di sconfiggere politicamente la nuova strategia del terrorismo"; e ciò è possibile soltanto "superando la sterile contrapposizione tra partito della trattativa e partito del rigore".

E' a questo punto della polemica che le brigate rosse si rifanno vive con un terzo comunicato lasciato in tre copie in un cestino dei rifiuti di via Merulana, all'altezza del cinema Brancaccio. Della sua esistenza ne è informato per il primo "Il Messaggero" da una telefonata effettuata questa volta da una donna. Il testo è ciclostilato di una cartella e dieci righe, diviso in tre capitoli numerati.

Ancora una volta i brigatisti non avanzano alcuna richiesta, né tanto meno propongono trattative. Il motivo centrale è sempre lo stesso: ``chiudere l'Asinara'', ma è enunciato come un imperativo categorico, o un'istanza irrinunciabile di cui è lo stesso partito armato a farsi carico. L'impostazione e il tono sono semmai di chi pretende dalla controparte una resa incondizionata, senza trattative. Non a caso sulle polemiche al riguardo dei giorni precedenti, e sulle stesse prospettive di effettiva chiusura del supercarcere comunque affiorate, si parla con ironia e disprezzo, rincarando la dose delle accuse, non certo per tentare una possibile aggregazione al carro procedente sul sentiero favorevole.

"Dopo la cattura di D'Urso - si legge nel comunicato - stiamo scoprendo che l'Asinara non è di gradimento a nessuno. Non riusciamo a capire perché fino a venerdì 12 dicembre questo campo era invece quello prediletto. Ha sempre funzionato a pieno ritmo a tal punto che vi hanno concentrato i più sadici carcerieri, vi hanno messo a direttore quella specie di belva di nome Massida che si è fatta un'esperienza di torturatore a Nuoro. Le ridicole messinscena dei democratici da baraccone al servizio del regime DC non ci riguardano; noi su questo piano non abbiamo che da ripetere che il movimento dei Proletari Prigionieri ("le maiuscole sono nel testo, e sottintendono un giudizio di valore contrapposto a quello che potrebbe essere dato sui democratici e torturatori, trattati infatti con minuscole") da anni dice nella sua lotta: chiudere immediatamente e definitivamente l'Asinara".

Quanto a D'Urso vi si dice soltanto che è un "macabro ed efficiente esecutore della filosofia imperialista". Questo "buon padre di famiglia era al vertice degli infami aguzzini preposti al genocidio delle centinaia di migliaia di proletari condannati da questo regime all'unico sistema di vita che sa offrire: la galera... Coloro che chiedono la liberazione del capo degli aguzzini D'Urso sappiano che non rinunceremo mai a sostenere il perseguimento del programma del proletariato prigioniero".

Sbeffeggiante, infine, è il giudizio sulle indagini convulse condotte dalle diverse polizie e dalla magistratura per scoprire la ``prigione del popolo'' e i sequestratori. L'opinione è che si giri a vuoto, e si speri soltanto di carpire notizie mettendo sotto torchio i terroristi detenuti, soprattutto i cosiddetti ``pentiti''. "Viene propagandato dalla stampa - scrivono i brigatisti - un piano segreto, formidabile, che i carabinieri starebbero attuando. Ed ha anche un nome: tortura dei prigionieri comunisti. Gli sgherri dei corpi speciali stanno organizzando in grande stile l'applicazione di quello che hanno sperimentato sulla pelle di molti compagni nell'ultimo anno... Ma ai tentativi di provocazione criminale, alle torture, risponderemo con la rappresaglia".

Una bomba da Parigi:

arrestato Marco Donat Cattin

Dopo questo terzo comunicato brigatista, che non presenta sostanziali novità rispetto ai precedenti, e lo si direbbe diramato quasi per un bisogno di recupero sulla caduta di attenzione, si ripiomba relativamente nel silenzio in relazione allo specifico caso D'Urso.

D'latra parte non v'è alcun segno di iniziativa politica, anche se, pare, proseguono segretissimi conciliaboli tra il Presidente del Consiglio e i quattro segretari dei partiti della maggioranza, né la polemica si arricchisce di nuovi spunti, né infine le indagini segnano qualche progresso, essendo rimaste incagliate alle magre rilevazioni del primo giorno, per cui non resta che rilanciare sempre lo stesso pastone di notizie, fingendo di rinfrescarlo rinnovando quotidianamente l'enfatizzazione dei singoli dettagli.

A scongiurare il pericolo di un assopimento e che dalla monotonia ripetitiva intervengano una serie di fatti collaterali coinvolgenti sempre il fenomeno del terrorismo nella sua globalità.

La bomba arriva da Parigi nella notte del 19 dicembre. Alle ore 22, si legge nei dispacci di agenzie, all'esterno di una "brasserie" degli "Champs Elysées", è stato arrestato Marco Donat Cattin, figlio dell'ex ministro democristiano Carlo, colpito da numerosi mandati di cattura per cinque omicidi, almeno altrettanti sequestri e un nutrito contorno di reati minori. La sua latitanza durava da circa tre anni, durante i quali è risultato più imprendibile della "primula rossa". Lo si dava a Londra, a Parigi, sulla Costa Azzurra, negli Stati Uniti e in capo al mondo, benché molto più probabilmente stesse nella sua Torino, dove del resto non è mancato chi l'ha più volte incontrato. A bloccarlo sarebbero stati agenti del controspionaggio francese e carabinieri italiani del nucleo antiterrorismo. Il giovane leader di "Prima Linea" era in compagnia di una ragazza, e appena fermato ha esibito un passaporto falso. Ma non gli è servito a niente poiché i carabinieri lo avrebbero riconosciuto senza possibilità di dubbi. Co

ndotto alla "Sureté", visto ormai che la sua identità era stata accertata, ha preannunciato clamorose rivelazioni a mezzo di un materiale che si riservava di consegnare.

Anche se non si sa assolutamente niente di dove possa essere D'Urso, l'arresto di Marco Donat Cattin è l'occasione per recuperare parte della credibilità perduta in una settimana di indagini a vuoto introno al rapimento del magistrato. Non a caso le veline diramate dagli organi ufficiali esaltano il ruolo avuto dai carabinieri in tutta l'operazione e soprattutto accreditano la circostanza secondo cui l'azione sia conclusiva di un programma di indagine messo a punto ed eseguito dalle autorità italiane. Di "Prima Linea", dopo i numerosi arresti effettuati in precedenza, sarebbero rimasti in circolazione Donat Cattin e Maurice Bignami. Il primo aveva scelto la via dell'espatrio, mentre il secondo sarebbe confluito nelle brigate rosse. Quindi di fatto il figlio del notabile democristiano sarebbe stato l'ultimo rappresentante della componente nordica di "Prima Linea": la sua cattura quindi segnerebbe la liquidazione della pericolosa formazione terroristica.

E' possibile che le cose, nelle loro linee generali, si siano svolte così come sono state raccontate dagli inquirenti; anche se dalla Francia giunge una smentita circa la partecipazione delle nostre forze di polizia alla cattura. Ma la modalità dell'arresto, di una semplicità esemplare, autorizza anche il sospetto che il giovane sapesse di dover essere arrestato, o che abbia lui stesso propiziato l'opportunità del suo arresto, scegliendo a questo fine Parigi per confermare soprattutto una latitanza ferrea della quale la famiglia sarebbe stata sempre all'oscuro.

Delle forze politiche, soltanto i radicali sviluppano u'azione che in coerenza con obiettivi che sono parti essenziali dei loro programmi, può avere presumibilmente effetti positivi anche sulla vicenda D'Urso. Franco De Cataldo, Adelaide Aglietta e Marco Boato inviano infatti al Ministro di grazia e giustizia una lettera per ricordare che da tempo politici, sociologici, magistrati e operatori del diritto concordano sulla necessità di chiusura della sezione speciale dell'Asinara. "La circostanza dolorosa del dottor D'Urso - è scritto nella lettera - non deve indurre a comportamenti che sono contro il diritto, oltre che la morale, ma deve anzi consigliare di perseguire la strada della corretta applicazione delle leggi e dei regolamenti. Nessuno potrà mai interpretare come segno di cedimento la prosecuzione di un'opera che contribuisca a rendere la società più matura e lo Stato più civile".

Qualche giorno prima (15 dicembre) Franco De Cataldo ha scritto al socialista Felisetti, presidente della Commissione giustizia della Camera, di cui il deputato radicale fa parte, per chiedere l'immediata convocazione della commissione al fine di evitare che sulla vicenda D'Urso si stenda il silenzio inerte del Parlamento così come avvenuto sulla vicenda Moro. La risposta di Felisetti (19 dicembre) sarà negativa, e inevasa resterà una ulteriore richiesta telegrafica dello stesso De Cataldo (26 dicembre) che chiedeva quanto meno una riunione dell'ufficio di presidenza della Commissione. La risposta di Felisetti appare a prima vista contraddittoria con l'operato dei socialisti che premono per la chiusura dell'Asinara e non sono indifferenti alla sorte di D'Urso. Meno contraddittoria si rivela non appena ci si rende conto che l'azione socialista, come già avvenne nel corso della vicenda Moro, tende ad esaurirsi nell'ambito riservato dei rapporti all'interno della maggioranza di governo, mentre l'iniziativa dei

radicali tende a portare tutto sul terreno scoperto, dove ogni atto comporti una conseguente, esplicita responsabilizzazione, senza esclusioni o sotterfugi, totalmente esposta al giudizio della coscienza popolare.

Un falso comunicato

Tuttavia non manca chi surrettiziamente, benché ne sia intuibile l'identità, si adopera per gettare discredito sulle iniziative radicali. In concomitanza con la lettera radicale al Guardasigilli viene diffuso un comunicato delle br che chiama in causa i radicali ma che risulterà subito agli inquirenti della Digos assolutamente falso. Il messaggio, lasciato nel solito cestino dei rifiuti in piazza Armellini, davanti all'accademia della guardia di finanza, è raccolto da un redattore del quotidiano "Vita", accorso sul posto su indicazione telefonica di un giovane anonimo senza inflessioni dialettali. Lo stile e il linguaggio, oltre che il materiale adoperato e gli strumenti usati per la confezione, risultano del tutto impropri: "Organizzare la liberazione dei compagni di galera (``"il proletariato prigioniero"'', definizione rigorosamente d'obbligo del "nuovo corso brigatista, è dimenticato"). Smantellare il circuito della differenziazione, costruire e rafforzare i comitati di lotta, chiudere i "lager" di Stato

. Creare i presupposti per dibattimenti inerenti carceri speciali con partecipazione attiva e corretta di organi del partito radicale; inoltre smantellare la tesi di infamia attribuita al compagno Jannelli (il giudice D'Urso collabora e partecipa al nostro interrogatorio). Jannelli è un compagno comunista da non ritenere collaboratore. Saranno ritenuti responsabili tutti coloro che si avvaleranno ("sic") di concetti di legalità arbitraria. Libertà per tutti i compagni caduti combattendo".

Pur consapevole e avvertita del falso, la stampa utilizza il comunicato avanzando, ``onestamente'', l'ipotesi della sua falsità, ma lasciando intendere che potrebbe essere naturale la richiesta di mediazione radicale specie da parte dell'ala più politica, o in via di deterroristizzazione, del brigatismo. "A parte il fatto - commenta De Cataldo, appena gli si parla di questo comunicato - che nutriamo seri dubbi sull'autenticità di questo messaggio, il nostro atteggiamento non cambia. Non si serviva questa richiesta per interessarci delle condizioni di vita nelle carcere".

Una indagine tuttavia sarebbe stata opportuna, oltre a quella condotta per accertare l'autenticità del comunicato, per cercare di capire chi poteva avere interesse nella diffusione di un testo del genere, che appariva scopertamente diretta ad indebolire l'azione dei radicali e ad impedire la chiusura dell'Asinara. E' infatti sintomatico che questo pseudo comunicato copia quando cominciano a circolare voci di una prossima chiusura dell'Asinara, alla quale pervicacemente contrari sembrano essere i comunisti ed altrettanto i repubblicani e le destre, e quasi contemporaneamente alla convocazione da parte di Forlani di una riunione, per lo stesso pomeriggio, del Comitato interministeriale per la sicurezza (Cis).

A latere dell'iniziativa radicale concretatasi nella lettera al Guardasigilli v'è una lunga dichiarazione di Bettino Craxi con riferimento diretto sia alla vicenda D'Urso che alle radici e soprattutto ai possibili collegamenti internazionali del terrorismo, tema riemergente, ma sempre in termini nebulosi: "Ho già altre volte ricordato - afferma Craxi in un'intervista al "Corriere della Sera" del 21 dicembre - la sentenza della corte suprema tedesca sul caso Schleyer, in particolare laddove essa afferma che il peculiare modo della difesa contro i ricatti terroristici che minacciano la vita umana è contrassegnato dal fatto che le misure dovute non possono che corrispondere alla molteplicità delle situazioni singolari, restando fermo che la vita umana rappresenta un "bene supremo" e che lo Stato ha un obbligo di tutela completo. Penso che si deve fare tutto ciò che è ragionevole per liberare il giudice D'Urso".

Riferendosi poi all'esistenza di centrali straniere che in qualche modo piloterebbero il nostro terrorismo, Craxi dice di non pensare tanto "alla esistenza di un vero e proprio pilotaggio straniero quanto piuttosto ad un complesso di connivenze, di complicità internazionali e probabilmente anche di protezioni, di cui una parte almeno del terrorismo italiano ha potuto avvalersi in diversi periodi della sua crescita e della sua ramificazione organizzativa. Continuando a ricostruire la storia di questi anni, possibilmente sulla base di elementi di fatto e non di elucubrazioni fantastiche, continuando a scavare e ricercare con scrupolo, verranno alla luce anche tutti gli aspetti sui quali ha continuato per varie ragioni a gravitare una fascia d'ombra".

Il suicidio di Buonoconto

L'impasse carica di tensione per la vicenda D'Urso è percorsa però da eventi altamente drammatici, che rinviano l'attenzione alla condizione carceraria. Nel pomeriggio del 20 dicembre Alberto Buonoconto, considerato uno dei capi storici dei nuclei armati proletari, consuma l'ultimo atto della sua tragica odissea impiccandosi nella sua casa di Napoli in via Nennella Di Massimo al Vomero. Profittando dell'assenza dei suoi anziani genitori e della sorella Paola si annoda un lenzuolo introno al collo, ne lega l'estremità al gancio di una porta e si lascia penzolare nel vuoto.

Lo psichiatra professor Manacorda, che periodicamente visitava il giovane, e l'avvocato Enzo Siniscalchi, che era il suo difensore, non hanno dubbi: "questo suicidio - affermano - è la conseguenza della lunga carcerazione speciale cui Buonoconto è stato sottoposto. Le turbe psichiche di cui soffriva sono derivate dal grave degrado organico subìto, che lo ha portato alla paralisi ossea".

Alberto Buonoconto, che al processone ai Nap di Napoli era stato condannato a otto anni di reclusione, era già in precarie condizioni di salute al momento della cattura. Ma fu inviato egualmente nelle carceri speciali, dove inesorabilmente andò aggravandosi. La diagnosi redatta dai medici parlava di "sindrome ansioso-depressiva di natura reattiva in soggetto neurolabile con turbe comportamentali". Per questo fu presa in considerazione la sua eventuale liberazione in cambio della restituzione di Aldo Moro allora prigioniero delle br. Senonché il 9 maggio 1978 il corpo di Moro fu ritrovato crivellato di colpi. Buonoconto, che egualmente doveva essere liberato essendosi visibilmente ridotto ad una larva, fu spedito nel carcere di Poggioreale, dove, secondo gli stessi medici, si andava spegnendo lentamente.

Alle numerose istanze per la sua scarcerazione si rispondeva con riunioni e rinvii, finché le reiterate istanze di un comitato costituito per la sua liberazione indussero il procuratore generale a concederla.

Conseguito un effimero miglioramento Buonoconto si trasferì a Roma, dove fu arrestato due volte: una prima per essere stato trovato a dormire in un'automobile, ed una seconda per essere stato trovato a vagare in stato confusionale con un coltello tra le mani. Inviato a Regina Coeli, fu posto sotto controllo neurologico, ma per il precipitare di un deterioramento che minacciava di essere irreversibile, il 20 novembre scorso fu scarcerato e inviato a casa, dove purtroppo esattamente un mese dopo l'avrebbe fatta lui stesso finita.

Ma nel suicidio Buonoconto, che proietta luce sinistra sul sistema carcerario, la maggioranza dei giornali parla sommessamente, relegando per lo più la notizia tra le cronache d'imbottitura; mentre grandi titoli, di prima pagina, sono riservati agli arresti di presunti esponenti di formazioni armate, che proprio tra il 20 e il 22 dicembre susseguono numerose e puntuali. A Napoli agenti della Digos travestiti da netturbini e venditori ambulanti, dopo una sparatoria, catturano Marco Fagiano, considerato altro capo di "Prima Linea", e Federica Meroni, mentre altri quattro riescono a fuggire. Quasi contemporaneamente sono arrestati a Caserta Armando De Matteis e Maria Rosaria Frangipane e a Capua l'operaio Luigi Bucchierato, ritenuti fiancheggiatori; a Roma due studentesse, Rita Iacomino e Antonella Pacchiarotti, entrambe, secondo gli investigatori, collegate in qualche modo alla colonna romana delle brigate rosse. Ad arricchire il bottino contribuisce il giorno successivo l'arresto dei genitori di Fagiano per

complicità.

Il 21 dicembre un altro colpo clamoroso. In un bar di corso Brescia a Torino sono bloccati e arrestati Vincenzo Guagliardi e Nadia Ponti, della direzione strategica delle brigate rosse. Il primo sarebbe il luogotenente di Curcio, e la seconda sarebbe responsabile di sette omicidi. La loro cattura potrebbe permettere di aprire un varco percorribile per arrivare alla prigione di D'Urso: "Li abbiamo già interrogati - dice uno dei magistrati inquirenti. - Ovviamente la nostra prima preoccupazione è il sequestro del collega D'Urso. Abbiamo chiesta la loro collaborazione...", ma non aggiunge che questa è stata rifiutata, come risulterà più evidente in seguito.

In casa D'Urso, frattanto, si vivono ore di angoscia. "Non sappiamo nulla" - dice il fratello del magistrato rapito - "viviamo nel dolore, attendiamo un cenno di speranza, un messaggio, una telefonata che possa aiutarci a capire. Siamo al buio, invece: dopo quella fotografia pubblicata sui giornali, è calato il silenzio". Le indagini ristagnano, e col trascorrere infruttuoso dei giorni i magistrati accentuano il loro normale riserbo. Nel pomeriggio del 22 dicembre Forlani s'incontra a palazzo Chigi con Rognoni. Del colloquio, riservatissimo, non trapela nulla. Una notizia dal Viminale assicura che si è trattato soltanto di un aggiornamento della situazione.

Pannella alle br:

"compagni assassini, liberate D'Urso"

Giunge il quarto comunicato delle br, che s'incrocia con un messaggio diffuso frattanto dalle due figlie del magistrato rapito nella speranza che sia consegnato al padre. "Papà caro questo santo Natale trascorre con tristezza senza di te, ma noi ti stiamo lo stesso vicine con tutto il nostro cuore e i nostri pensieri. Crediamo fermamente che il nostro amore e le nostre preghiere ti diano la forza di resistere. Stiamo facendo tutto quello che ci è possibile per la tua salvezza".

Il quarto comunicato dei brigatisti, come i precedenti, non contiene richieste o proposte di trattative; pur tra le minacce, traspare però che la sorte del magistrato rapito potrebbe cambiare, in senso positivo, intervenendo fattori di rovesciamento circa le carceri di massima sicurezza. "Chi pensa che D'Urso possa essere rimesso in libertà perdurando la politica di annientamento dei proletari prigionieri e di censura sulla loro lotta, non ha capito niente della giustizia proletaria". Dovrebbe conseguire che non perdurando "la politica di annientamento" D'Urso potrebbe essere rilasciato.

Comunque quest'alternativa è per adesso una semplice proiezione logica. I riferimenti più specifici e diretti al magistrato non autorizzano l'ottimismo. "Noi non abbiamo alcun dubbio che D'Urso stia bene dove sta: in un carcere del popolo. Ma noi siamo contrari alle carceri; alle carceri di ogni tipo. Non prolungheremo la sua detenzione oltre il tempo necessario a valutare le sue responsabilità che peraltro sono fin troppo chiare. La giustizia proletaria avrà quindi rapidamente il suo corso senza esitazioni". Dopo di ciò si ribadisce ossessivamente il tema di fondo: lo smantellamento dell'Asinara. "Quest'arma di ricatto e di tortura deve essere cancellata una volta per tutte e senza discriminazioni per nessuno. Le chiacchiere mistificatorie che vorrebbero cambiare questi termini del problema le consideriamo delle inutili provocazioni".

Ma a stimolare un'iniziativa politica, ad avanzare una proposta che rompe il rigore della ``fermezza'' e l'ambiguità del trattativismo, arriva una lettera di Pannella alle brigate rosse attraverso il quotidiano "Lotta continua", che la pubblica la mattina del 24 dicembre. La lettera oscilla tra la requisitoria e l'esortazione, e porta alle estreme conseguenze la logica della non violenza, sostituendo alla logica della trattativa la logica del dialogo. "Dialogo, dialogo, dialogo - dice Pannella ai brigatisti, che chiama ``compagni assassini''. - Nessuna trattativa. Non c'è trattativa possibile e degna di rispetto da qualsiasi parte se imposta dalla violenza, con la paura, con il ricatto. Non si collabora con chi compie la violenza: è un dovere. Non vi sono regole di guerra da seguire: per fortuna e per volontà del popolo la guerra è bandita dalla Costituzione, dettata dall'antifascismo della Resistenza, e tradita dall'"antifascismo" e dal "neofascismo" dei partiti parlamentari, dal 1947 ad oggi, con la sola e

ccezione del partito radicale".

Coerente con questa impostazione Pannella chiede la liberazione di D'Urso senza condizioni. Un cadavere legittimerebbe la violenza del potere, offrirebbe su un piatto d'argento il pretesto per perpetuare il tradimento della Costituzione e delle stesse leggi dello Stato in atto dal 1947. In fondo è quel che si attende, e non fosse altro che per questo bisognerebbe negarlo. "Ma siete sicuri, compagni, se tali vi ritenete, che già ora non convenga, non vi convenga, liberare, rilasciare Giovanni D'Urso?" - chiede Pannella ai brigatisti, invitandoli a riflettere su quest'agghiacciante verità: "in realtà non lo desiderano, non se l'aspettano. Non ne sarebbero felici. Se l'aspetta, invece, ne sarebbe felice, invece, e lo sapete, "la gente", noi, voi stessi". Uccidere D'Urso sarebbe un tragico errore anche per questo: "perché il potere desidera morte, e D'Urso gli serve martire, non vivo".

Certo v'è il presidente Moro, e non a caso ora lo scenario ne riproduce per le grandi linee la trama e lo svolgimento. "Ma con una differenza grande, che nessuno sembra avere vagliato; il 16 marzo si assassinarono, per catturare Aldo Moro, gli uomini della sua scorta, gli umili lavoratori di polizia che compivano la loro fatica. Liberare Moro, il potente, il nemico, dopo avere assassinato a via Fani i quattro agenti costituiva una difficoltà politica, ideologica, "umana" anche, una contraddizione pericolosa".

Pannella si cala nella logica del partito armato spingendola al punto di non ritorno proprio per invertirne la direzione. Lungo questa logica, portata ai suoi estremi di ``umanità'' è possibile allora "che la vita, e non la morte, di Giovanni D'Urso, vita che gli appartiene, vita sacra almeno quanto quella di coloro che lo sequestrano e minacciano di assassinarlo, si muti in una occasione di vittoria e di crescita per tutti, da una parte e dall'altra, nella sola direzione in cui può esservi crescita e speranza, non disperazione e fine. E' possibile "convincere, vincere" - cioè - "assieme", sempre, e oggi. Non vincere contro. Nemmeno in chi sequestra D'Urso questa è fatalità, schiavitù, necessità".

Mi auguro che nel Parlamento italiano - prosegue Pannella - "vi sia chi pensi, ora, subito, oltre ai compagni radicali a proporre una mozione, uno strumento di dibattito per un indirizzo nuovo e fecondo di risposta politica al pericolo in cui tenete D'Urso. Non si tratta di sconfiggere "voi", come questi imbecilli lugubri e violenti credono o sentono, ma di sconfiggere quel che in voi può far crescere e determinare il peggio, un ennesimo grido di viva la "muerte", disperato e sempre anche suicida, se viene da chi si ritiene o sia "compagno"". Il problema è di potersi interrogare "pubblicamente, con la televisione e i giornali che per una volta non censurino totalmente o quasi i dibattiti parlamentari (e quelli partitici) sicché quale che sia la risposta quotidiana che si darà, essa sia data secondo quanto chiede la Costituzione e da chi la Costituzione esige".

Ma non è il ricatto che può favorire questa prospettiva. "Consentitemi di dirvi che oggi la chiusura dell'Asinara, se non molto più lontana è almeno molto più difficile di quanto non lo fosse prima del sequestro D'Urso. Nello Stato dominano infatti, non di rado, istinti e riflessi che sono molto simili ai vostri, che forse voi stessi avete ereditato e condividete con tanta parte della classe di regime. E non è questo, ne sono certo, che volete. Non è questo, non è sulla vita delle centinaia di vostri compagni reclusi per terrorismo che vorrete edificare non si sa quale "vittoria tattica", o quale altra "esecuzione" da "giustizieri"". (*)

* (Il testo integrale della lettera di Pannella è riportato tra i documenti.)

(continua al testo n. 1769)

Cyrus
21-03-10, 08:52
LA PELLE DEL D'URSO: (2bis) I 33 giorni (seconda parte)
di Ennio Capelcelatro e Franco Roccella

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

(seconda parte - segue dal testo n. 1768)

E' possibile il dialogo?

La stampa di regime è disorientata. Capisce il rifiuto categorico alla trattativa, ma stenta a capire l'appellativo di ``compagni assassini'' e l'invocazione del dialogo.

Così se la cava parlando genericamente di una "nuova iniziativa di Marco Pannella", oppure, come fa la stampa comunista, di "proposta sconcertante". Diverso però è l'accoglimento nel mondo intellettuale, che pur tra riserve trova percorribile la strada indicata da Pannella e ne avverte la suggestione. In un filo diretto di Radio Radicale, condotto in studio dal Lino Jannuzzi e Roberto Cicciomessere, si ha un dibattito molto articolato, che rivela soprattutto consensi unanimi sulla diagnosi contenuta nella lettera di Pannella, e semmai qualche dubbio non sulla chiarezza della proposta di dialogo ma sulla reale possibilità di attrarvi i brigatisti.

Per Ernesto Galli Della Loggia, l'ostacolo al dialogo sarebbe la natura stessa dell'organizzazione politica delle br, dell'insieme, non dei singoli militanti, "che nei suoi tratti antropologico-ideologico è di tipo nazista. Gli elementi di somiglianza sono impressionanti e tutta l'attività dei brigatisti sta a testimoniare tale coincidenza". Le br, come organizzazione armata, da cinque anni "operano scientemente per distruggere la democrazia con il corollario dei diritti civili. Su quali basi, allora, potrebbe aversi il dialogo?". Pannella presuppone un dialogo fondato sul rispetto di alcuni principi, ma le br "operano in aperto dispregio proprio di tali principi".

Il filosofo Norberto Bobbio è meno pessimista, o più possibilista, se si preferisce. "Se il dialogo con le br deve intendersi come l'enunciazione di argomenti razionali per dimostrare che i loro atti sono non solo delitti condannati dalla morale, ma anche errori politici, come debbono ritenersi, in quanto gli effetti finora sono stati contrari ai fini perseguiti, questo è un discorso fatto tante altre volte, ma senza alcun successo. Malgrado ciò, non viene meno il dovere del buon democratico di tenere aperto il dialogo con chiunque, e, per dirla con Pannella, di convincere piuttosto che di vincere".

Lo scienziato Adriano Buzzati-Traverso è invece categorico. Per lui il problema è di salvare comunque D'Urso, "se il dialogo può condurre alla sua liberazione fa benissimo Pannella a prendere la posizione che ha presa". Consenziente lo storico Salvatore Sechi che compie un'analisi molto articolata. A suo avviso, la lettera di Pannella "è un documento assolutamente non equivoco, respinge la trattativa, respinge la legge del cedimento, esorcizza il mercato della vita, chiede il rilascio puro e semplice del giudice D'Urso, e pone un problema che si poneva anche durante la vicenda Moro, dare cioè più trasparenza al dibattito parlamentare, quindi maggiore pubblicità e apertura al dialogo tra la gente e le istituzioni, e tra le stesse bande armate, i cittadini e le istituzioni". Inoltre, secondo Sechi, il testo di Pannella pone una questione cruciale: "D'Urso appare come un uomo solo, non ha alle spalle organizzazioni, né un prestigio tale che possa funzionare come potere di veto. Da questo punto di vista le reazi

oni della coscienza laica e cattolica mi sembrano caratterizzate dall'indifferenza. Mi sembra che ci sia il tentativo di affidare tutto allo Stato, alla sua capacità operativa. Io penso che lo Stato non possa trattare con i giustizieri di ieri, che poi si sono pentiti, magari sotto la spinta delle garanzie di clemenza, e intanto non preoccuparsi di chi non si è pentito, forse perché il proprio pentimento non coincidesse con la condanna alla vita o alla morte dei propri compagni". Il problema, prosegue Sechi, è complicato, ma bisogna porselo, e sicuramente la strada è questa del dialogo, che è un tentativo di capire e di conoscere chi sono costoro. Sembra però che il documento accrediti al terrorismo di puntare, sebbene con metodi aberranti, alla produzione di decisioni riformatrici. "Ma la mia personale impressione è che il terrorismo si muova nel senso di bloccare qualsiasi innovazione e trasformazione della democrazia. Direi che tra la politica del terrorismo, consistente nell'aprirsi la strada producendo

una stretta autoritaria dello Stato, e il sistema di potere dc, che vive sul blocco del sistema decisionale, cioè sul non-governo e sulle non-riforme, ci sia un rapporto di integrazione, sia pure senza nessun piano concreto".

A Gianni Baget Bozzo, al contrario, la proposta non è chiara. Che cosa vuol dire dialogo, se non trovare una posizione di comune rispetto tra due persone dialoganti? Se è così, afferma, "allora dialogo e trattativa sono la stessa cosa, perché anche nella trattativa sono di fronte due posizioni. Quindi non riesco ad afferrare che cosa di specifico abbia la proposta di dialogo, né come possa avvenire e in che sede. Mi sembra una dichiarazione di principio, di metodo, ma mi resta oscuro, ripeto, il senso specifico della proposta, poiché dialogo vuol dire riconoscere un qualcosa in comune con la controparte, e in tal senso va oltre la trattativa, che in definitiva non suppone nessun punto comune".

Maurizio Costanzo, direttore de "L'Occhio", trova molto importante proprio la differenza che Pannella coglie tra trattativa e dialogo, il quale ultimo "può essere durissimo, fino in fondo, con il peggiorare dei nemici, col quale la trattativa non può esserci mai, non deve esserci. La trattativa è ambigua, sbagliata". Per Lanfranco Pace l'iniziativa di Pannella è comunque importante perché frattanto "smuove le acque della palude politico-istituzionale, in cui pare prevalga la volontà di non decidere". Sarebbe tuttavia da verificare l'efficacia operativa della proposta, capire che cosa significa, nel quadro di un atteggiamento e una volontà riformista, nei confronti del fenomeno del terrorismo. "Da questo punto di vista mi pare piuttosto un appello ai buoni sentimenti che una proposta politica efficace. C'è un elemento di debolezza, perché non si vede quali canali potrebbero mettere in contatto la ragione della non-violenza con quella della violenza".

Su quest'ultimo punto risponde indirettamente lo stesso Pannella, intervenuto casualmente nel dibattito. Non esiste una forma di dialogo, ma infinite, e va bene qualsiasi forma. Ma badate - egli dice ai brigatisti - "nessuna di quelle, che magari per omissione, mi porti a complicità o connivenze con voi". Il dialogo è l'arma assoluta, ma non solo contro il terrorismo, contro il Leviatano rosso. "Non a caso, come parlamentare europeo, io vado dicendo che stiamo conducendo una politica alla Monaco, alla Chamberlain". Per abbattere il Leviatano rosso non occorrono guerre sterminatrici, basta "un'arma tecnologica che permetta di bombardare di informazioni il popolo russo perché questo si destabilizzi". E in realtà anche questo è dialogo.

Brutto colpo al partito della ``fermezza'':

chiude l'Asinara

Col progredire dell'azione di Pannella e dei radicali, che mirano a un coinvolgimento delle coscienze e delle intelligenze e spingono per un concreto seguito dell'impegno preso da Rognoni alla Camera il 16 dicembre per la salvezza comunque della vita di D'Urso, sempre nel solco della legalità, si incupiscono gli interventi dei fanatici della linea della fermezza. Ancora il comunista Picchioli, in un'intervista a "Rinascita", critica pesantemente quanti ritengono che siano possibili atti che salverebbero la vita al magistrato, senza che questo presupponga una trattativa o significhi cedimento. "Né il problema delle carceri di sicurezza né alcun altro problema - dice - deve essere affrontato sotto la spinta del ricatto; in questo momento nessuna pretesa dei terroristi può essere presa in esame. Guai se si facesse sapere loro che esiste anche una minima predisposizione ad ascoltarli".

Quest'esortazione alla durezza arriva però quando il fronte umanitario si sta enormemente ampliando. Alla sortita di Pecchioli fa da contraltare immediato un appello sottoscritto da numerosi intellettuali, tra i quali Sabino Acquaviva, Gianni Baget Bozzo, Marco Boato, Cesare Cases, Oreste Del Buono e Franco Fortini, volto a chiedere che "si proceda subito alla chiusura del carcere dell'Asinara, nella serena consapevolezza non di cedere ad un ricatto, ma di attuare quanto riconosciuto giusto e opportuno in piena libertà".

Il rispetto del ``giusto e del dovuto'', come lealtà verso la democrazia e forza della legalità era stato in quei giorni incessantemente ripetuto da Radio Radicale a proposito della chiusura dell'Asinara.

Successivamente, proprio nel giorno di Natale, un comunicato della direzione del PSI chiede esplicitamente l'immediata chiusura dell'Asinara, in quanto da diverso tempo, si dice nel documento, "si iniziò a disporre la chiusura delle carceri speciali come Favignana e Termini Imerese, e così avrebbe dovuto essere o dovrebbe essere per l'Asinara... Il fatto che la chiusura dell'Asinara sia ora richiesta dall'organizzazione terroristica che tiene prigioniero il giudice D'Urso in forma di ricatto non cambia e non deve cambiare la natura di fondo del problema, semmai aggiunge solo una motivazione alle altre già esistenti. Il carcere dell'Asinara doveva e deve essere chiuso, e ciò può essere fatto senza pregiudizio delle esigenze di sicurezza che possono essere altrimenti assolte".

Se tale decisione "nelle circostanze attuali può apparire una concessione fatta al ricatto terroristico in cambio della liberazione del giudice D'Urso", in realtà "essa coincide con un adempimento assolutamente giustificato e da più parti, ivi comprese fonti governative e amministrative, richiesto e sollecitato"; quindi la decisione "non comporta alcun indebolimento e rinuncia", ed il PSI è convinto che sia "necessario offrire subito ai rapitori del giudice D'Urso l'occasione di evitare un ennesimo barbaro crimine".

Le reazioni a caldo dei "duri" sono molto aspre, ma anche molto confuse. Per prima cosa si insinua che Craxi sarebbe stato indotto al gesto da un disperato messaggio del prigioniero inviato a lui e a Pannella, oppure da una lettera di analogo tenore dei familiari del magistrato. Il comunicato socialista sarebbe pertanto anche il frutto di patteggiamenti segreti tra Craxi e Pannella o tra socialisti e radicali. Poi si versa olio sul fuoco affermando che comunque la mossa socialista potrebbe rompere la maggioranza e determinare una crisi di governo che potrebbe risolversi soltanto con l'anticipato ricorso alle urne.

Ed infatti, a giudicare dalle dichiarazioni di esponenti parlamentari dei partiti di governo, l'ipotesi di una possibile spaccatura nella maggioranza non è peregrina. "Non abbiamo ceduto per Moro, chiudere l'Asinara sarebbe cedere a un ricatto", dice la democristiana Maria Eletta Martini; le fa eco il solito repubblicano Mammì, affermando perentoriamente: "l'Asinara non va chiusa". Infine il socialdemocratico Puletti aggiunge: "trattare oggi per D'Urso significherebbe gettare un'ombra sulla linea della fermezza che al tempo del rapimento di Moro servì a salvare le istituzioni".

Senonché 24 ore dopo, nel giorno di santo Stefano, una nota del Ministero di grazia e giustizia, concordata pare in una riunione a palazzo Chigi tra Forlani, Rognoni e Sarti, annuncia che il programma per la chiusura della sezione speciale del carcere dell'Asinara "è da tempo predisposto, e viene progressivamente attuato, tanto che i detenuti della sezione Fornelli ("appunto la sezione speciale"), già considerevolmente inferiori rispetto alle possibilità effettive di accoglimento, risultano oggi in numero di 25 e scenderanno a 18 entro la settimana... il completamento del piano di sgombero impegnerà tempi brevi".

In precedenza il direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, Ugo Sisti, in una dichiarazione trasmessa all'"Ansa" aveva fatto sapere che "il carcere dell'Asinara tornerà ad essere un colonia penale agricola", e questo non come cedimento al ricatto delle brigate rosse, ma in attuazione "di un programma precedente al rapimento, programma al quale aveva lavorato lo stesso D'Urso"; comunque, aggiungeva concludendo, se i terroristi "dovessero porre ricatti e condizioni per mettere fine a questo rapimento privo di qualsiasi logica allora la decisione non spetterà alla direzione generale ma al Governo".

Il successivo comunicato del Ministero di grazia e giustizia ufficializza questa decisione, spiazzando completamente gli esponenti dei partiti di maggioranza, che vengono del resto sconfessati dalle rispettive segreterie. Il democristiano Piccoli, spiazzando la Martini, avalla la posizione di Forlani, definendola "ferma ed equilibrata", sulla quale, si augura, si riformerà l'unità e la solidarietà tra i partiti. Longo e Saragat, smentendo il loro compagno di partito Puletti, diffondono una dichiarazione congiunta di questo tenore: "la decisione del Governo di procedere all'attuazione del programma carcerario è un gesto di saggezza e di responsabilità e dà forza e credibilità alle istituzioni democratiche". Il PRI è più cauto, continua a mantenere delle riserve, soprattutto verso Craxi in quanto avrebbe rotto "un impegno di riserbo e di consultazione", ed a dichiararsi contro ogni trattativa "diretta o indiretta". Assicura tuttavia che non farà un dramma della decisione di chiudere l'Asinara, poiché "la quest

ione Asinara è di stretta competenza del Ministero di grazia e giustizia e quindi del Governo".

I radicali, che hanno senz'altro avuto un ruolo trainante in questa direzione, e sono inoltre da sempre fautori dello smantellamento delle carceri speciali e soprattutto fautori di un generale riassetto penitenziario, anche per quanto riguarda la posizione degli agenti di custodia, non possono non condividere la decisione del Governo successiva al comunicato della direzione del PSI. Essi anzi convocano una riunione del consiglio federativo del partito per la domenica successiva, al fine di individuare "un ulteriore e più largo pacchetto di richieste di umanizzazione e civilizzazione del sistema carcerario". Nello stesso tempo Marco Pannella, sviluppando l'azione per indurre le brigate rosso al dialogo, dagli schermi televisivi della prima rete indipendente chiede di voler sapere "come posso essere utile a questa gente, e se è più utile a noi e a loro convincersi della scelta della vita, e che qualcun altro si sostituisca a D'Urso".

A parte i missini, le cui posizioni sono scontate, restano soltanto i comunisti arroccati in un'intransigenza senza sbocco, e convinti tra l'altro che la decisione di chiusura dell'Asinara, nonostante le prove in contrario, confermi l'esistenza di una spaccatura nella maggioranza. "Comunque lo si osservi, l'episodio torna a proporre, da un lato, i fini veri degli eversori, e dall'altro l'esistenza di una divisione, di un disorientamento, di una confusione, forse di manovre politiche dentro la coalizione governativa. E' troppo chiedere una parola chiarificatrice che rassicuri gli italiani e tolga ogni illusione ai terroristi".

Sabato 27, in una conferenza stampa, Forlani azzera le polemiche ribadendo che la chiusura dell'Asinara, essendo già decisa da tempo, non compromette la fermezza di comportamento del governo; e a chi manifesta dubbi sulla scelta del momento, che configurerebbe l'adempimento come cedimento ad un ricatto, ribatte: "ritengo che nessuno di noi debba concorrere a ridurre le possibilità di salvare la vita di un uomo". Va da sé che non si possono escludere "giudizi di opportunità diversi in ordine ai tempi e alle modalità di certe comunicazioni, ma sottolineo il carattere autonomo delle decisioni del Governo: i provvedimenti erano già in corso di attuazione e continuano. Non c'è alcun collegamento tra le decisioni che sono state confermate ieri con la strategia complessiva contro il terrorismo". Né, infine, come più degli altri i comunisti avevano ipotizzato, l'iniziativa socialista incrina il fronte del governo: "il segretario del PSI ha espresso preoccupazioni comuni a tutti. Nel merito l'iniziativa socialista no

n contraddice gli impegni assunti dal Governo".

La rivolta di Trani

Il colpo di spugna sui contrasti nella maggioranza non frena a lungo l'emorragia polemica. A tirare la corda è l'opposizione comunista, che sfrutta le titubanze repubblicane nella speranza di farle esplodere. Lo sviluppo degli eventi all'esterno, che acquista ritmo sempre più incalzante col trascorrere dei giorni, fa il resto.

Il capogruppo comunista Di Giulio ritorna alla carica e giudica una ``concessione ai ricatti'' il comportamento del Governo; e Pecchioli aggiunge: "non convince proprio nessuno la dichiarazione del Governo che la decisione di chiudere il carcere dell'Asinara è stata assunta autonomamente". Il segretario repubblicano Spadolini, imbarazzatissimo, cerca di uscirsene per il rotto della cuffia: ribadisce la condanna ai socialisti per aver rotto "la linea del riservo", perché così ora "tutto è più difficile", ma nega un collegamento tra iniziativa del Governo e richieste dei brigatisti.

Il democristiano Piccoli scende in campo a favore del Governo molto più nettamente del giorno precedente, e ai comunisti pone questa domanda: "per quale oscura ragione si vuole riconoscere ai terroristi un'affermazione che non hanno avuta, indebolendo le ragioni del Governo?"; e lui stesso si risponde: "se il Governo non avesse dichiarato ciò che stava facendo, gli stessi critici d'oggi lo avrebbero accusato di aver trascurato un dovere fondamentale". Gli danno man forte Longo e Lagorio, il primo dicendo che "uno Stato democratico è forte se attua i suoi programmi senza lasciarsi intimorire dai terroristi", il secondo che "lo Stato democratico deve avere un volto umano, e faccia quello che ritiene giusto e doveroso fare. Il fatto che i terroristi sollevino la stessa questione non deve impedire allo Stato di compiere un gesto che lo Stato stesso considera un atto di giustizia".

Ma più che dalle polemiche, il 28 dicembre l'ambiente è messo a rumore da una successione di fatti che danno anche la sensazione di non essere episodici, anzi di preludere ad eventi sempre più drammatici. Nel supercarcere di Trani i detenuti si rivoltano prendendo in ostaggio 19 agenti di custodia, e contemporaneamente i rapitori di D'Urso diramano un quinto comunicato, con acclusa una lettera di D'Urso al direttore degli istituti penitenziari.

Con il quinto comunicato si comincia a profilare, sia pure indirettamente, la correlazione che le br pongono fra la sorte di D'Urso e le loro richieste.

La concessione con la rivolta nel supercarcere di Trani, che alcuni vi leggono, è frutto di interpretazione di talune espressioni che rientrano comunque nell'economia del contesto e di tutto il discorso delle Br a prescindere da quel riferimento.

Ribadita la necessità di una chiusura ``immediata e definitiva'' dell'Asinara, si afferma che ``il programma dei proletari prigionieri ha potuto essere così incisivo perché sono sorti gli organismi che lo hanno guidato'' e si aggiunge che ``l'iniziativa di partito'' è collegata al programma dei proletari prigionieri, ai quali si rivolge un appello affinché ``il movimento nelle carceri e le sue espressioni organizzate esprimano i termini del loro programma''. E' questa la frase che fa pensare alla connessione fra azione esterna dei brigatisti, culminata nel rapimento D'Urso, e la rivolta scoppiata a Trani. E' più convincente invece intenderla come un coinvolgimento nella vicenda D'Urso, a livello di protagonisti politici, dei terroristi detenuti e come indicazione dell'intento delle br di configurare il partito carcerario; elementi strategici del resto, tutt'altro che nuovi. In realtà le note salienti di quel comunicato sono due: la lettera di D'Urso che vi è acclusa, e che esplicitamente indica nella chiusur

a dell'Asinara la condizione per la sua sopravvivenza, e gli accenni alla decisione del Governo di smantellare quel carcere. Sono espressioni di diffidenza che suonano non come svalutazione dell'oggetto della delibera governativa ma come una richiesta di garanzie: non c'è da fidarsi delle ``promesse dello stato imperialista''; ``nei covi del potere c'è chi crede che sia possibile fare trucchi cinicamente con i comunicati equivoci'' (allusione al comunicato apocrifo).

Dalla missiva di D'Urso, indirizzata al direttore degli istituti penitenziari, Sisti, suo diretto superiore, sembrerebbe che il magistrato non sia ancora informato delle decisioni del Governo circa l'Asinara o che se ne mostri disinformato per invocarne l'esecuzione da chi detiene la responsabilità operativa. Il destinatario della lettera è sollecitato a muoversi speditamente: "poiché sarà consapevole che dalla chiusura definitiva della sezione speciale dipende la mia vita, sono certo che vorrà fare tutto quanto in suo potere per far sì che tale provvedimento possa essere realizzato nel breve tempo possibile. Del resto mi si dice che, in questi giorni, le richieste per la chiusura delle sezioni, da più parti arrivate, si sono fatte più incisive e numerose".

Ci sono - rileva D'Urso - per realizzare questo obiettivo vie "praticabili nell'ambito consentito dalla normativa vigente". E' noto del resto come il mantenimento delle strutture di quel carcere "abbia costituito per l'amministrazione un punto di tensione. Ciò sia per l'eccessivo allontanamento sentito dai detenuti dai luoghi dei propri affetti o dei propri interessi, sia privati che anche processuali, sia per le grandi difficoltà riscontrate dai familiari nel tenere frequenti rapporti con i ristretti, sia infine perché la posizione estremamente periferica del luogo, col rendere difficili controlli costanti, tempestivi e approfonditi, avrà potuto favorire applicazioni devianti della normativa penitenziaria". Mi pare quindi - conclude - "che una sollecita chiusura della sezione possa rispondere a ragioni di opportunità alla luce di criteri tecnico-penitenziari". Ma bisognerebbe anche - aggiunge il magistrato recependo esplicitamente una rivendicazione dei brigatisti, secondo la quale occorrerebbero "spazi di

espressione e lotta per i detenuti", contatti più frequenti tra prigionieri e mondo esterno - "bisognerebbe favorire frequenti visite alle carceri di giornalisti, ovvero consentire ai detenuti la trasmissione di comunicati che non siano di rilevanza penale o di pregiudizio alla sicurezza".

Secondo i comunisti l'insieme del comunicato starebbe ad indicare che i brigatisti non sono soddisfatti della decisione del Governo, e visto che c'è stato un primo ``cedimento'', ora ``alzano il prezzo''. Senonché l'acclusa lettera di D'Urso, diretta al dottor Sisti, ammesso, come è probabile, che sia stata revisionata dai carcerieri, non conferma né l'una né l'altra ipotesi.

Ma più che su questi due documenti l'obiettivo degli organi di stampa è puntato sulla rivolta di Trani. Le notizie circa la dinamica, le modalità e le motivazioni della rivolta sono scarse, o vogliono essere tali. I dati che sembrerebbero sicuramente acquisiti sono soltanto due: diciannove agenti sono tenuti in ostaggio dai detenuti, i quali chiedono di parlare, o ``trattare'', secondo alcuni, con la direzione del penitenziario e un sostituto della procura di Trani; e uno degli agenti è ferito. Infatti le cronache sono piuttosto rapide e approssimative, ed unanimemente volte a suggerire, in forma esplicita o meno, il ricorso alla maniera forte. La possibilità di una composizione indolore, di un riassorbimento pacifico, pur nella salvaguardia delle esigenze di sicurezza, tenuto anche conto che i detenuti in rivolta dispongono di mezzi di offesa rudimentali, non è minimamente presa in considerazione. E' l'occasione invece per compensare con gli interessi il cosiddetto ``cedimento'' avutosi con la decisione di

chiusura della sezione Fornelli dell'Asinara.

Il blitz

All'unisono con questi umori i fautori della ``fermezza'' esercitano una forte pressione per un intervento immediato. I repubblicani trasmettono tempestivamente una nota a palazzo Chigi di questo tenore: "un filo comune lega la rivolta di Trani al sequestro del giudice D'Urso. Nessun cedimento è concepibile in queste condizioni. Il limite toccato con la dichiarazione del Ministro della giustizia non può essere superato in nessun caso e per nessuna ragione". Di rincalzo Tina Anselmi, alla zaccagniniana, ripete con enfasi che "se si accede al principio che si deve trattare per uno, si deve trattare per chiunque altro. Ma allora si deve accettare che lo Stato sia sottoposto ogni ogni giorno al ricatto dei brigatisti". Forlani convoca un vertice d'emergenza con i ministri addetti alla sicurezza dello Stato, Rognoni, Sarti e Lagorio, e dopo una breve seduta decide, come si apprenderà in seguito, per l'intervento immediato a Trani con reparti speciali dei carabinieri. La decisione, naturalmente, è custodita dal pi

ù assoluto riserbo.

Siamo a lunedì 29 dicembre. L'Italia al ``Mundialito'' ha perso, e la tifoseria nazionale non punterebbe una lira sull'efficienza del paese. Alle 14 o poco più si conclude il vertice dei ministri della sicurezza, e qualche minuto dopo il Ministro Sarti detta il fonogramma col quale invita il direttore del carcere di Trani a richiedere "il necessario intervento delle forze dell'ordine". La risposta, nel senso desiderato, arriva in meno di un'ora. Scatta quindi l'operazione che segue un ``no'' secco alle possibili soluzioni per le vie normali alle quali potrebbero condurre i colloqui in corso in carcere tra detenuti rivoltosi, il giudice di sorveglianza Noviello e il senatore socialista Gaetano Scamarcio disponibili a ciò sul posto. I delegati dei rivoltosi, tra i quali non figura Toni Negri, hanno presentato due documenti, uno, noto già da domenica sera, contenente la richiesta più che altro programmatica di chiusura delle carceri speciali e abolizione del fermo di polizia, e un altro contenente richieste per

lo più previste dalla legge penitenziaria, come il ripristino della luce nel settore occupato, possibilità di acquistare cibo e giornali allo spaccio, la pubblicazione di due documenti e la possibilità di tenere una conferenza stampa. Da notare che alcune di queste richieste investivano prestazioni e concessioni dovute; rivelavano quindi un comportamento omissivo della controparte.

Ormai il carcere è una fortezza assediata. Il senatore Scamarcio e il deputato radicale Mimmo Pinto non possono fare altro che gli inerti spettatori dall'esterno.

Sono le 16,15 o poco più quando da tre elicotteri discendono sui terrazzi del carcere i famosi carabinieri del gruppo di intervento speciale (GIS), i quali si fanno strada a colpi di bombe al plastico, raffiche di mitra e colpi di pistola. Bastano meno di due ore per concludere l'operazione, battezzata abbreviatamente "blitz", per sottolinearne la rapidità e la obiettiva efficienza.

Il "Corriere della Sera" scrive testualmente in un sommario: "tutto si è risolto senza danno: ventisette feriti". Evidentemente, in quanto detenuti, questi feriti non rappresentano un danno. Comunque i dati sui feriti per il momento sono contraddittori; vedremo meglio, in seguito, che i feriti sono stati molto più di ventisette, ma i danni li hanno subiti nel dopobliz, ad ordine ristabilito e non durante l'operazione condotta dai carabinieri.

La correttezza con cui è stata condotta l'operazione dai carabinieri, con capacità ed efficienza intese a ristabilire nel carcere le condizioni di normalità, in nome e nel rispetto della legalità, viene celebrata ed idoleggiata da buona parte della stampa con esaltante compiacimento come manifestazione di pura forza e raffigurazione di vindice ``fermezza''. Dei Carabinieri del gruppo di intervento speciale (GIS) vengono descritti minuziosamente le superdoti e i supercorredi in armamenti e strumenti della tecnologia. Gli agenti ne risultano connotati come artificiali prodotti di un delirante laboratorio di perfezione genetica. L'equilibrio e l'efficienza dell'operazione vengono messi in risalto invece da un comunicato del gruppo parlamentare radicale.

In questo clima vengono sbandierate le dichiarazioni di Pertini che, tacendo sulla chiusura dell'Asinara, in quanto provvedimento amministrativo di competenza del Governo, sottolinea la differenza di comportamenti registrati sul caso Moro: ``con Moro si agì diversamente''. E aggiunge: ``Lo Stato non deve cedere; perché i terroristi non si accontenteranno di questa vittoria. Chiederanno altro''. Rincarando la dose avverte significativamente: "se dovessi finire sequestrato mia moglie e il Segretario generale del Quirinale renderanno pubblica una lettera in cui esprimo fermamente la mia volontà; nessuno dovrà patteggiare coi terroristi, sarà una faccenda tra me e loro".

Qualche ora prima dell'inizio del blitz era arrivato però il sesto comunicato brigatista, datato 29 dicembre, con allegato il comunicato numero 1 del ``Comitato di lotta dei proletari prigionieri di Trani'', recante questo la data del giorno precedente e giunto non si sa come nelle mani delle br. Che ci sia un collegamento tra terrorismo clandestino e terroristi detenuti è indubbio; dubbio appare che questo collegamento adombri una collaborazione operativa e decisionale, anche se a dare in qualche misura l'avallo a questa ipotesi concorrono gli stessi rapitori di D'Urso che egualmente inseguono il mito della forze e dell'efficienza, e sono rapidi nel cogliere ogni occasione che diffonda di loro una simile immagine.

Infatti nel comunicato n. 6, scritto alcune ore prima del blitz, si dice che la rivolta di Trani "dà la misura della grande unità e mobilitazione che il movimento dei proletari prigionieri ha raggiunto", con "al fianco incondizionatamente le brigate rosse", le quali "nella valutazione del proseguimento della battaglia iniziata con la cattura del boia D'Urso, si atterranno strettamente ai termini politici con cui i proletari prigionieri esprimono i loro bisogni".

L'intervento dei corpi speciali è tuttavia previsto, anzi prospettato in termini di sfida: "qualunque cosa il Governo sta tramando per reprimere le lotte dei proletari prigionieri a Trani, sappia che troverà un'immediata risposta anche dalle brigate rosse. Finora alle legittime richieste dei comitati di lotta il Governo ha risposto con la minaccia di fare intervenire i sicari dei corpi speciali. Questo oggi non vi sarà permesso impunemente". Segue pertanto un'intimazione che può suonare come una minaccia per D'Urso, a sostegno di una precisa richiesta: "i comunicati emessi da Trani e da Palmi devono essere pubblicati immediatamente e integralmente. Ciò che hanno da dire sul loro programma i proletari di questi due campi va raccolto dalla loro viva voce. Se quanto detto verrà disatteso, in tutto o in parte, trarremo la conclusione che la vostra politica omicida non ammette da parte delle forze rivoluzionarie alcuna esitazione: agiremo di conseguenza".

Le Br diffondono l'interrogatorio di D'Urso

Qualcosa nell'aria fa però presentire che i tempi incalzano. L'ansia di farla finita predispone anche al peggio. A mettere a rumore la mattinata del giorno di San Silvestro, è la notizia di un formidabile "scoop" del settimanale romano "L'Espresso": la pubblicazione nel successivo numero, che sarà in edicola sabato 3 gennaio 1981, del verbale d'interrogatorio del magistrato prigioniero, e di una intervista alle brigate rosse, articolata su 54 domande, che poi si ridurranno di parecchio, e soprattutto sembreranno più suggerite dagli intervistati che avanzate dagli intervistatori. Sono documenti eccezionali, dei quali il sostituto procuratore Nicolò Amato ha già preso visione, dopo di che ha sequestrato gli originali e si è riservato di approfondire le indagini per accertare secondo quali modalità e attraverso quali canali il giornale è venuto in possesso del prezioso materiale.

Secondo le prime informazioni alle 20,30 circa del 19 dicembre un anonimo ``delegato'' dei terroristi, dopo essersi fatto fissare un appuntamento per telefono, si sarebbe presentato a casa del redattore Gianpaolo Bultrini, per offrirsi come tramite, assicurando di esserne in grado, con le br, per ottenere il testo dell'interrogatorio di D'Urso e un'intervista. Bultrini, non occupandosi di terrorismo, telefona a Mario Scialoja per informarlo dell'offerta, così viene fissato tra i tre un appuntamento per il giorno dopo in piazza del Popolo, presso il bar Canova. L'incontro lascia Scialoja diffidente, quindi ne viene fissato un altro in piazza San Pietro; qui finalmente, sono consegnate all'ignoto emissario 54 domande che dovranno essere restituite con altrettante risposte dei brigatisti unitamente al famoso verbale.

La mattina del 30 dicembre Bultrini telefona trionfante a Scialoja in redazione per comunicargli di aver ``ricevuto posta''; poco dopo si presenta al giornale e rovescia sul tavolo, tra gli sguardi esterrefatti dei riceventi, uno spesso incartamento così suddiviso: 1) 13 cartelle costituenti la promessa intervista (le domande sono ridimensionate e adattate, si dice in redazione, ma in effetti traspare un rifacimento integrale, per cui più che di intervista occorrerebbe parlare di autointervista); 2) 33 fogli contenenti ``brani'' tratti dai primi interrogatori di D'Urso (come assicurano i mittenti in una nota di avvertenza a parte); 3) una copia della risoluzione strategica delle br datata ``ottobre 1980'' (data storica poiché indica l'obiettivo prioritario della nuova fase di lotta, del quale il rapimento del magistrato sarebbe il punto di più alta tensione); 4) copie ciclostilate dei primi cinque comunicati; 5) una nuova foto a colori del magistrato rapito. Il settimanale non ha dubbi sull'autenticità del m

ateriale e pubblica.

Questa, relativamente ai canali e alle modalità che avrebbero permesso a "L'Espresso" di entrare in possesso del materiale, la prima versione fornita all'opinione pubblica. E' probabile che lo stesso racconto sia stato fatto subito al magistrato recatosi al giornale per visionare il malloppo prima della pubblicazione.

Il testo dell'interrogatorio di D'Urso trasmesso all'"Espresso" conferma quanto già si sa attraverso precedenti comunicati brigatisti, nei quali si rivela che il prigioniero ``collabora'': il magistrato ha risposto senza resistenza - che d'altronde non avrebbe avuto senso, e forse sarebbe stata vana - alle domande che gli sono state rivolte da interroganti molto bene informati, illustrando i meccanismi burocratici che assumono e filtrano i provvedimenti di ``maggior sicurezza'', e fornendo anche i nomi, quando li conosce, dei diversi personaggi e funzionari scaglionati a lungo la linea verticale di gestione della vita carceraria. L'intervista, o autointervista, invece, è l'insieme, a parte gli accenni a episodi specifici, un breviario dell'ideologia e strategia delle brigate rosse, che però non presenta alcuna novità, se si esclude un'organizzazione più o meno sistematica dei concetti, rispetto alle teorizzazioni frantumate nella miriade di comunicati e messaggi già trasmessi.

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(fine prima parte)

Cyrus
21-03-10, 08:52
L'assassinio di Galvaligi

Ma non si fa in tempo ad occuparsi di questa ``clamorosa vicenda'', della quale, però, si dovrà riparlare prestissimo per la piega che prenderà sul piano giudiziario, che un altro più grave evento si abbatte sul Paese: l'assassinio del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, rivendicato cinquanta minuti dopo con questa secca telefonata al "Messaggero": "Qui brigate rosse. Abbiamo giustiziato il generale Enrico Galvaligi del coordinamento dei servizi di sicurezza delle carceri". Più tardi arriverà un'altra rivendicazione da parte di ``unità combattenti comuniste'', ma sarà subito scartata come falsa, e se ne avrà irrefutabile conferma con l'arrivo, alcune ore dopo, del volantino n. 7 del commando che ha rapito D'Urso.

La dinamica del crimine è di una semplicità strabiliante, ma rivelatrice di uno straordinario sangue freddo e di una sicurezza esecutiva dedotta da una scrupolosa messa a punto del piano. I due killer vanno a colpo sicuro, in veste di ``sprovveduti'', segno evidente che non temono di doversi scontrare con una scorta che il generale Galvaligi aveva sempre rifiutato. Usano il trucco più vecchio del mondo: fingendo di essere dei fattorini si presentano nell'abitazione del generale, in via Girolamo Segato 13, all'Ardeatino, per consegnare un pacco natalizio. Sono poco più delle ore 15. Il portiere li ferma dicendo che il generale non c'è, che rientrerà verso le 18,30. "Non importa - rispondono - effettueremo prima altre consegne e poi ritorneremo".

Alle 18,30, puntuali, si presentano con la stessa disinvoltura e con lo stesso pacco dal quale emergono colli di bottiglie di spumante, e involucri luminescenti di dolciumi. Il generale non è ancora rientrato; pazienza, aspetteranno, dovrebbe essere a minuti. Il generale, ma questo i killer forse non lo sanno, a quest'ora è con la moglie nella Chiesa di Santa Francesca Romana per assistere a una funzione e comunicarsi. I due coniugi sono di ritorno alle 19,15. Mentre il marito parcheggia, la signora si dirige verso la palazzina e si avvia per le scale. Pochi secondi dopo anche il generale infila l'androne della palazzina. A bloccarlo, umilmente, s'intende, come un subordinato, è il giovane con il pacco: ``generale Galvaligi?'' - chiede timido - ``ecco un omaggio per lei''. Sorpreso, ma in fondo lusingato, il generale fa per estrarre dalla tasca una moneta da dare in mancia, quando un colpo colpo di pistola proveniente dalla tasca dell'eskimo del donatore lo raggiunge alle gambe. Ormai ha capito; ma è troppo

tardi. In rapida successione lo raggiungono altre pallottole che lo fanno stramazzare al suolo. Il killer gli si avvicina, e come il capo di un plotone di esecuzione gli spara il colpo di grazia diretto al cuore.

L'operazione ha richiesto un paio di minuti. Sono le 19,18. Quando arrivano di lì a pochissimo polizia, carabinieri, ambulanze, magistrati, che in un batter d'occhio predispongono posti di blocco, controlli, pattugliamenti, e procedono a meticolose perquisizioni, è già tardi: dei killer neanche l'ombra. Tutto quel che resta è il volantino numero 7 delle br, nel quale si dice esplicitamente che l'assassinio del generale Galvaligi è la risposta al blitz di Trani. Si ammette che "il potere ha inferto duri colpi al movimento di classe"; ma proprio per questo "occorre sferrare colpi dieci volte maggiori e più terrificanti". "La battaglia iniziata con la cattura del boia D'Urso - conclude il comunicato - continua".

Poi cominciano le congetture: i killer erano soltanto due o c'era un terzo a distanza ad aspettare? Hanno sparato con un revolver di grosso calibro a tamburo, o disponevano addirittura della terribile Magnum? Come hanno fatto a sapere che il generale Galvaligi, mai ricorrente nelle cronache, e quasi nella clandestinità nonostante la rilevanza dei suoi compiti, era un personaggio chiave dei servizi di sicurezza carceraria?

Scialoja arrestato

Mentre i fattorini gironzolano con la loro strenna mortale intorno alla palazzina di Galvaligi, i magistrati della procura di Roma perquisiscono la sede dell'"Espresso" ed interrogano a lungo il direttore Livio Zanetti e il redattore Giampaolo Bultrini. Nella notte a Siusi, presso Ortisei, dov'era giunto da poche ore per trascorrere una breve vacanza di fine anno, Mario Scialoja è raggiunto da mandato di cattura nel quale gli si contestano i reati di favoreggiamento personale e falsa testimonianza. Sono le quattro del mattino quando vanno ad arrestarlo, dopo di che lo traducono a Bolzano e di qui proseguirà immediatamente per Roma.

Dalle motivazioni della cattura si deduce che il magistrato deve aver riscontrato la non veridicità della versione dei fatti fornita dal giornalista in ordine soprattutto al modo in cui aveva ottenuto il materiale e all'identità di chi glielo aveva consegnato; depistando di conseguenza o comunque intralciando le indagini e coprendo in qualche modo il mediatore con la falsa testimonianza resa. Poiché Bultrini in questa prima fase conferma il racconto del suo collega, a sua volta percorre la stessa strada delittuosa, e infatti pochi giorni dopo sarà anch'egli arrestato.

L'episodio "Espresso" sollecita vaste polemiche e pone corposi interrogativi in ordine all'esercizio della libertà di stampa, al dovere di informare la gente perché partecipi alla vita democratica in forza di giudizi autonomi, al comportamento della stampa di fronte al terrorismo. Ed è sull'onda di questo dibattito che comincia a prendere quota l'ipotesi di un black-out, di un rifiuto cioè a pubblicare oltre il limite dell'indispensabile notizie fornite dai terroristi, in conseguenza di una regola etico-professionale che dovrebbe indurre il giornalista a non informare o a farsi giudice delle opportunità dell'informazione.

La questione assumerà uno spessore altamente drammatico quando, più tardi, si saprà che dalla pubblicazione di due comunicati dei terroristi dipenderà la vita o la morte del giudice D'Urso e ci si chiederà se i giornali possono negare alla vita di un uomo molto meno di quanto l'"Espresso" ha concesso all'ambizione di uno "scoop" giornalistico e all'interesse di aumentare il proprio prestigio sul mercato e la conseguente resa economica in favore dei suoi azionisti (nel novero dei quali c'è il direttore del giornale ``La Repubblica'', Eugenio Scalfari).

La filosofia della ``fermezza'' dei repubblicani, o per meglio dire della enfatizzazione della ``fermezza'', che fa da puntuale contrappunto a quella comunista, assumendo anzi nei confronti della strategia del PCI un ruolo di avanscoperta, emerge ormai con sufficiente chiarezza: sul piano giuridico ripristino delle leggi fasciste, notevolmente peggiorate, con accantonamento della Costituzione; sul terreno amministrativo concessione di ampi poteri discrezionali alla polizia con accantonamento della preminenza delle funzioni del giudice; sul piano politico instaurazione della logica del puro scontro polizia-terrorismo e proiezione della eccezionalità del momento nei termini dell'``unità nazionale'' con accantonamento della dialettica democratica e dell'iniziativa politica. Il dramma di D'Urso assume in questo quadro di riferimento un valore subordinato e una funzione di pretesto, la responsabilità nei confronti della sopravvivenza del magistrato si esaurisce in una marginale concessione di pietà, l'eventuale m

orte di D'Urso si configura come un olocausto sull'altare della fermezza di uno Stato compromesso da trentacinque anni di malgoverno e incapace di fronteggiare il terrorismo con la forza della democrazia. La eventuale morte di D'Urso, come già quella di Moro, finisce con l'essere il segnale della fermezza, il costo ovvio del ``non cedimento'' a un terrorismo idoleggiato come un mito e neppure conosciuto se non per la teoria dei suoi assassinii e delle sue violenze.

L'assassinio del generale Galvaligi dà ovviamente fiato ai duri della linea della ``fermezza''. Il primo a scendere in campo è il socialdemocratico Longo, che chiede subito di ``provvedere con nuove leggi all'insufficienza di quelle che il libero Parlamento ha votato'' (il ``libero Parlamento'', giova ricordarlo, ha votato fermi di polizia su semplici ipotesi discrezionali di sospetto, dodici anni di carcerazione preventiva, facoltà di rastrellamento ecc.). Il repubblicano Spadolini ammonisce che la democrazia non potrebbe sopravvivere su una linea di cedimenti.

Sono già trascorsi tre giorni dall'assassinio di Galvaligi, e tre giorni, con i tempi che corrono, possono bastare per un "parce sepulto".

I blitz non era ``pulito''?

Mentre si riordinano le carte per gli appuntamenti a breve, comincia però ad apprendersi che il blitz di Trani è stato tutt'altro che indolore. La prima denuncia si ha in un filo diretto del 4 gennaio di Radio Radicale, condotto in studio da Franco Roccella. Da Milano telefona la convivente di Vaccher, del comitato dei familiari dei detenuti del carcere di Trani, dice di chiamarsi Daniela, rifiutandosi di rivelare il suo cognome. Chiede di leggere, e le è consentito, il seguente appello: "i familiari dei detenuti del carcere di Trani fanno appello per sollecitare l'immediato intervento della commissione medica esterna perché verifichi direttamente l'attuale condizione fisica dei detenuti dopo la rivolta avvenuto domenica 28 dicembre". Le notizie finora raccolte, prosegue Daniela, "parlano di torture, di pesanti pestaggi subiti indistintamente da tutti. Sappiamo che molti dei nostri sono stati presi e torturati, e molti hanno subito trauma cranico. Maria, ad esempio, ha dieci punti in testa; un altro ha le di

ta delle mani fratturate, Mastropasqua ha mani e polsi fratturati, Baumgartner ha il setto nasale fratturato. Comunque non sono i soli, perché sono stati tutti pestati. Io vi ho fatto soltanto gli esempi di quelli che sappiamo con certezza, però ce ne sono altri. Sapete ad opera di chi è stato questo?". E Daniela ipotizza che potrebbero essere stati sia i carabinieri dei reparti d'assalto sia successivamente le guardie carcerarie per rappresaglia, ma specifica di non avere in proposito alcuna notizia. Tuttavia, chiarisce, l'appello da lei lanciato deve servire soltanto a tranquillizzare i familiari. Alcuni di questi, relativamente a tre detenuti, sono stati autorizzati a visitare i loro congiunti, ma li hanno visti soltanto per cinque minuti attraverso un vetro, né hanno potuto comunicare non funzionando i citofoni. Comunque, anche questi tre avevano ferite alla testa e occhi pesti, e sono stati loro a far capire che tutti gli altri erano nelle stesse condizioni.

Il racconto di Daniela riverbera una nuova luce sul blitz di Trani, un aspetto sicuramente da accertare, come sottolineano subito Marco Pannella, che interviene nella trasmissione, e lo stesso Franco Roccella.

I parlamentari del PR avevano già in programma una visita a Trani; sulla spinta di questa notizia vi si recheranno subito, è loro ``dovere'', tanto più in quanto il Gruppo parlamentare radicale aveva con un comunicato elogiato il comportamento dei carabinieri nel blitz, cogliendo in esso il valore di un raro esempio di efficienza dello Stato democratico. E' necessario ora accertare non soltanto se le violenze ci siano effettivamente state, come sembra fuori discussione, essendo da escludere che il racconto di Daniela sia frutto di pura fantasia, ma come, quando e da chi tali violenze sono state compiute.

"Certo - osserva Pannella - quello che dice il comitato dei familiari dei detenuti di Trani non può essere ovviamente inventato, e sarebbe ancora più preoccupante nel caso in cui si accertasse che i carabinieri nel blitz non hanno operato queste violenze, perché dimostrerebbe che le violenze sono state usate a freddo, quindi sono soltanto punitive e vendicative. Il che è inammissibile, perché non si pesta la gente, chiunque essa sia, non si pesta in nessun caso, anche perché sarebbe una stupidaggine e oltretutto un gravissimo errore politico. In ogni caso noi opereremo la verifica recandoci a Trani: ripeto, è un nostro dovere".

D'Urso condannato a morte

E' a questo punto della trasmissione che giunge improvvisamente un dispaccio "ANSA" con questa drammatica e angosciante notizia: le brigate rosse, con il comunicato numero 8, annunciano di aver condannato a morte il magistrato rapito il 12 dicembre scorso, aggiungendo che eventualmente l'esecuzione potrà essere sospesa ``se non sarà impedito al comitato dei prigionieri di Trani, al comitato di campo dei prigionieri di Palmi, di esprimere integralmente, senza censurare neanche le virgole, le loro valutazioni politiche e il loro giudizio. Questo vogliamo sentirlo dai vostri strumenti radio-televisivi, leggerlo sui maggiori quotidiani italiani, così come avevano chiesto i proletari di lotta di Trani''.

I brigatisti spiegano che "la condanna a morte del boia D'Urso è un atto necessario di giustizia proletaria, ed è anche il più altro atto di umanità che questo regime ci consente". Tuttavia, aggiungono, se "la condanna a morte di D'Urso è sicuramente giusta, l'opportunità di eseguirla o di sospenderla deve essere valutata politicamente. Questo spetta, oltre alle br, esclusivamente agli organismi di massa rivoluzionari dentro le carceri". Significativamente, poi, dopo l'enunciazione dell'ipotesi di sospensione della pena, si rivolge un appello "a chi tra le file della borghesia ha ancora un minimo di ragionevolezza". Né lo Stato né il governo sono chiamati in causa, dipendendo dagli organi di stampa, ufficialmente o teoricamente non governativi, benché dalla loro omogeneità al regime traggano i miliardi per coprire i passivi che allegramente accumulano, la pubblicazione o meno dei documenti dei comitati dei prigionieri di Trani e Palmi.

Il comunicato numero otto modifica la ``motivazione'' della condanna del magistrato prigioniero: D'Urso "ha confermato il ruolo infame di massacratore di proletari. Di fronte alla morte fisica e politica di centinaia di proletari prigionieri che D'Urso ha cinicamente perseguito in questi anni, e alla piena consapevolezza che aveva del suo ruolo, la sentenza non può che essere di condanna a morte".

L'alibi delle ``farneticazioni''

E' normale, per tutti gli organi di stampa ed anche per la gran maggioranza di parlamentari ed esponenti dei partiti di Governo, o dell'opposizione comunista, liquidare i comunicati dei brigatisti definendoli ``deliranti'', ``farneticanti'', ``allucinanti''; e in realtà lo sono, ma il delirio di quelle parole e argomentazioni non può essere un facile e sbrigativo espediente per assolversi dall'impegno politico di conoscenza, di intelligenza e di iniziativa, nei confronti del terrorismo rifugiandosi nell'indignazione, né può essere un alibi per coprire i guasti morali e politici che in questo Paese hanno concorso alla sollecitazione del terrorismo e vi concorrono ancora, e per coprire sia le responsabilità che questi guasti comportano sia la responsabilità di perpetuarli.

Quel delirio non può costituire il tetto sotto il quale far passare l'omissione della democrazia o addirittura norme, comportamenti e miti antidemocratici, compensativi dell'incapacità di dar forza reale alla democrazia. Adoperando in questo senso è un ricatto che coincide con il ricatto del terrorismo.

Nel caso specifico le farneticazioni dei terroristi e le loro violenze sono state adoperate per sommergere nell'ombra uno scenario carcerario che costituisce da sempre un problema di riforma, uno scenario dell'amministrazione della giustizia che da sempre pone un problema di intervento, uno stato del processo penale che si è ritenuto unanimemente di dover profondamente correggere con una riforma che giace da anni ed anni negli scaffali delle commissioni parlamentari, provvedendovi invece con il varo di singoli leggi mutuate dal fascismo. Se si allarga il discorso ci si imbatte nella cosiddetta ``questione morale'' e nella sciagurata mistificazione di darla per risolta perché posta. Tutto questo spiega in parte ma non giustifica il terrorismo; ma è anche vero che il terrorismo non può giustificare l'ignavia, gli errori, le colpe, le omissioni della classe politica, né può essere addotto a giustificazione il ricatto terroristico.

L'enfatizzazione del ricatto e l'invocazione di leggi speciali sono i temi ricorrenti nelle dichiarazioni del mondo politico sul comunicato numero otto. Il segretario democristiano Piccoli dichiara subito al "Corriere": ``Siamo dinanzi al più grave e inaccettabile dei ricatti''. Il segretario repubblicano Spadolini: ``Ricatto inaccettabile e mostruoso''. Il socialdemocratico Longo: ``Nella nuova fase di attacco dei brigatisti rossi, riconfermiamo il nostro indirizzo di sempre: lotta fino in fondo e con tutti i mezzi nei confronti del terrorismo, anche adottando quei provvedimenti eccezionali che risultassero necessari''. E i comunisti: "si punta alla resa della Repubblica", scrivono sull'"Unità". Quindi con sottintesa allusione ai radicali, ed anche ai socialisti, in quanto hanno voluto l'"atto dovuto", si sbilancia in una fosca minaccia: "tante cose dovranno essere chiarite a cominciare dai prossimi dibattiti parlamentari. Ci basti dire ora che l'eversione ha talmente alzato il suo mirino da far pesare l'om

bra del tradimento su qualsiasi incertezza o calcolo furbesco". Le br "pensano alla ripresa, all'allargarsi del partito del cedimento. Chi ha dato loro una simile speranza?".

Il black-out della stampa

Siamo al 5 gennaio. Comincia alla Commissione giustizia e interni del Senato, riunite in seduta congiunta, il dibattito sul terrorismo. Il Ministro della giustizia Sarti, illustrando a nome del Governo la risposta ufficiale da dare al comunicato numero 8 delle br, afferma a sua volta: "le sinistre procedure proposte dai terroristi non hanno alcuna possibilità di essere accettate e stanno soltanto a testimoniare la criminale pretestuosità della loro ideazione"; in più i brigatisti chiamando in causa i ``terroristi'' di Trani e Palmi, "intendono caricare sulle spalle di detenuti per crimini nefandi anche la responsabilità di concorrere nell'assassinio del giudice D'Urso".

Contemporaneamente, capitanati dal quotidiano romano "Il Tempo", che rivendica in questa direzione con orgoglio la leadership, e dal montanelliano "Giornale Nuovo", gli organi di stampa e perfino la RAI, decidono ``il completo silenzio stampa sulle richieste dei terroristi rapitori di D'Urso''. E' il "black-out", nel momento in cui il silenzio stampa appare decisivo per la vita di D'Urso. "Al black-out" dà la sua adesione "Il Corriere della Sera" che adopera per primo l'espressione inglese. Non mancano i giornali che si dissociano; lo fanno il "Messaggero", l'"Avanti" e più tardi altre testate; ma lo schieramento è abbastanza massiccio; vi partecipa la maggioranza delle testate saltando a piè pari l'obbligo dell'informazione che non si assolve né fermamente né mollemente, si assolve e basta, senza limitazioni che non siano quelle della correttezza, o verità, della notizia e di una facoltà di critica in ogni direzione. L'ideologo per eccellenza di questa linea di fermezza che investe indifferentemente Governo

, società politica e giornali, che trasferisce anzi ai giornali la fermezza chiesta al Governo e alle forze politiche, è il repubblicano senatore a vita Leo Valiani. In un editoriale sul "Corriere della Sera", collocato proprio sotto il comunicato con cui il giornale annuncia la sua ``macerata'' decisione del silenzio stampa, il vecchio senatore repubblicano così scrive: ``sono ammiratore degli argomenti di Beccaria contro la pena di morte e la tortura. Ma ciò non significa la rinuncia alla durezza nella repressione delle bande di assassini''.

Ed ecco la ``fermezza'' in spiccioli: 1) il fermo e l'interrogatorio di polizia, del quale bisogna fare frequente uso per impacchettare, individuare, perquisire, sorvegliare telefonicamente, pedinare le centinaia di violenti che inscenano manifestazioni eversive; 2) aumentare i termini massimi dell'istruttoria sommaria e della custodia preventiva; 3) ``i procedimenti nei confronti di costoro dovrebbero essere concentrati in poche sedi giudiziarie affinché i magistrati inquirenti e giudicanti abbiano una visione globale, nazionale...''.

Si può pensare o dire quello che si vuole di Valiani, e degli organi di stampa, "Corriere della Sera" in testa, che mostrano di condividerne le dottrine; ma il merito di un così crudo "strap-tease" della ``fermezza'' bisogna riconoscerglielo.

Il black-out emerge emerge nel momento in cui si indurisce, sino ad assumere una carica ricattatoria, la posizione della ``fermezza'': al di là di essa c'è solo il cedimento, che si risolve nella complicità con il terrorismo. La motivazione che giustifica il silenzio stampa è tutta mutuata dalle motivazioni addotte dai protagonisti politici della ``fermezza'', che chiedono di opporre alla violenza dei terroristi la violenza dello Stato, che assumono il rifiuto di chiudere l'Asinara come contrapposto alla richiesta brigatista di chiuderlo, così che l'Asinara diventa al tempo stesso simbolo della forza delle br e simbolo della fermezza dello Stato.

Leo Valiani ha invocato sul "Corriere" un comportamento della magistratura che, a prescindere dagli elementi di indizio e di prova, non proceda a troppi proscioglimenti di ``presunti terroristi'', non conceda libertà provvisorie, pronunci sempre e comunque condanne onerose, faccia valere la giustizia non istruendo con alacrità i processi ed emettendo tempestive sentenze, ma utilizzando la più lunga durata possibile della carcerazione preventiva che, allo stato dei fatti, può trascinarsi per dodici anni anche nel caso di ipotesi di condanna a un periodo di carcerazione notevolmente breve. Una magistratura, cioè, che non amministri giustizia ma ``guerra'' al terrorismo senza preoccupazioni di giustizia. Per la polizia, sempre Valiani, invoca mani libere nell'uso del potere di prevenzione, del fermo di polizia, degli interrogatori e delle schedature, al riparo da ogni controllo della magistratura e con piena licenza di agire al di fuori di una strategia democratica dell'ordine pubblico.

Altra voce della fermezza è quella del senatore comunista Pecchioli: ``In questo momento nessuna pretesa dei terroristi può essere presa in considerazione'', nessun atto e gesto deve essere compiuto che possa essere inteso come ``una forma di riconoscimento politico delle br, da parte dello Stato'', qualunque sia, ovviamente, il prezzo che questo ``rifiuto'' comporta.

Le tesi della fermezza poggiano su un insistente riferimento al caso Moro: ``la DC - ha scritto Spadolini - non può oscillare. Essa resisté con coraggio nei 54 terribili giorni della detenzione di Moro... Pagò un prezzo elevato ma tale da consentirle di conservare il diritto alla guida del Governo... La democrazia laica fu altrettanto ed esemplarmente ferma. I comunisti non hanno cambiato opinione''. Il riferimento è eloquente; non importa se l'esemplare fermezza di allora comportò la morte di Moro (il ``prezzo elevato''); non importa se l'esemplare fermezza di oggi potrà comportare un prezzo analogo (la morte di D'Urso).

Questa esigenza pregiudiziale di opporre al terrorismo un atteggiamento di ``fermezza'' indifferente ai contenuti che esso assume è la stessa che si pone alla base del black-out. Non importa se con il silenzio stampa i giornali tradiscono il loro dovere di informare lasciando agli informati l'autonomia e la responsabilità esclusive di un libero giudizio, che si pone in rapporto dialettico con i giudizi e gli orientamenti della classe politica, non importa se l'informazione è il primo fra gli ``atti giusti dovuti'' (chiusura dell'Asinara, liberazione di Faina) non ai terroristi ma alla democrazia; importa che si dia comunque luogo ad una risposta al terrorismo. Il black-out nasce cioè come integrazione e proiezione della politica della fermezza e non da un travaglio dei giornalisti. Che non c'è stato. Tanto è vero che sin qui (caso Moro compreso) i giornali hanno pubblicato con straordinaria ampiezza notizie e resoconti sul terrorismo, senza limitazione alcuna, con avidità, anzi, tutta ``giornalistica''; tant

o è vero che la pubblicazione dell'interrogatorio di Giovanni D'Urso sull'"Espresso" non suscita immediate reazioni negative, ne suscita, solo dopo, di mediate, in conseguenza delle condanne pronunciate dagli esponenti politici della fermezza; tanto è vero che di fronte a quel colpo giornalistico dell'"Espresso", "Repubblica" analizza minuziosamente l'interrogatorio mostrando di apprezzarne il valore documentario (``per la prima volta le br parlano, con simile ampiezza...'') e quindi la pubblicazione; tanto è vero che lo stesso giornale ("Repubblica") prendendo le distanze dal settimanale dopo l'arresto di Scialoja, lo fa esprimendo riserve, per altro blande (``ci dispiace che non l'abbiano fatto''), di opportunità (non dovere) morale (opportuno sarebbe stato che i giornalisti dell'"Espresso" avessero messo la polizia su ``una traccia'' delle br) affrettandosi tuttavia a precisare che Scialoja e Bultrini non sono ``perseguibili'' dal ``punto di vista giuridico'' né sono ``criticabili dal punto di vista della

deontologia professionale''; tanto è vero che Eugenio Scalfari si precipita alla sede dell'"Espresso" per festeggiare con un brindisi lo scoop.

Il black-out dunque nasce improvvisamente, contraddicendo il comportamento che la stampa ha sempre e costantemente tenuto, proprio quando la partita si gioca sulla vita di un uomo e mettendo in conto l'ipotesi della sua morte. Avrà buon gioco la signora D'Urso nel chiedere ai giornali, che negano ogni spazio ai due documenti di cui le br hanno chiesto la pubblicazione, se due colonne di piombo possono valere la vita di un uomo; ha ragione Franca D'Urso dal momento che ai terroristi si nega spazio soltanto ora, quando questo diniego comporta la morte del marito. E' Giovanni D'Urso e non le br che paga il black-out, ed è la libertà di stampa, non le br, che lo subisce. (*)

(*) Per un resoconto esauriente del comportamento della stampa rinviamo ad altra parte del volume dedicata specificatamente a questo argomento.

Mentre un coro di voci plaude al "black-out" proclamato dai giornali (o dai giornali del sistema assistenziale e di lottizzazione) Pannella tiene una conferenza stampa per illustrare la posizione del Gruppo radicale, in coincidenza con la partenza per Trani di una delegazione di parlamentari del partito al fine di procedere ai seguenti adempimenti, come è stato concordato in due precedenti riunioni, la sera del 4 gennaio nella sede di Radio Radicale e la mattina del 5 nella sede del Gruppo parlamentare: 1) accertare nell'ambito rigoroso dell'art. 67 della legge 26 luglio 1975, n. 354, le condizioni del carcere e quelle dei detenuti dopo la rivolta sedata dall'intervento dei GIS il 28 dicembre 1980; 2) rendersi interpreti, se ne fosse rilevata la necessità, delle voci dei detenuti, nel rigoroso ambito della norma citata.

``La nostra posizione è diversa'' - dice Pannella nella sua conferenza stampa - ``da non violenti riteniamo che non si debba mai, in nessuna forma, collaborare o offrire omaggio di qualsiasi tipo alla violenza; di conseguenza ribadiamo che le posizioni trattativiste, come le altre cosiddette dure, di fermezza, furono i due volti della stessa politica che portò all'assassinio di Moro e che continua a provocare lo sfascio dello Stato. La democrazia è anche una questione di procedura, e sin dal primo giorno del caso Moro, ma anche da prima, noi dicemmo che il problema innanzi tutto è di rispettare le responsabilità e gli alvei costituzionali per arrivare alla formazione delle volontà politiche dello Stato e dei governi, nonché dell'amministrazione dello Stato in tutti i suoi momenti. Meno che mai, quindi, di fronte a violenze o assassini, lo Stato può eludere e cedere sulle sue leggi''.

Invece, prosegue Pannella, ``si è creata nel nostro paese una situazione mostruosa, in modo particolare attraverso le politiche di unità nazionale fra il '76 e il '79, che hanno messo sempre più duramente fuori legge lo Stato. Settori fondamentali, come quello della giustizia, lo abbiamo difeso palmo a palmo contro i rigurgiti feroci e giacobini di sfascio, che venivano in particolare assicurati grazie all'efficienza del partito comunista nel nostro Parlamento; abbiamo lottato palmo a palmo contro l'imbarbarimento ulteriore delle nostre leggi e delle nostre strutture. Alle "realpolitik" dei difensori delle leggi Reale e altre, ai difensori cossighiani e pecchioliani, strettamente uniti nel sabotaggio della riforma carceraria e di ogni altra indicazione tardiva e inadeguata nata con il centro-sinistra, noi opponemmo e opponevamo che lo Stato non avrebbe potuto che raccogliere altra violenza, e che i riflessi autoritari ed efficientistici in realtà stavano producendo lo sfascio del diritto e della giustizia''.

Pannella illustra ancora il senso del dialogo da lui proposto ("noi dialoghiamo ogni giorno, con la nostra vita, il nostro mestiere di non violenti e di parlamentari, con questo Stato, perché la legge e il diritto siano rispettati; vogliamo dialogare con le br nello stesso modo''), che in riferimento al comunicato numero 8 delle br potrebbe essere questo (illustrativo anche delle ragioni della visita di parlamentari radicali a Trani): "le br, con tale comunicato, sembrano farsi carico di un diritto, come scrisse Moro dal carcere, e credo giustamente abbia ricordato D'Urso, ed è il diritto pieno, nell'ambito del rispetto della legge e del codice penale, del detenuto, di esprimere il proprio pensiero, di manifestare le proprie idee, di informare sulle condizioni carcerarie; e questo il detenuto deve farlo, anche quando ha paura di farlo, poiché è un diritto che ha conquistato, e non una licenza che gli si elargisce. Bene, diciamo alle br, non abbiamo difficoltà, fino a prova contraria, nel credere in quello ch

e diciamo, e i delegati radicali si fanno carico dei diritti di Trani e di Palmi".

Ed è significativo, secondo Pannella, che in realtà la decisione di una verifica nelle carceri di Trani e Palmi è venuta molto prima del comunicato numero 8 delle br, in coincidenza con la telefonata della giovane Daniela che denunciava le gravi violenze sui detenuti di Trani, durante o dopo il blitz. La visita, specificamente prospettata immediatamente dopo, rientra del resto nel programma di visita alle carceri già deciso dal Gruppo radicale. Dopo la telefonata di Daniela se ne anticipano solamente i tempi e se ne precisa la duplice finalità, come si evince chiaramente dal comunicato che annuncia la partenza per Trani della delegazione radicale: accertare se davvero i detenuti avevano subito violenze, e come, dove, quando e da chi, nonché se dopo erano stati almeno curati; conoscere dai detenuti stessi quali fossero le loro istanze in ordine ai loro diritti, di carcerati, certo, ma comunque egualmente diritti costituzionalmente sanciti, in quanto diritti umani inalienabili.

Né fa da ostacolo a questa impostazione l'insistenza delle br sulle perversità del trattamento differenziato nelle carceri, sì da apparire che questo per loro sia il punto più importante, poiché anche al riguardo, dice Pannella, i radicali hanno preceduto di parecchio le br. "Noi siamo stati sempre contrari ai trattamenti differenziati - spiega - anche perché semplicemente non capiamo come mai il Governo debba garantire unità di tempo e di spazio alle organizzazioni terroristiche, cioè organizzare direttamente le brigate in carcere".

Fra il pubblico che assiste alla conferenza stampa ci sono Paola Negri, mogli di Toni, e la moglie di Baumgartner, l'autonomo condannato con Pifano per il trasporto del missile. In particolare Paola Negri ha ricordato che suo marito è stato selvaggiamente picchiato, nonché che concordemente, gran parte della stampa, ha tentato di farlo passare come il capo o l'organizzatore della rivolta. La moglie di Baumgartner, invece, segnala che nelle carceri esiste un ambiente composito, un arco di orientamenti politici differenziato, ed anche per questo la visita dei radicali è quanto mai opportuna. Le br - dice - non possono appropriarsi della leadership di tutti i detenuti.

Analogo giudizio esprime il vicesegretario liberale Biondi, benché mantenga riserve formali, non di sostanza, sulla singolarità e sui modi sorprendenti di maturazione e formazione delle decisioni e iniziativa radicali. "I radicali - egli dice - si muovono su posizioni e con iniziative particolari, sicché non stupisce che dal loro punto di vista la provocazione obbedisca a criteri anche importanti e tali da smascherare la propaganda delle br con una contropropaganda di stampa, appunto, radicale". Egli riconosce che l'odierna iniziativa è "una specie di contropiede politico e istituzionale in un paese dove il ritardo e la stagnazione sono regole. Gli stimoli radicali possono stupire, ma come liberale non sono di quelli che si indignano".

(continua al testo n. 1770)

Cyrus
21-03-10, 08:54
Archivio Partito radicale
Capecelatro Ennio, Roccella Franco - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (2ter) I 33 giorni (terza parte)
di Ennio Capelcelatro e Franco Roccella

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

(terza parte - segue dal testo n.1769)

Perché il silenzio stampa

Frattanto i giornali fanno a gara nel mantenimento di un rigoroso silenzio stampa e nel dar voce ai predicatori della fermezza. E' importante conoscere le motivazioni che i loro stessi direttori danno al "black-out" adottato. "Al di là di tante discussioni sui pericoli di amplificare attraverso i mass media i poteri ricattatori e la propaganda dell'eversione - dice Di Bella direttore del "Corriere" - le ultime mosse delle br dimostrano ormai, in modo indiscutibile, che l'obiettivo è proprio quello di guadagnare spazio sui giornali e alla televisione per recuperare il terreno perduto con gli arresti e le defezioni". Non molto diversamente Indro Montanelli, direttore del "Giornale Nuovo": "il comunicato delle br, nel quale si pongono le condizioni per liberare il giudice D'Urso, dopo averlo condannato a morte, fa capire quale sia il reale obiettivo del terrorismo: servirsi dei mass media per enfatizzare le sue imprese".

Ai lettori di questi e degli altri giornali del black-out si dice che i comunicati ed i messaggi delle br sono ``farneticazioni'', ``allucinazioni'' (e lo sono indubbiamente per le argomentazioni con cui esaltano l'assassinio e la violenza) ma al tempo stesso si impedisce loro di rendersene direttamente conto privandoli della lettura di quei testi nel timore che le br guadagnino spazio, si facciano pubblicità, in una parola convincano. E non si riflette che se così fosse, se davvero la semplice pubblicazione di due documenti dei terroristi comportasse l'ipotesi di un coinvolgimento della gente, allora non ci sarebbe scampo, bisognerebbe concludere che la democrazia è già finita lì dove vive in prima istanza, nella coscienza popolare; oppure concludere che, al di qua della violenza, ai terroristi in quanto protagonisti, sia pure assassini, della protesta qualche ragione andrebbe riconosciuta.

Nell'un caso o nell'altro, nel caso cioè che la qualità di quei messaggi si esaurisca nella farneticazione o che abbia qualche forza di persuasione, non ci sono ragioni valide per negarne la conoscenza alla gente che ha il diritto di confermare l'uno o l'altro giudizio, vanificando ogni ``valore'' di quei documenti se ne riconosce la sciagurata vanità, o cogliendone i motivi di meditazione. Nell'uno e nell'altro caso se ne avvantaggerebbe la lotta la terrorismo, che si avvarrebbe del rigetto di quella assurda violenza nella coscienza popolare o recupererebbe una riflessione preziosa in ordine alla forza democratica da opporre alla violenza terrorista.

E non è valida la precauzione di non far giungere ai giovani una suggestione pericolosa. Se questa suggestione dovesse incontrare qualche disponibilità, da parte di giovani che sappiamo esasperati dalla refrattarietà di una società politica e di una gestione del potere che non rispondono alla loro richiesta di esistenza e di libertà, o peggio che vi rispondono con l'ingiustizia, la corruzione, la falsificazione, le mistificazioni sistematiche, allora la pubblicazione di quei testi è un rischio obbligato per una democrazia che voglia misurarsi con se stessa iniziando dal solo punto di partenza credibile e convincente: la verità e il vaglio delle responsabilità. Né è lecito disperare che nella gente, di qualunque età e di qualunque livello sociale, si attutisca l'orrore per la violenza e la consapevolezza della sua tragica inutilità, quando vi sia una società politica che ne rispetti e ne ricerchi la coscienza umana e civile, mettendo in gioco se stessa nella professione di fiducia nei valori della non violenz

a, della verità, della onestà morale, intellettuale, politica. La preoccupazione di salvare la vita di D'Urso, la vita di un uomo, di rifiutarne l'olocausto, sarebbe stato un segno di questa autenticità e di questo affidamento nei valori democratici; un segno di forza. Con la pubblicazione di questi testi, intesa a salvare una vita, si sarebbe notificato il rispetto di quei valori, la disponibilità della democrazia a fare i conti non con le br, ma con se stessa e la coscienza di sé in quanto democrazia.

Non c'è dubbio che il terrorismo pone alla società civile e politica una domanda urgente e pressante: quale Stato, quale democrazia. Il terrorismo cioè ci pone di fronte ad una scelta senza scampo: scegliere quale Stato e quale democrazia, quali valori, istituti, comportamenti intendiamo opporre all'inammissibile violenza dell'assassinio, delle gambizzazioni, dei sequestri, se intendiamo la vittoria sul terrorismo come rafforzamento della civiltà democratica e come vittoria di valori, per loro natura coinvolgenti, sulla negazione dei valori. Sono lontani certamente da questi convincimenti le parole che il Presidente del Consiglio pronuncia nel corso di una cerimonia presso la scuola allievi ufficiali di via Arenula, a Roma, per l'inaugurazione di un corso per capitani dei carabinieri. Ad introdurre il discorso è il generale Cappuzzo, che con molto senso della misura fa rilevare che per la lotta al terrorismo, non basta la repressione, che quella lotta ``richiede un approccio strategico di natura globale'', c

he è necessario ``recuperare i consensi di quella frangia di giovani alla quale l'eversione attinge i suoi adepti'' e chiaramente recuperarli con una politica. Le parole del generale Cappuzzo risultano tanto più significative in quanto si contrappongono a quanto detto da Forlani che sembra trasferire all'arma dei carabinieri titoli e responsabilità di governo del paese.

Frattanto a denunziare le scelte della maggioranza della fermezza, che ha proceduto con coerenza dalla legge Reale (la legge che ha concesso alla polizia licenza di sparare), interviene un tragico fatto che non è nuovo nella cronaca della vita di tutti i giorni e agisce perciò, presso la pubblica opinione, come sciagurata conferma. Una giovane donna di 28 anni, sposata solo da quattro mesi, Laura Rendina, è stata ammazzata a un posto di blocco non avendo obbedito all'alt perché spaventata dall'intimazione. Salgono così a 85 le vittime di ``incidenti'' analoghi. ``Se qualcuno ha sbagliato - assicura il Viminale in relazione alla giovane uccisa - pagherà''. Ma l'assicurazione non convince, essendo anch'essa una consunta ripetizione che ha accompagnato, senza avere avuto sin qui alcun seguito, tutti gli ``incidenti'' del genere.

E tuttavia lo schieramento della fermezza invoca più che mai la logica dello stato di guerra contro le br (ma Almirante ne invoca coerentemente l'effettiva proclamazione) sulla spinta di una frase pronunciata dal Capo dello Stato ancor prima del rapimento del giudice D'Urso e ripresa in Parlamento dalla Presidenza della Camera, ponendo il fenomeno delle br, così enfatizzato, al centro della vita del paese.

``E' nel nome di questa guerra - commenta il 6 gennaio Pannella in una intervista apparsa sul "Messaggero" - che ormai si fanno e si disfanno governi e maggioranza, si misurano successi e insuccessi, si fanno delegare parole e immagini, attraverso la televisione e i mass-media, nelle case degli italiani. E' nel nome di questa guerra e delle sue pretese esigenze che si fanno leggi e si disfanno, che si fanno e si rinnegano scelte di civiltà giuridica''. E aggiunge: ``In un mondo in cui a tre ore d'aereo da Roma stanno agonizzando, perché gli si nega il cibo, una decina di milioni di bambini e di vecchi, di donne e di uomini, in un paese in cui a tre ore di macchina da Roma sono morti in migliaia, uccisi in piccola parte dal terremoto e in grandissima parte dalla mancata difesa dal terremoto e dal mancato soccorso, in questo mondo posti al centro della Repubblica gli assassini di meno di quaranta persone nel 1980. Per quale aberrazione?''. Al rilancio dell'interrogativo da parte dell'intervistatore Pannella ri

sponde: ``La causa profonda è che la cultura dominante, ad un tempo e per giustapposizione cattolica e comunista, ``antifascista'' e fascista, ritiene l'assassinio politico, o religioso, o bellico, ``naturale'', o a suo modo più ``nobile'' dell'assassinio occasionale o comune. Ma la causa più immediata, anche se strutturale, ormai, è nel fatto che non esiste letteralmente una "forza di governo", né forza di governo nelle ideologie e negli interessi dominanti: si governa e si sottogoverna l'esistente, consumandolo. Mentre si ignorano, si rimuovono, si censurano, da parte delle istituzioni o nelle istituzioni, le enormi realtà che si stanno formando, le scelte politiche, economiche, tecnologiche e ideali che condizioneranno per decenni la nostra vita e quella delle generazioni future, se vi saranno generazioni future. E' in questo vuoto politico che si fa il pieno, nei mass-media, di morte e di distruzione... A tutto questo urge rispondere: Basta! Vogliamo innanzi tutto governare in modo che chi assassina cent

o persone non abbia che il giusto posto nella cronaca nera, ma abbia posto nella cronaca nera, e non in quella delle istituzioni e del governo del paese, anche chi ne assassina migliaia o milioni. Vogliamo governare in modo che la cronaca nera abbia, in totale, uno spazio marginale rispetto alla cronaca democratica, alla cronaca fatta dalle istituzioni e dai 57 milioni di cittadini che non praticano assassini... Se non si scioglie questo nodo nulla può essere fatto. Se non si ha la capacità, la forza o l'interesse di mettere all'ordine del giorno del paese e dei governi i grandi, drammatici, problemi del nostro tempo (e non Moretti e Curcio), nulla è fattibile. Occorre comunque capire che le br e i terroristi minacciano e si affermano dove ingiustizia e tradimenti dello Stato forniscono alibi alle disperazioni e ai fanatismi, alla negazione di qualsiasi altra legge che non sia quella della giungla. Se invece di negarla e distruggerla, si fosse fatta la riforma carceraria conforme alla Costituzione e alla giu

stizia, all'umanità e alla ragione, se si fosse fatta la riforma degli agenti di custodia, e quella della polizia, cioè una riforma dello Stato nato negli anni del fascismo e tenuto in vita per trentacinque anni dall'antifascismo ufficiale, Moro non avrebbe scritto inutilmente le sue splendide, tragiche lettere invocanti Cesare Beccaria contro Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli''.

Dal gruppo dei belligeranti si sono staccati in volata i repubblicani trainando la formazione verso il traguardo. ``In un solo giorno - dichiara sempre Pannella - dopo le farneticazioni cripto-fasciste di Forlani ("allusione al discorso rivolto dal Presidente del Consiglio ai carabinieri"), abbiamo ora quelle degli eredi crispini e trasformisti, i cosiddetti repubblicani. Chiedono, nei fatti, prigione a vita senza giudizio, invasione poliziesca nella responsabilità di amministrazione della giustizia, tribunali speciali appena mascherati. La storia ha poca fantasia. Così come il vecchio partito repubblicano, altrimenti nobile e vicino alle sue gloriose battaglie risorgimentali, dette un alto contributo alla formazione del regime e del partito fascista, il nuovo cerca di trovare oggi un analogo spazio di sopravvivenza. Fatto senatore a vita per meriti preistorici e pseudomilitari, il senatore Valiani, divenuto maitre e penser della catena giornalistica sindoniana e delle P2 ritrova oggi, con maggior successo,

linfa dalle sue vecchie radici dannunziane e poi staliniste''.

Frattanto mentre volge al termine la visita della delegazione radicale al carcere di Trani, dal carcere di Palmi giunge la notizia che il capo storico delle br, Renato Curcio, si sarebbe detto favorevole alla liberazione di D'Urso. La sorte del magistrato non ci interessa - avrebbero riferito i detenuti del gruppo Curcio - più di quanto ci interessi la nostra situazione di reclusi nelle carceri speciali. L'uccisione di D'Urso che ha collaborato è ``politicamente indifferente''. Lo si potrebbe rilasciare e rispedirlo alla famiglia.

Siamo all'otto gennaio, giorno in cui si conclude la visita della delegazione radicale composta dai deputati De Cataldo, Pinto, Teodori e dai senatori Spadaccia e Stanzani. I parlamentari radicali si sono scrupolosamente attenuti al mandato ricevuto dal Gruppo, riunitosi d'urgenza nella sede di Radio Radicale non appena giunta da Milano la segnalazione di Daniela del pestaggio che avrebbero subito i detenuti rivoltosi. Un comunicato del Gruppo così lo ha ribadito il 7 gennaio: ``I parlamentari radicali ritengono non superfluo ricordare alla stampa e all'opinione pubblica che le visite al carcere di Trani (e successivamente a quello di Palmi) già decise prima della pubblicazione del comunicato n. 8 delle brigate rosse, hanno come ragione l'accertamento della situazione carceraria attraverso tutti gli strumenti consentiti dalla legge per documentarsi in tale direzione. E' quindi evidente che di tale visita fanno parte primaria l'ascolto delle varie voci, da quelle dei detenuti a quelle del personale carcerario

; oltre, ben inteso, e nella misura in cui lo ritenga possibile, della Magistratura.

``I parlamentari radicali ricordano inoltre che il P.R. ed il Gruppo, concordemente, avevano annunciato l'intenzione di porre a disposizione, nei modi che riterranno più opportuni, i mezzi di comunicazione dell'area radicale per trasmettere le informazioni che i detenuti delle due carceri volessero dare all'opinione pubblica, ovviamente nei limiti consentiti e ammissibili, così come ricordato e auspicato dal giudice D'Urso nella sua lettera al suo diretto superiore del Ministero di grazia e giustizia''.

Come lasciava sospettare il racconto frammentario e scarsamente documentato di Daniela, gli abusi, le violenze e i pestaggi ci sono stati, e in modo e forme selvagge. Ecco come risultano secondo la prima sintetica esposizione fattane da Massimo Teodori in una conferenza stampa tenuta dalla delegazione all'hotel Holiday di Trani nel pomeriggio dell'8 gennaio: ``noi abbiamo potuto accertare con i nostri occhi che ci sono moltissimi detenuti di tutto il reparto che presentano tuttora fasciature o ferite, e abbiamo su questo interrogato i detenuti stessi e il personale penitenziario. Risulta che nelle 24 ore successive, a partire dalle ore 17 circa, sono ricorsi alla visita ufficialmente 41 detenuti, e sono quelli di cui si hanno documenti ufficiali del passaggio attraverso l'ufficio sanitario, o il cosiddetto pronto soccorso immediato. Di qui risulta che a tutti i 41 ricorsi alla visita è stato riscontrato un numero molto vasto (di cui non vi parlerò in dettaglio) di ematomi, ecchimosi, ferite lacero contuse, d

ebitamente verbalizzate. In 12 casi sono state riscontrate fratture per la maggior parte di mani, dita, falangi o dell'articolazione. C'è stato un ferito da arma da fuoco, il detenuto Piras, il quale tuttora è ricoverato in ospedale, fuori del carcere. Ci risulta che 5 detenuti sono stati inviati in ospedali della regione, in quanto bisognosi di cure impossibili a praticare all'interno del carcere; ma che gli stessi secondo le dichiarazioni loro o quelle dell'ufficiale sanitario, perfettamente concordanti, sono stati quasi immediatamente, tra le 12 e le 48 ore, rispediti indietro''.

Dopo aver descritto le condizioni di diversi bracci, dove si notano suppellettili o servizi igienici distrutti, e avere detto che allo stato i detenuti sono ammucchiati in gruppi di 8 o 14 in ogni stanzone, carente per quanto riguarda i servizi igienici, Teodori riferisce le voci raccolte circa la dinamica dei maltrattamenti. Innanzi tutto suppellettili e servizi igienici non sarebbero stati distrutti dai detenuti, ed anzi questi avrebbero sentito rumori di sopra mentre erano ammucchiati da basso. Inoltre i pestaggi si sarebbero avuti per circa tre ore a cominciare dalle ore 17, e ad effettuarli sarebbero state dapprima le forze dell'ordine e poi successivamente agenti di custodia. Infine i detenuti sarebbero stati per l'intera notte tenuti all'addiaccio.

Un comunicato del Gruppo e del Partito radicale annuncia contemporaneamente da Roma la decisione di rendere noto alle 17 dello stesso giorno un documento del ``Comitato di lotta'' dei detenuti di Trani, cioè dei detenuti delle br. ``A questo documento - aggiunge il comunicato - noi riteniamo inutile ed impossibile dare una qualsiasi risposta. Ci occupiamo di politica di diritti umani e civili. Il tragico e squallido gioco della guerra non ci interessa: riguarda purtroppo coloro che ci credono e lo proclamano, nelle carceri, nel paese e, purtroppo sempre più numerosi e prestigiosi, nelle istituzioni. Noi ripetiamo alle br: liberate D'Urso, senza condizioni! Noi ripetiamo: con chi ricatta, con chi ricatta nel modo più infame tenendo il grilletto pronto a sparare sulla nuca di una persona, non si tratta. E' un rifiuto che si deve anche a chi crede di essere forte perché può essere assassino o esserlo già stato, perché corregga questo suo tragico errore. Noi ripetiamo: è per noi titolo di onore non trattare, non

aver trattato, non tollerare trattative né da parte dello Stato né di chicchessia. Le br, esse per prime lo sanno. Checché la stampa, specchio fedele del potere corrotto e corruttore ne scriva noi non abbiamo trattato la liberazione di D'Urso. Diamo atto a quanti abbiamo incontrato, cui si può riconoscere una qualsiasi rappresentanza delle br, di aver tenuto con noi un analogo atteggiamento. Con noi non hanno trattato né tentato di trattare. Per questo ripetiamo che il dialogo non solo è possibile, necessario e tentabile, ma che è forse sul punto di essere avviato, è forse già avviato. Se così è, ne rendiamo grazie ai nostri compagni assassini, bestialmente troppo legati al fascino della morte...''

``Pubblicheremo a nostre spese su quotidiani il testo del documento, come atto dovuto e corrispondente a quello dei detenuti di Palmi che, se le notizie sono esatte, sono andati oltre a quanto era lecito attendersi in base al comunicato n. 8 delle br nella direzione della vita e del dialogo, quali che siano le ragioni per le quali lo hanno fatto''.

``Noi continueremo nel nostro lavoro per la democrazia, per il diritto, per i diritti umani e civili, per le riforme delle leggi, dei codici, delle carceri, delle pene, da democratici, da parlamentari, da nonviolenti, denunciando ancora una volta l'infamia di un potere, di maggioranza e di ``opposizioni'' parlamentari che hanno negato al Parlamento e al Paese di compiere quei doveri costituzionali, che debbono poi, in qualche misura, almeno riconoscere come tali quando la violenza che è la loro regola, rischia di rivolgersi contro di loro, e di ferirli''.

Nel pomeriggio, all'ora annunciata, il documento dei detenuti di Trani viene diramato alla stampa e trasmesso da Radio Radicale.

Il 10 gennaio Partito e Gruppo radicali rendono noto il documento dei detenuti di Palmi, del quale era giunta voce qualche ora prima che si concludesse la visita della della delegazione a Trani. E' il documento del gruppo Curcio che ``consente'' alla liberazione di D'Urso: ``Poiché - vi si legge - la forza del movimento rivoluzionario è tale da consentire atti di magnanimità, noi acconsentiamo alla decisione presa dalle br di rilasciare il boia D'Urso, alla condizione che questo comunicato, come quello dei compagni di Trani espressione del più generale movimento dei proletari prigionieri organizzati nei vari Organismi di Massa Rivoluzionari, vengano resi pubblici sui canali della comunicazione sociale''.

L'ultima decisione sulle sorti di D'Urso, dunque, ``spetta agli amici del boia: o ciò che ci è storicamente dovuto, e che comunque ci prenderemo, vale a dire spazio sui canali della comunicazione sociale, oppure un funerale di Stato che meglio sarebbe, a questo punto, definire un funerale dello Stato''.

La diffusione del documento chiarisce un equivoco insorto il giorno prima ad opera dell'avvocato Di Giovanni. Il quale, reduce dal carcere di Palmi aveva riferito di un consenso senza condizioni di Curcio alla liberazione di D'Urso. Le condizioni, al contrario, c'erano.

Marco Pannella e Franco De Cataldo, recatisi al carcere di Palmi, come deliberato dal Gruppo radicale che ne aveva deciso la visita unitamente a quella di Trani, avevano potuto prendere visione del documento e accertare la reale portata delle cose, pur non avendone avuta alcuna comunicazione dai detenuti.

Stando alla lettura di quel documento (``... sui canali della comunicazione sociale'') la condizione posta poteva forse ritenersi soddisfatta preventivamente per la diffusione che ne avevano deciso autonomamente e unilateralmente Radio Radicale e Teleroma 56 ancor prima di venirne a conoscenza: una diffusione ampia in conseguenza del collegamento all'emittente radicale chiesto e ottenuto da un numero considerevole di altre emittenti radiofoniche private. ``Pubblicando il comunicato che segue - avvertono il 10 gennaio il Partito e il Gruppo parlamentare radicali - e diffondendolo in questo momento in gran parte d'Italia a centinaia di migliaia di ascoltatori della rete delle Radio Radicali e delle tante altre radio private collegate, compiamo anche l'ultimo atto da noi dovuto per l'unilaterale impegno preso con l'opinione pubblica. Se le br intendono anch'esse mantenere gli annunzi fatti, la liberazione di Giovanni D'Urso dovrebbe essere questione di ore, e certa. Con il comunicato che ora diffondiamo, emanat

o dal ``Comitato unitario di Campo'' di Palmi, sono adempiute le condizioni alle quali le br dichiaravano di far dipendere la sospensione della condanna a morte del giudice D'Urso''.

Noi dichiarammo subito che la ``sospensione'' della condanna, così come preannunciata, poteva non significare nulla. Sospensione per quanto? Liberazione o commutazione della pena?

Rispondemmo subito, duramente, pubblicamente, procedendo nel tentativo di dialogo che contrapponemmo e contrapponiamo alla trattativa e alla fermezza nell'inerzia e nell'irresponsabilità.

``Dal comunicato di Palmi ci giunge una risposta: ``sospensione della pena'' equivale a ``decisione presa dalle brigate rosse di rilasciare il boia D'Urso''. Ne diamo atto, questa risposta è di enorme importanza... Se non avessimo verificato la grave inesattezza della notizia esplosa su tutta la stampa nazionale, secondo la quale ``Curcio ordina la liberazione di D'Urso'', se avessimo desistito dalla nostra rigorosa puntuale responsabile iniziativa, è matematico che sarebbe venuta a mancare la condizione, che ora si verifica, posta dapprima dalle stesse br e poi dal Comitato Unitario di Campo, con una iterazione significativa per la ``sospensione della pena di morte'' e per il rilascio di Giovanni D'Urso''...

``Aggiungiamo che Marco Pannella ha informato direttamente e personalmente Curcio che nel pomeriggio era stato diffuso il comunicato di Trani; che Curcio, per suo conto, e a due riprese, gli ha comunicato di non avere ``nulla da dire''; che analogo atteggiamento è stato assunto, in un'altra cella, da Delli Veneri. Conferma ulteriore che solo la testualità del documento poteva e doveva essere preso in considerazione.

``Si è così giunti, secondo logica e secondo quanto le stesse br hanno comunicato senza più possibilità di margini di dubbio, al penultimo atto di questa dolorosa infame vicenda. L'ultimo non ci è dato di profetizzarlo; ma abbiamo il diritto dovere di proclamare alto che solo giungendo a smentire se stesse, le proprie parole, i propri impegni unilateralmente presi, le br non possono ora fare altro che rilasciare Giovanni D'Urso, salvo e in condizioni che torni salvo alla sua famiglia e al suo lavoro''.

``Ripetiamo che tutto quello che abbiamo fatto, e anche tutto quello che abbiamo pensato, lo abbiamo fatto pubblicamente alla luce del dialogo con tutti, e dell'iniziativa pubblica. Opponiamo questo nostro modo di governare le evenienze più tragiche e aberranti, al modo di governare nella ``fermezza'' dell'inerzia e del cinismo che in primo luogo il Partito Comunista Italiano mostra di ritenere necessario''.

``Se D'Urso è salvo, se D'Urso sarà ora libero da una vicenda di allucinante violenza e aberrazione, la democrazia italiana avrà tratto la forza di conquistare adempimenti costituzionali e amministrativi, atti dovuti di giustizia, e la prova che i metodi che furono propri, nella vicenda Moro, dei due ``partiti'' che allora si costituirono, quelli delle trattative occulte e della pietrificazione dell'iniziativa dello Stato, portano alla morte e alla sconfitta; mentre il nostro può, ripetiamo, può portare alle speranze e alla vita. Ripetiamo alle br, anche oggi, come dal momento del sequestro: ``liberate D'Urso!'' senza trattative, senza condizioni''.

Un terzo documento verrà alla luce tra qualche giorno. Lo diffonderanno il 13 gennaio i parlamentari radicali Pinto, Spadaccia, Stanzani e Teodori. E' sottoscritto dai detenuti ``politici'' Giorgio Baumgartner, Luciano Ferrari-Bravo, Cipriano Falcone, Paolo Lapponi, Gianni Lucarelli, Antonio Negri, Luciano Nieri, Palmiro Spanò, Emilio Vesce, i quali si dichiarano estranei all'``ideazione, preparazione e gestione della rivolta di Trani'' ed estranei al ``progetto politico'' in cui essa si iscrive. I firmatari precisano di non riconoscersi ``in nessuna componente politica organizzata nel carcere'' pur ribadendo la loro volontà di lotta contro ``questo sistema carcerario'' con mezzi e metodi che nascono dal popolo carcerato e che siano capaci di coinvolgere l'intero movimento comunista e le forze sociali che esprimono i bisogni di trasformazione''.

La Magistratura - avverte Teodori - ``conosceva il documento ora reso noto''.

Dalla diramazione dei due documenti, provenienti da Trani e da Palmi, comincia il conto alla rovescia per la sorte di D'Urso. Si entra nella stretta finale, e se davvero gli si vuole salvare la vita occorre fare quanto è umanamente e praticamente possibile senza alcuna compromissione di trattativa, e senza che il governo si scomodi, né con la ``fermezza'' né senza.

A Montecitorio riprende il dibattito in un'atmosfera tesa; il governo deve rispondere ad una valanga di interpellanze e di interrogazioni. Franco Roccella vi pronuncia una requisitoria contro la ``fermezza'' ridotta alla sua reale essenza terroristica e macabra. ``In nome della ``fermezza'' e della guerra si concedono comportamenti inammissibili fino alla cosiddetta pistola facile della polizia (leggete stamane il "Messaggero": 24 morti e 52 feriti accidentali nel 1979, 17 morti e 30 feriti accidentali nel 1980). In nome della fermezza e dello stato di guerra sono stati criminalizzati quanti si sforzavano di capire se il terrorismo è quello che a noi appare essere; un fenomeno politico fisiologicamente inscritto in questa gestione dello Stato, del potere, della società politica e della società civile, e per niente affatto prodotto dai malefici di un demone, fisiologicamente inscritto nella storia di questa Repubblica e non per conseguenza di stregonerie''.

Roccella pone poi le due domande essenziali alle quali nessuno ha mai dato risposta o vuole darne. "Come si fa a non chiedersi dove possa attingere energia democratica antagonistica uno Stato amministrato con gestione fondata sistematicamente sulla violenza dell'ingiustizia, della disonestà, della falsificazione, del mercimonio, delle strumentalizzazioni, del privilegio, dell'impunità, dei corporativismi, delle clientele, delle lottizzazioni e via discorrendo?"... Poi, rivolto alla sinistra: "come si fa ad avere forza democratica antagonistica, colleghi della sinistra, quando alla lealtà democratica si sostituisce la logica di schieramento e di pattuizione, e ad essa si sacrificano sistematicamente le riforme, realizzandole solo in subordine al tornaconto degli accordi e dei patteggiamenti, tutti inscritti dentro una dimensione di sostanziale complicità unanimistica"?

Un successivo intervento di Boato ripercorre il cammino a ritroso compiuto dal Governo dal 16 dicembre in avanti, da quando cioè il Ministro dell'interno Rognoni, dichiarò con vigore, questa volta sì con ``fermezza'', che sarebbe stato fatto tutto quanto fosse umanamente possibile per salvare D'Urso, essendo l'obiettivo della difesa della vita prioritario. Ora possiamo constatare come certe aperture, che non sono aperture al terrorismo, ma ad una capacità di iniziativa politica rispetto al fenomeno terroristico laddove la fermezza coincide con la passività cadaverica delle istituzioni - ad una iniziativa politica, istituzionale, e costituzionale, legittima e legale da parte del Governo, siano state sembra - totalmente soffocate, evidentemente da ciò che si è verificato negli ultimi giorni.

Si entra ormai in una spirale convulsa di eventi. Il dibattito alla Camera prosegue nervoso, contrassegnato da incidenti a catena,, il più clamoroso dei quali è uno schiaffo vibrato dalla comunista Maria Ciai Trivelli al radicale Cicciomessere, reo di avere leso la maestà di Pajetta, dandogli dell'arteriosclerotico dopo che quello lo aveva gratuitamente e insistentemente insultato dandogli del nazista sulla semplice considerazione dei tratti somatici. La stampa di regime, unanime, mentre si vanta di non pubblicare i documenti dei detenuti consegnati ai loro redattori dai radicali, scaglia gratuite accuse o insinua altrettanti gratuiti sospetti, naturalmente a carico dei radicali, in quanto questi, con almeno la complicità tacita di esponenti del governo, starebbero direttamente trattando la liberazione di D'Urso. In una conferenza stampa a Roma simultanea all'altra a Trani, i radicali hanno detto esplicitamente di non trattare, anche perché sarebbe contrario alla logica e a tutta la loro linea politica. Pann

ella: "noi ripetiamo alle br: liberate D'Urso e senza condizioni. Con chi ricatta tenendo il dito sul grilletto, non si tratta e noi non trattiamo"; ma che importa, l'essenziale è versare olio sul fuoco.

Occorre dire che non manca chi si dissocia radicalmente dalla vergogna giostra. Oltre al "Messaggero, all'Avanti", e alla "Nazione", che non hanno abbassato le saracinesche si deve registrare il caso del "Lavoro" di Genova che si risolve con le dimissioni del suo direttore, Giuliano Zincone, in seguito alla pretesa dell'editore di imporre autoritariamente il "black-out". E ad un giornalista che lo intervista per chiedergli se lui pubblicherebbe i comunicati dei brigatisti, Zincone risponde testualmente: "io ritengo che i brigatisti delle br rappresentino un pericolo per tutti, una sciagura nazionale. Non credo invece che sia la sciagura maggiore, l'unica grande minaccia per gli italiani. Non comprendo, quindi le grandi mobilitazioni di opinione, le proposte di emergenza, i provvedimenti straordinari chiesti solo per questo pur temibile gruppo eversivo. Se questo accade vuol dire che si tiene conto delle pretese politiche di questa banda, il cui maggiore successo sarebbe proprio quello di impedire che chi gov

erna rinunciasse ad affrontare tutti i gravi problemi che affliggono il Paese per combattere sulla frontiera-ombra disegnata dal ricatto terrorista. Il giornalista deve quindi informare il pubblico di quello che accade, anche di quello che fanno e dicono i delinquenti. Può rinunciarvi soltanto in base ad una libera scelta personale. Se lo Stato, le istituzioni, i partiti, ritengono di dover imporre a tutti un unico comportamento valido e legale, devono assumersi le responsabilità esplicite di chiedere la censura della stampa".

E' un'analisi stringata, ma precisa, che coglie tra l'altro il rifiuto da parte del governo di assumersi precise responsabilità, in un senso o nell'altro. E in effetti in tutta questa vicenda, ma in particolare in questi giorni cruciali, il governo naviga nell'ambiguità al punto di lasciar supporre indifferentemente che ha agevolato le iniziative per la liberazione di D'Urso o che ha incoraggiato e sostenuto la ``linea della fermezza''.

Nell'infuriare della polemica, per i ``fermissimi'', che non demordono e premono per altri pacchetti di leggi infami, arriva un'altra ``mazzata''. Quattro procure della Repubblica (Milano, - Bologna, Firenze e Livorno) concedono la libertà provvisoria al leader di Azione rivoluzionaria Gianfranco Faina, conformemente ad una richiesta dei detenuti. Il professor Faina è già stato condannato a 19 anni e tre mesi di reclusione, ma altri processi, sempre di natura terroristica, dovrebbe affrontare. Contro il provvedimento si scaglia compatto il fronte della ``fermezza'', trascurando del tutto che la libertà provvisoria è stata concessa perché Faina è affetto da una grave forma di carcinoma polmonare con metastasi ossea diffusa, per la qual cosa i medici gli danno venti probabilità su cento di sopravvivere per un massimo di altri sei mesi. Tumore o no, doveva restare dentro. E ci resta poiché all'atto della liberazione Faina risulta intrasportabile. Morirà inesorabilmente un mese dopo. E' questa sprovvedutamente l

'occasione che il Ministro della giustizia Sarti coglie per accodarsi al fronte della ``fermezza'' indirizzando un'immediata reprimenda ai magistrati colpevoli di quel ``cedimento''.

In soccorso della ``fermezza'' tradita arriva con perfetta scelta di tempo il procuratore generale romano, Pietro Pascalino. Con l'autorità che gli viene dall'alto ufficio getta sul tavolo un mazzetto di proposte che possono così riassumersi: riforma della Costituzione, tribunale speciale, nuove leggi più severe, stato di guerra. Ecco un rapida antologia della "Summa" pascaliniana ricostruita con le sue parole, benché abbreviatamente: "la lotta all'eversione viene condotta con mezzi del tutto inadeguati"; "la Costituzione non è il Vangelo, e se le circostanze lo impongono deve essere modificata"; "nuove norme potrebbero essere varate"; "il Paese non è affatto diviso, penso che sopporterebbe le conseguenze di una politica d'emergenza così come sta sopportando con straordinaria pazienza lo spargimento di tanto sangue innocente. O il solo sangue da lacrimare è quello del terrorismo?"; "auspico l'istituzione di un unico ufficio, a livello nazionale, che si occupi dell'inchiesta sul terrorismo".

Però un dispiacere ai suoi amici necrofori, Pascalino lo dà; ed è proprio sull'affare Faina. Richiesto se condivide il risentimento di Sarti per la concessione della libertà provvisoria, risponde netto: "un intervento inopportuno, perché Faina è in condizioni gravissime, con un tumore al polmone, e in base a precise norme di legge, la magistratura può, per motivi umanitari, fargli lasciare il carcere, come è già avvenuto in casi analoghi".

A scanso di equivoci Sarti, intervenendo alla Camera, assicura che "il governo non ha in alcun modo compiuto atti che giustifichino le irresponsabili affermazioni di chi ritiene che le istituzioni del nostro Paese possano venire a colloquio con le organizzazioni terroristiche". Poi deplora con enfasi "il fatto che i radicali abbiano fatto della loro visita uno strumento per fare uscire dal carcere di Trani i documenti dei terroristi". E infine dice di respingere "con sdegno l'insinuazione che al provvedimento dei giudici di Firenze che hanno concesso la libertà a Faina, non sia stata estranea una pressione del ministero o del suo titolare, che l'avrebbero posta in essere per lanciare o per raccogliere segnali propiziatori di una trattativa".

Gli eventi precipitano. V'è un accavallarsi frenetico di fatti o notizie senza un ordine preciso, e senza che vi sa il tempo di verificarne il senso ultimo o l'attendibilità. I giornalisti dell'"Espresso" arrestati per favoreggiamento hanno rivelato il nome del personaggio con il quale hanno avuto contatti per avere il materiale delle br poi pubblicato, è il professor Giovanni Senzani, esperto criminologo, un nome al di sopra di ogni sospetto, che aveva avuto perfino una borsa di 15 milioni dal Consiglio Nazionale delle Ricerche con facoltà di accesso, appunto per i suoi studi, in tutte le istituzioni penitenziarie. L'unico suo legame con il terrorismo, per quanto di lui si sa, è suo cognato Enrico Fenzi (fratello di sua moglie), arrestato a Genova per ``partecipazione a banda armata'', ma poi assolto perché ``il fatto non sussiste''. Dopo questa avventura il professor Fenzi sarebbe entrato nella clandestinità. Senzani sarebbe il supposto brigatista organizzatore del sequestro D'Urso e quasi certamente avreb

be condotto l'interrogatorio del magistrato.

Contemporaneamente, contro Curcio, Negri e 83 detenuti nelle carceri di Trani vengono spiccati altrettanti ordini di arresto per il sequestro D'Urso. Il magistrato che li ha emessi contraddicendo una prassi univoca che vuole ingiustificati e inutili gli ordini di arresto a carico di chi è arrestato e prigioniero, dichiara il suo calcolo deliberato di calare il suo gesto nel vivo della vicenda D'Urso (questi detenuti sapranno che se D'Urso muore verranno processati) incurante della reazione delle br che potrebbero esserne indotte ad alzare il tiro e a subordinare a condizioni più onerose e non rispettabili la vita del giudice prigioniero. A Radio Radicale arriva la voce di molti giuristi, tutti concordi: è un gesto inspiegabile con la prassi procedurale, se il magistrato avesse atteso qualche giorno il procedimento giudiziario non ne avrebbe minimamente sofferto, visto che i prigionieri sono già a disposizione della giustizia e come tali sono già catturati. Ma al tempo stesso è un gesto che può riportare le s

peranze per la liberazione di D'Urso in alto mare. Se le br infatti chiedessero la revoca del provvedimento per liberare il loro prigioniero, sarebbe questa una condizione alla quale non si potrebbe ottemperare.

Come giudicare l'iniziativa del magistrato? Un apporto alla linea della ``fermezza'' che coerentemente scavalca ogni preoccupazione per la sopravvivenza di D'Urso e sollecita lo scontro e il confronto di forza? Lo scatto di un giudice della fermezza esasperato dall'ondata di ``cedimento'' alla quale pare risponda grandissima parte della magistratura? O un tentativo, anche se maldestro, di contribuire alla salvezza del rapito immettendo nel gioco una minaccia, un ``ricatto'' che dovrebbe condizionare le br? Ma in tal caso non sarebbe dovuto bastare il dubbio, un solo pur esiguo dubbio, di nuocere a D'Urso per fermare quell'intervento?

Arriva come una masso tombale il comunicato n. 9 delle br. E' l'ultimatum: non è il caso di ``prolungare la prigionia'' del magistrato ``oltre il necessario'', perciò se ``entro 48 ore'' i maggiori quotidiani italiani non pubblicheranno ``integralmente'' i comunicati ``che sono stati emessi dagli organismi di massa di Trani e di Palmi'' sarà senz'altro dato corso ``all'esecuzione della sentenza''.

La vita di D'Urso dipende dunque dai giornali. Poche colonne di piombo lo possono salvare o uccidere.

C'è in quel comunicato un aumento del prezzo da parte delle br? La risposta è semplice: c'è solo rivelato l'esatto significato che hanno sempre avuto per le br ``i canali della comunicazione sociale''.

Nascono interrogativi angosciosi. Da quando decorrono e quando scadono esattamente le 48 ore? Quali e quanti sono i maggiori quotidiani? Temporeggeranno le br se alla scadenza non tutto ma solo qualcosa sarà fatto, in attesa che il resto si faccia?

La signora D'Urso chiede disperatamente quelle poche colonne di piombo che equivalgono alla vita del marito. Lancia appelli, scrive lettere, inizia la sua via crucis toccando le redazioni romane dei più diffusi quotidiani italiani. Ma le risposte che riceve sono dinieghi cortesissimi, riguardosi, compunti. Non si arrende, insiste, scongiura, esplode: "voi, giornali della morte...". Ha questuato per le sedi romane dei quotidiani, ha raccolto vento e spesso il suo passo è stato fermato da rifiuti che hanno anticipato con solerzia le suo visite; ``no'' il "Corriere della Sera", ``no'' "Repubblica", ``no'' "La Stampa", ``no'' "Il Giornale Nuovo", ``no'' "Il Resto del Carlino", ``no'' "Il Mattino". Uno spiraglio si apre al "Messaggero" e al "Secolo XIX", più stretto alla "Nazione" e al "Giorno". Solo l'organo del PSI, qualche giorno avanti, prima del dibattito alla Camera, ha pubblicato stralci del documento di Trani. Ma tutto è finito lì. Craxi, subito aggredito dai fogli dai partiti della ``fermezza'', dentro e

fuori del Governo, se l'è cavata adducendo che l'"Avanti" è un giornale e non è il partito; e perfino Spadolini, fra gli alleati di governo, ha dovuto ingoiare il rospo: appena al di là della disapprovazione c'è in agguato la crisi e la probabilità corposa delle elezioni anticipate. Il caso PSI-"Avanti" si è riversato nel dibattito alla Camera pesantemente sottolineato dal PCI e dal MSI che hanno chiesto con duri accenti polemici quale sia la politica del governo: se quella testimoniata dall'organo del partito socialista, del ``cedimento'' e della ``complicità'', o quella sostenuta dal PRI, della ``fermezza'' ad oltranza, se della vita di D'Urso - traducono i radicali - o del suo assassinio, del recupero di forza democratica o dell'``emergenza'' gladiatoria. Il terrorismo - sostiene il PR - nella misura in cui determina l'obbligatorietà e l'urgenza di una risposta, pone alla società politica e civile una domanda incalzante: quale Stato e quale democrazia. Società politica e civile non possono eluderla; prim

a che doverla al terrorismo, la risposta la devono a se stesse. Nel dibattito a Montecitorio il Presidente del Consiglio se l'è cavata adducendo l'improprietà di un unanimismo della compagine governativa che sarebbe proprio di un regime totalitario.

E' una tesi ovviamente fragile poiché la non unanimità all'interno di una maggioranza, che si è saldata in un Governo in virtù di scelte primarie, non può ripetere la dialettica democratica tra maggioranza e opposizione e se il dissenso, un dissenso di questa portata, rompe gli schieramenti, la sola regola e salvaguardia, in democrazia, è quella di formare nuove maggioranze e minoranze. Per legge fisiologica, del resto, una maggioranza non può non scegliere le proprie ragioni e la propria linea: la scelta, per quanto ambigua, è comunque emersa in quel dibattito per la remissione della polemica di una parte, del PRI e, in misura meno clamorosa poiché meno esposto era stato il dissenso, della fascia oltranzista della DC coincidente con le aree di opinione democristiana della unità nazionale. E' un dato provvisorio ma colto subito dai deputati radicali: Franco Roccella contesta l'ambiguità del governo ma ne rileva al tempo stesso i margini ``di felice ambiguità''.

Ora, premendo la scadenza dell'ultimatum delle br, l'avarissimo tempo disponibile si consuma con drammatica rapidità, portando la tensione della polemica e l'emozione dell'attesa al limite. Dal punto di vista quantitativo, misurato sul metro degli schieramenti politici e giornalistici, il fronte del rifiuto di qualsiasi atto o gesto finalizzato alla salvezza di D'Urso è schiacciante ed è totalmente esposto. I socialisti si sono rintanati nell'ombra, dalla quale del resto non sono sin qui del tutto mai usciti: grava su di essi il vincolo dell'alleanza di governo, l'impegno della ``governabilità'', la minaccia di una crisi paurosamente incline ad elezioni anticipate. All'interno della maggioranza i repubblicani soprattutto e la parte zaccagniniana della DC, saldandosi alla pressione esterna del PCI e del MSI, li braccano per spingerli sul terreno scoperto. Molto meno i socialdemocratici, che evitano di tallonare il PSI, cercando anzi di coprirlo, ma che non nascondono la loro propensione per una scelta di ``fe

rmezza'', proiettata in termini di netta predilezione di leggi, provvedimenti e metodi operativi.

Per questo il governo scricchiola, tanto che nelle 48 ore che corrono verso la vita o la morte di D'Urso si sente parlare sempre con maggiore insistenza delle sorti del Governo, così che l'eventualità dell'assassinio del giudice prigioniero perde i tratti della sua propria sconvolgente drammaticità per configurarsi sempre di più come l'occasione per una vasta e profonda manovra politica.

E' ovvio che sui radicali, rimasti soli, converga la violenza di una polemica senza precedenti. "Il Corriere della Sera", forse per la prima volta nella sua storia, giunge a pubblicare contro di essi, in prima pagina un corsivo riquadrato, che è il corrispondente di una interrogazione parlamentare. Eccone il testo: "Chi ha autorizzato i radicale a visitare con tanta frequenza le carceri di Trani e di Palmi? E' stato rispettato pienamente lo spirito dell'articolo 67 della legge penitenziaria? E per quale motivo il Ministro di grazia e giustizia non è intervenuto per impedirlo, come avrebbe potuto in base all'articolo 90 dello stesso?".

Le accuse si fanno più che mai esplicite, corroborate da toni di estremo livore; non incontrano nessuna remora di plausibilità, di civiltà e di pudore: sono per la capitolazione dello Stato, sono complici delle br, ne sono i portavoce. Non esitano dinanzi a smaccate speculazioni ed evidenti menzogne coperte da una inaudita guarentigia offerta dai giornali della ``fermezza'' che garantiscono tutto lo spazio alle voci d'accusa e negano il minimo spazio alle voci radicali o a quelle che suonano, direttamente o indirettamente, a loro difesa. Lo scopo è chiarissimo: chiuderli in un ghetto di criminalizzazione, disarmarli con la violenza, vietarne l'ascolto non potendone mortificare la credibilità. Sorgono voci inquietanti che serpeggiano insidiose negli anfratti di Montecitorio. Si dice che siano pronti, nel caso D'Urso venga ucciso, i mandati di cattura per complicità in sequestro e assassinio a carico dei radicali componenti la delegazione di Trani e di Palmi nonché a carico di quelli che da Radio Radicale hann

o divulgato i documenti delle br e tenuto incessantemente per giorni e notti il ``filo diretto'' con gli ascoltatori. Voci, certo, non necessariamente rispondenti al vero ma che traducono in ogni caso una volontà di ricatto e di persecuzione minacciando una improbabile e assurda criminalizzazione giudiziaria oltre che la criminalizzazione politica.

Le accuse persecutorie, sopite al momento della liberazione del giudice D'Urso, riprenderanno fiato non molto tempo dopo, fronteggiate sempre dai radicali con la testarda coerenza della loro azione politica e con risposte esplicite sempre e comunque ignorate dalla stampa. Ne riportiamo due di Marco Pannella che, sebbene successive alla felice conclusione della vicenda D'Urso, sintetizzano felicemente i motivi della contropolemica radicale in tutto il suo percorso.

Con riferimento al PCI: "Le sordide, immonde insinuazioni, gli anatemi e le menzogne con cui la stampa comunista sta cercando di liberarsi dei radical-brigatisti oggi come dei radical-fascisti del partito d'azione ieri per cercare in qualche modo di salvarsi imbarbarendo sempre più la vita politica, mi costringe a prendere atto che, nel partito in cui per trent'anni si sono giustificate e esaltate le più ignobili pagine del secolo, quelle naziste e comuniste, gli stermini, i processi, le invasioni, le torture, la criminalizzazione di partiti e ideologie intere, qui riflessi sono di nuovo vivi, dominanti, tentano disperatamente di mantenere nell'ignoranza e nel falso la lotta politica.

"Non a caso, ormai è il direttore del "Corriere della Sera" (e quale direttore) ad auspicare che il Ministero degli Interni, e quanto del governo deve applicarsi all'ordine pubblico, sia tenuto da comunisti quali Pajetta e Pecchioli, a dichiararlo dalle colonne di "Repubblica" che colano lacrime e pietà, di fronte alle sventure del povero Di Bella. Il compromesso storico con il mondo cattolico e clericale, voluto dagli stalinisti e da Togliatti, ha impedito il sorgere della prima repubblica in Italia. Ciò che gli epigoni impazziti e frustrati stanno ormai cercando di realizzare con il ``capitale'' (salvando Calvi, Gelli, Agnelli, la finanza massonico-repubblicana e quella clerico-sindoniana, aprendo perfino i salotti romani al tentativo di sfruttare l'azione delle br per destabilizzare ulteriormente governi e Parlamento, per giungere al governo detto Visentini; sotto la sferza degli editori dell'"Espresso" e "Repubblica", e del capofazione Scalfari), ciò che tentano di realizzare gli ambienti andreottiani, p

unta ad affermarsi sulle macerie, e con le macerie, della Repubblica e della democrazia. Questi apprendisti stregoni e questi personaggi non di rado uniti da una vera e propria associazione sovversiva, lavorano da prussiani, per il Re di Prussia. Cioè per un intervento alla turca".

(fine prima parte)

Cyrus
21-03-10, 08:56
Con riferimento al PRI: la nota repubblicana che accusa il PR "di aver già praticato e di cercare per il futuro alleanza br" e che incita la magistratura a risolvere penalmente la vicenda radicale nel suo insieme, è, oltre che grottesca, ridicola. Se il PRI dovesse essere ritenuto responsabile dei fatti penalmente rilevanti e perseguiti cui si sono esposti da lustri i suoi dirigenti nazionali e periferici, si sarebbe già da tempo dovuto procedere al suo per associazione a delinquere. Dagli scandali (plurimi) dei petroli, con i segretari amministrativi salvati dall'ignobile Inquirente, a quelli connessi a molte vicende criminali e mafiose in Sicilia e altrove, è indubbio che solo una situazione di regime ha salvato il PRI da simile imputazione e condanna.

"Ma un fatto è certo: l'accusa ai radicali di essere alleati delle br e di ricercarne l'alleanza, è semplicemente da mentecatti che farneticano contro lo Stato dalle colonne finanziate da Sindona e compagni. Mentre quella di essere ladri, peculatori e corrotti, che elevo nei confronti della segreteria autrice del comunicato suddetto, è un'accusa già elevata da più magistrati, che per mio conto ritengo vera e ribadisco".

La polemica antiradicale non esita dinanzi a nulla e non rispetta nulla. La sera del 12 maggio Lorena D'Urso si presenta, armata solo del suo sgomento e della sua ansia, a una tribuna flash della seconda rete della televisione di Stato riservata ai radicali e da questa ceduta alla famiglia del magistrato prigioniero. E' un ennesimo tentativo disperato dei D'Urso per convincere le br a liberare il giudice e la stampa a procedere alla pubblicazione dei due documenti dalla quale i terroristi fanno dipendere la sorte del padre. Sono passati per Radio Radicale gli appelli della signora D'Urso e del cognato, fratello di Giovanni; è la prima e sarà l'unica volta che la famiglia D'Urso può usufruire della RAI-TV.

Lorena articola il suo intervento in tre fasi: si rivolge ai direttori dei giornali dai quali, dice, "oltre che dalle br, dipende la vita di mio padre"; alle br perché gli rendano il padre, diversamente, dice, "la responsabilità sarebbe pienamente vostra e di quelle persone che per ragioni incomprensibili o spaventose per la prima volta hanno deciso il "black-out"": e infine legge una frase di un volantino dei terroristi in cui suo padre è definito ``boia''.

Senza pensarci due volte i giornali accusano Pannella di avere ``costretto'' la figlia del magistrato a ``definire boia suo padre''. Sempre il "Corriere", che in questa campagna antiradicale fa da battistrada, pubblica un neretto riquadrato sotto il titolo di apertura in prima pagina così concepito: "Siamo dunque arrivati a questo: che sfruttando la tragedia di una famiglia, le debolezze di un governo, le divisioni di una maggioranza e il gesto da Pilato della televisione di Stato, si è portata una ragazza, la figlia del giudice sequestrato, straziata dal dolore, davanti alla televisione del secondo canale; sotto gli occhi di milioni di italiani, leggere la frase del volantino br ``il boia D'Urso'' e ad accusare di assassinio i direttori dei giornali che non intendono cedere al ricatto dei terroristi. Siamo dunque arrivati a questo: che la rischiosa dolente decisione dei massimi giornali nel respingere il ricatto dell'eversione (per sottrarre il Paese ad altri cento sequestri e ad altri mille ricatti) viene

definita un assassinio da coloro che mettono sulle labbra innocenti di una vittima un proclama di resa senza condizioni ai criminali".

L'insinuazione del "Corriere" è un falso. Sono stati i familiari di D'Urso a decidere come utilizzare tribuna flash che i radicali avevano offerto alla moglie del magistrato, e se hanno consigliato Lorena a leggere quel brano, lo hanno fatto per salvare al vita del loro congiunto, a qualunque prezzo, addivenendo alla richiesta delle br che avevano posto come condizione per la liberazione del giudice la divulgazione televisiva di quel testo.

Che alla salvezza del congiunto potessero anteporre motivi di suscettibilità o un rifiuto alla sofferenza o una preoccupazione della propria immagine o qualche parsimonia nello spendere se stessi è impensabile. La sottomissione di Lorena è dolorosamente umana, del tutto comprensibile e straordinariamente ricca nella sua umanissima mortificazione.

Sono, questi, elementi di valutazione immediatamente rilevabili. Ma la protervia e la volontà persecutoria sono tali da indurre alla ignobile utilizzazione di quella durissima prova. Alla pena di averla sopportata Lorena deve aggiungere l'altra pena di essere incompresa e penalizzata sia pure per interposta persona.

Ovviamente quella del "Corriere" e di tutto lo schieramento della ``fermezza'', che da questo momento è ragionevole chiamare schieramento del cinismo e della morte, è una menzogna. I fatti sono altri. Messo a disposizione della famiglia D'Urso il brevissimo spazio televisivo, che i radicali avrebbero potuto adoperare per rispondere alla violenza delle accuse mai potute confutare sulla stampa e dagli schermi TV, Pannella ha incontrato la famiglia solo nella sala dell'emittente di Stato pochi minuti prima della trasmissione.

Apprende qui che sarà Lorena a comparire sugli schermi e ascolta qui l'impostazione data al suo intervento. Ha più di una perplessità sulla decisione di leggere un brano del documento delle br: lo trova antieconomico, uno spreco, avendo le br chiesto la pubblicazione integrale dei due documenti, per leggere i quali occorrerebbe più di mezz'ora di tempo e non i quattro minuti disponibili.

Leonardo Sciascia, che conosce i fatti, dichiara in un'intervista a "Repubblica"; "devo ammettere che in questi giorni l'atmosfera si è molto arroventata rigenerando antiche intolleranze. Mi ha impressionato, per esempio, che i giornali abbiano attribuito all'infamia di Pannella la lettura del comunicato delle br da parte della figlia di D'Urso, in televisione. Posso dire che Pannella non c'entra per nulla, che si è trattato di una decisione della famiglia. Il PR ha offerto uno spazio televisivo a sua disposizione, e i D'Urso hanno deciso di far parlare la ragazza. Per quanto mi riguarda, ritengo che i milioni di telespettatori che hanno visto quella ragazzina leggere il comunicato in cui si dava del boia a suo padre, hanno segnato nel loro cuore la fine delle br. I giornali lo hanno preso invece come un'accusa rivolta a loro: il che poteva anche essere, in una certa misura, ma il fine era un altro, non fine polemico. Ora in presenza di queste accuse a Pannella, mi sembra di poter giustificare anche certe su

e risposte".

Giunge immediata una precisazione di Lorena: Pannella e i radicali non c'entrano, la decisione è mia e della mia famiglia. Ma è tutto inutile. I giornali non se ne danno per intesi, non raccolgono. Hanno sfruttato l'occasione e utilizzano ora la violenza dell'omissione per far valere la licenza di mentire e godere dell'impunità della calunnia.

Le 48 ore fissate dai brigatisti stanno per scadere, o forse sono già scadute. L'attesa consuma i suoi ultimi disperati minuti, se non li ha già consumati. Nelle redazioni dei giornali si sorvegliano i telefoni trepidante che squillino perché devono pure squillare, e diano l'annuncio liberatorio comunque sia, pur di farla finita. Sono solo i familiari del magistrato, o qualcun'altro come Sciascia, a non rassegnarsi, a utilizzare l'ultimo attimo. Continuano a trasmettere messaggi: ai giornali perché pubblichino, se si è ancora in tempo, e alle br perché non commettano un crimine, che anche politicamente, dallo stesso punto di vista terroristico, sarebbe un errore, un macabro errore. L'ultimo appello di Sciascia è del 14 gennaio ed è diretto da Radio Radicale, che non interrompe un solo attimo le sue trasmissioni, alle br. Ne ha fatti altri, diramati alla stampa, ma trasmettendoli sempre a viva voce da Radio Radicale, per scongiurare il black-out dopo la condanna a morte di D'Urso, per mobilitare la pietà atti

va della gente e sollecitare la razionalità nelle forze politiche. Hanno avuto il merito, i suoi appelli, di ottenere adesioni di altissimo significato umano e civile: hanno risposto aderendo alla speranza e all'auspicio della salvezza del magistrato prigioniero, e associatosi all'invito rivolto agli uomini e alle forze di buona volontà. Eleonora Moro, Stella Tobagi, Andrea Casalegno oltre a un nutrito numero di esponenti della cultura e della scienza giuridica.

I suoi appelli hanno certamente influenzato la parte più sensibile della stampa, e comunque contribuito ad incrinare il muro del silenzio e della determinazione ricattatoria della ``fermezza''.

Ora si rivolge alle br: ``non agli uomini delle brigate rosse ma a questa mostruosa astrazione che si è così denominata. E non mi ci rivolgo - precisa - in nome dei valori che da anni calpestano, né a nome dei loro pentimenti futuri. Mi rivolgo a loro ponendo questo semplice problema e lasciando che ne intravvedano, a loro momentaneo vantaggio, la soluzione. Voi avete respinto sdegnatamente di essere "strumento cieco di occhiuta" manovra altrui. Ma uccidendo a questo punto il giudice D'Urso, il dubbio, almeno il dubbio di esserlo, non vi assale? guardatevi intorno, guardatevi fra voi, riflettere se ne siete capaci. La vostra causa, la causa per cui dite di battervi, è già da tempo perduta; sarebbe una tragica beffa accorgervi domani di avere micidialmente operato per interessi da cui voi per primi sarete annientati''.

Ma un fatto imprevisto nel dettaglio e genericamente atteso al tempo stesso è accaduto il giorno prima. Giunge al direttore dell'"Avanti"!, Intini, una lettera personale di Giovanni D'Urso. La notizia trapela. Il testo della missiva si diffonde. Eccolo nelle sue parti salienti: "Signor direttore... se le scrivo è perché ritengo dover fornire a quanti possano, allo stato, non concordare con la linea da lei indicata, ulteriori elementi di concretezza, su cui potere responsabilmente meditare. Ebbene, mi sembra sia noto - ormai - che il processo a cui sono stato assoggettato si è concluso con la condanna a morte; la quale - per altro - potrà non essere eseguita qualora da parte dei più importanti quotidiani si faccia luogo alla pubblicazione dei comunicati provenienti dalle carceri di Palmi e di Trani; iniziativa, questa della pubblicazione, di cui sarebbe palese il carattere esclusivamente umanitario, sotto il profilo della necessità che caratterizza la contingenza che ne occupa, e che sarebbe di tal natura da

non coinvolgere punto alcunché o alcuno, al di fuori degli organi di stampa che intendessero realizzarla. Entrare, con argomenti, sulla questione, che presumo molto dibattuta della pubblicazione o no dei detti comunicati, non sarebbe, da parte mia, certamente opportuno. Mi sarà tuttavia consentito osservare che... il senso d'umanità dovrebbe prevalere. Da ultimo, una preghiera. Qualora non dovessi più vedere mia moglie voglia essere lei, direttore, a dirle della mia gratitudine per quello che ha fatto, su nient'altro poter contare che non fosse la forza del suo amore per me".

Contemporaneamente la signora D'Urso fa pervenire ai quattro giornali che non hanno aderito al black-out o che aderendovi in un primo tempo (è il caso del "Giorno") hanno retrocesso dalle loro decisioni, sia per pressione redazionale sia perché posti dinanzi alla possibilità di salvare, essi, la vita del magistrato ("Messaggero, Secolo XIX, Nazione, Giorno"), la richiesta di utilizzare spazi pubblicitari a pagamento per la pubblicazione dei due documenti delle br. La richiesta è difficilmente eludibile almeno per quei fogli che in passato hanno concesso spazi pubblicitari alle famiglie di altre vittime del terrorismo. Al romano "Il Messaggero", che, assieme al "Secolo XIX" di Genova, più degli altri è disponibile a concorrere alla salvezza del magistrato prigioniero, la lettera della signora D'Urso è recapitata da Franco Roccella e personalmente consegnata al vice direttore La Rocca che l'attende, mentre l'assemblea dei redattori è riunita per decidere. Il direttore del quotidiano romano si trova, così, in u

na situazione obbligata. Ed è quello che vuole. La lettera di Giovanni D'Urso a Intini dà quel segnale che egli aveva auspicato: la pubblicazione dei due documenti delle br può davvero servire, lo ammette il magistrato, a salvare una vita. La richiesta della signora D'Urso, alla quale non può rispondere negativamente per aver fatto il giornale analoga concessione in passato ai familiari di altre vittime del terrorismo, lo pone nella situazione di dover comunque ``assistere'' alla pubblicazione dei due documenti. La decisione è presa: sul numero dell'indomani "Il Messaggero" pubblicherà. E dà il via ad una analoga decisione del direttore del "Secolo XIX", che si tiene in stretto collegamento con il collega del "Messaggero" al quale si è legato nelle evenienze decisionali per la comune valutazione della vicenda e la comune determinazione operativa. Il black-out è rotto. Pubblicano anche, o hanno già pubblicato, "Il Lavoro Nuovo" di Genova, "La Sicilia" di Catania, "Il Quotidiano" di Lecce, e, salvo qualche ecc

ezione, la catena dei Diari. Non per il momento "Il Giorno", che si ripromette di pubblicare, cosa che puntualmente farà, a liberazione avvenuta.

Siamo al 14 gennaio. Forlani è atteso alla Camera per un rendiconto che potrebbe anche segnare la sua fine. Ma la maggioranza sembra orientata a tenere, sia pure formalmente e sempre sotto la minaccia di uno scioglimento anticipato del Parlamento. Pareva dovesse dilaniarsi, e si dilania, ma, sia pure con il fiato corto, si accinge ad affrontare la verifica parlamentare senza minacce esplicite di rotture.

E tuttavia, dietro la facciata, premono pur sempre contrasti e insofferenze a stento imbrigliate e comunque non mitigate da prudenze e cautele al di fuori della Camera. Nell'immediato sottofondo l'acqua ribolle. La minaccia di una rottura non è del tutto scongiurata. A meno che... Alle "13,30" arriva il comunicato n. 10 delle br: "Vi restituiamo il boia D'Urso... Non abbiamo niente né da chiedere né da barattare".

E' finita. "Abbiamo conquistato una vita - dice subito Pannella - è un giorno fausto per tutti, per tutti senza eccezione. Non abbiamo vinto ma convinto. Lo Stato non ha trattato, questa volta nemmeno con i Viglione, fino a prova del contrario. La legge non è stata violata, né contrattata. Nessuno ha ceduto nulla a nessuno. L'onestà intellettuale di qualche giornale, ultimi e primi "Il Messaggero" e "Il Secolo XIX", ha salvato anche l'immagine di una stampa che si è rivelata dominata dal partito della forca, che riunisce ormai, per la seconda repubblica, borbonici, giacobini e mestatori internazionali".

"Si stava tentando un vero e proprio golpe legale. In attesa di un cadavere, che doveva esser dato in olocausto, si stavano facendo appello perfino al Presidente della Repubblica".

"Con D'Urso vivo, la rabbia stalinista e fascista resta scoperta. Il fantasma ha preso corpo. Lo sconfiggeremo. Nelle istituzioni e nel paese. E ora si torni al regime, agli scandali del regime: questa volta le br non hanno potuto funzionare. Si raccolgano, ora, subito, le firme per l'incriminazione di Gioia, e si richiami in servizio il generale Lo Prete, per accusarlo di alto tradimento. I radicali sottolineano con gioia che ha vinto il dialogo, contro la trattativa, la fermezza e il potere. Mi si è chiesto cosa fosse il dialogo: è questo. Un atto di umanità in luogo di un assassinio".

Il fronte della fermezza è indubbiamente spiazzato. Vi pone riparo "Repubblica" che paradossalmente e in modo maldestro rivendica alla linea dura qualche merito di aver contribuito alla liberazione del magistrato. E ne chiede un grato riconoscimento tenendo fermo tuttavia il giudizio di demerito per quelli che hanno ``ceduto''. La protervia di tale giudizio, e l'ovvio bisogno di mitigare in qualche modo la smentita che alla linea dura dei giornali della ``fermezza'' oppure clamorosamente la sopravvivenza del magistrato, le cui condizioni sono state così evidentemente determinate dal ``cedimento'' della stampa ``capitolarda'', questa protervia difensiva avrà un riflesso in sede parlamentare, dove i repubblicani, con l'appoggio dei comunisti, tenteranno senza successo di proporre un o.d.g. di "riconoscimento" a favore dei giornali del black-out.

"Repubblica" - nota Franco Roccella rilevandone le contraddizioni e il paradosso - chiede un ringraziamento per aver sostenuto le posizioni che avrebbero comportato l'assassinio di D'Urso. Un grazie invece va reso a quei direttori e giornalisti che hanno dato non alla violenza assassina ma alle ragioni della vita alla democrazia il giusto e il dovuto, ricusando perciò stesso il ricatto del terrorismo, evitando di compiere gli atti di imbarbarimento sollecitati dalla strategia terrorista. Tanto più significativo il loro comportamento quanto più essi non partecipano al patto fra capitalismo parassitario - nelle due versioni del capitalismo bancarottiero sindoniano e rizzoliano e del capitalismo sofisticato della razza padrona - e schieramento della fermezza, che ripete il patto siglato fra pseudo capitalismo agrario e nascente capitalismo industriale protetto da una parte e Benito Mussolini dall'altra.

L'accenno di Pannella alla chiamata in causa del Capo dello Stato richiede un breve supplemento di resoconto. Ad invocare l'attenzione del Presidente della Repubblica in termini di attesa per un intervento non meglio precisato e motivato se non con le aspettazioni della ``fermezza'', è stato lo schieramento dei giornali di cui detengono la leadership il quotidiano di Scalfari e il rizzoliano "Corriere della Sera". Il richiamo a Pertini era per la verità ricorrente da tempo, come suggello di autenticità delle ``grida'' dello schieramento che andava dal PCI al MSI passando per il PRI, la parte zaccagniniana della DC e, sia pure in toni di maggiore prudenza, per il PSDI; e si era sempre agganciato, come abbiamo accennato, alla frase di Pertini che riferendosi al terrorismo aveva parlato di ``guerra''. A questo richiamo aveva dato nuovo alimento uno ``sfogo'' del Presidente della Repubblica che, nel corso della vicenda D'Urso, ipotizzando un suo sequestro, aveva ridotto il confronto con i terroristi ad una sfida

personale fra lui e ``loro''. Ma quello che in Pertini poteva essere una professione di forza morale, nutrita dal rigore della sua storia d'antifascista, diventava, come abbiamo detto, suggello di autenticità utilizzato a conferma senza appello di una politica di ``fermezza'' che disseppelliva le norme fasciste sull'ordine pubblico, il fermo e il potere di prevenzione della polizia, gli interrogatori discrezionali, le schedature, la facoltà di rastrellamento, la carcerazione preventiva, come condanna senza sentenza, le leggi e i tribunali speciali, la pena di morte, autorizzava e giustificava l'abrogazione di ogni area di dissenso in nome di uno stato di emergenza che Almirante, con definitiva coerenza, chiamava con più sincera proprietà, ``proclamazione dello stato di guerra''. Dell'inutilità di questa politica ai fini della lotta al terrorismo, ad eccezione di poche frange di opinione pubblica, erano consapevoli moltissimi, persino, dei suoi stessi sostenitori, che si appellavano all'opportunità e necessi

tà di dare alla esasperata inquietudine della gente una risposta. Ed altrettanto diffusa negli ambienti più avvertiti, era la consapevolezza dei suoi effetti perversi, e probabilmente irreversibili, sul nostro ordinamento democratico e giuridico, in aperta violazione dei principi costituzionali; consapevolezza non nuova dal momento che le forze di sinistra e di democrazia laica, e una parte autorevole dello stesso fronte cattolico, avevano sin qui impedito con estrema decisione che tentativi del genere andassero a segno.

Quella politica, in definitiva, finiva con l'utilizzare la motivazione anti terroristica per approdare a ben altri lidi. Che Pertini avesse in mente di autorizzare questo corso era cosa tutta da dimostrare; l'improbabilità di una ipotesi del genere, oltre che dalla coerentissima storia personale del Capo dello Stato, era smentita dalla sua costante e impietosa inclinazione a negare ogni copertura a quel malgoverno del paese e della società che aveva determinato la debolezza perdente delle istituzioni, a fronte del terrorismo come a fronte del terremoto, e cercava appunto copertura nella necessità comunque e ad oltranza della difesa dello Stato e nelle esigenze della governabilità.

La scoperta manovra di usare a questo fine l'autorità del Capo dello Stato e il credito personale di Pertini, sollecitandone l'intervento alla vigilia della soluzione del caso D'Urso e quando già si profilavano i segni propizi per la liberazione del magistrato è colta subito e senz'altro denunciata da Marco Pannella che ne rileva tutta la pericolosità.

All'appello di "Repubblica", e in genere a questa utilizzazione del Capo dello Stato, il leader radicale si oppone duramente chiamando in causa quanti intendono ricostituire ``l'atmosfera del 1921'': "da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer il partito della forca, il partito dei giacobini e dei borbonici si è ricostituito, e ha bisogno, come il fascismo di allora, di inventare, creare, nutrire il caos, di sfornare e far sfornare cadaveri per legittimare il nuovo ``fascio'' delle forze sane e salvatrici dell'ordine.

"Solamente per questo gli assassini di non più di trenta persone in un anno sono stato posti al centro della vita del paese, della vita dello Stato. Per questo, esplicitamente, si è detto e scritto che D'Urso, ormai, serve come martire e vittima, e che si ha il dovere di non far altro che lasciarlo al suo destino. Per questo, in primo luogo Rizzoli, ha smentito in modo clamorosamente, dinanzi alla vita o alla morte di D'Urso, ogni sua prassi precedente".

"Comunisti e fascisti, un certo mondo finanziario e capitalistico internazionale, forze della P2, sindoniane, mafiose, puntano alla seconda Repubblica, al golpe strisciante che già stanno realizzando, anche con appelli espliciti al Presidente della Repubblica. Speriamo che sia la follia di un momento e che tutto questo non duri quanto la la follia delle unità nazionali che portarono lo Stato in ginocchio dinanzi al terrorismo ed allo sfascio".

Lo scontro si ripropone a liberazione D'Urso avvenuta ed è sempre Pannella a fronteggiare ``le reazioni invereconde e scomposte'' che seguono al rilascio del magistrato e che ``provano molto di più di quanto si era intuito e temuto''. "D'Urso - dice Pannella - serviva cadavere. Gli appelli martellanti al Presidente della Repubblica che venivano da due gruppi editoriali (quello sindoniano e quello che è giunto fino a pubblicare le autointerviste delle brigate rosse e i verbali degli immondi processi dei terroristi), perché intervenisse in modo straordinario nella vita delle istituzioni, non hanno questa volta potuto contare sull'infamia degli assassini. E hanno perso.

"Scalfari e Valiani, oggi, sono eloquenti. Il senatore a vita, catapultato per un errore che può rivelarsi gravissimo nella vita delle istituzioni, chiede oggi a gran voce la costituzione, in Italia, del Tribunale speciale, a somiglianza di quella Corte di Sicurezza francese che tutte le forze democratiche francesi denunciano, ormai, come intollerabile offesa alla giustizia ed alla Repubblica. Scalfari, come impazzito, mostra che il governo al quale puntava doveva aver poteri straordinari e dittatoriali contro l'opposizione radicale".

"Se non ci si intende censurare, il mio pensiero si sintetizza dunque in questo modo: Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe. Per questo, come il fascismo nel '21, ha bisogno di cadaveri. Ma questa volta, al contrario di quanto è accaduto con Moro, è stato provvisoriamente battuto. Per una volta, le br non sono servite".

Siamo alla mattinata del 15 gennaio, giorno segnato da emozioni e trepidazioni assai intense perché è venuto dalle br l'annuncio della liberazione di D'Urso ma non avviene la liberazione effettiva del magistrato che si attende invano di ora in ora.

Alla Camera si discute sul terrorismo. In questa atmosfera di tensione si apprende nel pomeriggio di una sibillina nota diramata dalla agenzia "ANSA", di questo tenore: Il Presidente Pertini segue con ``vivissimo interesse'' il dibattito in corso a Montecitorio nell'attesa che ne emergano indicazioni nuove per la lotta al terrorismo. Le domande che questa nota sollecita sono ovvie: a quali condizioni sono volte questa attesa e quest'interesse, che, contro ogni consuetudine, si vuole vengano notificati a fine scontato di sollecitazione? Cosa sollecita la nota? E quale ne è la provenienza? Pertini o genericamente il Quirinale? O l'uno o l'altro, ma in nessun caso può trattarsi di umori estemporanei colti accidentalmente dal giornalista poiché è arcinoto che l'"ANSA" si attiene scrupolosamente e rigorosamente all'autenticità delle fonti, trattandosi di quella fonte. E se è il Quirinale in che misura gli orientamenti del palazzo coincidono con quelli di Pertini? E quale è, comunque, il senso ultimo e certo di qu

ella notifica?

I radicali chiedono innanzi tutto una verifica delle fonti alle quali è stata attinta la nota. Il 16 gennaio la risposta dell'"ANSA" provoca la seguente dichiarazione di Pannella che puntualizza i termini della questione: "L'"ANSA" afferma che fonti autorizzate, istituzionalmente autorizzate, della Presidenza della Repubblica sono della nota diffusa ieri pomeriggio alle 14,32, non smentita da nessuno fino alla mia dichiarazione delle 18,30, cioè dopo 4 ore circa. Ci sono volute più di due ore ancora, perché l'ufficio stampa del Quirinale intervenisse non chiarendo nulla, limitandosi a confermare quanto già si sapeva: di non trattarsi di una ``nota ufficiosa'' della Presidenza né di un comunicato. Ribadisco quindi, più allarmato ancora, i miei interrogativi di ieri. Chi ha ieri, e perché, dato all'"ANSA" le informazioni che l'"ANSA" conferma? Perché le ha date? Perché si è ritenuto opportuno e necessario far sapere che il Presidente Pertini segue con ``vivissimo interesse'' il dibattito parlamentare, sin dall

a sera precedente, determinando unanimi interpretazioni politiche, anche se non univoche, che hanno in qualche misura gravato sul dibattito stesso? Cosa significa che dal dibattito vengono indicazioni nuove sulla lotta contro il terrorismo? Non si rende conto la ``fonte'' della Presidenza, di avere compiuto una indelicatezza e una indiscrezione, equivoche, nei confronti del Presidente e dato adito a ritenere che in qualche modo si intendesse così rispondere ai tentativi smaccati di coinvolgere il Presidente in una campagna politica di parte, di rispondervi accreditando questa campagna e i suoi oscuri obiettivi? Per tutto questo, ci pare, è necessario sapere di più. La ``fonte'' è stata anche per l'occasione specificamente autorizzata? Il silenzio su questo punto è forse assenso? Ci rifiutiamo di crederlo".

Ma le dichiarazioni di Pannella, in deroga alla prassi rigorosa seguita sempre dall'"ANSA", non vengono rilasciate né da questa né dall'altra delle due maggiori agenzie di informazione, l'"Italia". Solo la minore "AND-KRONOS" ne dà degli estratti.

La censura è evidente così come è del tutto inconsueta e del tutto ingiustificata dato lo spessore della questione. "E' difficile a questo punto - nota Pannella - credere che non sia lecito ritenere che, negli ambienti del Quirinale, vi sia chi sta cercando di impedire al Presidente di conoscere e accertare le responsabilità. Ed è allarmante il riflesso delle due Agenzie... Se la Presidenza della Repubblica non sa nulla di questa ultima parte della vicenda depreco ovviamente che la censura abbia funzionato in tutti i sensi. Ma gli interrogativi che ho posto esigono ora una risposta. Altrimenti dovremo chiedere all'opinione pubblica di sollecitarla anch'essa, informandola attraverso i mezzi di comunicazione liberi e democratici".

Pannella insiste l'indomani, 17 gennaio, precisando scopertamente e in modo definitivo la sua denunzia: C'è "più di una talpa, al Quirinale, che lavora per la seconda Repubblica contro quella cui Pertini cominciava a dar corpo, quella costituzionale e antifascista... Ma che ``La Repubblica'' sia lasciata sempre più millantare credito e informazioni, come se fosse ormai la Gazzetta Ufficiosa del Presidente, al punto che fra poco pubblicherà vere o false minute di minute presidenziali, e la raccolta di testi di pretesi messaggi e lettere scritti, pensati ma non resi pubblici diventa allarmante. Speriamo che non accada al Presidente Pertini di doversi un giorno accorgere, come quando era Presidente della Camera, che lo avevano circondato persone e metodi pericolosi e per lui intollerabili".

Questo inquietante capitolo della vicenda D'Urso si conclude il 16 gennaio. Pertini scrive a Forlani: "Caro Forlani, al termine del dibattito parlamentare che si è oggi concluso con la fiducia al governo che tu presiedi, constato che, mentre per opera di fuorilegge con il terrore si cerca di scardinare la democrazia nel nostro paese, le forze politiche democratiche, gli italiani, dimostrano di voler difendere con fermezza le nostre libertà. Desidero esprimere la mia piena solidarietà alle forze dell'ordine, carabinieri e polizia, che senza badare alle loro persone affrontano con coraggio il terrorismo. Il popolo italiano deve essere riconoscente a questi uomini devoti fino al sacrificio della propria vita al giuramento di fedeltà alla democrazia e alla Repubblica. Gratitudine esprimo anche ai magistrati che con intelligenza, coraggio e tenacia, in piena osservanza dei principi della nostra civiltà giuridica difendono quotidianamente contro l'attacco terroristico il nostro libero ordinamento. Riconfermando a

te la mia fiducia e la mia solidarietà ti saluto molto cordialmente". "La lettera del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio - commenta Pannella - costituisce una volta di più un atto di immensa correttezza e sensibilità, esemplare. Coloro che hanno cercato o cercano di coinvolgere in giochi di fazioni il Presidente Pertini sono serviti, a iosa. Il 15 gennaio 1981 - aggiunge il leader radicale riprendendo una definizione coniata dal fronte della ``fermezza'' - è stato forse un 8 settembre: ma per loro, non per la Repubblica".

Il 18 gennaio Partito e Gruppo radicale chiedono al Presidente della Repubblica di essere ricevuti (e lo saranno di li a poco) "per esprimergli nuovamente le proprie convinzioni e i propri sentimenti di integra e profonda fiducia, per ringraziarlo di quanto egli ha fatto e fa per la vita della Repubblica e di tutti i suoi cittadini, per la fermezza con la quale tiene fede e incarna la Costituzione, e infine per fornirgli una ampia documentazione su fatti che profondamente preoccupano i radicali e i cittadini che essi rappresentano e che forse non sono stati resi noti al Presidente della Repubblica".

Torniamo all'annuncio della liberazione D'Urso e alla aspettazione tesissima del suo effettivo rilascio. Il magistrato sarà realmente recuperato la mattina successiva, 15 gennaio.

La mattina del 14 passa in un'attesa che via via si accentua e si carica di tensione e di crescente apprensione. La notizia del ritrovamento del prigioniero ``liberato'' in via di Valle Aurelia si smorza lentamente, agonizza e si spegne, a fine mattinata. Si è trattato di un equivoco. L'uomo ritrovato non è D'Urso; è un operaio ferito a seguito di una caduta da una impalcatura. Ma la precisazione si ottiene con enorme stento e risulta inspiegabile il lungo tempo adoperato per una facile identificazione oltre al silenzio ostinato che lo ha protetto. A casa D'Urso si brancola nell'ignoranza di notizie; e anche questo non si spiega facilmente. Le fonti che sanno temporeggiano navigando stranamente in risposte evasive. Le autorità che dovrebbero sapere non sanno e non riescono a sapere. L'improbabilità di una situazione del genere sollecita un'inquietudine crescente sino a suggerire diffidenza e sospetti. E' naturale.

Il pomeriggio del 14 è vuoto. Ed è in questo vuoto che l'apprensione si inspessisce trainando, trainando presagi tristissimi. Circola a Montecitorio la convinzione che l'annuncio delle BR si riduca ad una lugubre beffa. Ma non è lugubre né triste il tono di quanti, fra le fila dello schieramento della ``fermezza'', enunciano questa ipotesi. Non certo compiaciuta, ma di sollievo.

Allora dove è finito D'Urso? Già assassinato dalle br? Sarebbe la prima volta che i terroristi tradiscono il truce ed orgoglioso rispetto della loro parola. Che si tratti piuttosto di un diversivo da essi messo in atto per avere libertà di movimento nell'operazione di rilascio? Può darsi. O il rilascio è già stato eseguito? E in tal caso quali interessi occulterebbero l'avvenuta liberazione? E a quale fine?

E' il silenzio inspiegabile, ambiguo, inquietante di quanti sanno per avere le responsabilità operative dirette, che suggerisce la tentazione del sospetto. Sono i passi perduti del Ministro della difesa, Lagorio, e di Bettino Craxi, che vanno incessantemente su e giù per il Transatlantico con espressione chiusa e cupa, nella totale ignoranza di quanto realmente accade, che lasciano interdetti. E' il mutismo o l'evasività del Ministro dell'interno Rognoni, rintanato nel suo ministero, che disorienta.

E' in questa atmosfera che Marco Pannella dà voce all'inquietudine crescente: "in queste ore di attesa e di angoscia, perché nulla più sembra essere affidato alle nostre mani, alla nostra possibilità di impegno e di azione, ho misurato quanto devastata sia in ciascuno di noi, almeno in me, la speranza che il nostro sia uno Stato quale sappiamo che deve e può essere, quale dovrebbe e potrebbe essere, quale lottiamo perché sia, contro coloro che lo vogliono violento e putrido. Ho constatato che ora temo la morte per pallottola ma anche quella per pillola. E' un orrido pensiero che laicamente confesso, per superarlo, per sconfiggere quel tanto di disperazione rispetto al regime che un tale pensiero rivela. Se altri non ne sono sfiorati mi felicito con loro e, per una volta, li invidio".

L'attesa e l'angoscia dureranno sino al mattino dell'indomani, quando sopravvengono le conferme dell'avvenuto rilascio e del ritrovamento effettivo del magistrato. Senza possibilità di dubbio. Lo conferma il magistrato che predispone l'interrogatorio di D'Urso; lo confermano i familiari che lo hanno riabbracciato; lo confermano i giornalisti che hanno constatato di persona. Giovanni D'Urso è tornato; vivo.

Ci chiediamo: avrebbe avuto questa felice conclusione la sua avventura senza l'azione svolta dai radicali? Sarebbe sopravvissuto senza l'iniziativa testarda di chi ha posto il rispetto della vita di un uomo al di sopra di ogni rischio, di ogni tornaconto, di ogni strumentalizzazione? Sarebbe tornato senza l'ostinata presunzione dei radicali di portare su terreno scoperto il gioco delle responsabilità e il confronto dei convincimenti, la coscienza dei fini e il calcolo degli infingimenti, la lettura spietata delle strategie e delle manovre? Sarebbe andata come è andata se un gruppo di ``cialtroni'', di ``avventurieri'', di ``demagoghi'', di ``destabilizzatori'', di ``complici'' non avessero investito nell'azione politica i loro pregi e i loro difetti, i loro vizi e le loro virtù? Dei difetti e dei vizi soprattutto essi si fanno carico rivendicandoli come segno delle loro diversità, ``incomprensibili'' certo, ma solo perché respinge ciò che essa significa e configura: alternativa di scelte, di contenuti, di me

todi, di cultura.

Quest'urto del confronto ha certamente contribuito a determinare l'asprezza della polemica antiradicale in un caso che, come quello D'Urso, ha posto i termini della scelta in misura ultimativa.

Ma non tutte le funzioni e le prudenze sono cadute. L'epilogo polemico che ha investito il deputato radicale De Cataldo e il Ministro della giustizia Sarti ne è un indice evidente, tranne che il comportamento di Sarti sia stato ispirato alla semplice e mediocre prudenza del barcamenarsi, con ovvia indifferenza verso la posta che era in gioco.

Questi i fatti. Intervenendo alla Camere il Ministro in questione formula la minaccia di un ricorso alle vie legali a carico dei radicali che hanno visitato le carceri di Trani e di Palmi ed esprime sui comportamenti da essi tenuti in quella visita giudizi di riprovazione. De Cataldo chiarisce subito che l'atteggiamento dell'on. Sarti è contraddittorio avendo questi, senza alcuna sollecitazione da parte radicale, incoraggiato quelle visite. Un comunicato dell'"ufficio stampa del Ministro" diffonde il 19 gennaio la seguente dichiarazione: "il Ministro Sarti respinge nettamente le illazioni che l'on. De Cataldo tenta di suggerire con la sua dichiarazione, né riconosce a De Cataldo il diritto di mettere in dubbio la serietà della sua condotta politica e personale. Come chiunque può facilmente immaginare, nelle scorse settimane il Ministro ha incontrato numerose persone, nella propria abitazione, per inciso assai prossima a quella di De Cataldo, o al Ministero, e, con cortesia a quanto pare mal indirizzata, anch

e l'avv. De Cataldo. Ma con nessuno, né con De Cataldo né con altri, il Ministro ha assunto posizioni diverse da quelle illustrate al Parlamento: posizioni che si riassumono nella linea della difesa della legalità e del fermo, rigoroso rifiuto di ogni e qualsiasi tipo di rapporto con i terroristi. Come lo stesso De Cataldo è costretto ad ammettere, il Ministro Sarti, proprio nella sua responsabilità di Ministro della Repubblica, invitò De Cataldo a non pubblicare alcun documento dei terroristi. Non si vede, dunque, a che cosa risponde, se non a un tentativo di strumentalizzazione che il Ministro respinge seccamente, l'odierna dichiarazione di De Cataldo. Il Ministro conferma, infine, il suo giudizio negativo sul comportamento tenuto dai radicali nelle carceri di Trani e Palmi: un comportamento sul quale, accanto agli organi competenti, è soprattutto il Parlamento che deve pronunciarsi, poiché i parlamentari, a norma dell'art. 67 della legge carceraria, possono accedere liberamente agli istituti penitenziari"

.

Pronta risposta di De Cataldo, che riportiamo integralmente per la cronaca che contiene: "Il 23 dicembre 1980, su suo invito, alle ore 17,45, mi sono incontrato con il Ministro Sarti, in via riservata, per sua richiesta. Tale incontro, malgrado l'ora del tutto normale per ogni attività di ufficio, avvenne nell'abitazione privata del Ministro. In tale occasione, il Ministro mi informò che l'indomani mattina avrebbe iniziato un primo sgombero dell'Asinara, chiese e sollecitò i nostri e miei consigli. Gli ribadì che non si trattava di ``trattare'' né di ``cedere'' alcunché, ma di adempiere quanto era obbligo del Governo adempiere, e - sul piano politico - ``dialogare'', cioè avere iniziativa politica e propagandistica nei confronti e contro le br.

"Il Ministro auspicò che il contatto così preso fosse mantenuto".

"Il 28 dicembre, alla notizia della rivolta di Trani, cercai il Ministro. Parlai telefonicamente con lui a fine mattinata, mi sembra mentre egli era a Palazzo Chigi, e gli anticipai la nostra intenzione di riunirci - come Gruppo - malgrado le ferie natalizie - per eventualmente recarci a Trani. Commentò che questa poteva esporci a pericoli, vista la gravità della situazione".

"Il 6 gennaio, mentre ero nel carcere di Trani, con i colleghi Teodori, Pinto, Spadaccia e Stanzani, fui raggiunto da un messaggio urgente del Ministro, che chiedeva di parlarmi. Ero all'interno del carcere, all'infermeria. Lo chiamai più volte al numero lasciatomi, con qualche ritardo, finché - alla presenza del direttore del carcere - potemmo parlarci. Mi chiese della situazione e gli esposi il mio punto di vista, con riferimento alla situazione dei detenuti. Restammo d'accordo d'incontrarci l'indomani a Roma".

"A Trani un detenuto, nel corso della visita, alla presenza del direttore del carcere e altri (agenti di custodia) mi consegnò un foglio di carta, che non lessi sull'istante".

"Era il ``comunicato''. Quando potei, con i miei colleghi, gettarvi uno sguardo, annunciai al direttore che era mia intenzione, l'indomani, darne conoscenza personalmente al Ministro, lasciandone solamente copia fotostatica, in busta chiusa al direttore stesso".

"L'8 gennaio alle 9,45 sempre a casa del Ministro, sempre per sua scelta, avvenne un altro colloquio. Gli mostrai il ``comunicato'', annunciandogli che nel frattempo il Gruppo radicale aveva deliberato di renderlo pubblico, sotto la sua responsabilità. Il Ministro, sorridente, mi sottolineò che quale Ministro della Repubblica non poteva non chiedermi, invece, di astenerci dal pubblicarlo. Gli ribadii la nostra decisione (che fu posta in essere solo dopo diverse ore): non vi fu nessuna insistenza, nessuna esposizione di merito dei motivi per i quali la pubblicazione veniva sconsigliata. Gli comunicai che avremmo immediatamente iniziato la procedura per realizzare anche la visita a Palmi, dove in effetti mi recai, con Pannella, alla fine della settimana".

"Questi i fatti. Anzi alcuni fatti che, essendo del tutto leciti, del tutto relativi a fatti assolutamente leciti e anzi doverosi, del tutto estranei a qualsiasi trattativa o patteggiamento o cedimento né dello Stato né di altri, per noi avevano il significato di quella unità responsabile e democratica che, su eventi di fondo, riguardanti il diritto e la vita, in una Repubblica di democrazia politica non può non unire opposizione e governi".

"Il Ministro Sarti ritiene ora di dichiarare a chi cerca di linciare il partito e il Gruppo parlamentare radicale che più di ogni altro hanno concorso a salvare la vita di D'Urso, e - per quanto possibile - la stessa dignità dello Stato che il nostro comportamento non è stato né lecito né leale".

"Dinanzi a tale squallida mancanza di pudore e di senso dello Stato e della dignità civile e personale, non abbiamo difficoltà - noi - a fornire al giudizio dell'opinione pubblica ed a quello politico del Parlamento i fatti sui quali è ora necessario fare interamente luce".

"Ora, al Ministro Sarti, non resta che l'arduo compito di dimostrare quanto afferma e che diciamo il falso, o di dimettersi".

"Il Ministro Sarti - aggiunge Pannella lo stesso giorno - respinge quel che gli scomoda. E' comprensibile ma anche patetico e risibile. I fatti che egli conferma sono questi: 1) che egli ha invitato a casa sua il deputato radicale De Cataldo; 2) che egli ha comunicato (non al Parlamento, non al Governo, non ad altri gruppi - a meno di smentita) che l'indomani avrebbe evacuato - finalmente? - dei detenuti dall'Asinara, sensibile alle richieste delle br tanto quanto era stato sordo a quelle dei radicali e in definitiva del Parlamento; 3) che egli ha seguito lo svolgimento della visita, del tutto legale e legittima, non solo nel principio ma nella conduzione, dei parlamentari radicali al carcere di Trani; 4) che egli ha avuto tutto il tempo ed il modo di preavvisare l'autorità giudiziaria della esistenza di un documento che avrebbe potuto essere sequestrato, prima che venisse reso pubblico; 5) che egli ha usufruito da parte della opposizione radicale di una preconcetta fiducia, relativa quanto meno alla sua lea

ltà sia nei confronti dello Stato sia nei confronti dei radicali, a quanto pare mal riposta, così come la cortesia di accettare di incontrarlo nella sua privata abitazione, invece che nel suo ufficio; 6) il Ministro conferma, anche, il suo tentativo di pregiudicare l'inchiesta ministeriale, per ciò stesso ormai invalidata, sull'operato dei parlamentari radicali a Trani, che il Ministro ha direttamente seguito, e incoraggiato finché la sua viltà non l'ha ora indotto a cercare di sconfessare".

Fermiamoci qui, per economia di cronaca, anche se il caso D'Urso è tutt'altro che chiuso.

Conclusa certamente è la vicenda del magistrato e gli accadimenti politici che l'accompagnano. Ma il sequestro e la sopravvivenza del giudice hanno dato valore ultimativo, nel nostro Paese, ad uno scontro di civiltà e di culture, e dunque a uno scontro politico destinato a durare.

Cyrus
21-03-10, 09:20
indice
pag 1 Mario Pannunzio
pag 2 Ernesto Rossi
pag 3 Adelaide Aglietta
pag 4 Leo Valiani
pag 5 Felice Cavallotti
pag 6 Ernesto Nathan
pag 8 Ernesto Rossi (2ap)
pag 9 Luigi Del Gatto
pag 9 Adele Faccio
pag 12 Antonio Russo
pag 14 Guido Calogero
pag 15 Leonardo Sciascia
pag 17 Guido Calogero (2ap)
pag 18 Franco Roccella

Cyrus
08-04-10, 11:46
Leopoldo Piccardi
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Leopoldo Piccardi (Ventimiglia, 1899 – Roma, 1974) è stato un politico italiano, già consigliere di stato ed esponente del Partito Radicale.

Fu ministro delle Corporazioni (commercio e industria) nel I Governo Badoglio; in questo ruolo propose la nomina a commissari straordinari delle confederazioni sindacali di Bruno Buozzi, Guido De Ruggiero, Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi, Oreste Lizzadri, Gioacchino Quarello, Giovanni Roveda, Ezio Vanoni.

Fu poi nominato commissario straordinario dell'IRI[1].

Nel 1955 partecipò ad alcuni incontri organizzati dagli Amici del Mondo, e prese parte ad un Comitato esecutivo incaricato di formare un nuovo partito; il 28 febbraio 1959 fu eletto nella segreteria del Partito Radicale insieme con Franco Libonati, Arrigo Olivetti ed Eugenio Scalfari.

Il 6 novembre 1960 fu eletto consigliere comunale a Roma.

Nel 1971 sottoscrisse l'appello pubblicato sul settimanale L'Espresso contro il commissario Luigi Calabresi.
Il "caso Piccardi" [modifica]

Nel 1961 lo storico Renzo De Felice, nel corso delle sue ricerche sul razzismo in Italia, scoprì che Piccardi, in qualità di consigliere di stato, aveva partecipato nel 1938 e 1939 a due convegni giuridici italo-tedeschi sul tema "Razza e diritto", destinati ad essere il luogo dell'elaborazione teorica delle leggi razziali. Nel dicembre 1961 Mario Pannunzio ed altri "Amici del Mondo" condannarono Piccardi, chiedendone le dimissioni dal Partito, mentre gli furono solidali Ernesto Rossi, che aveva sulle spalle anni di collaborazione con "l'amico del Mondo", e Ferruccio Parri. La segreteria e la direzione del Partito si dimisero; per alcuni mesi si protrassero le contrapposizioni, e il Partito Radicale sostanzialmente si disfece.

Nell'ottobre 1962 Piccardi, insieme ad altri esponenti radicali, chiese lo scioglimento del Partito e la confluenza nel PSI, ma i contrasti interni lo spinsero alle dimissioni.

Cyrus
08-04-10, 11:47
VERSO IL REGIME. Autori: Mario Boneschi, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi. A cura di Sergio Bocca, introduzione di Paolo Pavolini.
Di Boneschi Mario, Piccardi Leopoldo, Rossi Ernesto - 31 gennaio 1959
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VERSO IL REGIME. Autori: Mario Boneschi, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi. A cura di Sergio Bocca, introduzione di Paolo Pavolini.

Editori Laterza, Bari 1960. Pagg. 330

SCHEDA LIBRARIA

SOMMARIO: “Che cosa è un regime? Per Mario Boneschi è ‘un sistema politico nel quale una parte esercita il potere secondo le proprie parziali concezioni, senza possibilità di ricambio, forzando gli istituti politici o aggirandoli, comunque creando un sistema che non è né di libertà, né di democrazia’.” Con questa citazione Paolo Pavolini introduce il volume, che è la raccolta del dibattito svoltosi al Convegno degli Amici del Mondo - l’ottavo della serie - svoltosi a Roma il 31 gennaio-1 febbraio 1959 (Titolo: “Verso il Regime”).

Come ricorda Paolo Bonetti (“Il Mondo” 1949/66, Ragione e illusione borghese, Laterza 1975), il Convegno riprendeva temi già discussi nel VI Convegno (Roma, 6-7 aprile 1957), dedicato ai rapporti tra Stato e Chiesa, nella ricerca dei modi per “condurre una battaglia liberale per la ‘certezza del diritto’ e la salvaguardia della sovranità dello Stato”. Secondo Pavolini, il Convegno “non ha neppure discusso se in Italia esista o non esista un regime”, dando per scontato che il paese fosse ormai governato in prima persona dalla democrazia cristiana, coperta dalla Chiesa e dominata dai “preti, i grossi industriali e l’alta burocrazia”. I regimi conservatori di oggi non hanno bisogno del manganello e della “tirannide brutale”, “non ripudiano la legge: la violano in silenzio”.

All’analisi di Boneschi, segue la relazione di Leopoldo Piccardi, che (sempre secondo Pavolini) “non ha proposto vere novità”. Le sue richieste tendono infatti ad attribuire ai “corpi intermedi” (Consigli regionali, ecc.) “maggiori poteri”, togliendoli ai “funzionari e delegati del governo”: per questa via si potrà dar mano alla ricostruzione di uno Stato in sfacelo. Ascarelli, però, “replica a Piccardi manifestando i propri dubbi sull’efficacia di questi provvedimenti”. Per la Malfa, il problema è quello delle forze politiche che siano disposte a battersi per gli obiettivi indicati.

Ernesto Rossi, infine, presentava al Convegno un “completo progetto di riforma della Rai-TV”, tendente a riportare l’Ente ai compiti suoi propri.

NOTA: Il Convegno (e dunque il volume che ce ne dà i documenti) è molto importante. Per la prima volta a livello così massiccio viene infatti impiegato, dai redicali del “Mondo”, il termine di “regime” per definire il sistema politico imperante in Italia e facente pernio sulla Democrazia Cristiana. C’è insomma in questi testi una prima consapevolezza di una realtà che si viene modellando in forme ben diverse da quelle di una democrazia occidentale schietta e da quelle, anche, auspicate da larga parte del gruppo, autenticamente liberale, del giornale. La definizione non viene del resto accettata pacificamente, al suo interno, da tutti; viene respinta in particolare da coloro che cominciavano a intravedere nel centro-sinistra una ipotesi di crescita democratica: e tra di loro, con maggior decisione, dai lamalfiani come Giovanni Ferrara. Ovviamente, all’opposto si collocavano figure come E.Rossi. Si profila dunque, tra “Gli amici del Mondo” una divaricazione di giudizio che - siamo già nel 1959 - porterà tra po

co allo sfaldamento del gruppo e dello stesso partito radicale, sfaldamento contrastato solo dalla “sinistra” di Pannella, che assumerà e farà totalmente propria quella definizione di “regime” applicata al sistema-Italia.

Indice del volume: Introduzione, di Paolo Pavolini. La crisi delle Istituzioni, di Mario Boneschi (discussione e replica). Che cosa fare?, di Leopoldo Piccardi (discussione e replica). Per una

riforma della Rai-TV, di Ernesto Rossi (discussione). Appendice: La mozione conclusiva del Convegno; Un progetto di legge per la riforma della RAI.

Cyrus
08-04-10, 11:49
Archivio Partito radicale
Il Mondo - 24 gennaio 1956
PER UN PARTITO MODERNO

SOMMARIO: Si riporta il testo del documento del Comitato esecutivo provvisorio del neonato Partito radicale, con l'annuncio della "convocazione di un'assemblea", il "programma di lavoro" e un nutrito elenco di primi aderenti e partecipanti all'assemblea stessa. Le lettere di G.Calogero e L.Piccardi cui viene fatto riferimento sono anch'esse in archivio, come testi rispettivamente n. 5953 e n. 5954.

(IL MONDO, 24 gennaio 1956)

I nostri lettori hanno già potuto seguire nella stampa le vicende della fondazione e dei primi passi del Partito Radicale. Oggi che la fase iniziale della vita delle nuova formazione si è conclusa e che il Partito Radicale, forte dei consensi e delle adesioni di gruppi affini e di personalità indipendenti, si accinge a intraprendere l'opera di espansione e di consolidamento, pubblichiamo un documento nel quale il Comitato Esecutivo Provvisorio dà notizia dell'attività svolta e annuncia la convocazione di un'assemblea, il programma di lavoro e i nomi dei partecipanti. Tra questi, gli amici del Mondo ritroveranno molti degli uomini cui sono ormai legati da una e affettuosa consuetudine, come lettori del nostro giornale.

Al comunicato del Comitato Esecutivo Provvisorio facciamo seguire la pubblicazione di altri due documenti: la lettera con cui Guido Calogero, annunciando la sua adesione al Partito Radicale, traccia le linee d'azione di un partito che voglia affrontare modernamente i problemi del nostro Paese; e un'altra lettera, che Leopoldo Piccardi, accomiatandosi dagli amici di Unità Popolare, ha indirizzata a questi e insieme ai radicali.

"Il Comitato Esecutivo Provvisorio del P.R.L.D.I., avendo esaurito il mandato affidatogli di prima organizzazione del Partito ed avendo concluso gli accordi con le forze affini che vi confluiscono, impegnate ad una comune opera di rinnovamento democratico; constatato il vasto e crescente consenso con cui in ogni parte d'Italia eminenti uomini della cultura, delle professioni e del lavoro hanno accolto la nuova iniziativa politica, ravvisa l'urgenza di investire di piena responsabilità un organismo largamente rappresentativo dell'attuale consistenza del Partito, che potrà poi ampliarsi secondo gli sviluppi della situazione.

Di conseguenza, valendosi dei poteri conferitigli, il Comitato Esecutivo Provvisorio, integrato dall'avvocato Leopoldo Piccardi e dal dottor Leo Valiani, ha convocato un Convegno Nazionale in Roma nei giorni 4 e 5 febbraio, presso la nuova sede centrale del partito, in Via Colonna Antonina 52 (Piazza Montecitorio). Tale Convegno Nazionale dovrà approvare lo statuto del partito, designare gli organi dirigenti, predisporre un immediato piano di lavoro. I nuovi organi così costituiti resteranno in carica fino al I congresso nazionale del partito che sarà convocato entro l'anno. Al Convegno Nazionale del 4 e 5 febbraio parteciperanno:

Mario Abbamonte, Nicola Adelfi, Vittorio Albasini Scrosati, V.E. Alfieri, Ada Ali, Barbara Allason, Eugenio Amaradio, G.B. Angioletti, Sandro Ancona, Libero Andreoli, Carlo Antoni, Fulvio Anzellotti, Francesco Argenta, Roberto Ascarelli, Assayas Yvonne, Aurelio Aureli, Giancarlo Bagarotto, Tito Ballati, Alberto Balocco, Luigi Bassoli, Silvio Bassone, Mario L. Bellodi, Arrigo Benedetti, Alessandro Bergonzoni, Mario Bersellini, Lucio Bevilacqua, Alessandro Bodrero, Mario Boneschi, Romano Bracaloni, Enrico Buondonno, Antonio Coffano, Mario Cagli, Guido Calogero, Pasquale Calvario, Augusto Camera, Piero Camilla, Riccardo Capobianco, Giuseppe Caporale, Nicolò Carandini, Carmelo Carbone, Leone Cattani, Vindice Cavallera, Costantino Cavarzerani, Antonio Cederna, Giulio Cervani, Nicola Chiaromonte, Enrico Ciantella, Andrea Chiti Battelli, Carlo Cocchia, Francesco Colotti, Guido Colucci, Francesco Compagna, Angelo Conigliaro, Giovanni Contarello, Luciano Contro, Aldo Cremonini, Ferdinando Croce, Franco Croce Bermondi

, Brunello D'Addario, Alberto Damiani, Vincenzo D'Audino, Vittorio De Capraris, Sandro De Feo, Domenico De Monte, Manlio Del Bosco, Silvestro Delli Veneri, Carlo Di Stefano, Gino Doria, Fabio Fabbri, Carlo Falconi, Mario Fazio, Elio Fazzolari, Giovanni Ferrara, Mario Ferrara, Francesco Ferrazzani, Guglielmo Ferrero, Carlo Fiori, Ennio Flaiano, Letizia Fondo Savio, Mario Fonio, Bruno Fonzi, Franco Formiggini, Gino Fornaci, Gino Frontali, Vittorio Frosini, Luigi Furlotta, Francesco Gabrieli, Giuliana Gadoli, Plinio Galante, Fernando Gandusio, Filippo Garofalo, Edoardo Gatta, Marco Giolito, Pino Gogliettino, Giorgio Granata, Paolo Greco, Ugo Guanda, Franco Invernizzi, Felice Ippolito, Giuseppe Izzo, Giuseppe Latis, Guido La Rocca, Umberto Lattanzi, Mario Leone, Alessandro Leone Di Tavagnasco, Franco Libonati, Emilio Lo Pane, Luciano Lorciet, Vincenzo Luppi, Egidio Liberti, Mino Maccari, Manlio Magini, Dante Malagoli, Giovanni Marchiafava, Biagio Marin, Marino Marini, Lily Marx, Libero Marzetto, Gianni Mazzocchi

, Francesco Messineo, Bruno Minoletti, Giacomo Molle, Alberto Mondadori, Raffaello Morghen, Ottavio Molisani, Guido Musaffia Tiberini, Arrigo Olivetti, Francesco Oneto, Salvatore, Onufrio Mario Paggi, Livio Palange, Elvino Paltrinieri, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Anton Luigi Pauletti, Mario Pari, Silvio Parodi, Paolo Pavolini, Carlo Persiani, Carlo Petrocchi, Leopoldo Piccardi, Arnaldo Pirola, Gina Pischel, Giuseppe Piva, Ferdinando Polistina, Neri Pozza, Costantino Preziosi, Fernando Previtali, Franco Provenzali, Giorgio Radetti, Salvatore Rea, Attilio Riccio, Eugenio Riccio, Franco Rizzo, Franco Roccella, Fulvio Rocco, Guido Rollier, Rosario Romeo, Ernesto Rossi, Umberto Rossi, Nina Ruffini, Giuseppe Salto, Carmelo Saetta, Lucio Salza, Max Salvadori, Lionello Santi, Eugenio Scalfari, Paolo Serini, Carlo Sequi, Luigi Sferrazza, Gianfranco Sforzi, Mario Soldati, Vincenzo Sozzani, Mario Spada, Sergio Spagnul, Michele Spinelli, Tito Staderini, Giuseppe Stammati, Sergio Stanzani, Fabio Suadi, Antonio Tesca

ri, Paolo Ungari, Giovanni Urbani, Guido Valchera, Nino Valeri, Leo Valiani, Guido Veneziani, Ludovico Verzellesi, Giorgio Vigolo, Bruno Villabruna, Jacopo Virgilio, Elio Vittorini, Emilio Vivaldi, Irma Zampini, Antonio Zanotti, Emilio Zenoni, Gaetano Zini Lamberti".

Il Comitato Esecutivo Provvisorio:

Carandini, Pannunzio, Piccardi, Valiani, Villabruna.

Cyrus
08-04-10, 11:52
Non sarebbe onesto se tralasciassimo un punto di dissenso di un qualche significato. Michelotti ricorda il contrasto, durissimo, che oppone Mario Pannunzio, direttore de Il Mondo, al segretario radicale Leopoldo Piccardi: il casus belli è la controversa partecipazione di Piccardi a un congresso di giuristi italiani e tedeschi, nel 1939, rivelata da Renzo De Felice nella sua Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo. Rossi si schiera con Piccardi, e rompe con il gruppo de Il Mondo. Il Partito Radicale da questa vicenda esce con le ossa rotte, una crisi non sanabile e mortale. Il contrasto vero, naturalmente, andava ben al di là del singolo episodio; c’è un nodo politico: Piccardi ed Eugenio Scalfari impegnati a favorire il centro-sinistra e per un’alleanza elettorale con il PSI; Giovanni Ferrara, Stefano Rodotà, Lino Iannuzzi favorevoli a un’opzione “centrista” con PRI e PSDI; Marco Pannella e la “sinistra radicale” per l’alternativa alla DC: unità laica delle forze, contro la vagheggiata unità delle forze laiche. E si arriva al nostro punto di dissenso. Michelotti scrive:

“…‘impolitico’ per eccellenza, come è stato definito da Lorenzo Strik Lievers, avrebbe comunque avuto difficoltà a venire a patti con la politica…” (pag.160). Ernesto Rossi: storia di un fantasma italiano « Abeona forum (http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:fEhCkJ6Zm3sJ:abeonaforum.wordpress. com/2007/02/27/ernesto-rossi-storia-di-un-fantasma-italiano/+leopoldo+piccardi&cd=26&hl=it&ct=clnk&gl=it)

Cyrus
08-04-10, 11:54
29 maggio 2008
Dal Foglio di giovedì 29 maggio
Il saluto romano si fa in un solo modo. Scalfari intervistato da Buttafuoco / 2
Il fondatore si racconta (con spirito e una punta d'orgoglio)

[…] Bisogna dire che Eugenio Scalfari è anche un uomo di spirito, l’imprinting c’è tutto e a vederlo col braccio levato, pur da seduto alla sua scrivania nell’ufficio a largo Fochetti (il regno da lui creato da dove oggi s’emana il gruppo editoriale L’Espresso-La Repubblica) l’effetto è strepitoso. “Il saluto romano si fa in un solo modo. Tanto per cominciare s’avanza a passo marziale, quasi un passo dell’oca, dopo di che si porta il palmo della mano aperta all’altezza degli occhi, ci s’irrigidisce e si battono i tacchi”.
Eugenio Scalfari che s’impossessò del fascismo dei giovanissimi avrebbe ricevuto l’encomio da Achille Starace in persona: “Perdevamo mesi e mesi per imparare queste stronzate”.
Appuntamento a largo Fochetti, palazzo “Repubblica”, quello che per i taxi è via Cristoforo Colombo 90. Eugenio Scalfari che ha dedicato al fascismo un bellissimo capitolo del suo commovente romanzo autobiografico, “L’uomo che non credeva in Dio” (Einaudi), non ha cancellato le tracce. Non ha vissuto la doppiezza né quel patto di rimozione collettiva cui, al contrario, la maggior parte dei “redenti” ha fatto affidamento per poi fabbricare la verginità democratica e antifascista.
Scalfari che accetta di raccontarci il suo viaggio attraverso l’Italia del Duce quando “quaranta milioni di fascisti scoprirono di essere antifascisti”, ci ricorda la polemica che nell’Italia ormai matura di democrazia investì Leopoldo Piccardi: “In una nota a margine di uno dei libri di Renzo De Felice si venne a sapere di una partecipazione di Piccardi nel 1936 ad un convegno sulla razza a Berlino. […]

Il saluto romano si fa in un solo modo. Scalfari intervistato da Buttafuoco / 2 - [ Il Foglio.it › La giornata ] (http://www.ilfoglio.it/soloqui/391)

Cyrus
08-04-10, 11:55
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Un programma radicale
Di Piccardi Leopoldo - 14 dicembre 1957
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Un programma radicale

di Leopoldo Piccardi

SOMMARIO: Il testo dell’intervento svolto dall’avv. Leopoldo Piccardi nel corso dell’ultimo Consiglio Nazionale del Partito Radicale (14/15 dicembre 1957) sui seguenti temi: la resistenza; il pericolo clericale; ricostruire lo Stato, l’abolizione dei prefetti, la lotta contro i monopoli; il problema agrario, il sottogoverno

(Opuscolo del PARTITO RADICALE, stampato il 22 marzo 1958)

Quello che vi farò è un breve discorso improvvisato che ha per oggetto il programma del partito, ma che non ha naturalmente l’ambizione di esaurire l’argomento. Mi limiterò a darvi qualche notizia, anche a nome del Comitato Studi, sul progresso dei nostri lavori in questo campo, e qualche indicazione sulle linee programmatiche del nostro partito nella prossima battaglia elettorale secondo quella che mi pare essere l’opinione generale e concorde di tutti i nostri aderenti.

Come voi sapete, noi avevamo un disegno piuttosto ambizioso: quello cioè di fare un programma che non si esaurisce in quei pochi punti elencati sotto numeri o lettere, come si usa fare, ma un programma ragionato che trattasse punto per punto, problema per problema, i principali aspetti della vita politica ed economica del paese. Come vedete, era una grande ambizione: e già ve ne siete resi conto quando ve ne abbiamo parlato altra volta. Si trattava in sostanza, nelle nostre previsioni, di fare qualcosa che potesse rassomigliare, per riferirci a un esempio noto, ai saggi fabiani. A questo lavoro ci siamo accinti con larghe collaborazioni anche da parte di persone che non appartengono al nostro partito, ma che sono in certo modo nella cerchia, non voglio dire ideologica, ma di idee e di opinioni nella quale si muove il nostro partito. Le difficoltà che abbiamo trovate sono quelle che avevamo previste e forse anche superiori. In questo periodo, ci sono tuttavia pervenute alcune relazioni, e credo che esse siano

già state distribuite a tutte le Sezioni perché raccogliessero le opinioni e le osservazioni di tutti i nostri soci: non so se questa raccolta sia già avvenuta e vorrei raccomandare che si faccia senza ritardo. Comunque ci pare estremamente inverosimile che, nel breve giro di tempo che ci divide ancora dalle elezioni, possiamo mettere a punto il volume per essere tempestivamente stampato e pubblicato. Questo anche perché noi desideriamo che il volume sia espressione di opinioni che, se anche formulate a titolo personale per non impegnare troppo il partito, abbiano una certa rispondenza con il modo di vedere della generalità dei nostri aderenti.

Dovremo quindi affrontare la lotta elettorale, probabilmente, senza questo strumento di lotta, che ci sarebbe stato molto utile. Noi non ci nascondiamo naturalmente che le elezioni non si fanno coi volumi. Se anche lo avessimo avuto questo volume, questo avrebbe potuto fornire materiale di propaganda a tutti coloro che dovranno partecipare alla lotta elettorale, ma la sua utilizzazione non avrebbe potuto varcare certi limiti. Chi è pratico di elezioni sa bene quale è, nei comizi, il grado di approfondimento dei problemi. Riteniamo quindi che la cosa più importante sia da segnare alcune grandi direttive della nostra propaganda, direttive per quanto possibile concrete: e credo che questo risultato lo otterremmo semplicemente obbedendo al nostro temperamento, forse più concreto di quello di coloro che militano in altri partiti politici. Insieme alla concretezza, ci distinguerà da altri l’assenza di demagogia: e anche a questo proposito non dovremo fare altro che obbedire al nostro temperamento, che non è demago

gico. Finiremo quindi già coll’entrare nei particolari assai più di quanto non sia normalmente tollerato dal pubblico che si raccoglie su una piazza in tempo di competizione elettorale.

Non è facile dire in poche parole quali possono essere le grandi direttive della nsotra propaganda elettorale. Ma il mio compito è agevolato se si tiene presente che, per quanto il nostro sia un partito di problemi, per quanto noi vogliamo tradurre la nostra azione politica nella indicazione di possibili soluzioni, le nostre proposte hanno una validità solo in quanto si riallacciano a una linea politica. Quindi voi trovate già le fondamentali indicazioni programmatiche nella relazione del nostro segretario, l’amico Olivetti, il quale, ricordandovi le grandi direttive del partito, vi ha anche detto quali dovranno essere le linee della nostra propaganda elettorale.

La Resistenza

Direi, per riassumere in poche parole la nostra posizione, che il nostro partito parte della consapevolezza dello stato di totale disfacimento nel quale si trova il nostro paese all’atto dell’evvento del fascismo. Non ci illudiamo cha la dittatura fascista sia stata un fatto occasionale: tutti ci rendiamo conto che se il fascismo ha potuto giungere al potere è perché il vecchio Stato italiano era ormai completamente logorato e distrutto. Sappiamo che il fascismo non ha fatto nulla per la costruzione di un nuovo Stato italiano. Tutti abbiamo creduto che la fine del fascismo, la lotta di liberazione, la Resistenza, e la ripresa di una vita democratica avrebbero reso possibile la ricostruzione dello Stato italiano. Ma purtroppo questa azione è stata ostacolata da forze potenti e ha trovato in Italia anche scarse energie per attuarla. Quindi la nostra posizione è quella di un partito che non è rivoluzionario, perché noi siamo convinti che in Italia non esiste una situazione rivoluzionaria; che non è classista pe

rchè, a prescindere dalle nostre ideologie, non crediamo che in Italia esista una classe capace di creare da sola una nuova compagine sociale e statale; di un partito il quale ritiene che si debbono raccogliere tutte le energie disponibili nel disperato tentativo di rifare lo Stato italiano.

Quindi la nostra lotta politica e la nostra lotta elettorale vanno in due direzioni: chiamare a raccolta tutte le energie che esistono ancora in Italia per l’attuazione del nostro scopo fondamentale; contrastare le forze che si oppongono alla ricostruzione dello Stato italiano. Il primo problema ci mette di fronte a quell’aspetto della lotta politica attuale del quale avete avuto voi stessi coscienza attraverso le più recenti manifestazioni, voglio dire il problema di riunire ancora le forze scatenate dalla lotta contro il fascismo e dalla Resistenza, di valorizzarle, di riportarle in primo piano: quella lotta per la difesa dei valori dell’antifascismo e della Resistenza che ha avuto proprio in questo periodo dei momenti assai significativi. E voi avete visto che il PR in questa lotta è stato fra i primi, perché ritiene che essa sia fondamentale.

Noi siamo pienamente corresponsabili di quello che sta avvenendo, noi partecipiamo a tutte le riunioni nelle quali si sta delineando una politica che tende appunto a risollevare i valori della Resistenza. Procederemo con la consueta chiarezza, perché non siamo soliti fare confusioni: abbiamo detto e continuiamo a dire che noi siamo disposti a celebrare in ogni momento i valori della Resistenza con tutti coloro che vi hanno partecipato, ma che con alcuni di costoro noi non siamo disposti a fare un passo di più, oltre questa doverosa celebrazione della lotta comune.

Direi che, arrivati a questo punto, la responsabilità spetta al Governo. E sarà bene che cominciamo tutti a fare al Governo un chiaro discorso. Noi ritenevamo che i compiti della lotta antifascista e della lotta di liberazione si fossero esauriti con la caduta del fascismo e con la liberazione del suolo nazionale. Ci sorprende e ci rammarica vedere che questi problemi sono ancora vivi e che si deve oggi riprendere la lotta; e mette tutti noi in una condizione di disagio il dover partecipare a uno schieramento che non corrisponde alle nostre posizioni politiche attuali. Veda il Governo, veda la DC se è loro convenienza riportare la lotta politica italiana a una fase ormai superata, quando ci sono ben altri problemi che urgono.

Scusate la digressione ispirata dalle passioni che ci animano in questo momento, ma non c’è dubbio che uno degli aspetti più importanti della nostra campagna elettorale dovrà essere il costante richiamo alle forze dell’antifascismo e della lotta di liberazione, nelle quali noi riconosciamo le sole forze con l’aiuto delle quali si può tentare di costituire in Italia un nuovo Stato democratico. La parte positiva del nostro programma non si esaurisce in questa campagna per la difesa dei valori dell’antifascismo e della Resistenza, ma trova indubbiamente in essa il suo principale pilastro.

Il pericolo clericale

Accanto a questa opera tendente a stimolare e raccogliere le forze che possono concorrere alla ricostruzione dello Stato, vi è il compito della difesa di questo rinascente Stato italiano contro le forze che l’insidiano. Compito che parrebbe presentare due aspetti, ma che in realtà si svolge in unica direzione. Si potrebbe pensare all’esigenza di difesa della nostra democrazia dagli attentati del rinascente fascismo: ma, a dire il vero, io non ho grandi preoccupazioni al riguardo, e vorrei sperare non ne abbiate neppure voi. Non ci dobbiamo preoccupare oggi di una lotta contro il fascismo: la lotta positiva per la rivalorizzazione dell’antifascismo e della Resistenza comprende in se stessa quel tanto che ci può essere di reazione alle stolte provocazioni di gruppi che non hanno importanza per se stessi e che servono interessi contro i quali noi dobbiamo reagire in altre forme. Ma il profilo più importante della nostra lotta, della difesa di questo rinascente Stato italiano contro i pericoli che l’insidiano, i

l solo che conta, è la lotta contro il pericolo clericale. Non stanchiamoci di combattere questa battaglia. Io ho davanti a me il nostro amico Ernesto Rossi che potrebbe riassumere la sua vita in questo modo: fino a un certo punto lotta contro il fascismo, da quel punto in poi lotta contro il clericalismo. Una vita bene spesa. Non dobbiamo avere paura di sentirci dire, né da avversari, né da amici, che noi siamo persone ferme su posizioni ormai superate da un secolo, che noi siamo gente antiquata, che noi siamo gente che non capisce i problemi del giorno. Il problema del laicismo è il problema del giorno, qualunque cosa dicano questi : perché non basta che i preti vadano in motoretta e che le suore guidino la multipla per essere moderni; ci vuole ben altro. Noi siamo persuasi che i siamo noi, perché il problema della difesa dello Stato democratico contro qualsiasi concezione teocratica e soprattutto contro quella antica concezione teocratica che ispirava il potere temporale della Chiesa, è

una lotta che è sempre più attuale. E’ la lotta che è al fondo di tutta la situazione italiana. Io vado parlando in questi giorni qua e là sul problema del raduno della Resistenza e man mano che parlo mi convinco sempre di più che è inutile fare il processo a Zoli perché non autorizza il raduno. Il fatto che Zoli non autorizzi il raduno significa che egli è schiavo delle gerarchie ecclesiastiche. Nessuno può dire in buona fede che che Zoli sia un fascista: queste sono sciocchezze che si possono dire a scopo polemico e con ben scarso risultato. Se l’on. Zoli, Presidente del Consiglio, non può dare sfogo a quelli che sono stati sempre i suoi sentimenti, se è inchiodato su una posizione che evidentemente non gli piace, è perché egli è schiavo di forze di fronte alle quali la distinzione tra fascismo e antifascismo è irrilevante. La storia della Chiesa - e l’amico Rossi ce ne ha dato un’ampia dimostrazione - non è la nostra: non è stata la nostra quando si è fatta l’Italia, perché l’Italia si è dovuta fare cont

ro la Chiesa; né il fascismo ha trovato un oppositore nella Chiesa, la quale anzi lo ha ampiamente favorito. Sarebbe veramente troppo pretendere che la Chiesa si mettesse ora su una posizione di rigido antifascismo, di difesa dello Stato dal fascismo. Evidentemente per quel settore della vita italiana, fascisti e antifascisti sono tutti uguali purché siano pronti e genuflettersi al momento opportuno. E siccome questa propensione alla genuflessione si trova oggi più in quel settore che nel nostro, o in altri settori che ci sono vicini, così non ci sorprende affatto la preferenza di Santa Madre Chiesa e del partito da essa ispirato, verso certi ambienti che non sono quelli che piacciono a noi.

La lotta antinucleare va condotta a fondo. Credo che nella campagna elettorale sarà veramente la nostra nota distintiva, perché parleremo senza alcun riguardo, senza alcuna remora, dicendo tutto quello che pensiamo del partito che rappresenta il settore clericale della vita italiana e di quello che sta dietro a esso. L’alleanza che noi facciamo col PRI non ci impedisce questa azione, anzi potrà, sono certo, renderla più efficace. Comunque, sia ben chiaro che questa è la posizione nostra e che da essa nulla potrà farci deflettere.

Ai fini di una campagna elettorale credo che questa indicazione sia sufficiente. Noi abbiamo certe idee per quel che riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa; voi tutti quanti conoscete il volume che contiene gli atti del Convegno degli , nel quale molti di noi hanno avuto occasione di esprimere il proprio pensiero. Quindi sapete quali sono gli orientamenti del nostro gruppo circa una possibile soluzione di carattere permanente dei rapporti tra Stato e Chiesa. Ma difficilmente voi avrete occasione di impegnarvi nella campagna elettorale sugli aspetti più concreti del problema, se si debba tenere un atteggiamento rigorosamente anticoncordatario, se si debba spingere il separatismo all’estremo, oppure se si debbano accettare le soluzioni che rappresentino un compromesso fra giurisdizionalismo e separatismo, e così via. Tutto questo in una campagna elettorale si perde. Quello che è importante che non si perda è la nota della difesa dello Stato, di anticlericalismo non inteso come antipatia verso

un certo settore della vita italiana, ma come esigenza elementare della ricostruzione dello Stato. Come vedremo, tutti gli altri problemi si riconducono a questo.

Ricostruire lo Stato

Quando noi parliamo della scuola, il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa è in primissimo piano: il diritto dello Stato di educare è una delle prerogative che non possono essere contestate allo Stato se veramente lo si vuole ricostruire. Il diritto dello Stato di assistere i cittadini è un altra prerogativa fondamentale dello Stato moderno; se noi siamo disposti a cedere l’assistenza alla Chiesa, perché la faccia con i nostri quattrini, riducendola a semplice carità, lo Stato è finito. Come dicevo, questa è veramente la nota fondamentale di ogni nostro discorso.

Quando parliamo di difesa dello Stato democratico contro le forze che l’insidiano, noi non possiamo dimenticare però un altro dei nostri temi favoriti, che è sullo stesso piano, per quanto sembri appartenere a un mondo diverso, cioè al mondo dell’economia: voglio dire la lotta contro i monopolio. Lo Stato italiano non sorgerà mai finché vi sono delle forze, si chiamino spirituali o economiche, capaci di impedirne la nascita o di demolire le sue strutture mano mano che timidamente vengono costruite. La lotta contro i monopoli sarà un’altra delle grandi direttive della nostra propaganda elettorale.

Partendo da queste premesse, potremmo venire a problemi più concreti che sono sempre i problemi della ricostruzione dello Stato. Perché noi, facendo leva sulle forze che tentiamo di ridestare attraverso la rinnovata propaganda dell’antifascismo e dei valori della lotta di liberazione e con una lotta implacabile contro tutte le forze che si oppongono alla rinascita dello Stato democratico, dovremo tendere all’affermazione delle nostre vedute sulla struttura e sul funzionamento dello Stato. Qui naturalmente i problemi si affollano: e ben difficilmente nella propaganda elettorale potremo scendere in profondo nella trattazione di essi. Dovremo piuttosto concentrarci di dare alcune grandi indicazioni. Ricostruire lo Stato vuol dire rifarlo dall’interno, ricostruirne le strutture, e innanzitutto rimettere in piedi un’amministrazione che sia degna di questo nome. Però tante volte ho fatto questa esperienza: quando voi parlate dei problemi dell’amministrazione statale, subito il pubblico comincia ad avere l’impressi

one di trovarsi di fronte a un grande argomento tecnico, che non l’interessa. Quindi dovremo accontentarci di fare un’opera di critica - e la possiamo fare in buona coscienza - nei confronti di tutti i governi che si sono succeduti dalla liberazione in poi: perché di questo problema si sono mostrati tutti assolutamente inconsapevoli; e quando hanno voluto fare le viste di affrontarli, hanno inscenato quella commedia che si è chiamata riforma burocratica. Non tutti voi avrete avuto la pazienza o l’interesse di esaminarla nei suoi particolari, ma se lo avete fatto, vi sarete accorti che è veramente la più ignobile truffa che si sia perpetrata in questo periodo. I governi che si sono succeduti dalla liberazione in poi non soltanto non sono riusciti a mettere ordine nella caotica situazione della nostra amministrazione e dell’organizzazione dello Stato in genere, ma l’hanno lasciata continuamente declinare e peggiorare. Ragione per la quale non possiamo ben dire che lo Stato italiano oggi è arrivato così in bass

o come non era mai stato, neanche durante il fascismo. Questa è dunque una battaglia che possiamo fare con la coscienza tranquilla, perché tutti i governi che si sono succeduti finora ce ne hanno dato ampia occasione e ampia giustificazione.

L’abolizione dei prefetti

In questa materia vi sono forse alcuni punti che noi non ci potremo esimere dal trattare, perché sono punti che hanno una certa risonanza anche in un grande pubblico. Voglio alludere soprattutto al problema delle regioni. E’ un problema delicato sul quale vi possono essere opinioni parzialmente divergenti: con questa avvertenza, non vorrei però rinunciare a dire che le regioni, secondo me, sono uno degli strumenti essenziali allo Stato democratico italiano. Tanto più essenziale in quanto la regione è il presupposto dell’abolizione dei prefetti, sulla quale noi ci dovremo battere senza nessuna esitazione. Non potrà farci esitare neppure il fatto che i comunisti ne hanno fatto la propria parola d’ordine; purtroppo accade spesso che da quella parte si tenti di rubarci il mestiere, ma questo non ci deve arrestare. Istituzione della regione e abolizione dei prefetti sono due problemi intimamente connessi: più si riflette e più la cosa appare evidente.

Lo Stato moderno è diventato cosa talmente complicata e complessa che giustifica al tempo stesso due esigenze opposte: quella di un massimo accentramento e quella di un massimo decentramento. Nella funzione che esercita uno Stato moderno c’è spazio sia per una e per l’altra tendenza. Ma per noi, democratici sinceri, il solo decentramento che merita di essere difeso è quello che si basa sulla realtà di una comunità locale; il vero decentramento è quello dei comuni, non dico delle provincie, perché se noi arriveremo alle regioni ci accorgeremo che le provincie risulteranno superflue alla nostra organizzazione. I comuni e le regioni sono la base naturale del decentramento; non i prefetti. Quello che si basa sull’istituto prefettizio è un falso decentramento, non è democratico, non funziona tecnicamente. Fin che si rimane nel campo di funzioni amministrative affidate a organi burocratici dello Stato, l’accentramento è inevitabile: le amministrazioni dello Stato obbediscono a quelle che sono le leggi di qualunque

organismo moderno, di qualunque impresa, e tendono quindi fatalmente all’accentramento; l’attribuzione di funzioni a organi burocratici, come le prefetture, significa renderle più arbitrarie, non decentrarle nel solo senso che può rispondere a esigenze di democrazia. Quindi, per parte mia, credo che noi la lotta contro i prefetti la possiamo fare apertamente e non in modo demagogico come lo fanno i comunisti, i quali mentre proclamano, rubando lo slogan a Luigi Einaudi, che bisogna cacciare via i prefetti, si battono per l’istituzione di nuove provincie. Ancora ieri hanno dato battaglia per la provincia di Isernia; in questo momento in cui si ha ragione di rivolgere tante critiche al Governo, il Governo è sotto accusa per non avere fatto una nuova provincia nel Molise: la provincia di Isernia. Questo naturalmente non è il terreno nostro. Non so se verrà in gioco il tema delle provincie, ma quello che è sicuro, costi quello che costi, che non seconderemo nessuna di queste piccole ambizioni o vanità locali,

le quali tendono a rendere il nostro Stato sempre più conservatore e sempre più reazionario. Le organizzazioni provinciali non sono che uno dei tanti mezzi dei quali si serve un ceto medio abituato allo sfruttamento delle classi inferiori per ritagliarsi piccoli posticini di comodo, di modesta portata economica, ma tuttavia sufficienti per appagare i limitati desideri di un ceto medio di scarse risorse come quello che è proprio di certe regioni italiane. Su questo terreno nessuna indulgenza. Ma la battaglia per le regioni e l’abolizione dei prefetti va fatta. E’ inutile che io vi fornisca elementi per questa battaglia. Tutti voi sapete quello che sta succedendo nel campo delle amministrazioni locali; sapete qual è l’attuale funzione del prefetto, di questo agente elettorale che si presenta sotto la falsa bandiera dell’amministratore imparziale e, al coperto di essa, commette i più innominabili arbitri, dimenticando perfino le più elementari ragioni del decoro e della dignità. Direi che l’istituto prefettizio

andrebbe soppresso se non altro per la ragione morale che non è lecito allo Stato di ridurre la pubblica funzione fino a questo punto di degradazione.

La lotta contro i monopoli

Credo che, per quanto concerne l’organizzazione statale non sia facile dire molte altre cose in una campagna elettorale. Naturalmente vi sarà molto da dire nel settore economico. In questo campo dovremo proseguire, innanzitutto, la battaglia di cui vi ho parlato, la battaglia contro i monopoli. Per questa lotta noi possediamo già uno strumento efficace nei progetti di legge presentati dall’amico Villabruna e da esponenti di altri partiti, coi quali si tenta di avviare a una soluzione il problema. Credo che in occasione della campagna elettorale bisognerà andare oltre. Noi nel convegno dei monopoli avevamo detto chiaramente quale era la nostra posizione: noi non disconosciamo le esigenze dell’economia moderna, le quali spesso portano a grandi concentramenti di mezzi finanziari e materiali, ma riteniamo che debbano essere adottate tutte le misure opportune per evitare che esse facciano gravare sullo Stato il peso di una eccessiva influenza, impedendone il funzionamento democratico; e nell’ipotesi estrema, quan

do non vi sia altra possibilità di difesa, siamo disposti, noi che non siamo socialisti, anche ad arrivare alla nazionalizzazione di determinati settori. Nel nostro convegno avevamo propugnato la nazionalizzazione dei telefoni, problema che ora è avviato a soluzione, e avevamo indicato chiaramente, come prossima meta, la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Questo è un tema che secondo me deve continuare ad essere dibattuto nel paese. E’ un tema che verrà a scadenza abbastanza rapidamente perché i governi dell’epoca prefascista avevano già avuto la consapevolezza della direzione nella quale si muovevano le società moderne, e avevano disposto le cose in modo che, a un certo momento, attraverso il riscatto delle concessioni, lo Stato potesse acquistare il controllo di questo fondamentale settore produttivo. Ora ci andiamo avvicinando rapidamente alla scadenza delle concessioni di acque pubbliche, momento veramente determinante, nel quale il problema della nazionalizzazione dell’energia elettrica deve esse

re chiaramente impostato. E dobbiamo farlo con la coscienza che ponendo questo problema, non ci presentiamo come seguaci di idee non nostre, non ci lasciamo guidare dal mimetismo di posizioni socialistiche. La nazionalizzazione dell’energia elettrica è attuata nella maggior parte dei paesi moderni, compresi quelli dove non prevalgono ideologie socialistiche, è una misura imposta dallo sviluppo attuale dell’economia, ed è quindi una cosa che noi possiamo chiedere in base a una rigorosa applicazione dei nostri principii. E credo che sia anche un tema che non potrà non avere una risonanza fra i nostri elettori, perché noi non ci rivolgiamo ai pochissimi che hanno interessi collegati con quelli dei gruppi elettrici, ma ci rivolgiamo a un pubblico indifferente all’importo della bolletta dell’energia elettrica che si vede presentare alla fine del mese. Questo pubblico di media borghesia, di artigianato, di piccoli commercianti, non può non essere sensibile a questo problema: al quale, d’altronde, se avesse un magg

ior livello di intelligenza politica ed economica dovrebbe rivolgere la propria attenzione anche un vasto settore industriale, che non è avvantaggiato dai monopoli elettrici. Il monopolio dell’energia elettrica viene esercitato nell’interesse dei produttori e nell’interesse di quel ristretto settore della grande industria che si identifica in quei padroni del vapore dei quali Ernesto Rossi ci ha fatto un quadro indimenticabile.

Ma in materia economica noi dovremmo approfittare delle elezioni per dare due battaglie che purtroppo sono battaglie difensive. Una si ricollega a quella della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Perché il problema della nazionalizzazione dell’energia elettrica, che per se stesso, avrebbe potuto forse essere differito di qualche anno, diventa indifferibile di fronte alla entrata in gioco dell’energia nucleare. Ricordo che, parlando con esponenti di quel partito socialdemocratico il quale vanta sempre il suo classismo e il suo marxismo, ci sentivamo dire: . E’ venuta l’energia nucleare, e quel partito ha trovato soddisfacente il progetto Cortese, il quale con la nazionalizzazione non ha alcuna parentela. Questa, come dicevo, è una battaglia difensiva, perché se Italia perde la battaglia dell’energia nucleare, che purtroppo ha un carattere a

bbastanza tecnico per sfuggire all’attenzione della massa, il destino politico ed economico dell’Italia sarà segnato per un certo periodo. Io credo molto all’importanza di questi fatti concreti. Noi spesso ci perdiamo a discutere di idee generali e principii, mentre qualcuno sta compiendo fatti che non si cancellano più. Il giorno che i monopoli in Italia saranno stati ristabiliti per altri cinquant’anni - non facciamoci illusioni - la battaglia per la democrazia sarà una battaglia, non dico perduta, ma molto più aspra di quella che non avrebbe dovuto essere.

Un’altra battaglia difensiva che noi dobbiamo fare è quella della nominatività dei titoli. I governi che si sono succeduti finora, comportandosi in quel solito modo che non è certo un esempio di cristallina chiarezza e che ricorda scuole che non sono quelle che amiamo, hanno sempre cercato di agire nascondendo la mano. Si è sempre detto: ma certo! nominatività dei titoli; ce l’avete; ma che pensa ad abolirla; e così via. Mentre si diceva tutto questo c’era qualche ministro che agiva in senso opposto, che dimostrava le proprie simpatie verso chi si agita per la distruzione del sistema. Siamo così arrivati al punto che si è avuto il coraggio di portare davanti alla Corte Costituzionale con argomenti che ai colleghi avvocati qui presenti saranno apparsi addirittura risibili; e quando la Corte Costituzionale ha rigettato il ricorso, abbiamo letto sui giornali degli aspri e severi commenti contro questo supremo organo dello Stato che si è permesso di liquidare, in poche ore di seduta, una questione di tanta impor

tanza. Su questo problema della nominatività dei titoli si è fatto tutto il possibile per rendere la soluzione inevitabile: attraverso la tollerata agitazione degli agenti di cambio, che continua ancor ora, attraverso le dichiarazioni dei singoli uomini politici, di singoli membri del Governo, si è preparata una situazione nella quale, pur non parendo, lo stato d’animo della grande massa è già rassegnato. Certe volte basta suonare a morto perché ciò di cui si augura la fine veramente cessi di esistere. Si voleva la fine della nominatività dei titoli: si è continuato per anni a suonare a morto e ormai essa è morta nella opinione della maggior parte degli italiani. Noi dovremo dunque dare questa battaglia difensiva e ancora una volta possiamo farlo efficacemente perché abbiamo nel giro dei nostri amici chi si è occupato con grande competenza di questo problema: da Bruno Visentini che combatte valorosamente per la nominatività dei titoli da anni, a Tullio Ascarelli il quale ha portato al problema un originale

contributo, riconoscendo i difetti dell’attuale sistema e suggerendo il modo di evitarli, pur senza rinunciare alla nominatività a tutti i fini che le sono essenziali, primo fra tutti quello della progressività tributaria.

Altro argomento di attualità è quello dell’assetto delle aziende industriali dello Stato, del Ministero delle Partecipazioni, dello sganciamento delle aziende dello Stato dalla Confindustria: materia che vi è perfettamente nota e sulla quale è chiaro quali possono essere le nostre posizioni. Noi non siamo mai stati favorevoli a una socializzazione dell’economia del paese, ma abbiamo sempre riconosciuto che lo Stato moderno tende fatalmente a svolgere, nel campo economico, importanti funzioni: a questa tendenza risponde, sia pure in modo occasionale, la formazione del complesso di quelle che sono denominate partecipazioni statali. Il Ministero delle Partecipazioni rappresenta un primo grossolano tentativo di dare a questo settore una certa organizzazione che consenta allo Stato di valersi delle sue posizioni di controllo per i propri fini. La nostra propaganda non potrà non essere favorevole in modo particolare a quello sganciamento delle aziende dello Stato dalla Confindustria, sul quale l’amico Scalfari anc

ora di recente sull’ ha scritto cose estremamente sensate e sul quale dovremo continuare a batterci, perché si tratta di un argomento nel quale una parte della società italiana, i detentori del potere economico, stanno dimostrando tutta la loro tracotanza. Ricordo di aver sentito dire da un alto funzionario dello Stato: . Altro che dare del tu! Ormai si dice allo Stato: tu non hai il diritto di disporre delle tue aziende; le tue aziende servono a noi, devono far parte delle nostre organizzazioni, ci devono dare i mezzi per fare le campagne politiche, per fare la stessa campagna contro le industrie dello Stato. Tutto questo si dice ammantando il discorso di eccezioni di costituzionalità, di appassionate difese delle libertà, che hanno un suono falso sulle labbra di chi se ne vale per fini particolari.

Il problema agrario

Un altro argomento di grande importanza, è quello sul quale anni or sono richiamava la nostra attenzione il Prof. Antoni, il problema dell’agricoltura. L’amico Carandini ne ha parlato con la sua esperienza poco tempo fa, svolgendo una critica sacrosanta dell’azione che lo Stato è venuto svolgendo negli scorsi anni; è sacrosanto tutto quello che egli ha scritto sui sistemi assurdi e contraddittori seguiti dallo Stato nei suoi interventi nell’economia agraria; sono sacrosante le critiche rivolte alla riforma fondiaria, anche se in definitiva, dal punto di vista politico, noi possiamo non condannarla per le sue ripercussioni politiche e sociali. Difetto capitale della riforma fondiaria resta la concezione che l’ha ispirata e che è propria dell’ambiente clericale, la concezione di una piccola proprietà che consente a mala pena a una famiglia di contadini il proprio sostentamento, che la tiene in un forzato isolamento, lontano dall’ambiente sociale: e quindi in condizione di non nuocere. La riforma fondiaria è es

pressione di una politica che non tende a elevare le masse a un livello superiore di cultura e a un livello economico superiore, ma mira soltanto a tenerle buone: e questa certamente non è la nostra politica, perché la nostra è una politica che tende a suscitare energie, anche quando si tratti di energie che possano presentare pericoli. Noi siamo un partito che corre dei pericoli: questa è la caratteristica della posizione radicale. Potremo dunque svolgere utilmente la nostra critica della politica agraria governativa e potremo, anche in questo campo, elevare una voce di protesta contro lo sfruttamento a fine politico delle riforme. Perché tutti sappiamo che gli enti di riforma, in quali dovrebbero avere una funzione prevalentemente tecnica, sono anch’essi null’altro che strumenti elettorali, i quali fanno la loro politica di parte nel modo più svergognato, operando discriminazioni fra i contadini a seconda delle loro opinioni politiche e imponendo i sistemi del sottogoverno.

Credo che, in materia di agricoltura, questi temi possano bastare ai fini di una propaganda elettorale.

Vi è un altro grosso tema, che non è facile affrontare né in uno scorcio di seduta e neppure in un lungo convegno: quello della politica estera. Tema sul quale noi siamo d’accordo sulle grandi linee. Nessuno di noi dubita che quale debba essere la nostra posizione nel mondo. Su questo siamo d’accordo tutti. Quando andiamo poi a esaminare i problemi del giorno, Medio Oriente, Suez, ecc., ci possono essere delle divergenze. Ma non sono questi i temi propri alla propaganda elettorale. Ciò che importa è segnare una linea. Noi diremo quanto ci sentiamo lontani dai comunisti, i quali vorrebbero applicare da noi metodi che non sono i nostri, attirarci in un sistema che non è il nostro sistema. Questo lo diremo nel modo più chiaro possibile. D’altra parte non potremo non lamentare tutte le tergiversazioni e le contraddizioni di questo Governo, che oggi fa una cosa e domani un’altra, un po’ inventa il neoatlantismo, un po’ una teoria per il Medio Oriente, un po’ si rimangia tutto, obbedendo alle labili ispirazioni de

i vari gruppi che dominano in seno alla D.C. e fuori della D.C. Questa critica della politica governativa potrà essere fatta in modo estremamente utile e con piena coscienza della sua fondatezza.

Il sottogoverno

Argomento fondamentale di propaganda sarà poi quel grosso problema morale dell’Italia di oggi che ho lasciato per ultimo, perché credo che sarà quello che darà il tono a tutti i nostri discorsi. Noi non siamo gente abituata a quelle che si chiamano, con una bruttissima parola, le speculazioni politiche, ma non è colpa nostra se dobbiamo fare una polemica morale contro i governi democristiani i quali hanno seguitato a dare sempre più ragione a questa triste polemica. Lo stato di corruzione della classe politica, della classe burocratica, dell’amministrazione è arrivato a qualcosa di indescrivibile. C’è stato un cattolico francese che ha detto che la democrazia cristiana ha orientalizzato l’Italia, intendendo per oriente i peggiori esempi che venivano una volta dal levante. Questa è la situazione attuale e di essa dovremo parlare molto ampiamente. Come dovremo parlare ampiamente dell’abuso del potere a fini di partito: credo che questa sia una delle nostre battaglie. Potremo forse tentare di formulare quelle c

oncrete proposte che qualche volta servono a fermare l’attenzione sull’essenza di un problema e sui mezzi che possono consentire di risolverlo. Oggi in Italia siamo arrivati a questo punto: che l’abuso del potere a fini di parte è la sola fonte delle risorse finanziarie dei partiti. Poiché un partito è rimasto al Governo da molto tempo, quello è il partito che si ritaglia la maggior fetta della torta. Qualche partito minore e qualche partito di opposizione, che non ha la fortuna di sedere al Governo, trae dalla propria ingerenza in enti locali più limitati benefici. Ormai tutto ciò fa parte del nostro costume; direi che è quasi ammesso. Quando l’On. Zoli in Parlamento ha dichiarato, con il suo amabile scetticismo, che un partito, essendo uscito dal Governo, aveva dovuto sospendere la pubblicazione del proprio giornale, non ha fatto che constatare il punto al quale simo arrivati. Un partito come il nostro, che non è mai stato al potere, e che se ci fosse avrebbe certamente le mani pulite, si trova oggi in que

lla condizione di inferiorità che tutti conoscete. Ma avere le mani pulite significa avere il coraggio di dire cose che nessun altro può dire.

Cyrus
08-04-10, 11:56
Capitolo 4 - 1955 - 1958
NASCE IL PARTITO RADICALE

Il 1955 č un anno importante per la politica italiana. Il Psi comincia a staccarsi dal Pci, e fra gli alleati laici della Dc cresce l'insofferenza: Pri, Pli e Psdi mal sopportano il malgoverno, il clericalismo e il servilismo dei democristiani verso il Vaticano. Per di pių, nell'aprile '55 viene eletto presidente della Repubblica il dc Giovanni Gronchi al posto del liberale Luigi Einaudi. I cattolici si ritrovano cosė in mano entrambe le poltrone pių importanti dello Stato: la presidenza della Repubblica e quella del Consiglio.

Č in questo clima che, nel dicembre '55, nasce il Prldi: Partito radicale dei liberali e democratici italiani. Nasce in un modo strano: su un giornale. Č Pannunzio, infatti, a dare sul suo Mondo la notizia della formazione di un "comitato esecutivo provvisorio" formato da lui stesso, da Leo Valiani, dall'ex segretario pli Bruno Villabruna, dal conte Nicolō Carandini e da Leopoldo Piccardi, giā ministro dell'Industria nel governo Badoglio.

Sono tre le anime dei radicali, partito degli intellettuali per eccellenza. La prima č quella della sinistra liberale. Villabruna, assieme ai giovani Pannella, Scalfari e Ungari, a Carandini, a Franco Libonati, all'ex ministro Leone Cattani e all'avvocato milanese Mario Paggi, esce dal Pli caduto in mano, nel '54, a Giovanni Malagodi. Il nuovo segretario infatti ha spostato il partito su posizioni ancor pių di destra e di sudditanza verso la Dc e Confindustria.

Giā da anni la sinistra liberale faceva vita a sé. A Roma si riuniva, fin dal '51, al club della Consulta nel teatro Eliseo, in via Nazionale. "Quanto a me, č nel '53 che mi sono reso conto dell'inutilitā di cercare di rianimare il Pli in senso europeo", precisa Pannella. "Avete il potere? Malagodetevelo!", augurano andandosene i transfughi gobettiani ai seguaci del nuovo segretario. Il Mondo č pių caustico: "Il nobile partito di Croce e Einaudi č stato affittato (forse neppure comperato) dall'Assolombarda". Nel I993 i giudici di Mani pulite scopriranno i "contributi" dell'Associazione lombarda degli industriali privati al Pli: quarant'anni dopo, nulla era cambiato.

Nel Pr confluiscono anche molti azionisti. Ferruccio Parri non aderisce. In compenso entrano Valiani e Guido Calogero, nonché esponenti di Unitā popolare (la lista nata nel '53 contro la "legge truffa") come Piccardi. Infine la terza componente: i giornalisti. "Il partito radicale lo fondammo io, Pannunzio, Paggi e Libonati nella casa di Arrigo Benedetti a Marina di Pietrasanta nel maggio '55", si vanta Scalfari nel suo La sera andavamo in via Veneto (ed. Mondadori, 1986). Nello stesso anno Benedetti e Scalfari danno vita all'Espresso.

Questa versione scalfariana č contraddetta da Pannella,l'altro giovane gallo nel troppo affollato (d'ingegni) pollaio liberal-radicale: "Non č il caso di esagerare il contributo di Scalfari al Pli e poi al Pr. Eugenio era un personaggio assolutamente di secondo piano", racconta l'invelenito Marco a Giancarlo Perna, autore di Scalfari, una vita per il potere (ed. Leonardo, I990).

Chi ha ragione? "Scalfari non era un leader della corrente di sinistra del Pli", testimonia Paolo Ungari, allora capo dei giovani liberali, "era solo un giovanotto disponibile, mezzo manager e mezzo cassiere". Ma Dio solo sa quanto ci fosse bisogno, in quell'accolita di pensatori con la testa per aria, di qualcuno con i piedi per terra. Non per nulla Scalfari, prima di rompere con Malagodi, gli organizza a Milano la campagna elettorale del '53.

Pannella invece dal '50 č il responsabile nazionale degli universitari Pli. Pannella perō sta a Roma, mentre Scalfari abita a Milano finché non viene licenziato dalla banca dov'č impiegato per un articolo sull'Europeo. Non hanno quindi molte occasioni di incontro, anche perché ormai Scalfari č un giornalista avviato, ha sposato la figlia del direttore della Stampa e ama frequentare "in alto". Ma sono entrambi brillanti e ambiziosi. Passano gli anni '50 a darsi gomitate per farsi notare dai "grandi". E il resto della vita ad accreditarsi entrambi come eredi unici e universali del Mondo e della tradizione liberaldemocratica. Con, in ogni caso, qualche credito in pių del parvenu ds Walter Veltroni.

Nel partito radicale entrano i giornalisti del Mondo al gran completo. In prima fila Ernesto Rossi, che nel marzo '55 inaugura la fortunata serie dei convegni del Mondo (1955: Lotta contro i monopoli e Petrolio in gabbia; '56: Processo alla scuola e I padroni della cittā; '57: Atomo ed elettricitā, Stato e Chiesa; '58: Stampa in allarme; '59: La crisi della sinistra, Verso il regime; '60: Le baronie elettriche).

I convegni saranno l'arma pių efficace dei radicali in quegli anni. Vengono inoltre arruolati d'ufficio nel Pr scrittori come Ennio Flaiano e Sandro De Feo. Altri nomi prestigiosi: Arrigo Olivetti, Alberto Mondadori, Felice Ippolito, Francesco Compagna, Rosario Romeo. E, fra i giovani: Stefano Rodotā, Tullio De Mauro (ministro dell’Istruzione nel governo Amato del 2000), Piero Craveri, Giovanni Ferrara, Fabio Fabbri. Oltre, naturalmente, agli amici di Pannella: Spadaccia, Teodori, Rendi.

Il nuovo partito perō subisce subito sonore sconfitte elettorali. Al Comune di Roma nel '56 la lista con il simbolo radicale di una donna col berretto frigio (ricordo della rivoluzione francese) non ottiene alcun eletto. Alle politiche del ‘58 il Pr si presenta assieme al Pri. Ma i risultati sono drammatici: soltanto l'1,4%, contro l'1,1% che il Pri da solo aveva ottenuto cinque anni prima. Fra i sei deputati eletti non c'č nessun radicale.

Commenta Vittorio Zincone sull'Europeo: "Quello radicale č un partito di notabili insediati autorevolmente in alcuni organi di stampa, i quali perō sono letti soltanto dai simpatizzanti ed evitati dal pubblico agnostico. Non basta mettere insieme bei nomi di professori universitari e di apprezzati professionisti per vincere le elezioni". Le stesse parole avrebbero potuto commentare, nel '92, il fiasco della lista referendaria dei professori Massimo Severo Giannini, Ernesto Galli della Loggia e Massimo Teodori.

Pochi dei cervelloni snob che guidano il Pr negli anni '50 hanno voglia di immiserirsi nell'umile lavoro quotidiano necessario alla costruzione di un partito. "La politica č sangue e merda", ha ammonito Rino Formica con qualche ragione. Cosė i radicali non superano mai i duemila iscritti, e si illudono che per prender voti bastino giornali pur prestigiosi come il Mondo e l'Espresso, che perō in quegli anni non superano assieme le centomila copie.

Eppure i temi da loro agitati sono importanti: eliminazione delle commistioni fra Stato e Chiesa, lotta contro i monopoli economici, difesa della scuola pubblica, opposizione alle speculazioni edilizie. Ma le brillanti e aggressive campagne giornalistiche non si traducono in consensi concreti. Inoltre affiorano divergenze su alcuni argomenti: mentre il Mondo, per esempio, in politica estera č filoamericano, Ernesto Rossi e gli ex azionisti sono neutralisti. E la politica estera, in un anno come il '56 con i fatti d'Ungheria, č un tema importante.

Il motivo pių profondo dell'insuccesso radicale in quegli anni č perō l'inconsistenza della strategia politica: non si poteva essere allo stesso tempo antidemocristiani e alleati di un partito di governo come il Pri, succube della Dc. Lo intuiscono Piccardi e Scalfari i quali, diventati segretario e vicesegretario nel febbraio '59 dopo la batosta elettorale, si avvicinano al Psi. Il quale perō, a sua volta, č ormai lanciato verso il centrosinistra, cioč l'alleanza con la Dc.

Pannella, ancora troppo giovane, non trova molto spazio nel partito radicale. Ma si consola con la politica universitaria, dov'č diventato un piccolo mattatore. Nell'Ugi e nell'Unuri i suoi seguaci sono cosė entusiasti di lui che vengono soprannominati "pannellati". Al congresso dell'Unuri, di cui č presidente, Pannella nel '57 riesce a difendere l'autonomia delle organizzazioni studentesche rispetto alle fedeltā di partito. Č, in nuce, il metodo pannelliano della "transpartiticitā", cioč dell'unitā con chiunque, al di lā degli steccati ideologici, su singoli obiettivi concreti. Franco Roccella, anch'egli presidente Ugi (e nel '79 deputato radicale) conia la formula: "Non unitā delle forze laiche, ma unitā laica delle forze".

Nel '56 c'č la rivoluzione d'Ungheria. "Parto subito per Vienna con altri dirigenti dell'Unuri ad aiutare i profughi", ricorda Pannella, "stavamo al convento di Pierinstengas, tutta un'ala era occupata da ragazzi di Budapest scappati. Ne aiutiamo alcuni a venire in Italia, la moglie di Pannunzio era ungherese. Quando torniamo a Roma Michele Notarianni a Romano Ledda del Pci mi chiedono di non far prendere all'Unuri una posizione netta sui fatti d'Ungheria. Ma non li accontentai".

"Sempre nel '56, un giorno mi chiama a casa sua Ugo La Malfa", racconta Pannella a Giampiero Mughini di Panorama nell'89. "Č in vestaglia e sotto ha il pigiama: segno inequivocabile che č incazzato. Mi dice che va al congresso dell'Ugi a Perugia, dove io avevo deciso di non andare. Mi sentivo giā un po' senatore, o "padre nobile". La Malfa vuole evitare che venga eletto nella direzione dell'Ugi un giovane socialista morandiano (filo-Pci, nda). Allora decido di partire anch'io, sulla sua auto. A Perugia scopro che questo giovane del Psi č stato morandiano a 18 anni, ma che ora č un autonomista nenniano. Il veto contro di lui mi sembra sbagliato e ingiusto. Allora intervengo, e quel giovane viene eletto. Era Bettino Craxi".

"Un paio d'anni dopo", racconta Pannella a Filippo Ceccarelli su Panorama nell'86, "Craxi diventa vicepresidente dell'Unuri. A un certo punto, perō, mi sembra che in quella gestione ci siano delle cose non convincenti, un po' troppo sottogoverno. Cosė torno a occuparmene. Bettino non ha responsabilitā specifiche, č una tendenza generale. Gli vado a parlare nel suo ufficio romano, in via Piemonte. Lui č attento e sereno. Alla fine č molto disponibile, e accetta di mettersi da parte. Nessuna ruggine".

Cosė, al congresso dell'Unuri a Cattolica (Forlė) nel '59, Pannella e il comunista Achille Occhetto alleati scalzano il mai laureato Craxi dalla guida degli universitari italiani. Dopodiché Marco se ne va a Parigi, Achille resta a Roma e Bettino torna mesto a Sesto San Giovanni (Milano), a farsi le ossa nella Stalingrado d'ltalia. "Chi č questo Pannella che ha in mano gli universitari italiani?", domanda incuriosito il segretario del Pci Palmiro Togliatti.

Cyrus
08-04-10, 11:57
25 maggio 1996
Muore lo storico Renzo De Felice

Muore lo storico Renzo De Felice, a 67 anni il maggior biografo di Mussolini è stato coinvolto in accesi dibattiti storiografici per le sue tesi che rivedono il giudizio sul fascismo.
RICORDIAMOLI
RENZO DE FELICE
Renzo De Felice nasce a Rieti l'8 aprile 1929. Si laurea con Federico Chabod e, nel 1955/1956, gli è assegnata la borsa di studio dell'Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, fondato da Benedetto Croce, e del quale Chabod è stato il primo direttore.
Entra in contatto con Delio Cantimori, durante la preparazione della tesi di laurea, che lo indirizza verso gli studi di storia moderna. Appartengono a questa fase i suoi primi lavori, Note e ricerche sugli illuminati e il misticismo rivoluzionario del 1789 e 1800, edito a Roma nel 1960. La vendita dei beni nazionali nella repubblica romana nel 1798/1799, edito a Roma nel 1960; Italia giacobina, Napoli 1965; la cura di I giornali giacobini italiani, Milano 1962 e, con Cantimori, del secondo volume di Giacobini italiani, apparso nella collana «Scrittori d'Italia», edita da Laterza nel 1964.
Nel 1956 s’iscrive al PCI, ed è tra i firmatari del celebre Manifesto dei 101, sottoscritto da intellettuali che esprimono dissenso nei confronti del sostegno offerto dal partito all'invasione sovietica dell'Ungheria. Abbandona il PCI, in compagnia della maggior parte dei firmatari, tra i quali è anche Cantimori. Stimolato dalla presidenza dell'Unione delle comunità israelitiche italiane, si accosta allo studio degli ebrei durante la dittatura fascista. Nasce il volume Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, pubblicato nel 1961 da Einaudi. L’opera provoca aspre polemiche, sfociate in notevoli rotture all'interno del partito radicale per il richiamo, contenuto in una nota, alla partecipazione dell'esponente radicale Leopoldo Piccardi ad un convegno antisemita. Nei riguardi di De Felice è particolarmente duro Ernesto Rossi, studioso di economia,già militante di«Giustizia e Libertà», ora esponente radicale,che difende Piccardi.
Da questa ricerca sugli ebrei italiani nasce l'interesse per lo studio del fascismo, fondato sulla disponibilità della documentazione d'archivio. La biografia di Mussolini e gli studi sulla dittatura fascista assorbono da ora in poi gran parte delle energie dello studioso fino alla morte. Nel 1965 esce il primo volume, Mussolini il rivoluzionario, accolto con grande interesse dalla cultura storica italiana. L'interpretazione di De Felice raccoglie consensi e provoca dissensi, e proprio per questo sollecita una nuova stagione di riflessione e di studi su Mussolini e sulla dittatura. Anche i volumi successivi sono accolti da vivaci e stimolanti discussioni. Nel 1966 è pubblicato Mussolini il fascista I La conquista del potere 1921 -1925 e nel 1969 Mussolini il fascista II L'organizzazione dello Stato fascista 1925 -1929. Con la pubblicazione nel 1974 di Mussolini il duce I Gli anni del consenso 1929 -1936, e soprattutto, l’anno successivo, con l'Intervista sul fascismo, a cura di Ledeen, edita da Laterza, il tono della controversia storiografica si alza e investe anche aspetti più immediatamente politici.

Cyrus
08-04-10, 11:58
1943: IL PROLETARIATO ITALIANO SI OPPONE AI SACRIFICI DELLA GUERRA

In effetti già nella seconda metà del 1942, quando ancora le sorti della guerra erano tutte aperte e il fascismo sembrava saldo al potere, nelle grandi fabbriche del nord Italia ci furono scioperi sporadici contro il razionamento e per aumenti salariali. Non erano che le prime avvisaglie del malcontento che la guerra aveva creato tra le fila proletarie, per tutti i sacrifici che essa comportava.

Il 5 marzo 1943 comincia lo sciopero alla Mirafiori di Torino, nel giro di pochi giorni si allarga ad altre fabbriche coinvolgendo decine di migliaia di operai. Le rivendicazioni sono molto chiare e semplici: aumento delle razioni di viveri, aumenti salariali e... fine della guerra. Nel corso del mese le agitazioni si allargano alle grandi fabbriche di Milano, all'intera Lombardia, alla Liguria e in altre parti d'Italia.

La risposta del potere fascista fu quello del bastone e della carota: arresto degli operai più in vista ma anche concessioni rispetto alle rivendicazioni più immediate. Benché Mussolini sospettasse che dietro gli scioperi ci fossero le forze antifasciste, non poteva permettersi il lusso di far crescere la protesta operaia. E in effetti i suoi sospetti erano poco fondati, gli scioperi sono totalmente spontanei, partono dalla base operaia e dal suo malcontento contro i sacrifici della guerra, tant'è vero che agli scioperi partecipavano anche gli operai "fascisti".

"L'elemento tipico di questa azione fu il suo carattere classista che, sul piano storico, conferisce agli scioperi del 1943-44 una fisionomia propria, unitaria, tipica, anche rispetto all'azione generale condotta unitariamente dai Comitati di liberazione nazionale" (Sergio Turone: Storia del sindacato in Italia, pag. 14) (1).

"Valendomi solo del mio prestigio di vecchio organizzatore sindacale affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente" (Dichiarazione del sottosegretario Tullio Cianetti, citata nel libro di Turone, pag. 17).

Il comportamento degli operai non impressionò solo i gerarchi fascisti, ma l'intera borghesia italiana, che negli scioperi di marzo vide il rinascere dello spettro proletario, un nemico ben più pericoloso degli avversari sul campo di battaglia. Da questi scioperi la borghesia trae la consapevolezza che il regime fascista non è più adatto a contenere il malcontento operaio e prepara la sua sostituzione e la riorganizzazione delle sue forze "democratiche".

Il 25 luglio il re destituisce Mussolini, lo fa arrestare e dà l'incarico di formare un nuovo governo al maresciallo Badoglio. Una delle prime preoccupazioni di questo governo è la rifondazione dei sindacati "democratici" per creare nuovi contenitori in cui far confluire la protesta operaia che nel frattempo si era data propri organismi di conduzione e quindi era al di fuori di qualunque controllo. Il ministro delle Corporazioni (si chiamava ancora così!), Leopoldo Piccardi, fa liberare il vecchio dirigente sindacale socialista Bruno Buozzi dal confino e gli propone l'incarico di commissario alle organizzazioni sindacali. Buozzi chiede e ottiene come vice-commissari il comunista Roveda e il democristiano Quadrello. La scelta della borghesia è ben studiata, Buozzi è molto conosciuto per aver partecipato agli scioperi del 1922 (l'occupazione delle fabbriche), in cui aveva dimostrato la sua fede borghese adoperandosi per contenere la possibile crescita del movimento.

Ma gli operai non sapevano che farsene della democrazie borghese e delle sue promesse. Se avevano sfidato il regime fascista era innanzitutto perché non ne potevano più dei sacrifici imposti loro dalla guerra, e il governo Badoglio chiedeva loro di continuare a sopportarla.

Così a metà agosto '43 gli operai di Torino e Milano scendono di nuovo in sciopero chiedendo con ancora più forza di prima la fine della guerra. Le autorità locali rispondono ancora una volta con la repressione, ma più efficace di questa risultò il viaggio di Piccardi, Buozzi e Roveda al nord per incontrare i rappresentanti degli operai e convincerli a riprendere il lavoro. Prima ancora di avere rifondato le loro organizzazioni, i sindacalisti del regime "democratico" cominciano il loro sporco lavoro antioperaio!

Presi tra repressione, concessioni e promesse, gli operai ritornano al lavoro, aspettando gli eventi. Questi cambiano rapidamente. Già nel luglio gli alleati erano sbarcati in Sicilia, l'8 settembre Badoglio firma l'armistizio con gli alleati, scappa al sud insieme al re e chiede alla popolazione di continuare la guerra contro i nazifascisti. Dopo qualche manifestazione di entusiasmo, la reazione è quella di una smobilitazione disordinata. Molti soldati gettano via le divise e se ne tornano a casa, oppure si nascondono.

Gli operai, che non erano capaci di insorgere sul proprio terreno di classe, non accettano di prendere le armi contro i tedeschi e tornano al lavoro, preparandosi ad avanzare le loro rivendicazioni immediate contro i nuovi padroni dell'Italia del nord. In effetti l'Italia è divisa in due: al sud ci sono le truppe alleate e una parvenza di governo legale; al nord comandano invece di nuovo i fascisti, o per meglio dire le truppe tedesche.

Anche senza una partecipazione popolare, nei fatti la guerra continua. I bombardamenti alleati nel nord Italia si fanno ancora più duri e con essi diventano più dure le condizioni di vita degli operai. Così, nel novembre-dicembre gli operai riprendono la via della lotta, affrontando questa volta una repressione ancora più dura. Accanto agli arresti stavolta c'è una minaccia ancora più pericolosa: la deportazione in Germania.

Coraggiosamente gli operai avanzano le loro rivendicazioni. A novembre scioperano gli operai di Torino, le cui rivendicazioni vengono in buona parte accettate. All'inizio di dicembre scendono in sciopero gli operai di Milano, anche qui promesse e minacce da parte delle autorità tedesche. Significativo il seguente episodio: "Alle 11,30 arriva il generale Zimmerman il quale intima: chi non riprende il lavoro esca dallo stabilimento; chi esce è dichiarato nemico della Germania. Tutti gli operai escono dallo stabilimento" (Da un giornale clandestino del PCI, citato da Turone, pag. 47). A Genova il 16 dicembre gli operai scendono in piazza, ma questa volta le autorità tedesche usano il pugno forte: ci sono scontri con morti e feriti, scontri che proseguono sempre con la stessa durezza per tutto il mese di dicembre in tutta la Liguria.

E' questo il segnale della svolta: il movimento si è indebolito, anche a causa della divisione dell'Italia in due; i tedeschi, in difficoltà sul fronte, non possono più consentire l'interruzione della produzione e affrontano con risolutezza la questione operaia (anche perché questa comincia a presentarsi, con scioperi, all'interno della stessa Germania); infine il movimento comincia a snaturarsi, a perdere il suo carattere spontaneo e classista, grazie anche al lavorio delle forze "antifasciste" che cercano di dare alla protesta operaia il carattere di lotta "di liberazione", favoriti in questo dal fatto che numerose avanguardie operaie per sfuggire alla repressione riparano in montagna, dove vengono arruolate nelle bande partigiane. In effetti ci sono ancora scioperi nella primavera del '44 e del '45, ma ormai la classe operaia ha perso l'iniziativa.

Cyrus
08-04-10, 11:58
4 agosto 1943


A Roma, Bruno Buozzi pone al corrente delle proposte di Piccardi Oreste Lizzadri, Pietro Nenni e Sandro Pertini, informandoli di aver posto per accettare come "condizione pregiudiziale la presenza dei comunisti e in particolare quella di Roveda e Di Vittorio" . La condizione è accettata.

Cyrus
08-04-10, 11:59
1963


25 marzo
Inizia le pubblicazioni a Roma il mensile "L'Astrolabio" fondato da Ferruccio Parri, Ernesto Rossi e Leopoldo Piccardi.

Cyrus
08-04-10, 12:00
Linda Risso

Introduzione


Gli storici hanno dedicato scarsa attenzione alla breve esperienza di Unità Popolare e quando se ne sono occupati, si sono limitati a richiamare il ruolo svolto dal gruppo nella sconfitta della “legge truffa” in occasione delle elezioni del 7 giugno 1953, ignorando i successivi quattro anni di vita del movimento.[1] La pubblicazione degli indici di “Nuova Repubblica”, foglio ufficiale del movimento, vuole colmare almeno in parte questo vuoto e sollecitare nuove e più approfondite ricerche.
Oltre ad essere la fonte principale per ricostruire l’esperienza di Unità Popolare, “Nuova Repubblica” offre agli storici uno dei più interessanti osservatori sulla politica italiana degli anni Cinquanta. Rifiutando la prospettiva di trasformarsi in ‘partito’ e ponendosi piuttosto come centro propulsore di un generale rinnovamento della sinistra, il movimento di Unità Popolare aveva individuato nella libera discussione tra militanti – anche di formazioni diverse, come il movimento di Cucchi e Magnani, per esempio, o quello di Comunità, e, nei limiti della scarsa libertà di espressione concessa ai rispettivi iscritti, PSI e PCI – il terreno forse più importante della propria azione.
Il parallelo con “Il Mondo” di Pannunzio, con il quale “Nuova Repubblica” condivideva non solo una larga fetta di lettori, ma anche molti collaboratori (Dino Boschi, tra i tanti, vignettista de “Il Mondo”), è inevitabile. Pur nella diversità dei progetti politici, il retroterra culturale dei due gruppi era praticamente lo stesso, e molto simili risultavano gusti e interessi, come si vede già nell’impostazione grafica di “Nuova Repubblica” (pur così povera rispetto a quella del “Mondo”) e nel tono pacato e non di rado ironico dei titoli, in contrasto con la piattezza seriosa o la rozzezza aggressiva (talvolta decisamente volgare: si pensi all’“Uomo qualunque”) di altri giornali, di destra e di sinistra, tenuti a riprodurre all’infinito le elementari formule di propaganda dei rispettivi blocchi di riferimento.
Più che nelle pagine politiche le affinità di “Nuova Repubblica” con “il Mondo” appaiono evidenti nelle rubriche culturali e di costume (curate per le arti da Enrico Crispolti e, eccezionalmente, Maurizio Calvesi, per lo spettacolo da Vito Pandolfi, Fernaldo Di Giammatteo, Claudio Zanchi, Ludovico Zorzi, per la letteratura da Lanfranco Caretti, Pier Francesco Listri, Armanda Guiducci, Dino Menichini, Gianni Scalia). Anche l’attenzione per quanto accadeva fuori d’Italia apparteneva alla lezione del “Mondo”: mi riferisco soprattutto alle corrispondenze dall’estero, come quelle di Giuseppe Andrich da Parigi, di Massimo Salvadori e Mino Vianello da New York, di Carlo Gonzalez Rivera e di Victor Alba da e sull’America Latina, di Enzo Collotti (Martin Fischer) da Bonn e sul mondo di lingua tedesca, di Carlo Doglio da Londra, di Ramon Alvarez Mesa sulla Spagna, di François Fejto sui paesi del blocco socialista. La rubrica “Libri e problemi”, poi ribattezzata “Biblioteca”, proponeva spesso libri pubblicati all’estero e non ancora tradotti in Italia.
Per la storia collaboravano a “Nuova Repubblica”, tra gli altri, Carlo Francovich, Giorgio Spini, Claudio Cesa, Leo Valiani (lector), Enzo Collotti; per l’economia Piero Barucci e, soprattutto, Gino Luzzatto, titolare della rubrica “Taccuino dell’economista” che apparve quasi regolarmente nei primi 21 numeri del giornale; per le relazioni internazionali, tra gli altri, Franco Ravà. Nelle “Pagine di cultura contemporanea” venivano ospitati, talvolta in più puntate, lunghi saggi di autori italiani, come Luigi Repossi (Il movimento sindacale in Italia), Giuseppe Gesualdo (La riforma fondiaria in Sicilia, poi ripubblicato in fascicolo a parte), Gino Luzzatto (Pianificazione economica in regime democratico), e stranieri, specialmente inglesi e quasi tutti di area laburista: D.H.S. Crossman (Verso una filosofia del Socialismo), John Strachey (Riesame del marxismo), G.D.H. Cole (Rilancio del socialismo mondiale), Harold Wilson (La guerra contro la miseria).
I principali esponenti di Unità Popolare erano, ovviamente, tra i più assidui collaboratori di “Nuova Repubblica” a cominciare da Tristano Codignola e Paolo Vittorelli, entrambi membri del Comitato Direttivo. Meno frequenti di quelli di Codignola e Vittorelli, ma politicamente non meno importanti, erano gli interventi di Ferruccio Parri, che era il leader più prestigioso del movimento e che dall’ottobre del 1955 entrò a far parte del Comitato Direttivo del giornale. Tra i notisti politici ricorrevano i nomi di Piero Caleffi, Aldo Garosci (titolare della rubrica “Italia oggi”, comparsa con regolarità tra il gennaio e il maggio del 1953), Claudio Cesa, Giulio Chiarugi, Paolo Pavolini, Umberto Olobardi (cui era affidata, con lo pseudonimo Ognuno, la rubrica “Plausi e botte”), Giuseppe Favati, Franco Ravà, Franco Morganti. Non manca il nome di uno dei padri spirituali del movimento: Gaetano Salvemini, inizialmente assai critico verso Unità Popolare, per i danni che la sua nascita non poteva non arrecare ai partiti della sinistra democratica, PRI e PSDI, ma progressivamente sempre più vicino alle sue posizioni.
Dei problemi del Mezzogiorno si occupavano Beniamino e Nello Finocchiaro, Domenico Novacco e il gruppo di Danilo Dolci, personalmente molto vicino al movimento di Unità Popolare e al cui caso “Nuova Repubblica” dedicò diversi articoli e uno dei suoi otto supplementi monografici.[2] Di politica estera, a cui era specificamente dedicata la rubrica “15 giorni nel mondo” affidata a Paolo Vittorelli, scrivevano Guido Fubini e Ferdinando Vegas. I temi della società, del costume, delle donne, della vita nei paesi di provincia trovavano spazio, ancora una volta sul modello del “Mondo” nelle “lettere provinciali” di Andrea Rapisarda (apparse però solo nei primi tre numeri del giornale), negli articoli di Anna Garofalo e di Marcella Olschki, nelle “Pagine di diario” di Giacomo Noventa, comparse saltuariamente a partire dal n. 57 dell’8 maggio 1955, nelle “Nore romane” di Mario Melloni, nella rubrica “Plausi e botte”.
Il sindacato era uno dei grandi temi al centro dell’attenzione di “Nuova Repubblica”. Proprio nelle “Pagine di cultura contemporanea”, per esempio, ben undici puntate erano state dedicate a Il movimento sindacale in Italia di Luigi Repossi, mentre i saggi di Harold Wilson La guerra contro la miseria e di Aneurin Bevan, La riforma sanitaria in Inghilterra, riproponevano un tema per molti aspetti complementare a quello sindacale: lo stato assistenziale, una delle bandiere di Unità Popolare e una delle glorie del laburismo britannico. “Nuova Repubblica” si sforzò di rispecchiare i fermenti che anche in relazione all’inerzia burocratica della CGIL e soprattutto all’impossibilità oggettiva in cui il sindacato di sinistra si trovava di operare liberamente in fabbrica, agitavano negli anni Cinquanta il mondo del lavoro. Oltre a numerosi articoli (tra cui quelli di Piero Bianconi, impegnato nella lotta per una maggiore democrazia all’interno della CGIL), due rubriche fisse erano specificamente dedicate al sindacato: “Lavoro e sindacati” a cura di Franco Verra, e “Vita di Fabbrica” a cura di “c.s.t.”, vale a dire Antonio Carbonaro, Antonio Scalombri e Pino Tagliazucchi.
Nata come quindicinale, col numero 56 “Nuova Repubblica” si trasformò in settimanale. La cosa rappresentò per la redazione e per tutto il movimento un grande sforzo organizzativo ed economico. I mezzi a disposizione del giornale erano sempre stati assai scarsi. Le risorse finanziarie provenivano quasi esclusivamente dagli abbonamenti e da contributi volontari e solo in piccola parte dalle inserzioni pubblicitarie, per altro assicurate da un piccolo numero di aziende e di imprenditori vicini al movimento: Einaudi, Olivetti, Pellizzari e, naturalmente, La Nuova Italia di Tristano Codignola. Anche la diffusione del giornale era in buona parte affidata ai militanti, che si facevano carico, tra l’altro, del controllo delle edicole e delle vendite.
In mancanza di un apparato organizzativo stabile “Nuova Repubblica” era il principale strumento di collegamento tra la direzione di Unità popolare e i gruppi locali e questa era stata una delle ragioni che avevano giustificato il cambio di periodicità. A queste funzioni organizzative furono destinate specifiche rubriche, come “Gruppi al lavoro” e, indirettamente, “Plausi e botte”. La prima forniva un sommario delle attività dei gruppi locali; la seconda era una rassegna di situazioni ed episodi della provincia italiana che meritavano, appunto, “botte” o “plauso”. A partire dal settembre del 1955 iniziò le pubblicazioni un “Bollettino interno di informazione”, interamente dedicato alle iniziative e ai problemi delle organizzazioni periferiche.
Dal 20 febbraio 1954 e sino al 26 marzo 1955, a “Nuova Repubblica” si era affiancata per iniziativa dei gruppi parriani di Roma, la “Lettera agli amici di Unità Popolare” di cui uscirono in totale 44 numeri. Il Comitato promotore era formato da Enrico Bonomi, Vindice Cavallera, Ferruccio Parri, Leopoldo Piccardi, Nunzio Sabbatucci, Pier Luigi Sagona, Oliviero Zuccarini. Anche la “Lettera” aveva una periodicità settimanale e naturalmente molti dei suoi collaboratori scrivevano anche su “Nuova Repubblica”.
Con la progressiva presa di distanza del Partito Socialista dai comunisti, concretizzatasi tra l’altro nella decisione di presentare liste indipendenti alle elezioni amministrative siciliane, la funzione di Unità Popolare parve a molti suoi militanti esaurita. Il 1957 fu in buona parte occupato dalle trattative per l’ingresso di Unità Popolare nel partito di Nenni. Tale confluenza comportò l’immediata chiusura di “Nuova Repubblica” voluta dalla dirigenza dal PSI, che temeva un’eccessiva caratterizzazione delle correnti interne. L’ultimo numero di “Nuova Repubblica” uscì il 27 ottobre 1957. In un lungo articolo di congedo, la redazione esprimeva apertamente il proprio rammarico per la chiusura del giornale e non esitava ad ammettere che “non sarà facile dire o scrivere certe cose che liberamente sono state dette e scritte qui”. Sullo stesso numero veniva annunciata la nascita di una nuova rivista, l’“Astrolabio”, che, sotto la direzione di Ferruccio Parri (il quale, senza opporsi alla confluenza di Unità Popolare nel PSI, aveva preferito restarne fuori), aspirava evidentemente a riempire, almeno in parte, il vuoto lasciato da “Nuova Repubblica”.
Con Unità Popolare e con il suo giornale scompariva l’ultimo esile rivolo della tradizione azionista.

Cyrus
08-04-10, 12:02
DA UNA COSTOLA DEL PLI, NASCE IL PARTITO RADICALE

La sua prima denominazione è stata Partito Radicale dei Liberali e Democratici Italiani, che dava origina all’astrusa e impronunciabile sigla PRLDI, ma poi è diventato ed è stato conosciuto come Partito Radicale tout court.
La sua nascita risale all’11 Dicembre 1955, giorno in cui viene ratificata la definitiva scissione della corrente di sinistra del Partito Liberale Italiano per dar vita ad una nuova formazione politica per uno stato laico e liberale, “libero – come si diceva allora – da discriminazioni politiche e religiose, e dall’arbitrio governativo e poliziesco”.
Fra i fondatori figurano Leopoldo Piccardi, Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Leo Valiani, Guido Calogero, Giovanni Ferrara, Paolo Ungari, Eugenio Scalfari, ed un giovanissimo Marco Pannella.
mondo_bigAlcuni di loro provenivano dall’esperienza del Partito d’Azione, come Ernesto Rossi e Leo Valiani, che in seguito avrebbe abbandonato i radicali per far ritorno nel suo movimento d’origine; Ernesto Rossi invece rimase nel nuovo partito dando vita ad un raggruppamento di intellettuali, gli “Amici del Mondo”, particolarmente fervido e attivo nel dibattito politico-istituzionale di quegli anni, attività che veniva rispecchiata in una prestigiosa rivista, “Il Mondo”, diretta da Mario Pannunzio, testata che derivava appunto il proprio nome dal movimento creato da Ernesto Rossi, movimento intrinseco all’area radicale.
Già nelle elezioni amministrative del 1956 gli “Amici” di Rossi, il “Mondo” di Pannunzio, ed il Partito Radicale nel quale stava emergendo la leadership di Marco Pannella, furono in prima linea contro la speculazione edilizia (venne allora coniato per la prima volta il termine “palazzinari”) e le connessioni politiche che la favorivano, giungendo ad accusare anche il Vaticano.
Nel 1957, procedendo sempre affiancati, gli “Amici del Mondo” ed i radicali proposero l’abolizione dei Patti Lateranensi che erano stato integrati nella nuova Costituzione Repubblicana. Negli anni successivi il movimento radicale – che continuava a definirsi soprattutto “anti”: anticlericale, anticomunista, antipartitocratico – accentuò le polemiche ed i contrasti con l’ingerenza vaticana nella politica italiana e con il conservatorismo cattolico, diventando principalmente “antidemocristiano”. Ma l’eccesso delle posizioni anticlericali portò alcuni autorevoli soci fondatori del partito radicale a prenderne le distanze. Fu così per Leo Valiani e Giovanni Ferrara che si distaccarono da questa esperienza.
Il partito radicale non smise comunque di incalzare la Democrazia Cristiana soprattutto sulle sue posizioni sociali, creando le premesse per la svolta laica e progressista dell’Italia che portò al vittorioso referendum sul divorzio ed alla possibilità della libera scelta della donna in tema di aborto.

Cyrus
08-04-10, 12:03
Sull'ordine dei lavori (ore 13).

MARIO PEPE (PdL). Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARIO PEPE (PdL). Onorevole Di Pietro, venga con noi il 20 settembre, a fare un lavacro e a ricordare le radici del nostro Stato e della nostra unità nazionale!
Signor Presidente, intervengo in quest'Aula desolatamente vuota perché resti agli atti un invito, un appello che intendo rivolgerle. Fra due giorni ricorre l'anniversario della battaglia di Porta Pia, una data troppo spesso dimenticata, eppure una data importante, non soltanto per lo Stato italiano, ma soprattutto per la Chiesa cattolica. Dalla perdita del potere temporale la Chiesa cattolica trasse uno slancio verso una spiritualità più alta. Il 20 settembre per noi è soprattutto l'affermazione di un principio: la Chiesa può essere libera solo se lo Stato è libero, e lo Stato è libero quando non ha bisogno di utilizzare la forza per imporre una dottrina, lo Stato è libero quando usa la forza solo per difendere la libertà dei cittadini.
Signor Presidente, io e alcuni deputati il 20 settembre andremo a Porta Pia: andremo a Porta Pia per difendere la libertà della Chiesa, perché la Chiesa si batte per i suoi principi, ma lo faccia con le armi spirituali e morali. Andremo a Porta Pia per difendere la libertà dei sacerdoti, purché questi siano ministri di Dio e non amici del potere. Andremo a Porta Pia perché la Chiesa possa difendere la vita, ma non possiamo non dire che ci sono delle situazioni che offendono la vita: signor Presidente, ci sono 3.000 malati in coma vegetativo che subiscono la vita! Ci sono delle situazioni gravissime! Ci sono delle situazioni disperate, che aspettano da questo Parlamento neoguelfo una legge sul testamento di vita.
Signor Presidente, il 20 settembre va al di là dei confini nazionali: oggi nel mondo stanno risorgendo Stati neodottrinali, e il Presidente Berlusconi a Parigi ha messo in allarme, perché questi Stati stanno minacciando la pace e la sicurezza; e contro il risorgere di tali Stati neodottrinali il 20 settembre recupera tutta la sua pregnante rilevanza.
Signor Presidente, le chiedo che la Camera dei deputati il 20 settembre possa essere presente con una delegazione ufficiale e porre una corona davanti alla breccia, perché attraverso quella breccia non passò solo lo Stato italiano e non passarono solo le bandiere, ma passarono le bandiere della civiltà e del progresso e quelle della fede nella scienza, una fede che è sopita e deve essere quindi risvegliata, soprattutto nei giovani di questa difficile e tormentata generazione.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Mario Pepe, la sua richiesta sarà rappresentata al Presidente della Camera.

MARIA ANTONIETTA FARINA COSCIONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARIA ANTONIETTA FARINA COSCIONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi associo a quanto ha detto il collega Mario Pepe: oggi nel nostro Paese è più diffusa di quanto non si mostri di credere e non si pensi un'esigenza laica. Per «laica» intendo non solo l'esigenza di una voce che si differenzi dal coro delle tante altre voci che avversano il laicismo, lo ignorano o, al più, fingono di accettarlo, riducendolo a formula insignificante e vaga. Essere «laici» - ce lo hanno insegnato maestri come Benedetto Croce, Vittorio De Caprariis, Adolfo Omodeo, Guglielmo Pepe, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Panunzio e Leopoldo Piccardi - non è solo una certa concezione dei rapporti che devono regolare le relazioni

Cyrus
08-04-10, 12:04
La caduta del fascismo.
Il 25 luglio 1943, portò al governo Pietro Badoglio. Su iniziativa del ministro delle Corporazioni, Leopoldo Piccardi, furono “commissariati” i sindacati fascisti. Il 1° agosto ‘43, Piccardi espose il progetto a Buozzi, il quale, dopo averne parlato con Oreste Lizzadri, Pietro Nenni e Sandro Pertini, aderì all’iniziativa, subordinandola alla clausola “di non corrensponsabilità politica”: “Considerando che la funzione a cui siamo chiamati ha uno stretto carattere sindacale che non implica nessuna corresponsabilità politica, dichiariamo di accettare le nomine nell’interesse del Paese e dei nostri organizzati, per procedere alla liquidazione del passato e alla sollecita ricostruzione dei sindacati italiani, che tenga conto delle tradizioni del vecchio movimento sindacale e tenda ad avviare al più presto gli organizzati a nominare direttamente i propri dirigenti.” Buozzi divenne commissario dell’Industria, con vicecommissari Giovanni Roveda e Gioacchino Quadrello. All’Agricoltura, Giuseppe Di Vittorio fu affiancato da Achille Grandi e da Oreste Lizzadri. La mattina del 14 agosto, Piccardi ufficializzò le nomine. Il 15, i commissari si costituirono in Comitato interconfederale. Presidente fu nominato Buozzi, segretario Lizzadri. Il primo atto del Comitato fu l’accordo, siglato il 2 settembre 1943 da Buozzi e dal presidente della Confindustria Giuseppe Mazzini, per ricostituire le Commissioni interne.

Cyrus
08-04-10, 12:16
“I regimi oggi avanzano a passi felpati, senza teste rotte, sedi distrutte, omicidi e campi di concentramento: non ripudiano la legge, la violano in silenzio” (Mario Boneschi, Leopoldo Piccardi e Ernesto Rossi, “Verso il regime”, Laterza 1960)

Cyrus
08-04-10, 12:20
Pannunzio fu nel 1955 tra i fondatori del Partito radicale che sorse dalla scissione liberale in seguito all'avvento di Giovanni Malagodi alla guida del PLI. Nel 1962 Pannunzio ed i suoi più stretti collaboratori, a causa di una frattura determinata dal "caso Piccardi" (Renzo De Felice documentò la partecipazione dell'esponente radicale Leopoldo Piccardi a convegni antisemiti dopo l'introduzione delle leggi razziali in Italia e Pannunzio condannò con assoluta fermezza tale comportamento, che trovò invece un inaspettato difensore in Ernesto Rossi), uscirono anche dal Partito radicale che da allora assunse una linea politica profondamente diversa da quella pannunziana. Sarebbe infatti in assoluta malafede chi cercasse - come è accaduto - di omologare Pannunzio ai "nuovi radicali" capeggiati da Marco Pannella, che rappresentano una storia completamente diversa da quella pannunziana.
Il "caso Piccardi" e la fine del primo Partito radicale rivelarono peraltro l'inconciliabilità sul piano politico tra la posizione liberale di Pannunzio e quella "azionista", se eccettuiamo pochi singoli casi come quelli di Leo Valiani ed Aldo Garosci, il cui impegno politico fu sempre lontano dall'"azionismo" caratterizzato dal "pregiudizio favorevole" verso il PCI. Anzi Valiani e Garosci furono nettamente e coraggiosamente sempre anticomunisti.
Norberto Bobbio non collaborò mai a "Il Mondo", malgrado gli inviti di Pannunzio, perché si sentiva abbastanza estraneo a quell'esperienza. Alessandro Galante Garrone ebbe rapporti epistolari con Pannunzio, ma si considerò appartenente ad un'altra storia politica. Lo stesso Guido Calogero, che fu collaboratore assiduo del settimanale di Pannunzio, con il suo giacobinismo, non si può considerare a pieno titolo espressione della comunità del "Mondo". Per altri versi, va detto che la stessa "sinistra liberale" non fu una costola della sinistra, ma una corrente del PLI, da non confondere con il gobettismo che finì di porsi al servizio del PCI. Valerio Zanone che si considera un liberale di sinistra ha riconosciuto più volte che la sinistra è profondamente illiberale, anche se poi ad essa è finito per uniformarsi, facendo prevalere su tutto il suo antiberlusconismo.
Chiuso "Il Mondo" nel 1966, Pannunzio si ritirò in disparte, pur continuando a frequentare gli amici di sempre. Nel 1967 la guerra araboisraeliana vide un Pannunzio nettamente schierato a favore di Israele ed in forte polemica con "L'Espresso" per la sua posizione filo araba.
Quest'episodio determinò la fine di qualsiasi rapporto con Eugenio Scalfari, direttore del settimanale. Questo rapporto si era già fortemente incrinato nella vicenda che portò alla fine del primo Partito radicale in seguito al già citato "caso Piccardi".
Alla fine di gennaio del 1968 Pannunzio venne improvvisamente ricoverato in una clinica romana e morì il 10 febbraio. Volle come ultimo viatico nella bara I Promessi Sposi e c'è stato chi ha sostenuto che quella scelta avesse anche un significato religioso e nonsolo letterario. Chi scrive ebbe una confidenza importante al riguardo dalla moglie di Pannunzio, Mary, ma il vincolo del segreto a cui mi impegnai mi impedisce di scriverne. Questa confidenza la ebbi a casa di Pannunzio in via Lucrezio Caro nel 1988, quando per caso buttai l'occhio su un'immaginetta di Papa Giovanni XXIII su un vetro della biblioteca di Pannunzio. Mary spiegò che a porla in quel posto fu lo stesso Pannunzio che aveva una grande simpatia per il Papa succeduto a Pio XII.
Certo, quella scelta nei confronti di un grande classico, nell'anno della contestazione giovanile che avrebbe messo al rogo tutta la cultura tradizionale, assume sicuramente un forte significato.

Cyrus
11-05-10, 11:18
indice
pag 1 Mario Pannunzio
pag 2 Ernesto Rossi
pag 3 Adelaide Aglietta
pag 4 Leo Valiani
pag 5 Felice Cavallotti
pag 6 Ernesto Nathan
pag 8 Ernesto Rossi (2ap)
pag 9 Luigi Del Gatto
pag 9 Adele Faccio
pag 12 Antonio Russo
pag 14 Guido Calogero
pag 15 Leonardo Sciascia
pag 17 Guido Calogero (2ap)
pag 18 Franco Roccella
pag 19 Leopoldo Piccardi

Cyrus
11-05-10, 11:20
Nicolò Carandini
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Nicolò Carandini (Como, 6 dicembre 1895 – Roma, 18 marzo 1972) è stato un politico, partigiano e intellettuale antifascista italiano.

È stato ministro della Repubblica, primo ambasciatore italiano presso il Regno Unito dopo la Seconda guerra mondiale nonché presidente dell'Alitalia.

Proveniente da una nobile famiglia di origine modenese trasferitasi in Piemonte (possedeva il titolo di conte, di Patrizio di Modena e Nobile di Bologna), prende parte alla Prima guerra mondiale come ufficiale degli Alpini.

Dopo l'avvento del fascismo, a cui si oppone, lavora nell'industria tessile di famiglia. Sposato con Elena Albertini, figlia del senatore Luigi Albertini, fino al 1925 direttore del Corriere della Sera, dal 1926 Nicolò, assieme al cognato Leonardo Albertini, si occupa della bonifica del latifondo Torre in Pietra vicino a Roma, che trasforma in un'azienda agricola all'avanguardia. Nello stesso periodo stringe sempre più stretti contatti con esponenti dell'antifascismo liberale come Benedetto Croce e Francesco Ruffini, e nel 1942, con altri liberali, fonda il giornale clandestino Ricostruzione.

Dopo il colpo di Stato del 25 luglio 1943 è, con Leone Cattani, Mario Pannunzio e Francesco Libonati, tra i fondatori del nuovo Partito Liberale Italiano e, dopo l'8 settembre, è membro del Comitato di Liberazione Nazionale (l'organizzazione politica della Resistenza) a Roma, come esponente del PLI.

E, per un breve periodo dal luglio al novembre 1944 ministro senza portafoglio nel secondo governo Bonomi. Dal 1944 al 1947 è ambasciatore italiano a Londra.

Nel 1946 è artefice delle trattative che portano all'Accordo De Gasperi-Gruber che risolve il ruolo dell'Alto Adige tra l'Italia e l'Austria.

Dopo la ratifica del Trattato, lascia la diplomazia e ritorna all'attività politica, nel 1948 esce dal PLI e, insieme a Mario Ferrara, è il fondatore del Movimento Liberale Indipendente, esigua formazione di ispirazione terzaforzista che, nel 1951 rientra nel PLI, all'occasione del Convegno di unificazione e mobilitazione liberale, tenutosi l'8/9 dicembre di quell'anno a Torino. Dopo l'ascesa di Giovanni Malagodi alla guida del partito, esce di nuovo l' 8 dicembre 1955, per fondare, insieme all'ex-segretario del PLI Bruno Villabruna, ma anche ad esponenti dell'antifascismo democratico quali Leo Valiani, il Partito Radicale.

Collaboratore della rivista "Il Mondo" diretta da Pannunzio, è tra i fondatori del Movimento Europeo Italiano.

Dal 1948 al 1968 è presidente della neonata compagnia aerea Alitalia. Nel 1968 fu tra i promotori del "Centro Pannunzio" di Torino insieme ad Arrigo Olivetti, Leone Cattani, Francesco Libonati, Pier Franco Quaglieni, Mario Soldati.

È padre dell'archeologo Andrea Carandini nonchè cugino dell'attore Christopher Lee.


Letteratura

* Carandini Albertini, Elena, Passata la stagione... . Diari 1944-1947. Firenze 1989.
* Riccardi, Luca, Nicolò Carandini il liberale e la nuova Italia, 1943-1953. Grassina Bagno a Ripoli 1992.
* Carandini Albertini, Elena, Dal terrazzo. Diario 1943-1944. Bologna 1997.
* Dotti Messori, Gianna, I Carandini. La storia e i documenti di una famiglia plurisecolare. Modena 1997.
* Longo, Oddone, Majnoni, Elisa (a cura di), Nicolò Carandini, il lungo ritorno. Lettere dalla Grande Guerra. Udine 2005.
* Blasberg, Christian, Die Liberale Linke und das Schicksal der Dritten Kraft im italienischen Zentrismus, 1947-1951. Frankfurt/Main 2008
* Carrannante, Antonio, Memorialistica del Novecento in due libri recenti, in "Giornale di storia contemporanea", dicembre 2008, pp.121-137.

Cyrus
11-05-10, 11:20
Nicolò Carandini

Nicolò Carandini è una delle figure più importanti del liberalismo italiano, rimasta ingiustificatamente un po' trascurata.

Morì a Roma il 18 marzo 1972 e val la pena di ricordarlo soprattutto ai più giovani che forse non l'hanno neppure sentito nominare.

Il tempo passa inesorabile, ma in effetti fu lo stesso Carandini ad appartarsi, dopo i primi Anni Sessanta, dalla vita politica. Due anni prima della sua improvvisa scomparsa mi scriveva in una lettera: " Io non prendo più parte ad alcuna manifestazione e mi limito intellettualmente a tradurre Seneca richiamando alla mia memoria il latino appreso oltre mezzo secolo fa. E' tempo che i giovani assumano queste iniziative culturali e politiche per tener viva una fiamma che noi abbiamo modestamente alimentata ai tempi nostri".

Fu uno dei leader della sinistra liberale senza mai essere deputato e visse l'esperienza del partito radicale di cui fu uno dei massimi esponenti. Collaborò (con oltre 80 articoli che meriterebbero un'antologia ad hoc) al "Mondo" di cui fu anche editore per circa dieci anni insieme ad Arrigo Olivetti. Suoi articoli importanti erano già apparsi su "Risorgimento liberale" e due suoi opuscoli ("Primi chiarimenti" e "Realtà"), in cui veniva delineato il nuovo liberalismo, circolarono clandestinamente a Roma fin dalla primavera del '43 e vennero stampati subito dopo il 25 luglio.

Disse di cui Giovanni Ferrara in occasione della sua morte: "Avrebbe potuto, per la sua posizione sociale e la ricchezza, partecipare al gran mondo del potere; invece preferì le amicizie umane e politiche strette intorno all'idea di libertà".

Carandini tuttavia andrebbe soprattutto ricordato come uno dei protagonisti della politica estera italiana tra il '44 e il '47.

Nominato nel 1944 ministro, in sostituzione di Benedetto Croce, nel primo Gabinetto Bonomi, lasciò il Governo dopo pochi mesi, per affrontare un compito difficilissimo come primo ambasciatore italiano a Londra: riannodare, in piena guerra, i primi fili di un rapporto che il fascismo aveva distrutto, dando agli Inglesi l'immagine di un'altra Italia.

La "Nuova Antologia" ha pubblicato il Diario Inglese di Carandini nei fascicoli 2144, 2145, 2146. Dalla lettura di quelle pagine si colgono le immense difficoltà che Carandini dovette fronteggiare, a partire dalla sede dell'ambasciata che egli ripristinò a sue spese.

Ha scritto Alessandro Passerin d'Entrèves, che fu testimone di quelle vicende: "Era un uomo che poteva recare il messaggio dell'Italia civile, di quell'Italia che gli Inglesi non avevano mai imparato ad odiare, nemmeno durante una guerra che ci aveva così funestamente divisi".

A Londra nella primavera del '45 egli si impegnò in contatti preludenti la prima Conferenza della Pace (Lancaster House - Londra, settembre 1947) a fianco di Acide De Gasperi, ancora piuttosto inesperto di cose internazionali. L'intesa tra i due uomini fu straordinaria e meriterebbe un adeguato approfondimento. La preparazione si era svolta al Foreign Office, nelle ambasciate e non solo con gli ambasciatori ma con uomini come Molotov e Couve de Murville, nonché con personalità americane e con i maggiori giornalisti.

Nella seconda sessione della Conferenza della Pace a Parigi nella primavera del '46 al Palais du Luxembourg, De Gasperi si presentò nuovamente affiancato da Carandini.

La terza sessione del Trattato si svolse a New York alla fine del '46 con la partecipazione di Carandini, Tarchiani e Quaroni, senza De Gasperi. Il finale si ebbe poi a Parigi nel '47, sempre con Carandini che fu l'unico che abbia seguito tutte le vicende del Trattato.

Tra il resto, va ricordato che Carandini, eletto all'Assemblea Costituente nel 1946, rinunciò al suo seggio, per proseguire nell'attività diplomatica che aveva intrapreso. Quella scelta lo tagliò fuori, di fatto, dalla successiva vita parlamentare della storia repubblicana.

E' impossibile in un breve profilo descrivere in dettaglio ciò che egli fece per l'Italia in quegli anni critici. Fu un vero patriota che sacrificò una carriera politica brillante, per dare il proprio contributo disinteressato ed appassionato alla resurrezione del Paese.

Di lui resta un patrimonio di intransigenza morale, di cultura, di onestà e di impegno civile che andrebbe raccolto, se questo Paese sapesse uscire da una politica di basso profilo, fatta di pubbliche sceneggiate e di compromessi privati, per ricuperare una dimensione di serietà e rigore.

Per Carandini si può ripetere ciò che Giovanni Spadolini scrisse per Einaudi: forse in nessun uomo come in lui l'eredità del Risorgimento si identificava con una vera visione della vita: non il Risorgimento eroico della leggenda e dell'oleografia, ma il Risorgimento che era apertura dell'Italia all'Europa, riallacciamento dei rapporti col mondo d'Oltralpe, la finestra spalancata su Londra e su Parigi. Il Risorgimento di Cavour, in una parola.

Pier Franco Quaglieni

Cyrus
11-05-10, 11:22
la terza via di Carandini un liberale contro tutti
gli inediti di uno dei fondatori del " Mondo " raccolti nel quaderno della Nuova Antologia " il liberale e la Nuova Italia " a cura dello storico Luca Riccardi con prefazione di Spadolini

------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ ELZEVIRO Gli inediti di uno dei fondatori del "Mondo" TITOLO: La terza via di Carandini Un liberale contro tutti - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - "Il liberale e La Nuova Italia" e' il titolo di un quaderno della Nuova Antologia che raccoglie dal 1943 al 1953 scritti, lettere e documenti inediti di Nicolo' Carandini, che fu uno dei personaggi di maggior rilievo del movimento liberale in questo dopoguerra e uno degli ispiratori de "Il Mondo". Nel quaderno, a cura del giovane storico Luca Riccardi con una prefazione di Giovanni Spadolini, colpisce il fatto che le considerazioni e i temi che esso tratta appaiono legati al vivace dibattito politico attuale. Infatti, in seguito ai risultati elettorali, sono riemersi problemi che sembravano superati come il giudizio su fascismo e antifascimo, quello del ruolo dell' Italia in Europa, il rapporto tra liberalismo e totalitarismo, il retaggio del comunismo, la concezione della sovranita' nazionale. Luca Riccardi, incoraggiato da Renzo De Felice, ha scelto lettere e documenti legati appunto a questi nodi permanenti della nostra politica italiana e ci ha dato quindi, piu' che un' antologia di scritti, una testimonianza dell' opera della classe dirigente nell' immediato dopoguerra attraverso l' epistolario di Carandini con Sforza, De Gasperi, Saragat, e poi con gli esponenti liberali, da Croce a Manlio Brosio, Leone Cattani, Mario Ferrara, Enzo Storoni, Giovanni Cassandro e al direttore del Mondo Mario Pannunzio. Di famiglia aristocratica, Nicolo' Carandini aveva sposato la figlia di Luigi Albertini, Elena, proprio nel 1926, l' anno in cui il direttore e proprietario del "Corriere della Sera" fu costretto dal fascismo ad abbandonare il quotidiano e a ritirarsi a vita privata. Il giovane conte Carandini respiro' , in quell' ambiente, l' aria di un antifascismo ispirato ai principi liberali, un liberalesimo non conservatore, che costitui' il filo conduttore di tutta la sua attivita' politica. Il liberalesimo per lui era un atteggiamento etico prima che politico. E' con questo spirito che egli partecipo' alla rinascita del vecchio partito liberale di cui stese il documento programmatico nell' agosto del ' 43. Questo scritto riletto oggi contiene giudizi che fanno riflettere. Si domanda l' autore: "Dove finisce il fascismo e dove cominciano gli italiani? Si abbia almeno il coraggio di riconoscere una verita' che deve essere interamente scontata se non vogliamo muovere da un iniziale equivoco che infirmera' il principio stesso del nostro ravvedimento: fatta eccezione per una minoranza di irreducibili oppositori, gli italiani hanno pienamente condiviso col fascismo le responsabilita' di questi venti anni di decadenza". Dunque: "bisogna trasformarli da sudditi in cittadini...". Con Leone Cattani e Mario Pannunzio egli rappresento' l' inquietudine di un gruppo che non si rassegnava a considerare il liberalesimo come un movimento conservatore, ma lo concepiva aperto alle istanze della giustizia sociale. C' era in lui aristocratico il rifiuto di una identificazione, che era invece accettata dai piu' , tra liberalismo e conservatorismo, fra liberalismo e classi possidenti, in definitiva ricchi agricoltori o imprenditori. Dal ' 44 al ' 47 assume la carica di ambasciatore a Londra in un momento particolarmente difficile per l' Italia in quanto Paese sconfitto. Il suo merito principale fu quello di avere servito il Paese nel momento di crisi maggiore che attraversava. In questo incarico svolse un ruolo fondamentale non solo per ristabilire i rapporti con l' Inghilterra, ma anche nell' elaborazione del trattato di pace. Molto interessante e' il carteggio con De Gasperi e Sforza. Carandini svolge un compito spesso ingrato per superare l' ostilita' e le prevenzioni della diplomazia e del mondo politico inglese allo scopo di ottenere il superamento delle condizioni durissime imposteci con l' armistizio. Egli capi' che bisognava superare le incertezze e rapidamente ratificare il trattato se si voleva, come scrisse a Sforza, riprendere la strada della rinascita. Di De Gasperi Carandini fu stretto collaboratore anche nella preparazione degli accordi con l' austriaco Gruber sull' Alto Adige. Nella seconda parte del libro il carteggio di Nicolo' Carandini con i dirigenti liberali illumina sulla diversa e talvolta opposta concezione del Partito Liberale che doveva portare alla scissione della Sinistra liberale e poi, dopo una effimera riunificazione nel ' 52 con Villabruna, alla separazione definitiva dal Partito di Giovanni Malagodi e alla nascita del Partito Radicale. La terza parte e' dedicata alla sfortunata battaglia de "Il Mondo" per creare quella terza forza che nelle speranze di Carandini come del gruppo che faceva capo a Pannunzio, Libonati e Cattani avrebbe dovuto essere l' alternativa a una destra conservatrice e una sinistra ancora succube della ideologia marxista dominata dalla concezione della dittatura del proletariato. Fu un tentativo generoso che non ebbe sbocco e lascio' quel vuoto che si sente ancora oggi. Questo gruppo di intellettuali che si riuniva intorno al settimanale "Il Mondo, di cui Carandini fu anche uno dei finanziatori, promosse pero' un' azione culturale e politica che indico' i veri aspetti di molti dei problemi che affliggono ancora il Paese. Negli ultimi anni della sua vita (mori' nel 1972), Carandini oltre alla collaborazione a "Il Mondo" fino al termine della direzione di Pannunzio nel 1966, accentuo' i suoi interessi di tipo spirituale e si dedico' alla traduzione delle Lettere a Lucilio di Seneca a cui dedico' un saggio che dimostra come si ispirasse ad un ideale storico sotto l' apparenza di quella "anglomania" di cui erano "accusati" quasi tutti gli intellettuali de "Il Mondo".

Russo Giovanni

Pagina 19
(26 luglio 1994) - Corriere della Sera

Cyrus
11-05-10, 11:23
E' MORTA ELENA CARANDINI IL FASCINO DELLA DISCREZIONE

Repubblica — 22 febbraio 1990 pagina 6 sezione: POLITICA INTERNA
ROMA E' morta ieri mattina Elena Carandini, signora di un mondo passato che ben poco ha in comune con la volgarità dei nostri giorni. Avrebbe compiuto 88 anni il mese prossimo. Altera, colta, raffinata, donna di gusto sicuro, riuniva ancora attorno a sé gli ultimi amici del Mondo, il giornale di cui suo marito, gran gentiluomo della politica, era stato uno dei fondatori. Figlia di Luigi Albertini, il più celebre direttore del Corriere della Sera, nipote era suo nonno materno di Giuseppe Giacosa, cognata della nipote prediletta di Tolstoj, giusto un anno fa Elena Carandini dette alle stampe il diario che tenne fra il ' 44 e il ' 47, resoconto lucido, minuzioso e a tratti crudele di quegli anni importanti, in cui suo marito fu nostro ambasciatore a Londra. Ecco vecchie fotografie d' epoca che stingono nelle sfumature dell' ocra: ecco Elena ragazza sulla spiaggia accanto al padre, vestito e calzato di tutto punto, con anche il Borsalino; ecco Nicolò Carandini assieme a Harry Truman nella splendida casa con quadreria di via XXIV Maggio; ecco Elena e Nicolò con i figli nel cottage di Kingston, negli anni inglesi, che riaffiorano nelle memorie non a caso intitolate, con rimpianto e insieme distacco, Passata è la stagione. Passata è la stagione dell' amore per la discrezione, per i classici, per la democrazia liberale. La stagione di passeggiate perdute, di Cyril Connolly e di T.S. Eliot, delle grandi dimore britanniche in decadenza, della Londra struggente in bianco e nero che usciva dai bombardamenti, dell' udienza a quattr' occhi che inattesamente volle concederle la regina Mary, signora in zucchero rosa con perle e lo sguardo azzurro fra le ali dei capelli castani, diretto e gentile. Un incontro che avviene, si può dire, alla pari, se è vero che la grande sala della regina al primo piano scrive Elena Carandini somiglia a molte banalissime della mia Milano infantile: divanetti con poltrone attorno, in sete pallide come i tendaggi. Una certa morbidezza signorile, un certo scintillio di specchi, lumi, argenti. Scialbi ritratti di famiglia. Ma passata è la stagione che segna l' alba e insieme il tramonto di altri ideali di quegli anni e di anni ancora precedenti. Su 40 milioni di italiani, gli antifascisti sono 40, per forza si conoscono fra loro e si frequentano, ironizzava Benedetto Croce. E la gens liberale che torna a vivere nelle pagine di questi diari spesso si ritrovava proprio nell' ampio salone con vetrata dei Carandini, a pochi metri dal Quirinale. Il diario non racconta soltanto la triste decadenza delle élites liberali nella società italiana e il decoroso declino delle élites conservatrici nella società inglese scrive l' ex ambasciatore Sergio Romano nella prefazione a questo journal Racconta altresì indirettamente il tramonto di una istituzione a cui Elena Carandini ha lungamente appartenuto: quella delle donne intelligenti, belle ed eleganti che governavano salotti con un pugno di ferro in un guanto di velluto. Il cerchio affettivo e familiare degli Albertini e dei Carandini, ricorda Sergio Romano, si dà appuntamento ogni anno sulle colline di Ivrea, a Colleretto Giacosa e a Parella, con i Giacosa, appunto, i Ruffini, i Craveri, i Realis. Elena Carandini dunque respira la medesima, rarefatta atmosfera da happy few fin dalla nascita, lei figlia di un ricco borghese illuminato defenestrato dal Corriere per dissapori col regime; la stessa atmosfera che si ricreerà nel salotto di via XXIV Maggio, frequentato da Benedetto Croce, da Alessandro Casati, da Carlo Sforza, da Alberto Tarchiani, da Mario Pannunzio, da Giovanni Visconti Venosta; l' atmosfera che in qualche modo si era creata durante il difficile soggiorno londinese di ambasciatori d' un paese sconfitto, l' atmosfera stimolante e irripetibile che poi si respirò nelle stanze del Mondo. Peccato che i diari pubblicati da Elena Carandini abbraccino soltanto gli anni dal ' 44 al ' 47. In realtà mia madre ha tenuto un diario per vent' anni, dal ' 43 fino al ' 63 racconta oggi il figlio Andrea, archeologo di fama Ci ha lavorato fino all' ultimo, giorno dopo giorno, ribattendoli a macchina, rimettendoli in ordine. Però non voleva che fossero pubblicati. Semmai fatelo quando sarò morta, ripeteva. Io riuscii a convincerla. Adesso sarebbe bello poter dare alle stampe anche il resto. Mia madre ha avuto una vita molto attiva e anche molto fortunata. E' stata legatissima a suo padre e si è sposata con un uomo che l' ha amata moltissimo. Insieme rappresentavano un modo di vita oggi radicalmente scomparso. Mia madre, pur avendo vissuto direi sempre in funzione di suo marito, non rinunciò mai alla sua personalità, alla sua indipendenza, alla sua autonomia di giudizio. I funerali si svolgeranno domani, venerdì, alle dieci e mezzo nella basilica dei Santi Apostoli. Seguirà una benedizione nella cappella di Torrimpietra. Elena Carandini lascia cinque figli e diciotto nipoti, la più piccola dei quali, Greta, ha soltanto sette mesi. - di LAURA LAURENZI

Cyrus
11-05-10, 11:24
Autore: Edgardo Bartoli
Titolo: Milord. Avventure dell'anglomania italiana

collana: Il cammello battriano

ISBN 978-88-545-0219-2
Pagine 240
Euro 18,00

Quando Nicolò Carandini, plenipotenziario della nuova Italia nata dal crollo del fascismo, arrivò a Londra circondato dai suoi collaboratori, il funzionario di modesto rango incaricato di riceverlo con la massima freddezza possibile, fu colto da un attimo di sgomento. Elegantissimo, alto, bello (dicevano che assomigliava a Gary Cooper), un grand seigneur che irradiava fascino e classe anche a distanza, il conte Carandini non rientrava affatto nei modelli mediterranei in cui gli anglosassoni avevano ristretto gli italiani, in categorie abbastanza offensive, di qualsiasi provenienza e ceto fossero. Sembrava – e in fondo lo era – un lord, più vero di quelli che frequentavano la camera dei pari: qualcosa che per un inglese non poteva esistere in natura. Così al funzionario non rimase altro che pronunciare una sola parola, rimasta celebre: «Impossible».
Se Carandini era chiamato scherzosamente alla Farnesina “Lord Carandini”, l’autore di questo libro, un notissimo giornalista, era chiamato “Sir Edgardo” nei giornali in cui ha lavorato come corrispondente e come inviato da Londra – il “Corriere della Sera” e “La Repubblica”. Chi meglio di lui avrebbe potuto scrivere questo libro che tratta principalmente, ma non solo, di una malattia contagiosa, ma con effetti quasi sempre benefici, quando non si aggravava, diffusa nelle classi dirigenziali europee: l’anglofilia.
Per due o tre secoli gli spiriti indipendenti e nobili della vecchia Europa, che soffrivano le angherie di un potere arbitrario e a volte assoluto, ritrovavano le speranze di un futuro migliore guardando all’Inghilterra, alla lotta dei suoi cittadini in difesa delle libertà personali, a uno stato che aveva raggiunto quello che era il sogno di tutti gli studiosi di politica. Un quasi perfetto equilibrio tra poteri, in modo che nessuno prevaricasse.
O almeno così sembrava.
Come questa passione per l’Inghilterra, nata come passione per la libertà e per un popolo che aveva sempre combattuto il potere arbitrario, sia andata con il tempo modificandosi in anglomania e scendendo dai nobili propositi iniziali si sia trasformata in un’ossessione un po’ ridicola per tutto quello che portava un marchio inglese, in particolare scarpe, vestiti, cravatte, camicie, oggetti feticcio che venivano indossati ed esibiti in occasioni e in luoghi lontanissimi da quelli originali, causando tutta una serie di fraintendimenti, è raccontata qui per esteso, in maniera impareggiabile. Uno degli aspetti più esilaranti della vicenda – non un affare da poco, ma una vera e propria infatuazione di massa – è stata l’ineffabile interpretazione italica del mondo anglosassone, che ha dato all’anglofilia e all’anglomania un tocco tutto particolare e nostrano, che non ha avuto paragoni in Europa. Ma l’ironia di Bartoli, che è stato in molti casi spietato, ogni tanto lascia il posto a una qualche indulgenza. Perché i protagonisti di questo libro siamo tutti noi.
S.M.

Cyrus
11-05-10, 11:25
Nicolo Carandini Il Liberale E La Nuova Italia, 1943 1953 Con Documenti Inediti
ISBN 8800856918 / 9788800856911 / 88-00-85691-8

Cyrus
11-05-10, 11:26
Alle origini del Mondo

Quando Mario Pannunzio fonda nel 1949 il settimanale Il Mondo non ha ancora compiuto 40 anni, ma può vantare un curriculum giornalistico di tutto rispetto: a 21 anni scriveva già recensioni letterarie per Il Saggiatore, rivista di critica e filosofia non allineata al regime; a 23 anni dava vita all’Oggi, all’epoca ancora un piccolo settimanale di rassegne culturali; a 27 anni era con Arrigo Benedetti redattore di Omnibus, il rotocalco di attualità inventato da Leo Longanesi, caposcuola alla fine degli anni Trenta di un nuovo giornalismo fondato sull’alleanza tra lo snobismo e l’opposizione. A 29 anni, poi, veniva chiamato dall’editore di Omnibus (nel frattempo chiuso dal fascismo), Angelo Rizzoli, a dirigere sempre con Benedetti una nuova edizione dell’Oggi, fino alla sua chiusura,avvenuta nel 1942; e a 33 anni, infine, fondava il quotidiano clandestino Risorgimento Liberale. Un giornale che oltre a essere l’organo del partito liberale, un partito «nuovo, giovane e progressivo», come scriveva lo stesso Pannunzio, e cioè lontano dal liberalismo così come era stato concepito prima dell’avvento della dittatura, con le sue posizioni conservatrici a difesa degli «interessi e privilegi costituiti» dell’«alta borghesia, l’alta industria, l’alta finanza», voleva essere il punto di aggregazione di tutti quegli intellettuali «terzisti» che non si riconoscevano né nella destra post fascista e clericale, né nella sinistra comunista.

Una posizione che Pannunzio riuscirà a difendere fino alla virata monarchica del Pli e la conseguente scissione dell’ala sinistra del partito, alla fine del ’47. Costretto a lasciare il timone di Risorgimento Liberale, Pannunzio continuerà la sua battaglia per una terza forza laica e riformista dalle colonne del nuovo settimanale che di lì a poco fonderà, grazie anche all’incontro con Ernesto Rossi e, per suo tramite, con Gaetano Salvemini: Il Mondo appunto.

A Roma, in via Campo Marzio, al piano nobile di un antico palazzo, si ritrovarono così a partire dal ’49, molti dei fuoriusciti che avevano partecipato all’avventura di Risorgimento Liberale: dall’ambasciatore Niccolò Carandini, genero dell’ex direttore ed editore del Corsera, Luigi Alberini (poi estromesso dal fascismo), nonché leader della sinistra liberal, a Leone Cattani, un altro dei fondatori del Pli; dall’avvocato Mario Ferrara, già corrispondente del Secolo XIX alla Conferenza di Pace di Versailles, e collaboratore della Rivoluzione Liberale di Gobetti; al socialista Panfilo Gentile, che dall’Avanti! Diretto da Benito Mussolini era poi passato all’Unità di Salvemini; dall’ex inviato speciale del Corsera, Luigi Barbini jr., al sottosegretario all’Industria nel governo azionista di Ferruccio Parri, Enzo Storoni. Fino allo stesso Benedetto Croce e al governatore di Bankitalia e futuro presidente della Repubblica, Luigi Einaudi.

«La continuità con Risorgimento liberale si riconosceva persino nell’identità delle rubriche. Come le Lettere scarlatte, che si ritrovavano sul Mondo e su Risorgimento Liberale» ha osservato la storica Mirella Serri, in uno studio sui «profeti disarmati» (Corbaccio, 2008), come Salvemini usava chiamare il gruppo di intellettuali raccolti intorno a Pannunzio. Ad accomunare i due giornali era anche, continua la Serri, «la stessa verve antagonista, snob, oppositiva» che aveva contraddistinto già la fronda borghese di Leo Longanesi.

«Quando nacque Il Mondo la cultura laica italiana era debole e divisa», ricorderà molti anni dopo Giovanni Russo: «Il Pci faceva prigionieri gli intellettuali nella concezione gramsciana del rapporto tra partito e cultura» . Dall’innesto dell’antifascismo di Giustizia e Libertà, «aristocratico e illuminista, quindi predestinato alla sconfitta», come lo definisce Eugenio Scalfari, di Rossi e Salvemini, sulla tradizione crociata del liberalismo di sinistra, prese forma l’operazione politica e culturale del Mondo.

E così fin dai primi numeri il giornale di Pannunzio si propose, per riprendere Salvemini, di «veleggiare nel passaggio stretto del terzismo, tra Scilla e Cariddi», e cioè tra Dc e Pci, criticando tanto le scelte della maggioranza che quelle dell’opposizione, e persino gli stessi liberali al governo. «Sì, però Il Mondo aveva fatto una scelta di campo precisa, e stava dalla parte del quadripartito di De Gasperi, della Nato, degli Stati Uniti», puntualizza lo storico ed editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia. «D’altronde quella era un’epoca in cui bisognava schierarsi e stare da una parte».

Domanda. Eppure gli attacchi al governo erano costanti,soprattutto al cosiddetto fascismo strisciante di quegli anni, il «fascismo omeopatico di marca Dc», come lo chiamava Salvemini. Lo stesso che denunciava come liberali, repubblicani e socialisti fossero diventati «prigionieri di guerra dei democristi (sic!)» o peggio, «finiti nella grondaia neofascista»…

Risposta. C’era sicuramente un’identità culturale molto lontana dalla Dc. All’interno del Mondo convivevano tradizioni politiche diverse, il liberalismo di Croce, il liberismo di Einaudi, il socialismo di Amendola, il concretismo di Salvemini. Probabilmente Pannunzio avrebbe visto più con favore un governo con Einaudi, ma capiva che un’alleanza con la Dc era irrinunciabile.

D. in effetti poi era lo stesso Salvemini che invitava a votare Dc turandosi il naso. «Possiamo solamente scegliere tra il male, il peggio, il più peggio e il massimo del peggio», scriveva…

R. Sì, e quando si trattò di scegliere, per esempio nel ’53 con la legge-truffa, il gruppo del Mondo si schierò a maggioranza a favore della legge elettorale del ministro democristiano Scelba che introduceva il sistema maggioritario…

D. Insomma, un coacervo di contraddizioni politiche…

R. Ma perché il Mondo fu essenzialmente un progetto culturale più che politico, almeno nei primi anni. Un ritrovo di grandi cervelli, di naufraghi sopravvissuti a un doppio fallimento politico: quello del Partito d’azione e quello del Partito liberale. Il primo si era sciolto, l’altro si era scisso in seguito alla deriva monarchica. C’era qualcuno che simpatizzava con il Partito repubblicano di La Malfa,qualcuno che guardava alle vicende dei socialisti, altri continuavano a sentirsi vicini ai liberali. Ma politicamente erano tutti dei «dispersi», come avrebbe scritto poi Mario Ferrara. Nessuno aveva più una casa politica.

D. Fino a quando non si arrivò alla fondazione del Partito radicale…

R. Dopo i fatti del 1956 e il distacco dei socialisti dal Pci,ci fu una graduale apertura a sinistra. E solo allora nel Mondo iniziò a prendere forma l’ipotesi di un progetto politico.

D. Le varie anime del Mondo, quella antifascista e quella liberaldemocratica, cercarono di convivere ancora per qualche anno, fino alla rottura e all’uscita di Rossi, nel ’62. Sono conflitti che sembrano anticipare di oltre mezzo secolo le lotte a sinistra per l’egemonia all’interno del Pd…

R. Ma no, sono situazioni completamente diverse. Allora c’era un problema di legittimazione a sinistra che oggi non esiste più. Le spaccature nel Pd derivano dalla competizione tra leader e correnti diverse. Oltretutto il Pd ha un problema di compatibilità e coerenza che il gruppo di Pannunzio non conosceva: all’interno del Mondo erano tutti d’accordo nell’essere contro Chiesa, per esempio. Il Mondo è stato un grandissimo organo di dibattito, di riflessione politica e di giornalismo, ma appartiene a un’epoca che si è chiusa per sempre. La guerra fredda è finita,il comunismo pure, e il progetto di una terza forza non è più d’attualità. Eppure sono in molti in Italia a considerarsi gli eredi del Mondo e della tradizione che ha rappresentato. Per carità,una grandissima tradizione. Ma c’è quasi la corsa a sentirsi gli epigoni di Pannunzio. E’ una cultura del «reducismo» per la quale ho una certa diffidenza.

Sandro Orlando, Il Mondo, 26 giugno 2009.

Cyrus
11-05-10, 11:29
Prospettata la chiusura del settimanale economico

La fine del "Mondo"

In forse l'abbinamento al "Corriere"

di Liliana di Donato

A cinquanta anni dall'uscita del primo numero "Il Mondo" rischia la chiusura. Il settimanale politico economico della Rcs Editori è ormai diventato una vera e propria emergenza per il gruppo Rizzoli. Da affrontare, secondo il direttore generale della casa editrice Giampaolo Sala, con due opzioni.
La prima soluzione consiste in un tentativo di sopravvivenza del Mondo attraverso una formula diversa dall'attuale, peraltro non specificata, che passerebbe per la chiusura dell'ufficio di NewYork e della redazione di Roma, con alcuni esodi nella redazione di Milano, allo scopo di ridurre l'organico da 30 a 20 giornalisti. L'attuale direttore, Guido Gentili, lascerebbe l'incarico, per essere sostituito da Paolo Madron, appoggiato dallo stesso presidente della Rcs Cesare Romiti. Il settimanale verrebbe inoltre distribuito il venerdì insieme con "Il Corriere della Sera".
Ma i vertici di via Solferino sono perplessi. Il direttore del "Corriere", Ferrucio De Bortoli, chiede che, se l'operazione andasse in porto, sia mantenuta una netta distinzione tra il quotidiano e il periodico. "Il Mondo" non diventerebbe mai il magazine economico del "Corriere". Secondo "L'Espresso", le ragioni sarebbero due: "non scontentare quanti all'interno della redazione di via Solferino possono ambire alla poltrona offerta a Madron e soprattutto non assumere impegni che, in caso di fallimento, ingolfino ancor più gli organici del Corriere con gli ex del Mondo".
Se, però,"Il Mondo", anche nella nuova veste, non dovesse aumentare le vendite, verrebbe chiuso definitivamente. La Rcs applicherebbe, allora, la legge 223 sui licenziamenti collettivi.

Dal primo, con data 19 febbraio 1949, all'ultimo dell'8 marzo 1966, sono usciti 890 numeri del settimanale di cultura " Il Mondo", fondato e diretto da Mario Pannunzio e edito da Gianni Mazzocchi. Nel 1956, a causa delle difficoltà economiche di Mazzocchi, intervennero come finanziatori Arrigo Olivetti e Nicolò Carandini.
Al momento della chiusura nel '66 regalarono la testata a Pannunzio, che nel 1968, prima di morire, pubblicò un numero di testimonianza con alcuni articoli dedicati due anni prima dalla stampa a commento della chiusura del giornale.
Nel '69 Mazzocchi riacquistò la testata dalla vedova Pannunzio, ma dopo poco il giornalepassò a Rizzoli che lo trasformò in un magazine politico-economico.

Per i 50 anni del "Mondo" il Centro Studi e Ricerche intitolato a Pannunzio ha organizzato una mostra documentaria al Lingotto di Torino dal 20 febbraio.



(24 febbraio 1999)

Cyrus
11-05-10, 11:36
“Il carisma è soltanto una lunga pazienza”

“Ma tu chi sei?”

Interviste inconsuete a personaggi notissimi

PANNELLA

Dall’unione goliardica al Partito Liberale fino ai “nuovi radicali”

di Adele Cambria

SOMMARIO: “Il Pannella che digiuna, il Pannella che s’imbavaglia in Tv: un’espressione folle, un fatto bestiale. La bestia rara, il mostro, il buffone. E’ il risultato della censura televisiva: sono l’unico uomo politico italiano, l’unico leader che per tre anni e mezzo non è mai andato “in voce” né al Tg1, né al Tg2, né al Tg3, né al Gr1, al Gr2 o al Gr3…”. Riflessioni su immagine e identità radicale nel mezzo della campagna per la raccolta di almeno quindicimila iscrizioni al partito radicale.

(IL GIORNO, 21 gennaio 1987)

(a.c.) Nasce a Teramo il 2 giugno 1930, da una madre francese nata tuttavia in Svizzera, e che ha un nome che in Italia è esclusivamente maschile, Andrea (il cognome è Estechon). Il padre è un ingegnere. La famiglia paterna, abruzzese, agiata, di piccoli proprietari terrieri, annovera uno zio monsignore, don Giacinto Pannella, il cui nome viene imposto al bambino, che tuttavia, fin da piccolo, sarà sempre chiamato Marco.

Marco Pannella nasce alla politica molto precocemente, entrando all’Università nell’Ugi (Unione goliardica italiana) e diventandone presto un leader carismatico (aggettivo che non gli piace e che rifiuta costantemente). Accanto a lui nell’Ugi crescono altri uomini politici, tra i quali l’attuale presidente del Consiglio, Bettino Craxi.

Dall’università alla politica, attraverso il Partito radicale che personaggi molto anziani e autorevoli di Pannella (Nicolò Carandini, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Leo Valiani, Bruno Villabruna) costituiscono nel 1955. Pannella, che a quindici anni s’era iscritto al Partito liberale (aveva scoperto in edicola il quotidiano del partito, “Risorgimento liberale”, e ne era stato attratto), coopera a formare ben presto l’ala di punta del nuovo partito: essa prenderà il nome di “Sinistra radicale” e, nei primi anni Sessanta, raccoglierà l’eredità di un partito disgregatosi in parte per la “purezza impolitica” dei suoi fondatori, in parte per la sua “doppia anima” originaria (una laico-liberale moderata e un’altra rivoluzionaria-democratica).

La “Sinistra radicale” - che nasce proponendo, per bocca di Pannella, un’alleanza laica dal Pli al Pci - si caratterizzerà, con la rifondazione del partito (dal congresso del 1967 in poi), attraverso la tematica dei diritti civili. I “nuovi radicali”, come saranno definiti, sono più “politici” che “teorici” (ma anche più “idealisti” che “politici”), e preferiscono comunque l’azione alla riflessione che ha segnato la straordinaria stagione dei convegni degli “Amici del Mondo”. In breve, i nuovi radicali trasferiscono in politica gli emergenti bisogni d’emancipazione della società italiana. Punteranno quindi le loro carte sul divorzio (nel 1968 si costituisce la Lid), l’obiezione di coscienza (Loc), il pacifismo, la liberazione femminile (Mld, Cisa, battaglia per la depenalizzazione dell’aborto), la libertà sessuale (Fuori) e, via via negli anni, la riforma della giustizia e delle carceri, la lotta contro la fame nel mondo, ecc. ecc. Dal 1976 il Pr è presente nel Parlamento italiano, dal 1979 in quello europeo. Il soggettivismo politico, che i radicali reinventano in Italia, fatalmente si riassume in un nome e in un personaggio: Marco Pannella.

Roma, gennaio

Marco, che rapporto hai con la tua immagine pubblica?

“Un rapporto doloroso…”.

- Nel senso che ti ci riconosci, immagino… Ma nessuno si riconosce nell’idea che di lui, o di lei, hanno gli altri… Non è così?

“Questo è un luogo comune - … il fatto di non essere soddisfatto di come la tua immagine arriva agli altri… - e perciò, come tutti i luoghi comuni, è falso. C’è sempre una ragione per cui la tua immagine pubblica risulta alterata. Nel mio caso, io regno attraverso l’assenza, e non attraverso la presenza, nei mezzi di comunicazione di massa.

- Ma se sei uno dei personaggi più clamorosi dell’Italia degli ultimi dieci, quindici anni…

“Clamorosi, forse, ignoti di sicuro. Io esisto, certamente, come tu dici, nell’immaginario collettivo: ma anche Landru esisteva nell’immaginario collettivo, anche gli antifascisti, durante il fascismo, erano demonizzati - e quindi esistevano - nell’immaginario collettivo. Credimi, non sono io quello che appartiene all’immaginario collettivo italiano. E non sono io perché i tenutari dell’informazione televisiva nel nostro paese…”.

- Scusami, io ho l’impressione che tu mitizzi la tv… Non sono in tv, quindi non esisto. Ma a me pare, al contrario, che proprio tu sia la dimostrazione più brillante del fatto che non è necessario farsi vedere in televisione per essere conosciuto. O no?

“Proverò a farmi capire usando un esempio: immagina Luciano Pavarotti, immagina che di lui si senta dire che è un meraviglioso cantante d’opera, si mormori, si vociferi della sua bravura, del suo genio, ma, alla prova dei fatti, per la grande maggioranza delle persone, che non hanno l’occasione o la possibilità di andarlo a sentire in teatro, Luciano Pavarotti sia soltanto una faccia sui nostri teleschermi, il suo grande corpo florido, il suo viso giovanile, e la sua voce, che è il quid, la ragione stessa del suo essere Pavarotti, venga fatta ascoltare ai telespettatori soltanto un attimo, nell’istante del do di petto. Quel do di petto che è il momento massimo della creatività del tenore, della sua arte, del suo genio, della sua fatica, dato così, come un urlo, diventa un’espressione folle e bestiale. Così è per il Pannella che digiuna, il Pannella che si imbavaglia in tv, ecc. ecc. Un’espressione folle, un fatto bestiale… La bestia rara, il mostro, il buffone, o quello che vuoi… E questo è il risultato della censura televisiva: io sono l’unico uomo politico italiano, l’unico leader, diciamo, che per tre anni e mezzo non è mai andato “in voce” né al Tg1, né al Tg2, né al Tg3, né al Gr1, né al Gr2, né al Gr3… Perciò ti dicevo che il luogo comune secondo cui nessuno si riconosce nella propria immagine pubblica è sempre falso. Ci sono delle ragioni per cui non ci si riconosce. Per me sono quelle… Tu dici: sei la dimostrazione più brillante che non serve apparire in tv per essere conosciuto… Ma conosciuto come? Io sono una persona viva e dentro quell’immagine ci crepo. Ma ci crepa anche il Paese… Oggi il 90% della gente se sente parlare di Pannella ride. E’ un riso molto triste, un riflesso condizionato… Ridevano quando digiunavo…”.

- Ecco, il tuo digiuno, il digiuno dei radicali. Parliamone. E’ stato il gesto che più di tutti gli altri, forse, ha consolidato la tua immagine di provocatore irritante, se non di “buffone”… Quando poi gli irlandesi hanno cominciato a morire, digiunando contro l’Inghilterra… Sciascia, ai tempi dei tuoi primi digiuni, scrisse che l’ombra della fame aveva sovrastato per troppi secoli gli italiani perché potessero apprezzare un gesto del genere… E Indro Montanelli, al tempo dei digiuni degli irlandesi, scrisse che tu potevi soltanto o morire o fallire, fallire politicamente, a quel punto… Che cosa rispondi?

“Sciascia ha cambiato totalmente opinione. Io non credo comunque che gli italiani “rimuovessero”, come diceva lui, il digiuno per l’eredità di fame che avevano alle spalle, e quindi scattasse in loro il meccanismo del riso dell’incredulità… No, perché nelle caserme, nelle carceri, anche in Italia, s’è sempre digiunato per protesta. No, è che la classe dirigente aveva stabilito che il digiuno dei radicali era ridicolo e falso. Quindi foto deformi di un Pannella grassissimo trasmesse al Tg1 per illustrare la notizia dei miei digiuni, insinuazioni sul numero dei cappuccini bevuti. Perfino, il digiuno della sete, che ho fatto a Madrid sotto il controllo dei medici, in un ospedale pubblico, e nel corso del quale ho perso quattordici chili in tre giorni e mezzo, è stato messo in dubbio…”.

- Resta il fatto che gli irlandesi si sono lasciati morire…

“Ma perché loro sono dei soldati, il loro digiuno è violento, digiunano contro, contro i nemici; noi invece digiuniamo per la speranza, per convincere i nostri interlocutori a rispettare le regole che essi stesi si sono dati… La prima volta, Roberto Cicciomessere e io digiunammo perché il Parlamento discutesse senza altri rinvii la proposta di legge sul divorzio… Perché la discutesse, non perché l’approvasse… Digiunavamo quindi perché il Parlamento rispettasse se stesso, applicando le regole che s’era dato… E così è stato sempre…”.

Guardo Marco Pannella che, in un giorno di festa, alle dieci del mattino, nella sede dei gruppi parlamentari deserta (se non per i radicali), usa con soavità, per convincermi, l’intera “potenza” del suo personaggio (che io d’altronde conosco dai tardi anni Cinquanta, quando irrompeva nell’austera redazione de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, e, come scrisse più tardi, acutamente, Arrigo Benedetti, tutti si chiedevano: “Ma che ha Pannella? E che vuole?… E’ giovane, è bello, può essere felice, al mondo non esiste solo la politica…”). Faccio, mentre lui torna al suo chiodo fisso, la tv, pensieri probabilmente meschini: per esempio, che sia un grande giornalista frustrato dal fatto di non avere scelto (o potuto scegliere, a causa delle sue idee) questo mestiere. Che abbiano ragione molti suoi ex fedeli, oggi nemici (chi avrà avuto torto, tra loro?), i quali hanno coniato, per lui, uno slogan: “Chi non è con me è contro di sé”. Come dire: la perfezione del ricatto morale. Se non sei con lui, se non lo segui, co

ndividi, obbedisci, vai contro i tuoi stessi interessi. E se poi fosse vero? Comunque, insisto:

- Senti, Marco, a me è sempre parso infantile che i radicali, avendo fatto propria la causa dei senza-potere, continuino a lamentarsi perché non li lasciano entrare nell’area del potere. Non ti sembra una contraddizione?

“Perché tu purtroppo hai una concezione cattolica del potere, lo demonizzi. Il potere che esigiamo noi è altro, è la forza di governo, e del buon governo. Il potere che esigiamo noi è quello parlamentare. Oggi in Italia il Parlamento non ha più nessun potere, dovrebbe invece averlo, e sarebbe una forza positiva. D’altro canto, il Pci non è mai stato forza di governo (dal 1947), ma ha un immenso potere. Il potere è potere sugli altri, e, in questo senso, non ci interessa: il governo, la forza di governo, ha invece come suo riferimento le cose da amministrare, la “res publica”.

- Tu insisti a dire “noi”… Ma per la maggior parte della gente il Partito radicale sei tu. Perché non vuoi ammetterlo?

“Perché non è vero. Sai cosa m’ha detto Craxi, ultimamente? Che quello che non si può non riconoscere ai deputati radicali, nel Parlamento italiano e in quello europeo, è la loro alta professionalità. Ma nessuno lo sa, perché i Cicciomessere, le Bonino, i Giovanni Negri, perfino i Rutelli, cioè acqua, sapone e cocacola, tutti, tutti, hanno voglia a essere bravi… Li censurano!”.

- Ma il carisma…

“Il carisma è soltanto una lunga pazienza. E’ la costanza dell’attenzione, come Simone Weil definiva l’amicizia… Amore, amicizia per gli altri, attenzione, lunga pazienza, questo sono le componenti del carisma”.

- Marco, parliamo del tuo privato. Voi radicali che avete portato la politica nel privato (secondi, in questo, soltanto alle femministe… e non ti arrabbiare!) custodite gelosamente il vostro privato. O, perlomeno, gli altri, i tuoi devoti, custodiscono gelosamente la tua vita privata. Per anni, non si conosceva neppure il tuo indirizzo… Ore è uscito un libro che lo dà, abiti in un’autentica soffitta di via della Panetteria, ed è stato svelato anche il nome della tua giovane compagna, una donna medico, Mirella Parachini…

“Ma io non ho mai tenuto segreto nulla. Vivere alla luce del sole è il sistema migliore per non essere visto. Perché tutti guardano dal buco della serratura. Mirella e io viviamo insieme da tredici anni, e ogni giorno sappiamo, serenamente, teneramente, che può essere l’ultimo del nostro rapporto. Invece dura. Lei aveva sedici anni quando l’ho conosciuta, al Partito radicale, diciannove quando abbiamo cominciato a vivere insieme. Ora è un’ottima ginecologa, ma, poiché non abbiamo potere, come tu dici, giustamente, fa ancora la pendolare… Lavora all’ospedale di Fondi.

“E così come non ho mai tenuto nascosta Mirella (ci mancherebbe altro… è una persona, non un quadro d’autore!), non ho mai tenuto nascosti gli altri che ho amato, che amo… Anzi, ho ostentato le mie amicizie con i compagni. Il mio obiettivo, fin da ragazzo, è stato sempre quello di togliere il fascino della “normalità” all’esistenza, per darle quello della “singolarità”… La vita è amore, l’amore è dialogo, il dialogo include le carezze… e la non violenza delle carezze o è consapevole, o è mero consumo”.

- Avete mei pensato, tu e Mirella, ad avere un figlio?

“Non siamo interessati a perpetuare meramente la specie. Quindi, la scelta di un figlio - se la faremo - significherà per noi due cambiare vita, per dar spazio a una terza persona”.

- Hai detto che, se non riuscirete a raggiungere le quindicimila iscrizioni entro gennaio, dopo lo scioglimento del Partito radicale tu andrai via dall’Italia e ti dedicherai a scrivere… Che cos’è questa decisione? Un lusso, quella della letteratura, che ti ha sempre tentato, e che potresti finalmente permetterti?

“Intanto, non è detto che il partito si scioglierà. Le iscrizioni piovono a ritmo sostenuto, premi Nobel come George Wald e Leontiev, molti ebrei e israeliani (questo mi ha fatto iniziare una riflessione approfondita sulle “colpe” d’Israele), si sono iscritti anche Sharanski e la moglie, e un altro esule dall’Unione Sovietica, il matematico Pliusc… e poi Marek Halter, il creatore del movimento francese “Sos-Racisme”, un leader emergente del nuovo movimento studentesco francese… E Ionesco, e tantissimo altri…”.

- Insomma, come al solito, avete gridato al lupo al lupo…

“Ma non lo sai che se non si fa il dramma si provoca la tragedia?… In quanto alla mia supposta vocazione letteraria, alla scrittura come fine, che tu mi attribuisci ora, nell’età dei capelli

bianchi… Be’, credo di non averla mai avuta, questa velleità. La letteratura non è il mio campo, anche se, ovviamente, ho cercato di nutrirmene per tutta la vita. Quello che invece io intendevo è

la scrittura come Storia, storia di un movimento, quello non-violento, che in Italia si è costituito in partito (i radicali) prima che altrove in Europa… Voglio fare questa Storia, ma con piccoli

libri, cento, duecento pagine, anche pamphlets, nella tradizione illuministica, se vuoi… Perché altrimenti rischiamo di essere sepolti dalla catastrofe della disinformazione. Penso comunque a

libri di dimensione internazionale, perché, fuori del nostro Paese, le nostre idee circolano con molta maggiore intensità e autenticità che in Italia…”.

Cyrus
11-05-10, 11:38
Il 16 settembre 1946 nasce Alitalia, lo stesso giorno della nascita della LAI, e dallo stesso notaio, venne firmato l’atto costitutivo dell’altra compagnia a partecipazione statale, sorta con l’apporto degli inglesi come controaltare alla presenza degli americani in LAI. Il capitale della nuova compagnia denominata Linee Aeree Italiane Internazionali – Alitalia era sottoscritto per il 47,5% dall’IRI e per il 30% dalla compagnia aerea inglese BEA (British European Airways), che in seguito cederà il 10% alla BOAC (British Overseas Airways Corporation); al restante 27,5% contribuirono la società di assicurazioni Fiumeter, la casa di trasporti Gondrand, la SIAI e la Fiat. Primo presidente fu l’ambasciatore Giuseppe De Michelis, cui seguì dall’aprile 1948 il conte Nicolò Carandini, che resterà in carica per venti anni; direttore generale Luigi Acampora, che era stato il primo direttore di Aero Espresso, direttore tecnico Bruno Velani, che diverrà poi direttore generale, direttore operativo Virgilio Reinero, direttore della lineaMario Ceroni, direttore del materiale GiuseppeRimer, capi piloti Valentino Pivetti e Armando Ulivi.

Alla neonata compagnia vennero accordate le rotte da Roma a Torino, a Catania, a Milano e a Londra, a Parigi, a Nizza e a Ginevra, a Malta e a Tripoli, al Cairo-Asmara-Mogadiscio, a Lisbona-Natal-Rio de Janeiro-San Paolo-Buenos Aires, a Lisbona-Caracas. Il volo inaugurale della compagnia fu effettuato il 5 maggio 1947 con uno dei quattro trimotori Fiat G-12CA concessi dall’Aeronautica Militare, sulla linea Torino (aeroporto di Collegno) – Roma (aeroporto dell’Urbe) e Roma - Catania. Il velivolo marche I-DALH battezzato “Alcione” fu pilotato dallo stesso capopilota Col. Virginio Reinero. Gli altri tre G-12 erano l’I-DALF “Antares, I-DALG “Altair” e I-DALI “Aldebaran”.

Alla fine dell’anno queste erano le linee assegnate da Civilavia all’Alitalia: Roma-Milano-Vienna, Roma-Milano-Praga, Roma-Milano-Stoccarda-Amburgo-Copenaghen, Milano-Amsterdam, Roma-Londra, Roma-Tunisi-Tripoli, Roma-Catania-Malta-Tripoli, Roma-Cairo-Bassora-Karachi, Roma-Parigi, Roma-Ginevra, Roma-Milano-Manchester, Roma-Cairo-Karthoum-Asmara-Mogadiscio-Nay Salisbury-Johannesburg, Roma-Lisbona.

Dalla metà del 1947 accanto ai Fiat G-12 l’Alitalia mise in linea sei quadrimotori SIAI-S.M–95* (I-DALJ “Cristoforo Colombo”, I-DALK “Amerigo Vespucci”, I-DALL “Marco Polo”, I-DALM anche esso “Marco Polo” dopo che un incidente aveva provocato la perdita del primo, I-DALN “Sebastiano Caboto” e I-DALO “Ugolino Vivaldi”) e cinque Lancastrian* (I-AHBX “Maestrale”, I-AHBY “Libeccio”, I-AHCB “Grecale”, I-AHCD “Scirocco”, I-DARL “Borea”). Un Lancastrian pilotato dai comandanti Valentino Pivetti e Francesco Martinelli atterrò per la prima volta nel dopoguerra ad Asmara, dove fu accolto conentusiasmo dalla comunità dei nostri connazionali che accorse all’aeroporto per salutare il “ritorno”delle ali italiane in terra d’Africa.

Come si è visto anche all’Alitalia erano state assegnate rotte per l’America del Sud che erano state proprie della LATI, pur senza disporre della base dell’Isola del Sale, e così il 23 maggio 1948 il Lancastrian AZ 501 inaugurò la linea Milano-Roma-Dakar, nel Senegal dopo il sorvolo del deserto del Sahara e da qui il balzo atlantico Natal-Rio de Janeiro-Buenos Aires.

Alla fine del 1948 a questa flotta vennero affiancati quattro DC-412di terza mano, giacenti nell’aeroporto di Miami, che però, una volta immessi nella rotta del Sud America, si rivelarono più efficienti del previsto e sicuramente più confortevoli degli SM-95 e dei Lancastrian. Ecco le sigle: I-DALT “Città di Milano”, I-DALU “Città di Palermo”, I-DALY “Città di Napoli” e I-DALZ “Città di Roma”. Il 23 aprile 1950 il comandante Felice Fenili portò direttamente da Miami a Caracas l’I-DALZ, e daqui a Roma lungo la rotta Paramaribo – Isola del Sale. L’8 maggio l’I-DALT dette inizio alla linea da Buenos Aires a Roma.

Cyrus
11-05-10, 11:39
(2) STORIA DELLA "SINISTRA RADICALE" dal 1952 al 1962 - CAPITOLO II - DALL'UGI AL PARTITO RADICALE (1955-56)
Di Parachini Rolando - 1 gennaio 1979
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(2) STORIA DELLA “SINISTRA RADICALE” dal 1952 al 1962 - CAPITOLO II - DALL’UGI AL PARTITO RADICALE (1955-56)

di Rolando Parachini

SOMMARIO: Chi sono i “nuovi radicali”? Esistono legami tra l’odierno partito e quello degli anni ‘50? Possiamo trovare oggi linee politiche comuni o addirittura personaggi di allora? L’autore sostiene la tesi della continuità politica ripercorrendo la storia dei radicali dall’Ugi alla costituzione della “Sinistra radicale”.

(UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA - FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

TESI DI LAUREA: Relatore Prof. Renzo De Felice - ANNO ACCADEMICO 1978 - 1979)

CAPITOLO II - DALL’UGI AL PARTITO RADICALE (1955-56)

Nonostante non poche polemiche e discussioni sulle scelte politiche necessarie una volta usciti dalle università, gran parte dei quadri dirigenti dell’UGI decideva, sul finire del 1955, di aderire alla costituzione del nuovo partito radicale. Sono anzi in gran parte gli stessi universitari a favorire la nascita della nuova organizzazione politica, a fornirne il sostegno militante e ad ispirarne la linea politica.

Tenteremo allora di ricostruire brevemente le fasi di questa nascita e di analizzare i punti di contatto e di disaccordo tra il partito stesso e la sua componente giovanile.

Il processo di unificazione liberale tentato a partire dalla fine del 1951 (vedi Cap. I), entrava definitivamente in crisi con l’assunzione da parte di Malagodi della segreteria del PLI e con la progressiva presa di coscienza, da parte degli elementi liberali più illuminati, della sempre più marcata funzione immobilistica e conservatrice del partito.

Portavoce di questo “liberalismo più avanzato” era stato, fin dalla sua nascita, il settimanale “Il Mondo”, diretto da Mario Pannunzio. (1) Né l’autorevole settimanale, né la componente di “sinistra liberale” (della quale facevano parte alcuni tra i dirigenti dell’UGI) avrebbero più potuto condividere a lungo la politica di Malagodi. Il neo-segretario liberale faceva chiaramente appello “alle frange di destra dell’elettorato della DC” (2) e cominciava a porre sul tappeto la sua linea in politica economica, sulla quale sarebbe maturata poi la rottura. Infatti, nell’estate del 1954, alla conclusione del dibattito alla Camera sullo sganciamento dell’IRI dalla Confindustria, il gruppo liberale, in contrasto con il suo stesso Ministro Vrillabruna, votava insieme ai monarchici e ai neofascisti contrari al distacco. “L’on. Malagodi si sarà probabilmente conquistato, in tal modo, la riconoscenza della Confindustria”, commentava a chiare lettere “Il Mondo”. (3) Dopo la faccenda IRI, subentrò quella dei Patti Agrari,

(4) con cui Malagodi dimostrò, sempre secondo “Il Mondo”, (5) di essere anche passato al servizio della Confagricoltura. Notava con amarezza Mario Paggi (6) che si tentava di trasformare il PLI “in strumento dei grossi interessi monopolistici e terrieri, rifugio di sciovinisti e di nostalgici, campo di manovra degli ultimi intralazzatori clientelistici”. In altre parole il PLI si stava trasformando in un semplice partito di destra economica, “con sempre più scarsi contatti con i generali problemi dello stato e della società italiana, e con le poche o nessuna possibilità di dialogo governativo con gli altri partiti”. (7)

Fra sinistra liberale e Malagodi si arrivava rapidamente alla resa dei conti. Da una parte “Il Mondo” reagiva a questo spostamento a destra del partito accentuando la sua tradizionale battaglia antimonopolistica (8) e trovando alleati in settori politici, come il PSI, fino a quel momento tenuti a debita distanza. Dal canto suo il Comitato esecutivo della Sinistra Liberale (9) inviava ai suoi aderenti una circolare datata 5 ottobre 1955 (10) in cui era riportato il comunicato diramato alla stampa la sera del giorno precedente. In esso si leggeva quanto segue sul congresso nazionale del PLI che si sarebbe tenuto a Roma nel mese di dicembre: “… considerati i metodi inqualificabili adottati dalla segreteria Generale per travisare la originaria fisionomia del Partito o per alterarne preordinatamente la composizione e la rappresentanza numerica, fa pubblica denuncia fin d’ora dell’invalidità del congresso e invita gli aderenti alla corrente a non presentare propri candidati per l’elezione dei delegati”. (11) La

sinistra del PLI aveva d’altronde già tenuto una riunione a Milano nel luglio dello stesso anno, alla quale avevano partecipato quattro membri della direzione del PLI: Carandini, Pannunzio, Libonati e Paggi. (12) “Un nuovo partito nascerà a gennaio”, scriveva Nicola Adelfi su “L’Espresso”, chiedendosi a chi si sarebbe rivolto questo partito: “Il nuovo partito che tutti definiscono radicale (…) intende dunque radunare sulla sua piattaforma di centro-sinistra gli italiani che se paventano l’avvento di una dittatura comunista, hanno in uggia il governo democristiano e la Confindustria”. (13)

Il 9 dicembre 1955, il “Corriere della Sera” appare con il seguente titolo in prima pagina: “Il Congresso Liberale si inaugura oggi a Roma. (…) Dimissionari 35 consiglieri dissidenti”. L’articolo è quasi interamente dedicato alle tesi, le relazioni ed i dibattiti emersi al congresso liberale, ma nel finale si rilevano le critiche che i dissidenti insistono nel rivolgere al segretario Malagodi. Si registra infatti che nel pomeriggio di questo primo giorno di congresso, circa 35 consiglieri della sinistra e del centro si sono riuniti per annunciare ufficialmente le loro dimissioni dal PLI. Viene così approvato un ordine del giorno in cui si afferma tra l’altro che: “dall’abbandono incondizionato del Ministero della Pubblica Istruzione all’approvazione delle norme illiberali e anticostituzionali sui Tribunali Militari, il PLI ha rinnegato a pieno la sua fondamentale vocazione di custode delle istituzioni dello Stato liberale moderno. (…) Il partito stesso è stato definitivamente assoggettato alla volontà di

potenti gruppi monopolistici, e la sua politica si è avvilita alla consapevole ed aperta difesa di interessi particolari e di ristrette categorie. (…) Si è spezzata, sostanzialmente la solidarietà dei partiti laici e sabotata dall’interno la politica del centro-sinistra. (…) L’anima del liberalismo, il suo spirito aperto e rifomatore, si troverà d’ora innanzi fuori di un partito che di liberale conserva solo l’etichetta”. (14)

Conseguentemente si teneva un affollatissimo convegno il 9 dicembre stesso al teatro Brancani di Roma, presieduto tra gli altri da Niccolò Carandini, Mario Paggi, il direttore de “Il Mondo” Mario Pannunzio e l’on. Villabruna, ex ministro della Pubblica Istruzione. Così il Corriere della Sera del giorno seguente annunciava l’avvenimento: “E’ sorto ieri a Roma il nuovo Partito Radicale. (…) Si chiama precisamente Partito Radicale dei Liberali e dei Democratici Italiani (P.R.D.L.I.).

Oltre agli scissionisti liberali, confluiscono nel nuovo partito componenti dell’area democratica che fino a quel momento non sono riusciti a trovare la propria identificazione in una organizzazione politica. Vi sono ad esempio ex-azionisti, come Leo Valiani e Guido Calogero (15). Il Partito d’Azione si era sciolto nel 1947, avendo espresso, fin dalla Resistenza, l’idea salveminiana della necessità di ricostruire l’Italia secondo le regole del gioco democratico-occidentale. Si trattava di restituire al paese una politica libera da interferenze clericali e straniere. In una situazione del genere non avrebbe più avuto ragione d’esistere lo stesso Partito d’Azione, sostituendovisi un unico schieramento laico in grado di contrapporsi sia al potere democristiano che ad una eventuale presa di potere comunista. Discorso rivolto ai partiti socialista, repubblicano e, soprattutto, liberale, nei quali infatti confluirono la maggior parte degli azionisti al momento dello scioglimento. Altri, come appunto Valiani e Calo

gero, persistettero nell’idea che i socialisti fossero troppo ambigui nelle loro aperture e chiusure ai comunisti e che i repubblicani mostrassero troppa disponibilità di dialogo anche con la componente più smaccatamente clericale della DC. Quanto ai liberali, il partito che diceva di rappresentarli appariva chiaramente molto più occupato a proteggere diritti e prerogative di privati che a percepire le istanze più urgenti della società italiana. Per questo tipo di azionisti nessun partito di allora sembrò poter incarnare questa proposta “terzaforzista”, mentre il P.R. sorto nel 1955 fece proprie le idee e le istanze fondamentali del Partito d’Azione. (16)

Un’altra componente del Partito Radicale fu quella degli ex aderenti al movimento”Giustizia e Libertà”. Tra questi, Ernesto Rossi, il più aggressivo dei giornalisti de “Il Mondo”, sempre in prima fila dalle colonne del settimanale, nella lotta contro il clericalismo e la “pirateria privata”.(17)

Leopoldo Piccardi in un articolo apparso sul “Mondo” nel gennaio del 1956, invitava gli aderenti a “Unità Popolare”, l’organismo laico sorto nel 1953 per combattere la cosiddetta “Legge Truffa”, a confluire nel partito radicale. (18)

Chi ci interessa maggiormenre in questa sede è la componente UGI che, come abbiamo detto, si fa promotrice anch’essa del nuovo partito. In essa non ritroviamo soltanto i nomi incontrati nell’analisi dei due congressi dell’UGI, ma anche gran parte del nucleo di militanti che al momento dello scioglimento del P.R., nel 1961, rifiuterà la scomparsa del radicalismo dalla scena politica e, rifondandone il partito, lo condurrà fino ai nostri giorni. (19)

Non senza polemiche all’interno della stessa UGI, causate dalle esigenze di apartiticità e di autonomia dell’organismo universitario, gran parte dei dirigenti “goliardi” decideva comunque alla fine di apporre la propria firma all’appello che sanciva la nascita del P.R. (20)

La nuova sigla vuole in effetti essere un punto di incontro per tutte le voci laiche, indipendentemente dalla appartenenza a determinati partiti o “credo” ideologici. Difficilmente troveremo, nelle pagine de “Il Mondo” articoli di esponenti comunisti, è vero. Non dimentichiamo però che alla metà degli anni ‘50 pesava sul PCI l’ombra dello stalinismo e della guerra fredda, né mancavano i dubbi sulla volontà, da parte comunista, di accettare le citate “regole del gioco democratico”. Con i radicali possiamo nuovamente parlare di “terzaforzismo”, ispirato in gran parte dalle idee di Gaetano Salvemini. Esso è caratterizzato da una dura lotta contro il clericalismo e dalla speranza che il Partito Socialista metta da parte le aperture al massimalismo, ai frontismi, al Partito Comunista, per riscoprire il proprio carattere laico, antiautoritario, volto alla difesa dei diritti e delle libertà sociali, oltre che economiche.

Leopoldo Piccardi precisava la posizione del P.R. nel quadro politico italiano, in un articolo apparso su “Il Mondo” nel gennaio 1956. (21) Esiste una “sedia vuota” nell’area democratica, afferma Piccardi, da offrire a tutti coloro che non si riconoscono nelle grandi e disciplinate organizzazioni di classe e tanto meno in un partito di carattere fideistico come la DC. Lo spazio per il P.R. esiste nel paese, specie nel momento in cui stanno “scricchiolando gli schemi tradizionali del classismo”. (22) Non si tratta solo di rivolgersi ad una vaga “classe media”, ma di allargarsi ai settori del proletariato che vanno migliorando le proprie condizioni economiche. Altro destinatario del messaggio radicale è quella parte della borghesia che, pur “proletarizzandosi” con il lavoro specializzato, in realtà aumenta il proprio reddito. Il Partito Radicale tende dunque ad occupare tutto lo spazio esistente tra il PSI e la DC. Quali saranno allora i rapporti da instaurare con le altre forze politiche del momento? E’ quant

o tenta di esporre, ancora dalle pagine de “Il Mondo”, Mario Paggi. (23) Premessa l’impossibilità di un colloquio “con i partiti della destra sovversiva”, vengono ribadite le critiche da sinistra al PLI, origine della scissione. Nei confronti del PRI e del PSDI, ferme restando le accuse di eccessivo tradizionalismo del primo e di ambiguità ideologica del secondo, i radicali si pongono come necessari interlocutori in vista di maggiori convergenze: “le realtà sociali su cui si fondano (i tre partiti) sono talmente omogenee che nessuna loro assurda e particolaristica divisione può dividerle; e le opportunità politiche che loro ancora si offrono sono legate alla loro capacità di non scoraggiare ulteriormente un corpo elettorale avvilito e depresso. Questo dica in maniera nettissima che lo spirito che muove i radicali non si arresta alle soglie di una scissione, ma intende porsi al servizio di nuove, vaste, necessarie e fatali confluenze”. Più complessa si presenta la questione dei rapporti con il PSI. Se esso in

fatti rappresenta “gran parte delle forze migliori della nostra società”, gli va “tuttavia rimproverata l‘“indifferenza ai problemi strutturali della laicità” e l‘“immobilismo nei suoi rapporti con il partito comunista”. (24) Analoga posizione viene presa nei confronti del PCI, nonostante la sua più marcata volontà illiberale. “Poiché anche ai comunisti - conclude Paggi - capita talvolta, e sia pure non volendo, di compiere una funzione liberale, ogni volta che essi in tale funzione agiranno, il partito radicale non ha veti teologici da opporre”. (25)

Il richiamo all’atteggiamento assunto dall’UGI nei confronti delle organizzazioni democratiche e di sinistra si fa immediato. E’ in luce il concetto di partito come “servizio” per le forze laiche, aperto alle più ampie convergenze per le singole battaglie, nel rigoroso rispetto dell’autonomia di ciascuno. Lo spirito informatore di questa politica era nella tradizione più autenticamente liberale. Al momento della scissione dal PLI, A.C. Jemolo sottolineava l’esistenza di una costante duplice anima del liberalismo italiano. (26) Una parte rivolta alla conservazione di notevoli prerogative acquisite in decenni di vita politica e poco propensa ad attuare seri programmi riformistici. Si ha poi l’altra anima, progressista e radicale. Solo quest’ultima aveva reso possibile la politica liberale e sociale di Giolitti agli inizi del secolo ed aveva poi rifiutato di lasciarsi integrare dal fascismo. Appariva quindi logico (e giusto) che i liberal-democratici lasciassero a Malagodi la gestione di un partito sempre più r

eazionario. Necessità di chiarezza delle rispettive posizioni veniva avvertita dallo stesso Ugo La Malfa alla fine del 1955. Il leader repubblicano (27), nel dare il suo “benvenuto” alla nuova formazione radicale tra le fila laiche, dove già egli situa il PRI, si esprime in senso palesemente “terzaforzista”, seppure con apertura dialogica nei confronti della DC. E’ quest’ultimo atteggiamento che non avrebbe mai potuto trovare l’approvazione di un Ernesto Rossi, di uno Scalfari, né, tanto meno, di quella che di lì a poco si sarebbe costituita in “sinistra radicale”. Infatti la componente più giovane del nuovo partito, quella stessa classe studentesca che abbiamo seguito attraverso i due congressi dell’UGI del 1952 e 1953, aveva già sulle spalle l’esperienza di anni di rapporti polemici ma chiari con i cattolici. La collaborazione politica con organizzazioni democristiane o vicine al partito di governo si era dimostrata impossibile. Non solo, ma all’interno della università si era anche messa in evidenza la po

ssibilità di alternativa di potere tramite la citata formula della “unione laica delle forze democratiche”. Il governo dell’UNURI e le numerose presidenze laiche in essa erano lì a dimostrare la volontà e la possibilità di cambiare. (28) Tuttavia, passando alla organizzazione di un vero e proprio partito politico, le proposte di alternativa si rivelavano ancora premature. I giovani radicali trovavano alla propria sinistra un partito comunista il cui peso politico non era certo paragonabile a quello del CUDI nelle università. Il dialogo appariva ancor più improponibile a causa delle ormai famose pregiudiziali laiche anticomuniste. Tali pregiudizi non erano fin da allora condivisi da chi aveva visto confluire nella propria organizzazione universitaria gli studenti del disciolto CUDI. Una divergenza di vedute che sarebbe esplosa di lì a qualche anno ed avrebbe creato una vera spaccatura “generazionale” all’interno del P.R.

All’inizio prevalsero i motivi di unione nel nuovo partito, espressi lucidamente da Guido Calogero, in una sua lettera pubblicata su “Il Mondo”. (29) In essa vengono tracciate “le linee d’azione di un partito che voglia affrontare modernamente i problemi del nostro paese”. Calogero esordisce affermando che sebbene il bipartitismo di tipo anglosassone sia la forma più evoluta di democrazia parlamentare che conosciamo, esso è ben lontano dal potersi realizzare in Italia. Nella nostra situazione di pluripartitismo non ha molto senso creare un nuovo partito in base al prestigio personale di alcuni suoi esponenti o solo perché esistono “spazi elettorali” da occupare. Affinché una nuova formazione politica sia giustificata, bisogna che coloro che se la propongono vedano con chiarezza tre cose: “Primo, che certi provvedimenti legislativi e governativi possono e devono essere presi. Secondo, che la loro adozione ha per effetti determinati vantaggi per determinate sezioni della popolazione a cui è quindi legittimo ch

iedere l’appoggio. Terzo, che da nessun altro partito ci si può attendere che veda e voglia quelle cose con altrettanta chiarezza”. (30) E’ il partito radicale in queste condizioni? Secondo Calogero bisognerà intanto ammettere che questo genere di chiarezza non è proprio né delle destre, né dei comunisti, né della DC. Queste forze hanno infatti un elettorato garantito da chi vuole cambiamenti a tutti i costi e da chi desidera invece la conservazione dello statu quo. Grave diventa invece la non chiarezza di partiti come il PRI e il PSDI, dai quali si ha spesso un’utile diagnosi dei mali della società italiana, ma quasi mai una chiara indicazione di terapia. Il termine “terapia”, utilizzato da Calogero nella sua lettera, significa riforme concrete da attuare con massima urgenza. Questa sarà una costante della politica radicale per più di vent’anni. Ed in questo stesso articolo vediamo di seguito elencati tutti quei provvedimenti indicati costantemente dalle pagine de “Il Mondo” dei mesi precedenti. Si pensi ad

Ernesto Rossi e, più indietro ancora, alle idee di Gaetano Salvemini, del Partito d’Azione, di tutta la “cultura” radicale prima e dopo il fascismo: riforma tributaria, mutamento del regime delle società anonime e dei monopoli privati, riforma dell’assistenza, nazionalizzazione dell’energia elettrica, riforma e “declericalizzazione” della scuola, abolizione del regime concordatario, riforma della burocrazia, e così via. Sono tutte indicazioni precise e Calogero, tornando alla fondazione del P.R., aggiunge (31): “O infatti un partito moderno sa e dice quel lo che vuole in modo preciso, o non è un partito moderno.

In questo senso nessun partito italiano è ancora veramente un partito moderno. E quindi può esserci la giustificazione per un partito nuovo, che moderno voglia essere”. Le belle ma generiche piattaforme politiche e le corse al potere non possono contribuire, nell’ottica dei radicali, alla realizzazione di un partito moderno. Con molta concretezza Calogero indica allora la prassi ed i contenuti riformatori con cui presentarsi all’elettorato: il P.R.I. “deve studiare situazioni a fondo, deve formulare precisi piani di riforme legislative: e lasciamo in seconda linea, per ora almeno, ogni altra forza di attività. (…) dedicare quasi tutti i fondi di cui può inizialmente disporre a mettere in piedi un solido Ufficio Studi, che, lavorando intensamente, gli permetta, a capo di un anno, di sapere esattamente cosa vuole, e di poterlo dire alla Nazione”. (32) E’ quindi chiaro che per essere un partito moderno si deve attraversare un periodo di preparazione e di studio, forse meno gratificante per quel che concerne r

isultati e soddisfazioni immediate, ma certo più utile al paese. Parallelamente a questa fase, Calogero indica la necessità di lavorare perifericamente per la costituzione del partito stesso. L’esponente radicale si spinge ancora più avanti nelle sue indicazioni e nella sua analisi. Da quanto afferma in seguito si comprendono fin d’ora le ragioni della spaccatura del P.R. nel 1961 e della adesione ad esso nel 1955 da parte della componente giovanile o “universitaria”. Solo dopo la lunga fase ora indicata, conclude Calogero, in cui “le intenzioni riformatrici del Partito si verranno, in ogni campo, esattamente precisando (…), si saprà esattamente anche da chi potrà essere costituito il Partito, perché potrà ben darsi il caso di persone che abbiano sinceramente inteso di partecipare a questo processo di formazione di un nuovo partito capace di studiare una buona volta a fondo il problema della società italiana e di proporre soluzioni concretamente civilizzatrici, e che poi, non trovandosi d’accordo con le so

luzioni prescelte, ritengano di dovere in coscienza abbandonarlo. Né alcuno potrebbe in tali casi, accusarle di volubilità e di incoerenza, perché non si può essere coerenti o incoerenti rispetto a qualcosa che ancora non c’è”. (33)

La chiarezza di queste idee mi ha spinto ad esporre dettagliatamente la lettera di Guido Calogero a “Il Mondo”. Non so se egli, nel dare al partito radicale queste indicazioni, alludesse anche alla necessità di un attento dibattito interno sul “metodo” da seguire. E’ comunque innegabile che un partito con il programma che tra poco illustreremo, e che dichiara di voler creare una alternativa laica e democratica al potere democristiano, debba fare i conti con un preciso “discorso sul metodo”. Tanto più quando non si vuole e non si può avere nulla a che fare con la destra reazionaria. Qualsiasi altro schieramento escludente la DC dovrà porsi il problema della presenza egemone, a sinistra, del Partito Comunista Italiano. Abbiamo già detto che negli anni ‘50 i radicali, liberali democratici, come essi stessi scelgono di definirsi, considerano il comunismo come una forma pericolosa di autoritarismo, tendente alla eliminazione del “parlamentarismo borghese”, da sostituire con la “dittatura del proletariato”. D’altr

a parte il P.R. tende a non considerarsi espressione di una determinata ideologia. (34) Marxismo, liberalismo, cattolicesimo, potranno essere oggetto di seri dibattiti e studi filosofici o storici; quel che fanno marxisti, liberali e cattolici va invece osservato nel presente, né può essere accettato o rifiutato a priori solo perché espressione di una ideologia. Restava, negli anni ‘50, la difficoltà ad aprirsi ai comunisti, se non addirittura ai socialisti: si era in atmosfera di guerra fredda, di stalinismo, di rivolta e repressione in Ungheria. D’altra parte l’ala sinistra del P.R., ma non solo questa, realizzava di non poter attendere altri vent’anni di malgoverno per comprendere che ogni collaborazione con le forze clericali era quanto mai dannosa per la costruzione di un paese moderno e democratico. Il “discorso sul metodo” appariva come il problema più spinoso per la nuova formazione politica. Esso era risolvibile non tanto attraverso la costituzione di fronti o alleanze, ma con l’indicazione precisa

delle riforme che spettavano al paese nella sua richiesta di modernizzazione e di maggiori libertà democratiche. La costruzione di una componente terzaforzista in grado di non lasciarsi egemonizzare dal PCI e capace nel tempo stesso di opporsi alla DC passava allora attraverso un confronto diretto ed una verifica con il Partito Socialista. Leone Cattani parlò infatti sin dall’inizio della necessità di rapporti “da potenza a potenza” per poter stabilire un reale colloquio con il PSI. (35) Le reazioni da parte socialista non si facevano attendere. L’11 dicembre 1955 l’organo ufficiale del partito pubblicava un fondo di Pietro Nenni, dal titolo “La sinistra liberale”. (36) Il leader socialista considera la scissione liberale “tra le conseguenze della politica quadripartitica che ha già valso ai minori alleati della DC molti guai e altri gliene prepara”. Nenni prevede dunque che la crisi si allargherà ai partiti laici minori, che non sono riusciti a condizionare la preponderanza democristiana e non hanno “l’elem

ento di coesione che i democristiani trovano nella religione e nell’interesse elettorale insito nella commistione di religione e politica”. Nell’attesa che queste crisi emergano, viene da chiedersi cosa la sinistra liberale possa apportare alla lotta democratica. Sempre secondo Nenni, quest’ultima ha nel nostro tempo due direttrici fondamentali: 1) la trasformazione dei rapporti di proprietà e di classe; 2) l’irrobustimento della coscienza democratica e laica (nel senso della separazione dello Stato dalla Chiesa, della funzione educatrice dello Stato stesso, della sua responsabilità sociale). Analizzando queste due direttrici, Nenni prosegue: “Dal contributo che la sinistra liberale (…) darà alla soluzione di questi problemi, dipende la valutazione che potrà farsi della validità delle istanze di cui è erede e che la fanno depositaria più di un metodo che di una dottrina, in una civiltà che non è più quella delle élites ma delle masse”. (37)

Ricordando che nelle università le organizzazioni studentesche socialiste si erano disciolte per consentire ai propri militanti di confluire nell’UGI, notiamo subito la differenza di atteggiamento assunta dal PSI, trovandosi in posizione di forza. Non manca, nel finale di questo fondo di Nenni, una punta di settarismo: i problemi economici e l’inserimento delle masse nella vita democratica sono nettamente separati da questioni come diritti dell’uomo e libertà civili: “Proprio nella sua concretezza il socialismo è la filosofia ed è la pratica moderna della liberazione. Non nuoce alle lotte odierne un poco della tolleranza propria al liberalismo, purché la tolleranza non si corrompa in agnosticismo. Non nuoce richiamare il fine ultimo di ogni lotta progressiva, che non è soltanto quello di liberare l’uomo dallo sfruttamento economico e sociale, ma di ridargli la piena libertà del proprio destino e della propria vocazione. Epperò si è nel nostro tempo SOLTANTO (il maiuscolo è mio) se si sta al discorso sui gran

i, vale a dire al discorso sulle conquiste del lavoro, al discorso sulle garanzie costituzionali”. (38)

Disponibilità da una parte, e distanze di tipo ideologico dall’altra, dunque. Tutto questo verrà messo da parte dai radicali nel momento in cui anch’essi accetteranno la formula del centro-sinistra, ma non poteva invece passare sotto silenzio nella mente di chi pochi anni prima aveva dichiarato: “Goliardia è per noi un modo particolare di intendere la vita alla luce di un’assoluta libertà di critica, senza pregiudizio alcuno di fronte ad uomini ed istituti. E oggi noi aspiriamo (…) non all’unità delle forze laiche (…) ma all’unità laica delle forze come fondamento della democrazia”. (39) queste discrepanze nel modo di impostare i propri rapporti con le formazioni della sinistra italiana, sarebbero presto venute a galla. Per il momento, esisteva una piattaforma, un programma, che riusciva a raccogliere il consenso di tutti i radicali. Vediamone i singoli punti: 1·) il rinnovamento della società italiana doveva attuarsi secondo lo spirito innovatore della società moderna e i progressi della scienza; 2·) si

richiedeva l’attuazione integrale della Costituzione e la effettiva instaurazione “di quello stato di diritto che fa tutti i cittadini uguali innanzi alla legge, senza discriminazioni politiche e religiose e che ne garantisce la libera attiviti dall’arbitrio governativo e poliziesco”; (40) 3·) si insisteva per un’azione contro i monopoli, indicando l’urgenza di sottoporre a controllo pubblico quelle imprese e quelle concentrazioni di ricchezza che del monopolio abbiano le caratteristiche, in campo industriale, commerciale o terriero, per spezzare il prepotere che ne deriva; 4·) una riforma radicale dell’ordinamento tributario “rendendo le imposte chiare e certe, accentuando il loro carattere progressivo, alleviando gli oneri dei ceti medi agiati, ed ampliando il settore delle imposte dirette”; (41) 5·) superando un’antiquata concezione del liberismo economico, ci si appellava al “diritto e dovere” dello Stato di intervenire nella vita economica e sociale in difesa dei ceti disagiati e per lo sviluppo econom

ico e politico delle zone depresse; 6·) infine una riforma scolastica “che rinnovi profondamente la scuola italiana (…), che metta fine alla invadenza del confessionalismo e restituisca dignità e primato alla scuola dello Stato”. (42) Il programma è, come si vede, un programma liberale moderno, con istanze laiche e socialiste: esattamente il rovescio del programma del PLI malagodiano. Sui punti ora elencati i radicali trovavano la massima intesa, dai giovani dell’UGI agli aderenti di fede più marcatamente liberale e moderata. Ancora un anno più tardi, nel dicembre del 1956, il Comitato Centrale del Partito vi si riconosceva in modo unitario ed approvava infatti un o.d.g. che così si concludeva: “Il Comitato Centrale ritiene che attraverso l’intesa di tutte le forze della sinistra democratica, ed in particolar modo dei partiti Radicale, Repubblicano, Socialdemocratico e Socialista Italiano, si possa pervenire ad una concreta azione politica capace di rispondere alle aspettative che l’opinione pubblica sempr

e più chiaramente manifesta”. (43)

Se da una parte si ribadiva con questa delibera la posizione anticlericale del P.R., dall’altra riemergeva la solita pregiudiziale anticomunista e la opposizione a quella che i radicali stessi definivano “politica di classe”. Per il piccolo partito laico la stabilità ed il vigore della democrazia italiana passano attraverso una collaborazione tra il ceto medio, svincolato dalla subordinazione ai gruppo monopolistici, e le forze operaie. Quel che di lì a poco avrebbero sostenuto i corponenti dell’ala sinistra del P.R. era la velleità di ogni discorso mirante anche alla classe operaia senza tener presente il ruolo egemone e determinante che in essa gioca il Partito Comunista. Ma i tempi non erano maturi per esprimere simili posizioni e si preferì per il momento seguire le indicazioni di Guido Calogero: dedicarsi con attenzione all’evolversi delle idee e delle azioni e prepararsi a poter intervenire con incisività nella vita politica del paese.

NOTE AL CAPITOLO II

1) Il settimanale “Il Mondo”, diretto da Mario Pannunzio, visse dal 1949 al 1966. In merito si vedano:

- Pier Franco Quaglieni (a cura di): “Pannunzio e il Mondo”, Torino 1971

- “Diciotto anni de Il Mondo”, Roma 1966

- Paolo Bonetti: “Il Mondo 1949-1966 - Ragione e illusione borghese”, Bari, Laterza, 1975

2) Bonetti: “Il Mondo 1949/66”, cit., pag. 83

3) “Taccuino: dovere di scegliere”, in “Il Mondo”, 10 agosto 1954

4) Per la polemica sui patti agrari, vedi Nicolò Carandini: “Liberali alla ventura”, in “Il Mondo”, 1 febbraio 1955

5) Taccuini in “Il Mondo”: “Padroni e servitori”, 22 febbraio 1955 e “La posta in gioco”, 1 marzo 1955

6) Mario Paggi: “La frana liberale”, in “Il Mondo”, 8 marzo 1955

7) Ibid.

8) Per la lotta contro i monopoli, si vedano gli “Atti del convegno “la lotta contro i monopoli”“, Bari, Laterza, 1955

9) Il Comitato Esecutivo della Sinistra Liberale era composto da: Nicolò Carandini, Leone Cattani, Vittorio De Caprariis, Giovanni Ferrara, Franco Libonati, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Nina Ruffini, Eugenio Scalfari.

10) Vedi allegato n. 1

11) Ibid.

12) Nicola Adelfi: “Scissione liberale battesimo radicale: catenaccio a destra”, in “L’Espresso”, 4 dicembre 1955

13) Ibid.

14) L’o.d.g. della sinistra liberale è riportato in “Il Corriere della Sera” del 9 dicembre 1955: “Il congresso liberale si inaugura oggi a Roma”, firmato A.A.

15) Sulla politica del Partito d’Azione, si veda Leo Valiani: “Dall’antifascismo alla Resistenza”, Milano 1959

16) Leo Valiani: “Il Partito Radicale e la situazione politica”, a cura del P.R., Roma 1956, pag. 30-32

17) Per la lotta contro i monopoli, vedi gli “Atti di Convegno”, Bari, Laterza 1955, cit.

18) “Una lettera di Piccardi”, in “Il Mondo” 24 gennaio 1956

19) Per la storia del Partito Radicale fino agli anni ‘70, si veda Massimo Teodori: “I Nuovi Radicali”, Milano Mondadori 1977 e Fabio Morabito: “La sfida radicale”, Sugar Co. Milano 1977

20) “Per un partito moderno” in “Il Mondo”, 10 gennaio 1956, pag. 1 (Su questo appello torniamo in seguito)

21) Piccardi: “La sedia vuota”, in “Il Mondo” 10 gennaio 1956

22) Ibid.

23) Mario Paggi: “Protagonisti radicali” in “Il Mondo” 17 gennaio 1956

24) Ibid.

25) Ibid.

26) A.C. Jemolo: “Io difendo Malagodi” in “Il Mondo” 1 novembre 1955

27) Ugo La Malfa: “Un passo avanti” in “Il Mondo” 27 dicembre 1955

28) Tra gli altri ebbero l’incarico della Presidenza UNURI, tra il 1953 e il 1956, i seguenti rappresentanti dell’UGI: G. Faustini, S. Stanzani, A. Kenzer, V. Boni, P. Cabras, M. Pannella, P. Ungari

29) Guido Calogero in “Il Mondo” 24 gennaio 1956

30) Ibid.

31) Ibid.

32) Ibid.

33) Ibid.

34) Vedi Massimo Teodori: “I nuovi radicali”, Mondadori, cit.

35) L. Cattani, dal suo intervento alla costituzione del P.R., Roma, Palazzo Brancani. In “Avanti”, 10 dicembre 1955

36) Fondo di Pietro Nenni in “Avanti”, 11 dicembre 1955, pag. 1. Segue il fondo un articolo anonimo: “I radicali annunciano il loro programma politico”

37) Nenni, ibid.

38) Nenni, ibid.

39) Franco Roccella: relazione al congresso UGI di Firenze, 1952

in “Il Veltro” n. 1/2, 1964, cit., pag. 228

40) Tutti i punti di questo programma e la citazione sono ne “Il Corriere della Sera” dell’11 dicembre 1955 e nell‘“Avanti!” dello stesso giorno

41) Ibid.

42) Ibid.

43) Circolare a tutte le sezioni del P.R. e ai Consiglieri Nazionali, datata 11 dicembre 1956. Vedi allegato n. 2

Cyrus
02-08-10, 13:39
indice
pag 1 Mario Pannunzio
pag 2 Ernesto Rossi
pag 3 Adelaide Aglietta
pag 4 Leo Valiani
pag 5 Felice Cavallotti
pag 6 Ernesto Nathan
pag 8 Ernesto Rossi (2ap)
pag 9 Luigi Del Gatto
pag 9 Adele Faccio
pag 12 Antonio Russo
pag 14 Guido Calogero
pag 15 Leonardo Sciascia
pag 17 Guido Calogero (2ap)
pag 18 Franco Roccella
pag 19 Leopoldo Piccardi
pag 21 Nicolò Carandini

Cyrus
02-08-10, 13:39
LiveSicilia >> Cronaca > Pietro Milio, una morte "annunciata"
Pietro Milio, una morte “annunciata”
Pietro Milio, una morte “annunciata”
di Andrea Cottone

sabato 19 giugno 2010
18:27

Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale, storico difensore di Bruno Contrada e che assisteva anche il generale Mario Mori, è morto. Forse era una profezia oltre che una maniera per vivere con maggiore leggerezza il male da cui era affetto, ma Pietro Milio questa morte l’aveva annunciata a chi scrive. In uno dei tanti giorni passati al palazzo di giustizia di Palermo, dopo il caffè preso al bar, aveva cominciato a parlare del caso di Liliana Ferraro, l’ex direttrice degli Affari penale al ministero della Giustizia nel 1992, che non aveva potuto testimoniare al processo contro il suo assistito Mario Mori per problemi di salute. “Io pure ho il suo stesso problema” aveva detto accennando quel mezzo sorriso che spesso accompagnava i suoi discorsi. “Guarda – diceva estraendo dal taschino interno della giacca una piccola scatola circolare di metallo – cammino con le pillole appresso: se arrivo in tempo a prenderle bene, altrimenti pazienza”. E così è successo. Durante un incontro al Castello Utveggio – che aveva annunciato al termine dell’ultima udienza del processo Mori, scherzando con i giornalisti a proposito delle teorie investigative che attribuiscono a quel posto un ruolo centrale nella strage di via D’Amelio – Milio ha fatto il suo intervento e subito dopo ha avuto un malore, forse un infarto. La pillola è riuscita a prenderla ma, forse, era già troppo tardi per il suo cuore e dopo pochi minuti è morto.

Pietro Milio era cardiopatico ma non aveva rinunciato a svolgere il suo lavoro con passione e trasporto. Memorabili i suoi scontri con la pubblica accusa per difendere i propri assistiti. Astio che rimaneva sempre nelle aule al di fuori delle quali era gentile e garbato. Coinvolto nelle indagini sulla strage di via D’Amelio – furono acquisiti i suoi tabulati telefonici – è sempre stato convinto che molte verità stavano da un’altra parte, nei corridoi della procura di Palermo. Nel processo Mori aveva svelato come il rapporto Mafia-appalti redatto dal Ros aveva ricevuto la richiesta di archiviazione mentre era ancora aperta la camera ardente per Paolo Borsellino, mentre la definitiva archiviazione è avvenuta il 14 agosto 1992. Puntava a dimostrare come Borsellino fosse stato ucciso proprio per quel rapporto del Ros, non per la “trattativa” a cui avrebbe partecipato il suo assistito. Voleva dimostrare come a Vito Ciancimino fosse stata formalizzata un’offerta per collaborare con la giustizia. Ma non ne ha avuto il tempo.

Cyrus
02-08-10, 13:40
Morto a Palermo avvocato Pietro Milio
Era stato senatore radicale e difensore di Bruno Contrada
19 giugno, 19:46


Morto a Palermo avvocato Pietro Milio (ANSA) - PALERMO, 19 GIU - L'avvocato Pietro Milio, ex senatore radicale, storico difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori, e' morto questo pomeriggio.

Il legale, 66 anni, stava partecipando a un convegno a Castello Utveggio, sul monte Pellegrino. Milio, che era cardiopatico, ha accusato un malore, probabilmente un infarto, dopo il suo intervento. Ha preso una pillola e pochi minuti dopo e' morto.

L'ex senatore era originario di Capo d'Orlando (Messina) ma viveva da anni a Palermo.

Cyrus
02-08-10, 13:41
Addio a Piero Milio avvocato penalista e ex senatore radicale
domenica 20 giugno 2010

pietro milio.jpgL'avvocato penalista ed ex senatore radicale Pietro Milio, 66 anni, è morto sabato 19 giugno improvvisamente a Palermo, nel corso di un convegno sullo stalking cui stava partecipando a Castello Utveggio sul monte Pellegrino. Milio, difensore storico dell'ex 007 Bruno Contrada, attualmente era impegnato nella difesa del generale Mario Mori, sotto processo a Palermo.

Nato a Capo d'Orlando nel 1944, Milio soffriva da tempo di problemi di natura cardiaca, si è sentito male proprio poco dopo aver preso la parola, è crollato a terra privo di sensi, e vano è stato il tentativo di rianimarlo.

Milio aveva avuto in passato disturbi cardiologici. Ma questo non gli aveva mai impedito di impegnarsi con la consueta passione nei due grandi amori della sua vita professionale: la professione di avvocato e la politica.

Contrariamente alle sue abitudini del sabato, era a Palermo e non nell'amata Capo d'Orlando (Messina), la sua città d'origine dove tornava spesso nel week end. L'ex senatore si è sentito male proprio al termine del suo intervento al convegno. Ha preso subito una pillola, ma non è servito a niente. È spirato pochi minuti dopo aver assunto il farmaco.

Attento e combattivo in aula, Pietro Milio ha sempre mostrato particolare garbo, soprattutto nei confronti dei cronisti. Eletto alla Camera nel 1994 tra le fila del Patto per l'Italia, prima di quell'elezione aveva militato nel Partito Liberale Italiano e dopo l'esperienza con Segni nel Partito Radicale. Un'attività, quella all'interno del partito di Marco Pannella, che l'ha visto accedere a Palazzo Madama due anni più tardi.

Quaderni Radicali nel n.90 (marzo/aprile 2005) ha pubblicato una conversazione tra Giuseppe Rippa (direttore di QR) e Pietro Milio sulla vicenda giudiziaria del Generale Mori e del colonnello Sergio Di Caprio, più noto come capitano Ultimo, sui fatti accaduti sull'arresto di Totò Riina (i due erano stati da poco rinviati a giudizio con l'accusa di favoreggiamento per la mancata perquisizione del covo del boss mafioso). Milio disse in quella occasione che "...nella 'velenosa' Palermo lo sport preferito è sempre stato quello di sporcare con il carbone, di 'masciare' anche i più ligi servitori dello Stato ..." Di seguito l'audiovideo di quella conversazione tenutasi nella redazione della rivista e registrata da Radio Radicale.

Cyrus
02-08-10, 13:43
OGGI A CAPO D'ORLANDO I FUNERALI DI PIERO MILIO
● CORDOGLIO DEL F.N.S. PER LA SCOMPARSA DELL’AVVOCATO PIERO MILIO
Capo d'Orlando, 21/06/2010 - Saranno celebrati oggi, lunedì 21 giugno alle ore 16.30 nella Chiesta Cristo Re, a Capo d'Orlando, i funerali dell'avv. Piero Milio, stroncato da un infarto avantieri al Castello Utveggio di Palermo, durante un convegno sullo stalking. L'avvocato Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale, 'storico' difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori, e' morto mentre stava partecipando a un convegno, probabilmente per un infarto, subito dopo avere accusato un malore nel corso del suo intervento come relatore.
L'avv. Milio era intento a svolgere la sua relazione quando si è accasciato per il malore accusato. Dopo avere assunto un farmaco il penalista-senatore purtroppo è morto. L'avv. Milio era originario di Capo d'Orlando (Messina) ma viveva a Palermo ormai da anni.
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Piero Milio
Pietro Milio è nato a Capo d'Orlando (Messina) il 28 febbraio 1944. Laureato in giurisprudenza, era un noto avvocato penalista del foro di Palermo con un curriculum professionale decisamente importante: tra gli altri ha difeso Bruno Contrada e il generale Mario Mori in vicende giudiziarie controverse e tuttora pendenti, non solo sul piano giudiziario ma pure dell’opinione pubblica e degli aspetti connessi alla politica e persino alla storia recente del nostro Paese. Negli anni ’90 era stato il legale dell’Acio, l’associazione antiracket artefice di una battaglia di civiltà contro il pizzo e l’usura che tutt’oggi resta nella storia di Capo d’Orlando e del Paese, uno dei personaggi che avevano portato nelle aule del tribunale di Patti le cosche del malaffare dei Nebrodi, dove una cinquantina di morti restano la testimonianza più cruda ed evidente di quella che poteva persino apparire una illusione ottica ma che non lo era per niente.

Illusione ottica, non certo per l’importanza dei fatti e per il coinvolgimento di personaggi e istituzioni, quanto perché quelle zone geografiche non erano storicamente interessate da storie di mafia e criminalità, quanto dal turismo e dalla cultura dell’accoglienza.
Piero Milio è stato certamente uno dei protagonisti della cultura antiracket a Capo d’Orlando.

Aderente al Partito Liberale Italiano ed al Partito Radicale, venne eletto alla Camera dei deputati nel 1994 nelle liste del Patto Segni nel proporzionale, collegio Sicilia occidentale.
Alle elezioni del 1996 diventa Senatore della XIII Legislatura, unico esponente della Lista Marco Pannella, in quanto nel suo collegio non viene presentato nessun candidato del Polo delle Libertà.
Nel 2005, non condividendo il progetto della Rosa nel Pugno aderente al centro sinistra, partecipa alla costituzione del movimento dei Riformatori Liberali.
Muore,stroncato da infarto il 19 giugno 2010 durante un convegno sullo stalking organizzato al Castello Utveggio di Palermo.

Cyrus
02-08-10, 13:43
Pietro Milio, un galantuomo liberale
Pietro Milio, un galantuomo liberale | SEN. DONATELLA PORETTI (http://blog.donatellaporetti.it/?p=1538)

Pietro -o Piero lo chiamavano tutti- era un signore d’altri tempi, un galantuomo siciliano la cui professione di avvocato, di garantista e di rispetto della legge aveva caratterizzato tutta la sua vita.
Si candido’ con i Radicali in un collegio uninominale nella sua terra e grazie alla mancata presentazione della candidatura del centrodestra vinse le elezioni, per la legislatura 1996-2001 fu l’unico rappresentante in Senato per la Lista Pannella. Non aveva una storia di militanza radicale, ma per quella legislatura fu radicale a tutto tondo e da liberale qual’era non fece mancare il suo apporto in Parlamento. Le battaglie garantiste e per la giustizia giusta erano quelle a lui più vicine, essere l’avvocato di Bruno Contrada non era solo una faccenda professionale, c’era di più e quando ne parlava la passione superava il rapporto cliente-avvocato. La terra di Sciascia, quella dell’antimafia e quella dei corleonesi e dei palermitani era la sua terra, era il sangue che scorreva nelle vene dell’avvocato galantuomo.
Ci conoscemmo casualmente ad un incontro pubblico, io ero una novellina tra i militanti radicali e con questo spirito collaboravo con Radio Radicale. Qualche giorno prima su un quotidiano fiorentino era stata pubblicata una lettera di un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino che denunciava violenze e condizioni di vita inaccettabili. Gli accennai e gli chiesi se era interessato ad approfondire, subito disse di si’. Mi lessi la legge e il regolamento penitenziario sulle visite ispettive dei parlamentari nelle carceri, ne avevo sentito parlare ma non ero mai entrata in carcere e neanche lui aveva mai oltrepassato la sala colloqui dove erano detenuti alcuni dei suoi assistiti.
La mattina alle 8 eravamo davanti ad un cancello enorme, da un enorme muro di cinta sbucava dalla nebbia una villa medicea, entrammo nel primo manicomio criminale. Nessuno dei due conosceva l’esistenza, pensavamo che la legge Basaglia avesse posto fine all’istituzionalizzazione dei matti, invece scoprimmo un mondo. Sei strutture per mille-millecinquecento internati, ancora i letti di contenzione, nessuna cura, la fatiscenza dei luoghi e la mancanza di prospettiva. Uomini trattati come avanzi di una societa’ che non li reclama. Ci appassionammo, li visitammo tutti e da Reggio Emilia a Castiglione delle Stiviere, da Aversa a Napoli, da Barcellona Pozzo di Gotto fino a Montelupo trovammo malati che invece che da medici e infermieri erano in cura presso gli agenti penitenziari. Un viaggio che trovava la sorpresa dei direttori e di quel piccolo mondo che non riceveva visite dall’esterno. Milio era un avvocato e un penalista, ne discutemmo a lungo durante i viaggi che ci portarono anche in altre carceri “normali”. Io ero sicuramente più scatenata e non trovavo riformabile l’istituto Opg, era solo da chiudere uno scandalo. Piero era più moderato e meno irruento di me, mi ascolto’ e concordo’ nella necessita’ di rivedere il tutto. Mise in piedi un gruppo di lavoro di criminologi, psichiatri e giuristi e scrisse un buon disegno di legge. Una proposta praticabile che poneva l’accento sull’aspetto sanitario di quelle strutture. In Parlamento sull’argomento ne sono stati depositati solo 2: il suo e uno scritto dalle Regioni Toscana, Emilia Romagna e altre. Inoltre una proposta di Franco Corleone che poneva fine alla non imputabilita’ e che quindi nei fatti eliminava il possibile ricorso agli Opg. Da allora nessun altro ha più scritto una proposta di legge sulla materia.
Ogni volta che uscivamo dai luoghi disastrati delle carceri e dei manicomi criminali, riusciva a trovare lo spazio per riportare alla sua famiglia un pensiero tipico del luogo, non faceva mai mancare anche a me un pensiero. Era sempre proiettato per prestare attenzione agli altri, non sono mai riuscita a cogliere in lui un secondo fine per un suo interessamento, non ha mai strumentalizzato niente e nessuno. Era generoso e con questo spirito si faceva seguire da me e mi seguiva anche nelle mie strampalate idee di parlare uno ad uno con gli internati…
Finita la legislatura, ci allontanammo, abitavamo lontani ma una telefonata di tanto in tanto ci riavvicinava. Non comprese la Rosa nel Pugno e l’alleanza con il centrosinistra, anzi non sopportava i “comunisti”! Ma siccome era un liberale galantuomo, non era a suo agio neppure con questo centrodestra… Ci siamo rivisti in Senato, incredibilmente ero io la senatrice, ma a lui dovevo tanta esperienza, tante chiacchierate, tanti chilometri in giro per l’Italia. E anche se ci eravamo persi di vista quando potevo lo ricordavo e cosi’ era avvenuto alla presentazione di un libro di un direttore penitenziario, il giorno dopo l’avevo incontrato e avevamo riso di quel ricordo. Sono passate un paio di settimane sono tornata all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, il cappellano me ne ha parlato e pochi giorni dopo Piero ci ha lasciato.
Il suo cuore cosi’ grande non ha retto. Viveva tra i radicali sapendo di non esserlo, o almeno lui cosi’ pensava, lui era un liberale. Ma quell’andare alla radice, quel cercare la soluzione senza nascondersi dietro ai paraventi di ideologie o pagine scritte da altri era il suo modo di essere Radicale.

Cyrus
02-08-10, 13:45
Morto l'avvocato Pietro Milio

Sabato 19 Giugno 2010





L'avvocato Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale, storico difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori, e' morto questo pomeriggio.



Il legale stava partecipando a un convegno a Castello Utveggio, sul monte Pellegrino. Milio, che era cardiopatico, ha accusato un malore, probabilmente un infarto, dopo il suo intervento, ha preso una pillola e pochi minuti dopo e' morto.

L'ex senatore era originario di Capo d'Orlando (ME) ma viveva da anni a Palermo

Cyrus
02-08-10, 13:46
ULTIM'ORA: Tutte le Notizie Di Oggi
PALERMO: MORTO AVVOCATO PIETRO MILIO, LEGALE DI MORI

PALERMO (ITALPRESS) - Morto l'avvocato Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale. Il legale ha accusato un malore durante un convegno sullo stalking organizzato al Castello Utveggio di Palermo. Subito dopo il suo intervento, ha preso una pillola e pochi minuti dopo si e' accasciato. Lo stimato professionista aveva difeso Bruno Contrada e attualmente era il legale del generale Mario Mori. (ITALPRESS). red 19-Giu-10 19:06 NNNN

Cyrus
02-08-10, 13:47
Lutto nell’avvocatura, è morto Pietro Milio

Scritto da Redazione | 19 giu 2010 - 18:46 |

Pietro Milio

L’avvocato Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale, storico difensore di Bruno Contrada e che assisteva anche il generale Mario Mori, è morto questo pomeriggio durante un convegno a Castello Utveggio, sul monte Pellegrino. Milio, che era cardiopatico, ha accusato un malore, probabilmente un infarto, dopo il suo intervento, ha preso una pillola e pochi minuti dopo è morto. Il legale era originario di Capo d’Orlando ma viveva da anni a Palermo.

Cyrus
02-08-10, 13:48
CRONACA
Lombardo: "Rivolgo alla famiglia le mie sincere e sentite condoglianze"
Morto il penalista-senatore Pietro Milio, oggi i funerali
Morto il penalista-senatore Pietro Milio, oggi i funerali

CATANIA - Ieri a Palermo, nel corso di un convegno sullo stalking ha cessato di vivere l'avvocato penalista ed ex senatore radicale Pietro Milio, 66 anni.

Milio, difensore storico dell'ex 007 Bruno Contrada, attualmente era impegnato nella difesa del generale Mario Mori, sotto processo a Palermo.
L'avvocato aveva avuto in passato disturbi cardiologici; ma questo non gli aveva mai impedito di impegnarsi con la consueta passione nei due grandi amori della sua vita professionale: la professione di avvocato e politico.
Ieri, contrariamente alle sua abitudine del sabato, era a Palermo a Castello Utveggio sul monte Pellegrino e non nell'amata città d'origine, Capo D'Orlando, a Messina, dove spesso tornava nel weekend.
Milio si è sentito male proprio al termine del suo intervento al convegno, ha preso subito una pillola, ma non è servito a nulla.
E' deceduto pochi minuti dopo aver assunto il farmaco. Il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo alla notizia della morte del penalista afferma: "E' con grande amarezza che apprendo dell'improvvisa scomparsa dell'avvocato Pietro Milio. Ho avuto modo di conoscere Pietro Milio per la sua attivita' politica, apprezzando l'indiscussa qualita' delle sue azioni e il grande valore umano. Rivolgo alla famiglia le mie sincere e sentite condoglianze".

21/06/10 11:17
Luisa Casaletti

Cyrus
02-08-10, 13:49
[108544] - Presentazione del progetto di legge per l&#039;abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari org. c/o la sala stampa di Montecitorio | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/108041/108544-presentazione-del-progetto-di-legge-per-labolizione-degli-ospedali-psichiatrici-giudiziari-org-c-o-)

Cyrus
02-08-10, 13:51
Stroncato da un infarto l'ex senatore Piero Milio, difensore del generale Mori
di Mariateresa Conti

*

L'avvocato è morto improvvisamente a Palermo mentre partecipava a un convegno sullo stalking. Un uomo di legge con la passione per la politica: dalle battaglie garantiste a Palazzo Madama a quelle in Tribunale a fianco di Bruno Contrada

Se ne è andato in un attimo per un attacco cardiaco sotto gli occhi attoniti di chi appena pochi minuti prima aveva ascoltato il suo intervento, ad un convegno sullo stalking. Un intervento appassionato, come sempre, perché forse il termine che più caratterizzava l'avvocato ed ex senatore Piero Milio, 66 anni, è proprio questo, passione: passione con la toga addosso, nelle mille e una battaglia combattuta in tribunale per i suoi imputati "eccellenti", Bruno Contrada prima e adesso il generale Mario Mori; e passione per la politica, si guardi qualcuna delle battaglie da lui, liberale di razza, combattute da senatore eletto nelle file dei Radicali.
L'avvocato Milio è morto a Palermo, la città in cui viveva da anni e dove esercitava prevalentemente la sua attività di penalista. Di solito, il sabato, non restava nel capoluogo siciliano. Quando gli impegni glielo consentivano si rifugiava nella sua città natale, Capo d'Orlando, il suo buen ritiro per riprendere nuovamente fiato e ricominciare. E di impegni, nonostante una cardiopatia di lunga data, non se ne faceva mancare: processi su processi, anche particolarmente impegnativi e stressanti; e poi dibattiti, convegni. Come quello che è stato teatro della sua morte. Aveva appena finito di parlare, a lui il compito di tirare le conclusioni di un dibattito su un reato relativamente nuovo, lo stalking. E si è sentito male. Ha capito subito che si trattava di un malore serio, ha preso la sua pillola salva-vita. Invano. Nel giro di pochi minuti è spirato.
Una grande perdita. Per la politica e per l'avvocatura italiana. Liberale di razza, aveva sempre amato la politica attiva. In Parlamento era approdato due volte: nel 1994, alla Camera dei deputati, eletto nelle file del Patto Segni; e nel 1996 a Palazzo Madama, in lista con i Radicali. Molto intensa anche l'attività di avvocato: parte civile del Comune di Palermo al primo maxi-processo a Cosa nostra, difensore del geometra Giuseppe Li Pera, il primo pentito del filone mafia e appalti in Sicilia. E poi Bruno Contrada, assistito con passione per oltre 10 anni in tutti e tre i gradi di giudizio. Un incarico professionale, la difesa dell'ex 007, affrontato con quella carica di umanità e di passione che di Piero Milio erano la caratteristica costante. Appassionato in tutto, anche nel salutare commosso dalla finestra del suo studio, il suo imputato che si era appena consegnato per andare a scontare la condanna a dieci anni.
Adesso il suo imputato eccellente era il generale Mori, assolto in primo grado al processo per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, ma di nuovo sotto processo, sempre a Palermo, per la presunta mancata cattura, nel 1995, di Bernardo Provenzano. Un processo che l'avvocato Milio stava seguendo con grande attenzione e impegni, come sempre. Un processo del quale, purtroppo, non vedrà mai la fine.

Cyrus
02-08-10, 14:12
Palermo: morto per un malore l’avvocato Pietro Milio, legale di Contrada e Mori

Pietro Milio 150x150 Palermo: morto per un malore l’avvocato Pietro Milio, legale di Contrada e Mori E’ morto nel pomeriggio a Palermo Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale e legale di Bruno Contrada ed attualmente avvocato del generale Mario Mori. Milio, che era cardiopatico, e’ stato colto da malore al termine del suo intervento ad un convegno a Castello Utveggio su Montepellegrino. I presenti si sono accorti immediatamente della gravità della cosa. Milio ha avuto anche il tempo di prendere una pillola ma non c’è stato nulla da fare perchè dopo qualche minuto il suo cuore ha cessato di battere.

Pietro Milio, orginario di Capo d’Orlando nel messinese, viveva da anni a Palermo.

Cyrus
02-08-10, 14:13
Intervista a Pietro Milio sulla sentenza di condanna definitiva, in Cassazione, per l&#039;ex funzionario del Sisde Bruno Contrada | RadioRadicale.it (http://www.radioradicale.it/scheda/225286/intervista-a-pietro-milio-sulla-sentenza-di-condanna-definitiva-in-cassazione-per-lex-funzionario-del-sisd)

Cyrus
02-08-10, 14:14
22 Giugno 2010 - Giustizia
PIETRO MILIO
Un galantuomo con la toga
di Rosamaria Gunnella

Quella di Pietro Milio è stata una vita divisa tra le aule di giustizia e la passione per la politica: dopo aver aderito al Pli, nel ’94 entrò a Montecitorio con la lista Patto per l’Italia.

Sono stati celebrati ieri i funerali dell’avvocato Pietro Milio, stroncato a 66 anni da un infarto. Milio, che aveva spesso e volentieri concesso interviste a l’Opinione, ex senatore radicale, è stato uno ’storico’ difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori. Ha lasciato tutti sgomenti l’improvvisa morte di Pietro Milio, noto penalista siciliano ed ex senatore radicale, stroncato all’età di 66 anni, da un infarto durante un convegno sabato pomeriggio al Castello Utveggio a Palermo. Una notizia arrivata come un fulmine a ciel sereno, nonostante i due by-pass con i quali Milio conviveva ormai da anni, ma che non gli avevano impedito di intraprendere tante battaglie in nome della giustizia e della verità. Aveva appena finito il suo intervento al convegno su “Stalking, delitto di atti persecutori, dalla teoria alla pratica”, quando dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua si è accasciato sul tavolo, davanti agli occhi increduli dei presenti, secondo i quali nulla poteva presagire quello che sarebbe successo. Una vita divisa tra le aule di giustizia e la passione per la politica: dopo aver aderito al Pli, nel 1994 entrò per la prima volta a Montecitorio con la lista Patto per l’Italia e nel 1996 a Palazzo Madama come unico esponente della Lista Marco Pannella. Nel 2005 non aveva condiviso il passaggio della Rosa nel Pugno al centrosinistra e aveva partecipato alla costituzione dei Riformatori liberali. Un vero galantuomo fuori e dentro il Tribunale, un uomo di altri tempi che svolgeva la sua professione con passione e dedizione, fermezza e serietà. Milio fu il difensore storico di Bruno Contrada, l’ex dirigente del Sisde prima assolto e poi condannato a dieci anni per associazione mafiosa, che aveva assistito fin dal giorno del suo arresto (la notte di Natale del 1992) e che per i lunghi tempi del processo - un’odissea durata ben 15 anni - gli è stato sempre vicino, come avvocato e amico, perché persuaso (e lo ripeteva spesso) che “Bruno Contrada è un uomo dello Stato, immolato per ragioni politiche non di giustizia né di verità”.

La vicenda di Contrada segnò umanamente Milio, convinto che quel processo fosse politico. Non a caso assumendone all’inizio il patrocinio, affermò: “Assisto un condannato a essere condannato”. Un’altra battaglia giudiziaria lo aveva visto al fianco del generale Mario Mori, assolto per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina e attualmente imputato – insieme al colonnello Mauro Obinu - nel processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e per la presunta trattativa tra Stato e mafia. Un processo difficile e ancora in corso, di cui l’avvocato Milio aveva parlato in due interviste a l’Opinione, ritenendo, con quell’indimenticabile sorriso ironico che lo caratterizzava, che “se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla valenza politica di questo processo sarebbe un imbecille!”. Era un piacere parlare con Piero Milio, era un piacere intervistarlo per la sua disponibilità e gentilezza, era un piacere ascoltarlo per la sua verve polemica e pungente, era divertente commentare fatti e misfatti di questa Palermo e dei suoi personaggi che lui conosceva bene. Una vita, quella di Milio, mai al di sopra delle righe, condotta con sobrietà ma anche con tanta passione per la sua professione. L’amore per la giustizia e per la toga lo aveva portato da Capo D’Orlando - sua città natale e dove amava rifugiarsi, quando il lavoro lo permetteva - a Palermo, dove si laureò in giurisprudenza e mosse i primi passi nell’avvocatura frequentando lo studio di Girolamo Bellavista, noto avvocato del capoluogo siciliano e professore di Procedura penale all’Università di Palermo. Negli anni ’80 aveva partecipato al maxi processo come patrono di parte civile del Comune di Palermo, quando era sindaco Leoluca Orlando, e sempre in quegli anni aveva assistito il primo “pentito” del filone mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera. Con la scomparsa di Pietro Milio viene meno all’avvocatura siciliana un personaggio dalla complessa esperienza nell’intreccio della cultura politica liberale, con un alto senso dello Stato e conoscitore dei meccanismi parlamentari. Un uomo che esercitava la sua professione con orgoglio e con la coscienza di servire la giustizia con un profondo sentimento umano, rispettando la magistratura non per dovere ma per convinzione, pur nella rigorosa e a volte dura dialettica giudiziaria. Lascia un’eredità morale ai due figli, uno avvocato, l’altra psicologa, e alla società siciliana il ricordo di un uomo che rifiutò altre lusinghiere offerte politiche pur di rimanere libero, secondo la sua cultura laica, che vuole l’uomo protagonista e non opportunista al servizio di una società di uomini liberi.

Cyrus
02-08-10, 14:15
:: RadioRadicale.it :: (http://www.radioradicale.it/new/html/vs_videosenato.php?id=307606#INT2470006)

Cyrus
02-08-10, 14:26
E’ morto l’avvocato dei ‘colpevoli perfetti’. Un ricordo di Piero Milio
Inserito il 19 giugno 2010
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Tags: antimafia, Contrada, mafia, Milio, Mori, Palma
E’ morto l’avvocato dei ‘colpevoli perfetti’. Un ricordo di Piero Milio

- E’ morto a Palermo Piero Milio. Era stato parlamentare, prima alla Camera, tra i pattisti di Segni, quindi al Senato, per la Lista Pannella. Nel 2006 non aveva condiviso l’accordo di coalizione tra i radicali e il centro-sinistra e aveva aderito ai Riformatori Liberali.

E’ salito agli onori delle cronache per avere difeso prima Bruno Contrada e poi Mario Mori: due uomini dello Stato che la “storia ufficiale” e, nel caso di Contrada, le stesse sentenze hanno dichiarato compromessi con la mafia. Due “colpevoli perfetti”, due vittime della guerra civile scatenatasi nell’antimafia siciliana, per come emergono dalla difesa di Piero Milio.

Alle prese con teoremi giudiziari ostinati e, per troppi, addirittura “auto-evidenti”, e con teoremi politici disinvolti o disonesti, Milio – che era stato avvocato di parte civile del Comune di Palermo nel maxi-processo contro Cosa Nostra e di Giuseppe Li Pera, pentito del filone mafia e appalti– era così finito dalla “parte sbagliata”: che in Sicilia è comunque, sia nelle vicende di mafia che di antimafia, la parte contraria a quella di chi comanda.

Legato ad una cultura del diritto troppo liberale per essere vera in una terra in cui la stessa giustizia condivide con l’ingiustizia una volubile terribilità, aveva una passione politica acuta e dolorosa, persuaso com’era che né la mafia né la cattiva antimafia potessero essere battute nei tribunali.
E’ morto l’avvocato dei ‘colpevoli perfetti’. Un ricordo di Piero Milio | Libertiamo.it (http://www.libertiamo.it/2010/06/19/e%E2%80%99-morto-l%E2%80%99avvocato-dei-colpevoli-perfetti-un-ricordo-di-piero-milio/)

Cyrus
02-08-10, 14:28
SCOMPARSA PIETRO MILIO/MANFREDI (RADICALI): NEL 1997 FU UNICO PARLAMENTARE A INTERROGARE (INUTILMENTE) GOVERNO PRODI SU AFFAIRE
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Sunday, June 20, 2010 at 10:28pm
SCOMPARSA PIETRO MILIO/MANFREDI (RADICALI): NEL 1997 FU UNICO PARLAMENTARE A INTERROGARE (INUTILMENTE) GOVERNO PRODI SU AFFAIRE TELEKOM SERBIA, SU SOLDI CITTADINI ITALIANI DATI A MILOSEVIC.

Alla notizia della scomparsa dell’avvocato Pietro Milio, Giulio Manfredi (Comitato nazionale Radicali Italiani) ha dichiarato:

“Ricordo, innanzitutto, di Pietro Milio, le poche volte in cui ci siamo parlati, la squisita cortesia e la grande signorilità. Ricordo, inoltre, accanto alla sua opera indefessa per la vita del diritto, un merito particolare: l’aver presentato, il 25 giugno 1997, su mia sollecitazione, l’unica interrogazione sull’affaire Telekom Serbia a ridosso della conclusione di quel vergognoso accordo che comportò - in cambio dell’acquisto da parte di Telecom Italia (allora ancora controllata dal Ministero del Tesoro) del 29% di Telekom Serbia - il versamento di 456 milioni di euro dei cittadini italiani (più 328 milioni di euro dei cittadini greci) direttamente nei conti correnti di Slobodan Misolevic, di quel criminale di guerre contro cui solamente 22 mesi più tardi l’Italia sarebbe intervenuta militarmente.

L’interrogazione (n. 4-06641) dell’allora senatore Pietro Milio, unico parlamentare radicale all’epoca, era diretta al Presidente del Consiglio dei Ministri (Romano Prodi) e al Ministro delle Poste e Telecomunicazioni (Antonio Maccanico). L’8 luglio 1997, il ministro per i Rapporti con il Parlamento (Giorgio Bogi) inviò un telex al Ministro del Tesoro (Carlo Azeglio Ciampi), chiedendo di rispondere all’interrogazione di Milio. La risposta non è mai arrivata.”.



Torino, 20 giugno 2010

Cyrus
02-08-10, 14:29
PALERMO. MATASSO: PIERO MILIO MAESTRO DI DIRITTO E DI LAICITÀ.
domenica 20 giugno 2010
Con l’improvvisa scomparsa di Piero Milio, ex senatore radicale e celebre avvocato penalista, «l’avvocatura italiana perde un grande maestro di diritto e la cultura liberale resta orfana di una delle sue personalità più rappresentative». È quanto ha affermato Antonio Matasso, segretario provinciale del PSI di Palermo. L’esponente socialista ha ricordato «l’impegno in prima linea di Piero Milio nella lotta alla mafia, sempre accompagnato dalla sua visione garantista. Qualunque cosa facesse o dicesse, emergeva in ogni momento una passione civile mista ad un’onestà indefettibile. Al dolore mio e delle nostre due “patrie” comuni, Palermo e Capo d’Orlando, accompagno l’orgoglio di essergli stato amico». Matasso ha infine lanciato un invito alle istituzioni culturali ed ai centri studi laici e liberali ad attivarsi già da ora perché l’eredità ideale, umana e morale del senatore Milio possa essere preservata a beneficio dei giuristi e degli uomini politici del futuro.

PALERMO. MATASSO: PIERO MILIO MAESTRO DI DIRITTO E DI LAICITÀ. - Partito Socialista - Comunicati (http://www.partitosocialista.it/site/artId__2768/308/DesktopDefault.aspx)

Cyrus
02-08-10, 14:30
La scomparsa di pietro milio: fu l'unico parlamentare a interpellare il governo prodi su telekom serbia
Creato il 21 giugno 2010 da Pasudest
Sabato scorso è scomparso improvvisamente a Palermo l'avvocato Pietro Milio che negli anni '90 fu prima militante e poi deputato e senatore radicale. Proprio in quella veste, nel 1997 fu l'unico parlamentare a interrogare, senza esito, il governo Prodi sull'"affaire Telekom Serbia" e sui soldi dei cittadini italiani dati a Slobodan Milosevic nonostante l'embargo internazionale che in quel momento era in vigore contro Belgrado.

Giulio Manfredi, del Comitato nazionale di Radicali Italiani, che ha seguito, e continua a seguire, in prima persona con grande impegno tutta la vicenda in un comunicato ha voluto ricordare quella iniziativa parlamentare:

"Ricordo, innanzitutto, di Pietro Milio, le poche volte in cui ci siamo parlati, la squisita cortesia e la grande signorilità. Ricordo, inoltre, accanto alla sua opera indefessa per la vita del diritto, un merito particolare: l’aver presentato, il 25 giugno 1997, su mia sollecitazione, l’unica interrogazione sull’affaire Telekom Serbia a ridosso della conclusione di quel vergognoso accordo che comportò - in cambio dell’acquisto da parte di Telecom Italia (allora ancora controllata dal Ministero del Tesoro) del 29% di Telekom Serbia - il versamento di 456 milioni di euro dei cittadini italiani (più 328 milioni di euro dei cittadini greci) direttamente nei conti correnti di Slobodan Misolevic, di quel criminale di guerra contro cui solamente 22 mesi più tardi l’Italia sarebbe intervenuta militarmente.
L’interrogazione n. 4-06641 dell’allora senatore Pietro Milio, unico parlamentare radicale all’epoca, era diretta al Presidente del Consiglio dei Ministri, Romano Prodi, e al Ministro delle Poste e Telecomunicazioni, Antonio Maccanico. L’8 luglio 1997, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Giorgio Bogi, inviò un telex al Ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, chiedendo di rispondere all’interrogazione di Milio. La risposta non è mai arrivata".

Per approfondimenti segnalo

il libro "Telekom Serbia – Presidente Ciampi, nulla da dichiarare", diario ragionato del caso dal 1994 al 2003, con postfazione di Marco Pannella, pubblicato da Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri nel 2003

e il ricco dossier radicale sulla vicenda disponibile sul sito della Associazione radicale "Adelaide Aglietta" di Torino

Cyrus
02-08-10, 14:32
Cronaca | 19/06/2010 | ore 20.50 »
Palermo: Maira (Udc), con Milio scompare illustre avvocato e onesto politico

Palermo, 19 giu. - (Adnkronos) - "Pietro Milio ha rappresentato con dignita' e straordinaria professionalita' il paradigma dell'uomo di legge che ha creduto nel valore della 'Liberta'' come germe della societa' e della convivenza civile. Con lui scompare la figura di un illustre avvocato che da rappresentante di parte civile si e' schierato contro i boss mafiosi e i loro interessi. Perdiamo anche un fine ed onesto politico che ha fatto delle sue battaglie libertarie l'essenza e il senso stesso del suo impegno pubblico". Cosi' Rudy Maira, capogruppo Udc all'Assemblea regionale siciliana e vice presidente della commissione regionale Antimafia ricorda l'avvocato Pietro Milio, scomparso oggi a Palermo.

Cyrus
02-08-10, 14:32
LiveSicilia >> Cronaca > Una carriera fra tribunale e parlamento
Una carriera fra tribunale e parlamento
nessun commento
sabato 19 giugno 2010
20:11
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palermo, pietro milio

Piero Milio, nato nel febbraio del 1944, aveva trascorso la gioventu’ a Capo d’Orlando, la cittadina del Messinese di cui era originario. Si era laureato in Giurisprudenza a Palermo, citta’ in cui si era trasferito e in cui aveva mosso i primi passi nell’avvocatura, frequentando lo studio del professore Girolamo ”Mommo” Bellavista. Da avvocato aveva partecipato al maxiprocesso come patrono di parte civile del Comune di Palermo. Poi aveva assistito, fra gli altri, l’ex 007 Bruno Contrada, condannato a 10 anni al termine di un lunghissimo processo per concorso in associazione mafiosa. Era stato anche legale del geometra Giuseppe Li Pera, primo ”pentito” del filone mafia e appalti, e aveva assistito il generale Mario Mori in tutte le sue vicende palermitane: dalle controverse vicende legate al rapporto mafia e appalti ai boss (che secondo i carabinieri del Ros sarebbe avvenuta per mano dei magistrati palermitani) alla questione della mancata perquisizione del covo di Toto’ Riina. Fino alle vicende della mancata cattura di Bernardo Provenzano e della presunta trattativa fra Stato e mafia, ancor oggi in corso. Anche in politica Milio era stato molto attivo: aveva dapprima aderito al Pli e poi al partito radicale. Nel 1994 era stato eletto alla Camera con la lista del Patto per l’Italia, nel collegio Sicilia occidentale; nel ‘96 era stato poi eletto al Senato come unico esponente della Lista Marco Pannella, grazie al fatto che nel suo collegio – quello di Settecannoli – non si era presentato alcun candidato del centrodestra. Nel 2005 non aveva condiviso il passaggio della Rosa nel Pugno al centrosinistra e aveva partecipato alla costituzione del movimento dei Riformatori liberali.

Cyrus
02-08-10, 14:36
12:42 30 GIU 2010

(AGI) - Palermo, 30 giu. - In corso l'udienza del processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, entrambi ex del Ros, imputati di favoreggiamento aggravato davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo.
Ricordato l'avvocato Pietro Milio, legale dell'imputato, morto di recente in seguito a un malore. Al suo posto il figlio Basilio. Oggi doveva essere sentito Pino Lipari, braccio destro e "commercialista" di Bernardo Provenzano, ma non ha voluto rispondere alle domande. Gia' nel 2002, interrogato dai magistrati Pietro Grasso, Guido Lo Forte e Michele Prestipino, aveva parlato della trattativa, del "papello" e del ruolo avuto da Vito Ciancimino, dal generale Mori e dal capitano Giuseppe De Donno del Ros. Mori e' presente in aula. Come l'avvocato Giorgio Ghiron.

Cyrus
02-08-10, 15:00
Contrada, Mori: traditori o traditi?
Intervista con l’avvocato Pietro Milio

• da America Oggi del 13 gennaio 2008, pag. 14

di Giulio Ambrosetti

Pietro Milio, avvocato penalista del Foro di Palermo, nella vita ne ha viste di cotte e di crude (è stato anche parlamentare eletto nella lista Pannella). Tanto per cominciare, da quindici anni difende Bruno Contrada, il superpoliziotto condannato a dieci anni di galera per mafia con una sentenza che non finisce mai di suscitare perplessità. Poi ha difeso Mario Mori, generale dei Carabinieri, già ai vertici del Ros (il Reparto operativo speciale dell’Arma) e poi ai vertici del Sisde, il Servizio segreto civile. Lo ha difeso nella tormentata vicenda del covo Totò Riina. Storia tutta italiana (avvertimento più che mai necessario per i lettori americani) e, naturalmente, controversa. Che risale al 1993, quando viene catturato il boss dei corleonesi, Riina. Una grande operazione di intelligence macchiata dalla mancata perquisizione della casa dove l’allora capo della mafia siciliana viveva. Oggi Milio torna a difendere Mori, accusato di aver mandato all’aria, nel lontano 1995, la cattura dell’altro boss corleonese, Bernardo Provenzano.



La prima domanda che poniamo a Milio parte da una considerazione: sia Contrada, sia Mori sono stati ai vertici del Sisde, e tutt’e due sono accusati di aver aiutato due grandi boss mafiosi a rendersi uccel di bosco. Insomma, avvocato, questo Sisde porta sfiga…

“Bisognerebbe vedere perché porta sfiga - ci risponde Milio -. Contrada, nel 1991, operò per utilizzare il Sisde anche nella lotta alla mafia, compresa la cattura dei latitanti. Ecco, secondo me il lavoro svolto da Contrada deve avere suscitato la gelosia di qualche nascituro”.



Prego?

“Insomma, avrà fatto ombra a qualche apparato dello Stato allora nascente. Parallelamente, il Ros, che nel 1993 ha arrestato Riina, comincia a subire contestazioni. Il riferimento, ovviamente, è alla vicenda del covo di Riina”.



Avvocato, ammetterà che è singolare catturare il più importante boss mafioso dell’epoca e non perquisire l’abitazione dove viveva chissà da quanto tempo.

“Non condivido la sua considerazione. Quegli ufficiali dei Carabinieri, e in particolare Mori, ultimi allievi di Carlo Alberto Dalla Chiesa, seguivano una tecnica investigativa e operativa precisa: e cioè non rompere il filo d’indagine costruito con grande fatica nel tempo. Il Ros, giustamente, voleva colpire tutta l’organizzazione che, negli anni, aveva protetto Riina. Tra l’altro, in quel covo c’erano moglie e figli del boss”.



E questo che significa?

“Significa che i mafiosi tutelano la propria famiglia prima di ogni altra cosa al mondo. Una base operativa della mafia lì avrebbe messo in pericolo i familiari di Riina. E questo un boss mafioso non lo avrebbe mai consentito”.



Se non ricordiamo male, i magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo vennero informati di tutto.

“E’ tutto vero. Mori informò i magistrati, e in particolare l’allora capo della Procura, Giancarlo Caselli. Cosa, questa, confermata dal giudice Luigi Patronaggio, che stava per dare il via alla perquisizione del covo e venne bloccato”.



Tutto questo, però, non ha eliminato le polemiche. E un processo che ha visto come imputato non soltanto Mori, ma anche il capitano ‘Ultimo’.

“Per amore di cronaca e di verità, dobbiamo sottolineare che tutt’e due sono stati assolti. Tuttavia, in questa storia del covo, dove si è parlato di tutto, è rimasta senza risposta una domanda”.



Quale?

“A due passi dal covo di Riina, proprio all’incrocio con la circonvallazione della città, c’era sempre un fruttivendolo con il suo furgoncino. Dopo l’arresto di Riina questo signore è scomparso. Era proprio un fruttivendolo? E poi c’è un’altra cosa ancora”.



Cosa?

“Ricordo che in una nota inviata ai giudici di Milano, i pubblici ministeri di Palermo scrivono che la cassaforte dell’abitazione di Riina era stata asportata da chi aveva ripulito il covo. Poi, però, si scopre che i due che avevano ripulito il covo erano talmente noti agli inquirenti che erano stati subito individuati dai Carabinieri, interrogati, processati e assolti”.



Assolti?

“Sì, assolti. I due si giustificarono dicendo che erano stati contattati dal padrone di casa per imbiancare le pareti dell’abitazione. Cosa che è risultata vera. Altro che covo ripulito! Tra l’altro, in una stanza della casa vennero trovati i mobili accatastati e chiusi nel cellofan. Proprio perché i due stavano imbiancando i muri”.



Mettiamo da parte la vicenda del covo di Riina e parliamo di questo nuovo caso. Ci può spiegare di che si tratta?

“Michele Riccio, colonnello dei Carabinieri oggi in pensione, nel 2001 si ricorda che, nel 1995, Mori avrebbe impedito la cattura di Provenzano. Mi spiego meglio. Riccio dice che in quegli anni poteva contare su un confidente, Luigi Ilardo, oggi deceduto. Questo Ilardo avrebbe potuto portare gli inquirenti a Provenzano. Ma, dice Riccio, non se ne fece nulla perché Mori lo impedì. Ovviamente, è tutto falso. Prove alla mano”.



Cioè?

“Cominciamo col dire che Riccio è finito nel bel mezzo di una vicenda giudiziaria per una storia legata agli stupefacenti. Nel maggio dello scorso anno si è beccato nove anni e sei mesi di reclusione. Questa precisazione è importante”.



Perché?

“Perché oggi, Riccio, con le sue accuse, smentisce un rapporto che porta la firma del capitano Mauro Obino, ma che è stato stilato proprio da lui. In questo rapporto, denominato ‘Grande Oriente’, Riccio racconta che Mori gli aveva detto di dotare Ilardo di un registratore mimetizzato. Questo dimostra che Mori non ostacolò minimamente Riccio. Oggi, però, lo stesso Riccio smentisce il suo rapporto”.



Perché, secondo lei, Riccio accusa Mori?

“Forse per alleggerire la sua posizione giudiziaria”.



Magari viene utilizzato da qualcuno?

“Non è da escludere”.



Da chi?

“Da chi potrebbe avere avuto interesse a mettere nei guai Mori”.



Perché dovrebbero mettere nei guai Mori?

“Potrebbe essere una vendetta. O, con molta più probabilità, un’azione mistificatoria di copertura di vicende tristi e tragiche che hanno attraversato l’Italia. In fondo, se riflettiamo, nella vicenda del covo di Riina hanno tirato in ballo pure il capitano ‘Ultimo’. Anche se l’obiettivo non era lui”.



Ovvero?

“L’incriminazione di ‘Ultimo’ avrebbe dovuto rendere più credibile le accuse mosse a Mori. E la prova di ciò è che i responsabili intermedi nell’operazione legata alla gestione del covo di Riina, pur avendo avuto un ruolo attivo, non sono mai stati sfiorati. Così come, in questa nuova vicenda che coinvolge ancora una volta Mori, è strano che per gli stessi fatti non sia stato incriminato Riccio, che pure era impegnato nell’operazione”.



Avvocato, ci tolga una curiosità: della cattura di Riina è stato detto tutto e il contrario di tutto: grande operazione dei Carabinieri e patteggiamento tra Stato e mafia. Lei che idea si è fatto?

“La cattura di Riina è stata una brillantissima operazione di polizia giudiziaria. Il resto sono chiacchiere malevole”.



Insomma, l’invidia avrebbe generato una tempesta di fango…

“C’è stato certamente il concorso a seminare il dubbio”.



Oggi il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, dice che suo padre collaborò con lo Stato per far catturare Riina…

“Nelle parole di questo Massimo Ciancimino non c’è nulla di vero. La verità è che, nella disperazione istituzionale di quei giorni - ricordiamoci che c’erano stati attentati ai luoghi simbolo della cultura italiana - c’era chi parlava di resa dello Stato e chi si rimboccava le maniche. Gli uomini del Ros erano tra questi ultimi. Così si misero alla ricerca di soggetti che avrebbero potuto consentire la cattura di questi pericolosi boss. Vito Ciancimino, nei colloqui investigativi autorizzati dalla magistratura, quando capì che gli ufficiali dei Carabinieri avevano il solo obiettivo di farsi indicare da lui la strada per catturare i latitanti, cacciò di casa Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Li cacciò da casa dicendogli: andate via, voi mi volete morto e volete morire pure voi. In quel momento, tanto per capirci, Ciancimino temeva ritorsioni anche sui suoi figli”.



Vuole dire qualcosa ai lettori che la leggono in America?

“Che se questa è la Giustizia italiana, beh, c’è da fuggire da questo Paese. Purtroppo, non posso farne a meno di essere pessimista”.

Cyrus
02-08-10, 15:01
Quell'anomalo verbale del pentito Scarantino
Sicilia news - Sicilia Notizie
Scritto da GuidaSicilia
Venerdì 31 Luglio 2009 19:05
''Tutto l'apporto cartaceo e verbale che potrò dare ai magistrati lo darò sempre''I magistrati di Caltanissetta al lavoro per accertare se dietro alle menzogne di Vincenzo Scarantino ci sia la mano di un investigatore corrotto



I magistrati di Caltanissetta al lavoro per accertare se dietro alle menzogne di Vincenzo Scarantino ci sia la mano di un investigatore corrotto

Gaetano Murana, Giuseppe La Mattina, Cosimo Vernengo e il boss Pietro Aglieri, condannati, a vario titolo, per la strage di via D'Amelio, si costituiranno parte civile contro l'ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino e contro Salvatore Candura, indagati ora dalla Procura di Caltanissetta per calunnia.
Il loro racconto delle fasi preparatorie dell'attentato in cui morì il giudice Paolo Borsellino e del summit in cui Totò Riina avrebbe annunciato l'intenzione di eliminare il magistrato mostra contraddizioni e lacune.
A indurre i pm a rivedere le dichiarazioni di Scarantino e Candura sono state le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, ex reggente del mandamento di Brancaccio, aspirante collaboratore di giustizia, che ha 'riscritto' parte della storia dell'eccidio di via d'Amelio. Il legale di Murana, La Mattina, Vernengo e Aglieri, l'avvocato Rosalba Di Gregorio, ha inviato in carcere ai suoi clienti la lettera di nomina per la costituzione di parte civile.

L'inchiesta per calunnia a carico di Scarantino e Candura non è l'unica iniziativa della Dda nissena che sta indagando per accertare se, dietro alle menzogne di Scarantino, ci sia la mano di un investigatore che avrebbe indotto l'ex spacciatore della Guadagna a fornire una versione falsa di alcuni aspetti dell'attentato. In particolare, i magistrati stanno concentrando l'attenzione su un verbale di interrogatorio, reso da Scarantino nel 1994, pieno di annotazioni a margine che sarebbero state fatte da un poliziotto. L'agente, già interrogato dai giudici del processo per la strage, ha sostenuto che fu Scarantino a dettargli le note; mentre il pentito, nel 1998, disse che le scritte erano state fatte per fargli ripassare la versione da dare.

Tra indagini per presunti depistaggi, false dichiarazioni e misteri, intanto, potrebbero tornare davanti all'autorità giudiziaria stralci dei due processi Borsellino uno e bis, già passati in giudicato. La procura di Caltanissetta sta valutando l'ipotesi di chiedere, attraverso la procura generale, la revisione dei dibattimenti, almeno per le posizioni degli imputati accusati da Scarantino. L'esistenza di un verbale d'interrogatorio del 1994, reso da Scarantino, pieno di annotazioni a margine che sarebbero state fatte da un poliziotto, era agli atti del Parlamento da oltre dieci anni. Nel febbraio del 1999, infatti, il senatore Pietro Milio della lista Pannella, presentò un'interrogazione ai ministri della Giustizia e dell'Interno su quel verbale "anomalo" che ha portato all'avvio di nuove indagini da parte della Procura di Caltanissetta. I magistrati hanno già interrogato l'agente, ipotizzando un tentativo di depistaggio nell'inchiesta sulla strage di via D'Amelio. Milio, avvocato penalista, difensore in alcuni processi dell'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada e dell'ufficiale del Ros Mario Mori, denunciò al Senato "che nel corso dei processi per la strage di via D'Amelio la difesa del pentito Vincenzo Scarantino, sulle cui dichiarazioni si basa il processo, ha prodotto verbali di interrogatorio resi alla procura di Caltanissetta dallo stesso Scarantino, che risultano infarciti di 'segnalibri' ed annotazioni, con indicate circostanze, nomi e fatti diversi da quelli già narrati e poi, nei successivi suoi interrogatori, 'adeguati' opportunamente". "Scarantino - dichiarò in quell'occasione Milio - ha addirittura prodotto atti e documenti non firmati e da lui acquisiti durante il periodo in cui è stato sottoposto a regime di rigorosa protezione. Per questo ho chiesto ai ministri se non ritengano di dover disporre una seria indagine ispettiva anche al fine di accertare come lo Scarantino abbia potuto disporre - e chi gliela abbia data - della copia degli interrogatori, quasi tutti annotati, mentre la difesa degli imputati ha avuto, a suo tempo, rilasciate soltanto copie parziali e quali provvedimenti intende adottare ove venissero rilevate condotte illecite".
Quell'interrogazione, presentata ai ministri del governo di centrosinistra presieduto da Massimo D'Alema "non ebbe mai alcuna risposta", come sottolinea oggi l'ex parlamentare della lista Pannella. "Ebbi modo di vedere personalmente copia di quel verbale d'interrogatorio - ricostruisce Milio - attraverso uno dei difensori degli imputati. Ricordo che rimasi sconcertato di fronte a quegli appunti e a quelle annotazioni scritte a matita. Sono contento che oggi, sia pure a distanza di 10 anni, qualcuno abbia le mie stesse perplessità di allora". Milio commenta infine gli ultimi sviluppi sull'indagine riguardante la strage di via D'Amelio: "Più che i suggeritori occulti - afferma - basterebbe individuare quelli palesi".

Intanto, mentre sembra ormai chiaro che "il vento sta cambiando" sulle indagini della strage di Via D'Amelio, la madre di Scarantino continua a ripetere che suo figlio fu costretto a dire il falso. "Mio figlio non c'entra niente. L'hanno costretto a dire cose non vere e ad accusare gente innocente. Erano tutte invenzioni. Noi familiari sapevamo che Enzo era innocente e per questo avevamo protestato pubblicamente nel '94". A 17 anni di distanza dall'arresto di suo figlio, Giuseppa De Lisi, 75 anni, conferma le sue convinzioni di allora e commenta positivamente le notizie sulla nuova inchiesta sulla strage in cui morirono Paolo Borsellino e i 5 poliziotti di scorta. "L'abbiamo sempre detto, qui tutti lo sanno. Ha accusato persone assolutamente estranee ai fatti, persone che conosceva ma che con le stragi non c'entravano niente". Scarantino accusò anche Salvatore Profeta, suo cognato, presunto mafioso, che è stato poi condannato all'ergastolo per la strage di via D'Amelio. "Sono stati poliziotti e magistrati, a costringere mio figlio a dire cose false - aggiunge la madre di Scarantino -. Nessuno ha mai fatto niente né a me né alla mia famiglia perché tutti sanno che non è colpa di mio figlio. Non abbiamo mai avuto ritorsioni, minacce. In carcere lo trattavano malissimo, facevano la pipì nel suo cibo, lo insultavano, lo picchiavano. Poi lo costrinsero a parlare. Lui si spaventava per la moglie e i bambini e così parlò. Spero che si arrivi alla verità e che gli innocenti tornino liberi".

[Informazioni tratte da ANSA]

Cyrus
02-08-10, 15:03
Palermo, è morto l'avvocato Pietro Milio. L'ex legale di Mori colto da un infarto durante un convegno

L'avvocato Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale, storico difensore di Bruno Contrada e che assisteva anche il generale Mario Mori, è morto questo pomeriggio durante un convegno a Castello Utveggio, sul monte Pellegrino. Milio, che era cardiopatico, ha accusato un malore, probabilmente un infarto, dopo il suo intervento, ha preso una pillola e pochi minuti dopo è morto. L'ex senatore era originario di Capo d'Orlando (Messina) ma viveva da anni a Palermo.



Piero
Milio, nato nel febbraio del 1944, aveva trascorso la gioventù a Capo d'Orlando, la cittadina del Messinese di cui era originario. Si era laureato in Giurisprudenza a Palermo, città in cui si era trasferito e in cui aveva mosso i primi passi nell'avvocatura, frequentando lo studio del professore Girolamo "Mommo" Bellavista. Da avvocato aveva partecipato al maxiprocesso come patrono di parte civile del Comune di Palermo. Poi aveva assistito, fra gli altri, l'ex 007 Bruno Contrada, condannato a 10 anni al termine di un lunghissimo processo per concorso in associazione mafiosa. Era stato anche legale del geometra Giuseppe Li Pera, primo "pentito" del filone mafia e appalti, e aveva assistito il generale Mario Mori in tutte le sue vicende palermitane: dalle controverse vicende legate al rapporto mafia e appalti ai boss (che secondo i carabinieri del Ros sarebbe avvenuta per mano dei magistrati palermitani) alla questione della mancata perquisizione del covo di Totò Riina. Fino alle vicende della mancata cattura di Bernardo Provenzano e della presunta trattativa fra Stato e mafia, ancor oggi in corso. Anche in politica Milio era stato molto attivo: aveva dapprima aderito al Pli e poi al partito radicale. Nel 1994 era stato eletto alla Camera con la lista del Patto per l'Italia, nel collegio Sicilia occidentale; nel '96 era stato poi eletto al Senato come unico esponente della Lista Marco Pannella, grazie al fatto che nel suo collegio - quello di Settecannoli - non si era presentato alcun candidato del centrodestra. Nel 2005 non aveva condiviso il passaggio della Rosa nel Pugno al centrosinistra e aveva partecipato alla costituzione del movimento dei Riformatori liberali.



"E' con grande amarezza che apprendo dell'improvvisa scomparsa dell'avvocato Pietro Milio. Ho avuto modo di conoscere Pietro Milio per la sua attività politica, apprezzando l'indiscussa qualità delle sue azioni e il grande valore umano. Rivolgo alla famiglia le mie sincere e sentite condoglianze". Lo afferma il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo.



"Pietro Milio ha rappresentato con dignita' e straordinaria professionalita' il paradigma dell'uomo di legge che ha creduto nel valore della 'Liberta'' come germe della societa' e della convivenza civile. Con lui scompare la figura di un illustre avvocato che da rappresentante di parte civile si e' schierato contro i boss mafiosi e i loro interessi. Perdiamo anche un fine ed onesto politico che ha fatto delle sue battaglie libertarie l'essenza e il senso stesso del suo impegno pubblico". Cosi' Rudy Maira, capogruppo Udc all'Assemblea regionale siciliana e vice presidente della commissione regionale Antimafia ricorda l'avvocato Pietro Milio, scomparso oggi a Palermo.
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Cyrus
20-10-10, 10:54
indice
pag 1 Mario Pannunzio
pag 2 Ernesto Rossi
pag 3 Adelaide Aglietta
pag 4 Leo Valiani
pag 5 Felice Cavallotti
pag 6 Ernesto Nathan
pag 8 Ernesto Rossi (2ap)
pag 9 Luigi Del Gatto
pag 9 Adele Faccio
pag 12 Antonio Russo
pag 14 Guido Calogero
pag 15 Leonardo Sciascia
pag 17 Guido Calogero (2ap)
pag 18 Franco Roccella
pag 19 Leopoldo Piccardi
pag 21 Nicolò Carandini
pag 22 Pietro Milio

Cyrus
20-10-10, 10:57
Note biografiche

Nato a Milano il 25 maggio 1933.

Laureato in Giurisprudenza presso l'Università di Roma nel 1957.

Professore Ordinario di Storia del Diritto italiano presso la facoltà di scienze politiche della Luiss Guido Carli.

Docente di Diritti dell'uomo presso la medesima Facoltà e di Storia delle codificazioni moderne presso la Facoltà di Giurisprudenza della Luiss.

Docente di Storia delle codificazioni moderne presso la Facoltà di Giurisprudenza della Luiss.

E' stato dal 1981 al 1986 Vicepreside, e dal 1986 al 1992 Preside della Facoltà di Scienze politiche della Luiss, nella quale ha altresì diretto la Scuola di specializzazione in giornalismo e Comunicazioni di massa.

E' stato Direttore dell'Istituto di studi storico-politici, nonché del Centro di ricerca e di studio sui diritti dell'uomo della Luiss e dell'Osservatorio sull'editoria del Ceradi.

E' stato componente del Consiglio direttivo della Scuola superiore del Ministero dell'Interno e di quello della Commissione nazionale italiana per l'Unesco.

Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana.

Ha Presieduto la Commissione per i Diritti Umani della Presidenza del Consiglio.

E' stato componente della Commissione "Razzismo, xenofobia, antisemitismo" del Consiglio d'Europa.

Morto a Roma il 6 settembre 1999.

Cyrus
20-10-10, 10:57
Paolo Ungari "Maestro Massone"

di Virgilio Gaito

Ex Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia



"Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale"

Queste le profonde riflessioni di Salvatore Satta ne "Il giorno del giudizio".

Ma per raccontare Paolo Ungari non basta uno solo perché il suo passaggio su questa terra ha lasciato un'orma indelebile per la molteplicità degli interessi che lo hanno appassionato fin da giovane. Dai suoi occhi attenti eppur sognanti traspariva quell'ardente fuoco interiore che doveva in età matura condurre ad abbracciare gli stessi ideali che avevano spinto il padre, Mario, a chiedere la luce massonica nella Rispettabile Loggia "Antica Ausonia" all'Oriente di Milano.

La vivida intelligenza, la memoria prodigiosa, la curiosità tipica dell’intellettuale di razza si sono rivelate ben presto in Paolo, brillante e pugnace studente, dapprima presso il Liceo Parini di Milano e poi nel prestigioso Collegio Ghisleri di Pavia. Dal conseguimento della Laurea in Giurisprudenza, con lode e dignità di stampa, presso l'Università di Roma. relatore il grandissimo giurista Tullio Ascarelli, il suo cammino nel campo del Diritto, da lui avvertito soprattutto come complesso di norma poste a presidio della dignità e della libertà dell’uomo, è stato costellato da una serie crescente di affermazioni e riconoscimenti.

Ma l’eclettismo della sua personalità doveva portarlo ad integrare la sfera delle conoscenze nel campo dapprima della storia. poi della sociologia, quindi della politica. La frequenza ai corsi di perfezionamento in storia. presso l'Istituto italiano di studi storici "Benedetto Croce" in Napoli, all'Istituto di sociologia storicista "Luigi Sturzo" in Roma ed alla "Ecole pratique des hautes études" della Sorbona di Parigi, gli aprirono le porte di Università prestigiose come quelle di Roma e di Padova, ove conseguì la libera docenza e poi lo straordinariato in Storia del diritto italiano per approdare, dopo le docenze in Storia del diritto e Storia del diritto moderno e contemporaneo in quegli stessi Atenei, alla cattedra di Storia costituzionale nella Scuola superiore di Pubblica amministrazione in Roma ed, infine. alla Libera Università internazionale di Studi sociali "Guido Carli", ove fu titolare della cattedra di Storia del diritto italiano e poi Preside nella Facoltà di Scienze politiche da lui voluta e difesa, e nell'ambito della quale fu promotore della costituzione del Centro Studi per i diritti umani.

Autore di fondamentali opere sulla storia della codificazione in Italia, sul diritto di famiglia, sul diritto parlamentare, sul diritto delle anonime, sull'ideologia giuridica del fascismo e di migliaia di saggi, pubblicazioni, articoli, collaborazioni a riviste scientifiche, culturali, politiche.

Non meno intensa la sua attività professionale. scientifica e politica: Procuratore legale, poi referendario alla Camera dei Deputati e, per concorso, Consigliere parlamentare con le funzioni del Servizio studi legislativi ed inchieste parlamentari, Capo di Gabinetto del Vice Presidente del Consiglio nel governo Moro-La Malfa, Presidente della Commissione per la difesa dei diritti dell'uomo, Segretario scientifico del Comitato nazionale per le scienze giuridiche e politiche del Consiglio Nazionale delle Ricerche e poi membro consultivo dello stesso Consiglio per le ricerche storiche, Presidente del Consiglio scientifico della Fondazione Europea Dragan, componente la Commissione nazionale per l'editoria e di quella per il parastato, è appartenuto successivamente al Partito Liberale Italiano, al Partito Radicale nella fase pannunziana e, dal 1960, al Partito Repubblicano ricoprendovi cariche nazionali, è stato membro del direttivo italiano del Movimento Europeo, vicepresidente italiano del Comitato atlantico, membro dell'esecutivo internazionale dell'Atlantic Treaty Association.

Altri narratori - e con specifica dottrina e competenza - hanno illustrato e racconteranno le infinite sfaccettature della straordinaria personalità di Paolo Ungari che si è già conquistato in vita un posto nella storia di quella umanità che egli tanto amava e che dovrà considerarlo uno dei più intrepidi moderni paladini della propria libertà e dignità.

A me, che ho avuto il privilegio di percorrere accanto a lui quasi un quarto di secolo di cammino iniziatico, il compito di ricordare con umiltà il suo spirito di vero massone.

Egli fu indirizzato nel 1977 nella R \L\ Pisacane di Ponza Hod n. 160 all'Or\di Roma, della quale ero Maestro Venerabile, dal carissimo Fr\Massimo Maggiore di Palermo, Gran Maestro Aggiunto del Grande Oriente d'Italia, il quale mi parlò del desiderio di Paolo di voler seguire le orme del genitore Mario, chiedendo l'Iniziazione in una Loggia del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani, gloriosa Istituzione che sentiva per cultura, tradizione, storia, così vicina al suo modo d'essere ed ai suoi ideali tesi a difendere la sempre più limitata libertà dell'individuo.

Una larga fama di giurista, d'uomo di cultura, di politico, lo precedeva e chi non lo conoscesse di persona avrebbe immaginato di incontrare un individuo pieno di sussiego, d'orgoglio. Non così si presenta Paolo, illuminato dal suo disarmante sorriso che incornicia uno sguardo dolce e attento ad un tempo, rivelatore di uno spirito superiore quanto arguto, ma desideroso di quella "recherche de soi méme" verso la quale l'esempio paterno lo sospingeva.

Unanime il parere della Loggia sulle sue qualità di iniziando, il 16 maggio 1978, il Maestro Venerabile Fr\ Camillo Santoro, a me succeduto, lo creava Apprendista libero muratore presso la nostra Loggia. Quasi all'alba dei suo 45° genetliaco, Paolo muore, secondo i nostri rituali, alla vita profana per rinascere nella Luce massonica. Ammirato ricordo serbano, ancor oggi, i numerosi partecipanti alla tornata delle risposte date da Paolo alle domande contenute nel testamento sottoscritto prima di essere iniziato.

A se stesso impone essere conseguente, non avvilirsi mai, non avvilire alcuno. Alla Patria, che già sente duplice, quella italiana, sopraffatta dagli egoismi, quella europea o euro-atlantica, in quel tempo disegnatesi a fatica, ma da lui ardentemente vagheggiata come convinto cittadino europeo e del mondo, dedica l'impegno alla conoscenza ed alla tutela delle condizioni della sicurezza interna ed internazionale della Repubblica. Verso l'umanità, oggetto del suo spirito universalistico, egli intende spingere il proprio pensiero fin dove sa e può, riconoscendo l’umanità nella irripetibilità dei volti e dei sentimenti d'uomini e donne singoli, servendola sul terreno dei principi.

Un uomo così sensibile ai valori universali e intramontabili dell'uguaglianza nella diversità, della fratellanza nella molteplicità di storie. tradizioni, civiltà, ma soprattutto della libertà nel rispetto dei doveri prima che nel l'affermazione dei diritti, si rivela subito Lui ottimo massone e nel marzo 1980 è elevato al grado di Compagno d'Arte per poi conseguire nel giugno 1981 quella di Maestro. Ancora una volta, il Maestro Venerabile che officia la toccante cerimonia è il Fr\ Camillo Santoro, e Paolo ne rimane profondamente toccato tanto da sentir nascere in lui una sorta di nuova identità, quella di Maestro Massone con la quale, nello stupendo testamento redatto il 22 luglio 1993 ed oggi pubblicato, chiede di essere ricordato sulla semplice lapide, ornata solo del simbolo della perfezione massonica, che da qui all’eternità indicherà dove riposano le ceneri di un uomo vero.

Nonostante i molteplici assillanti impegni della vita profana, Paolo, coerente col proprio profondo senso del dovere, ogni qualvolta lo abbia potuto, ha rispettato quello della frequenza ai lavori di Loggia ai quali giunge non di rado trafelato ed esausto, ma sempre in tempo per deliziare i Fratelli con dotte disquisizioni esoteriche o con la narrazione delle infinite iniziative da lui proposte o attuate a difesa dei diritti umani.

Eletto Maestro Venerabile per l'anno massonico 1987, nella solenne seduta d'insediamento, alla presenza di numerosi Fratelli convenuti da ogni parte d'Italia, rivela ancora una volta le sue doti di storico proponendo, come programma dell'anno, la ricostruzione delle vicende che originarono la nostra Loggia nell'ambito della Massoneria italiana e l'approfondimento dei principi iniziatici, confessando di non avvertire discontinuità tra la sua vita profana e quella massonica, ma invece, l'esistenza, dietro tutti noi, dei grandi eroi del pensiero che ci incoraggiano ad un lavoro teso alla cultura della ragione e della libertà.

Quella libertà, cardine della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, firmata a Parigi nel 1931 da molti esiliati, come ha modo di ricordare nella seduta del 17 febbraio 1987 quando la Loggia ospita il Fratello cileno Benjamin Tepliskj, già Ministro nel governo del Fr. Salvatore Allende ed ora costretto all'esilio in Italia da una dittatura esecranda che imperversa al pari del totalitarismo in Romania e nei Paesi dell'Est, come drammaticamente descrive durante la tornata del 3 marzo al ritorno dalla sua visita in quelle nazioni, quale Presidente della Commissione governativa per i Diritti dell'uomo, che gli varrà il veto d'ingresso come persona "non gradita" fino alla restaurazione della democrazia.

Il suo "venerabilato" si caratterizza dunque con l’approfondimento della storia della nostra Loggia fondata nel 1931, in barba alla polizia fascista, dal Gran Maestro Fr\ Domizio Torrigiani mentre era al confino nell'isola di Ponza, nell'Iniziazione di alcuni profani e l'elevazione di vari Fratelli ai gradi superiori, nell'approfondimento di temi esoterici e nella coniazione di una medaglia distintiva della Loggia che ne ricorderà le origini clandestine ed il sacrificio di due suoi appartenenti, trucidati alle Fosse Ardeatine.

Ma costante, quasi martellante, è il richiamo di Paolo al culto della libertà, inscindibile dalla tolleranza, dalla giustizia, dal rispetto della dignità dell'uomo e dei popoli di cui solo un vero massone può essere credibile sacerdote, atteso che, egli dice dando il saluto ad un neo Maestro:"La Fratellanza si sublima attraverso la magia del momento iniziatico i cui frutti perdurano e ci legano anche oltre la vita fisica in una ininterrotta catena di unione perché la costruzione del Tempio interiore ha lo scopo di condurci lungo la via lunga, tortuosa e irta di ostacoli, che porta alle soglie del mistero stesso dell'esistenza. Il Tempio dunque è un luogo di aggregazione dove tutte le forze si sommano e, penetrando nel nostro Io interiore, si amalgamano quale cemento ideale che ci unisce e ci fa sentire e ci rende migliori.

E perciò i Massoni sono cittadini del mondo, degni propagatori degli Ideali di Libertà e di Fratellanza universali".

Questo il messaggio che ha ispirato e diffuso costantemente Paolo Ungari anche nella vita profana, dove il perfezionamento interiore raggiunto in Loggia si è estrinsecato in una condotta di estremo rigore morale e di instancabile impegno civile universalmente apprezzati specie dai giovani che lo hanno eletto punto di riferimento insostituibile.

Una grandezza d'animo non comune, unita a quella missione in difesa dei deboli, dei diseredati, dei perseguitati, dei torturati, dei discriminati, portata avanti senza badare a sacrifici ed a pericoli in tante parti del mondo, fino a pochi minuti prima che un destino crudele ne stronchi così barbaramente un'esistenza ancora pregna di fermenti e di iniziative memorabili, lo induce a declinare l'offerta di candidarsi alla Gran Maestranza della Massoneria italiana in quel tempo particolarmente perseguitata: la Presidenza della Commissione governativa per i Diritti dell'uomo - egli dice - gli consentirebbe meglio di difendere il diritto alla libertà di associazione per tutti.

Quello stesso uomo, grande Iniziato, che ha scritto nel testamento:

"Vorrei un avviso di decesso a quanti ho conosciuto che dica di me che, unito a mio Padre Mario nella stessa fede, mi sono riunito, a lui nell'Oriente Eterno. Per il resto, funerale dei poveri a spese del Comune, nessun sacerdote di nessuna religione. Solo ceneri in un’urna ... perché sia collocata nel cimitero degli inglesi con il nome e, sotto, scritto "Maestro Massone" e un simbolo della Massoneria scelto da Lazzaro Lazzarini che si consulterà con Massimo Maggiore".

Inoltre ha anche disposto con esemplare umiltà:

"Non voglio ricordi in pietra. neanche nei minimi termini. Lo lascio qui, in carta con quei versi del Poeta:

... Mi frutti almeno di meritare un sasso

Dove sia scritto: non mutò bandiera

Sono stato sempre e con tutti leale

Fino in fondo, e questo almeno posso dirlo".



Un uomo giusto, schivo delle pompe terrene, è adesso e per sempre nella Luce dell'Oriente Eterno insieme al padre Mario, all'amatissimo amico e Fratello massone Lazzaro Lazzarini, partito qualche mese prima per accoglierlo, a Camillo Santoro, il Maestro Venerabile che lo iniziò e lo ha raggiunto pochi giorni dopo al pari di Massimo Maggiore ed a tutti gli scomparsi Fratelli di Loggia e del mondo che ora conoscono, come lui, la verità.

Siamone degni, continuiamone con pari fede ed abnegazione la crociata contro l'intolleranza. l'oppressione, la violenza, la discriminazione, l'odio, perché trionfino la fratellanza, l'uguaglianza, la giustizia e la libertà, in un mondo finalmente pacificato dall'amore.

Alla Gloria del Grande Architetto dell'Universo.

Cyrus
20-10-10, 10:58
In memoria di Paolo Ungari

Un grande guerriero del libero pensiero e dei diritti umani non é più con noi



Paolo Ungari con Francesco Venerando ai Colloqui Interculturali Mediterranei organizzati dall'Associazione internazionale COMEN a Palermo (Castello Utveggio e Palazzo d'Orléans, Novembre '98) e promossi dalla Presidenza della Regione Siciliana, a cui ha collaborato il Centro Studi e Ricerche sui Diritti dell'Uomo della Libera Università Luiss Guido Carli, di cui Ungari è stato Direttore

Paolo Ungari è stato un combattente sempre in viaggio con la sua grande borsa piena di libri da donare, sempre assorto nei suoi pensieri sui tanti destini umani, sempre pronto ad intervenire ovunque ci fosse una verità da scoprire, una battaglia da combattere per l’uomo.

Un esempio su cui riflettere di un tempo come il nostro, dove il motto "tengo famiglia" copre pietosamente un debole amore per la vita, l'incapacità di combattere per la verità, la giustizia, il bene comune, sull’altare di piccoli calcoli, piccole carriere, piccoli opportunismi.

Coerente durante la vita, coerente dopo la morte, con la scelta di una cerimonia laica: la cremazione e la tumulazione al cimitero acattolico nei pressi della Piramide di Roma. Coerente con la sua esperienza massonica, con tanto di epitaffio sulla tomba ricordante il suo essere stato in vita un Maestro Massonico.

E ricordo la prima volta che lo incontrai al Cafe Notegen, nei primi anni novanta, ad un dibattito sulla Massoneria (uno dei primi dibattiti pubblici sul tema) dove Paolo Ungari intervenne in veste di relatore in difesa della Massoneria. Ebbi modo di ascoltarlo in un’altra occasione ad un dibattito su questioni internazionali nel 1995 e di restare sorpreso della grande linearità del suo discorso, della grande onestà intellettuale che traspariva dal suo ragionare. Diventammo amici, ed ebbi il privilegio di passare molte ore insieme durante le quali mi sono arricchito di cultura, di conoscenze sulle ricchezze e le povertà degli uomini del nostro tempo da lui ben conosciuti. Era un uomo colto, allegro, combattivo, nonostante che una mole di impegni di lavoro ai limiti delle possibilità umane mettesse di frequente il suo fisico alle corde. Ma lui era sempre in viaggio.

Nonostante fosse un grande pensatore, un grande combattente, era ben conscio dei vincoli della vita quotidiana, dei suoi bisogni e quando doveva consigliare o aiutare qualcuno emergeva il suo grande senso pratico e la consapevolezza delle necessità della vita di ogni giorno.

L’ultima e più importante impresa fatta insieme sono stati i Colloqui Interculturali Mediterranei organizzati dall'Associazione Internazionale COMEN-Conferenza Mediterranea e promossi dalla Presidenza della Regione Sicilia, a cui ha collaborato il Centro Studi sui Diritti Umani della Libera Università LUISS Guido Carli, di cui era Direttore.

Oggi che Paolo Ungari non c’è più, ci resta il suo ricordo ed il suo esempio di integrità, di virtù, di coerenza tra idee professate e comportamenti praticati. Questo è il suo principale insegnamento, che potrà servire a quanti ambiscono ad occuparsi dei problemi sociali e politici del nostro tempo.

VincenzoValenzi, Roma 28 Settembre '99

Cyrus
20-10-10, 10:58
Ricordo di Paolo Ungari



La multiforme attività del Professor Paolo Ungari è ben nota anche ad un pubblico estraneo agli ambienti accademici.

Il giurista, il costituzionalista, il politico e l’editorialista hanno lasciato un segno profondo nella storia civile del nostro Paese, e gli hanno procurato una fama anche internazionale assolutamente meritata.

Paolo Ungari fu rigoroso nei suoi studi, fu maestro scrupoloso e attento per i suoi tantissimi allievi.

In ambito politico dobbia*mo a lui non solo convinte campagne in favore dei diritti civili, ma anche un contributo legislativo che meriterebbe uno studio specifico.

La sua pubblicistica poi, con il suo stile al tempo stesso appassionato e garbato, ha posto alla riflessione dell’opinione pubblica temi assai importanti, come il rispetto delle garanzie costituzionali o la tradizione culturale e civile liberal-democratica, su cui troppo spesso il dibattito politico culturale in Italia colpevolmente sorvola.

C'é però un'attività di Paolo Ungari che sembra sconosciuta ai più, compresi coloro che gli furono vicini nel lavoro e nell'impegno civile, ed è la concreta azione in favore dei perseguitati per motivi di coscienza.

Si tratta di iniziative condotte con grandissima riservatezza, sfruttando canali ufficiali ma spesso anche collegamenti per cosi dire coperti, frutto di legami costruiti con pazienza in tantissimi anni di attività interna e internazionale.

Un lavoro cominciato molti anni prima che assumesse 1'incarico di Presidente della commissione sui Diritti Umani della Presidenza del consiglio dei ministri, conferitagli dal Governo presieduto da Bettino Craxi.

In questo c'è la grande coerenza di un uomo, cresciuto alla scuola liberal-democratica, che interpretava alla lettera in binomio mazzi*niano "pensiero e azione" traducendolo in atti concreti in favore di chi vedeva ristretto in carcere, o costretto all'esilio, o con condanne a morte pendenti sulla testa.

È una strada che Ungari comincia a percorrere fin dagli anni della sua militanza nell’Unione Goliardica Italiana, quando si adoperò in favore di dissidenti dell’Europa dell’est, facendosi protagonista di campagne pubbliche, ma cominciando anche a studiare le istituzioni inter*nazionali preposte alla tutela dei diritti umani, che allora muovevano i primi passi.

Negli anni '70 si interessò anche all'America meridionale e in particolare si impegnò in favore degli esuli cileni in seguito al colpo di stato dal generale Pinochet, costruendo un rapporto di stretta collaborazione con il compianto Beniamin Trenlínskv. giovane collaboratore di Salvador Allende, che trovò asilo proprio in Italia e poté svolgere la sua attività di studioso anche alla Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, per poi tornare in patria ed essere chiamato a far parte degli ultimi governi democratici di quel paese andino.

L'amicizia con Paolo Ungari proseguì anche a distanza, e si tradusse in una serie di attività in favore dei perseguitati politici in America Latina proseguite fino a questi ultimi anni.

Chi scrive ha avuto la fortuna di incontrare Ungari agli inizi degli anni '80 quando, rispondendo con entusiasmo all'appello di un gruppo di giovani di aria liberal-democratica e socialista riformista, dette un grande contributo al successo dei circolo culturale "Il Voltaire", che animò a Roma il dibattito sui temi dei progresso civile in Italia e del suo ruolo nel consesso di quelli che allora si chiamavano i paesi liberi.



Il gruppo fu da lui coinvolto anche nel "Comitato di Solidarietà con il Popolo Afgano", nato in seguito a un grande convegno promosso dalla rivista Mondo Operaio e che trovò una sede nell'allora Convento occupato in via del Colosseo grazie a11'ospitalità del dottor Vincenzo Calò.



In quell'ambito nacquero una serie di iniziative umanitarie, le più efficaci delle quali furono poste in essere soprattutto grazie a Paolo Ungari e a Carlo Ripa di Meana, prima a dopo la sua nomina a Commissario Europeo.



Ma l'attenzione del Nostro non si limitava solo a quel paese vittima dell'invasione sovietica.



Capitò che alcuni dissidenti iraniani, soprattutto membri dell'organizzazione chiamata Consiglio nazionale delta Resistenza Iraniana, spesso colpiti da condanne a morte, cercassero asilo in Italia e si trovassero di fronte ad autorità pubbliche scarsamente sensibili.



In molti casi Ungari riuscì a salvare letteralmente la vita a questi esuli, rivolgendosi con estrema discrezione, ma con altrettanta fermezza al Governo, alle competenti agenzie delle Nazioni Unite, alle Ambasciate dei paesi amici.



Grazie a questo lavoro divenne amico di Mohammedan Hossein Naghdi, già diplomatico e rappresentante in Italia del Consiglio, barbaramente trucidato a Roma nel 1993 probabilmente dai servizi segreti iraniani.



Contemporaneamente analoghi interventi furono necessari a proposito di alcuni esuli eritrei, in una situazione assai più intricate dal punto di vista giuridico, essendo l'Eritrea formalmente una provincia dell'Etiopia.



In questi casi fu preziosa la collaborazione dell'allora sottosegretario agli Affari Interni Raffaele Costa, che si dimostrò sempre estremamente sensibile, e che, cosa rara per un uomo politico, non usò mai questi interventi umanitari per acquisire benemerenze presso l'opinione pubblica ma mantenne sempre quella discrezione necessaria a mantenere attivi i canali per gli interventi futuri.



Le iniziative di Paolo Ungari in favore di singoli casi di perseguitati, ma anche contro le dittature i totalitarismi di tutti i tipi, proseguirono con efficacia rafforzata nel momento in cui assunse la presidenza della Commissione per i Diritti Umani presso la Presidenza del Consiglio, che lui interpretò in maniera operativa, facendone centro di dibattito giuridico, civile e culturale, ma anche lavorando per salvare il maggior numero di esseri umani dalle grinfie degli aguzzini.



Una ricerca in merito è assai difficile, per il carattere necessariamente riservato di tali interventi, ma anche per la modestia dell'uomo, che da laico osservava il precetto evangelico in materia di carità “La mano destra non sappia quello che fa la sinistra”.



Talché tra le sue innumerevoli carte è arduo trovare tracce delle molte sue "covered actions" in favore di perseguitati politici.



Una ricerca in merito sarebbe però assai importante, in primo luogo per rendere pienamente merito all'uomo, ma anche, a forse soprattutto, per riscrivere un capitolo delle relazioni internazionali dell'Italia di cui Paolo Ungari, e insieme a lui molti personaggi più o meno noti, scrissero pagine fondamentali.



Testimoni per fortuna ne esistono, e possono essere trovati tra i responsabili di molti organismi e associazioni come Amnesty International, il Comitato Helsinky, Nessuno tocchi Caino, la Commissione per i rifugiati delle Nazioni Unite, le Ambasciate di Stati Uniti, Canada, Georgia, Moldavia, Colombia e altre, e poi i gruppi politici e i rappresentanti della Resistenza Afgana, Iraniana, Eritrea, del Cile, di Cuba a di altri paesi oppressi ancora.



Perché per Paolo Ungari era valida la massima di Thomas Pains che dice: “Dove non è la libertà, là è la mia Patria”.



Giorgio Ferrari

Cyrus
20-10-10, 10:59
Ricordo di Paolo Ungari PDF Stampa E-mail

Ricordo di Paolo Ungari

di CIRO SBAILO'




Con Paolo Ungari non abbiamo perso solo un giurista di grande valore, un esperto combattente per i diritti dell'uomo, una risorsa culturale e scientifica pressoché inesauribile per la nostra vita politica e istituzionale. Con Ungari la cultura italiana ha perso anche un talento intellettuale rigoroso e anticonformista, una mente "filosofica" nel senso più ampio del termine: il suo contributo si stava, infatti, rivelando ogni giorno più prezioso, in un'era in cui i vecchi strumenti giuridici e politici dell'Europa si stanno ossidando ed è necessario individuare nuove vie e i nuovi strumenti giuridici per tutelare i diritti dell'uomo. Amava spesso ricordare come la sua originaria passione fosse la filosofia, e avesse scelto giurisprudenza per venire incontro al desiderio paterno, secondo il quale avrebbe dovuto intraprendere studi economici.
Negli ultimi tempi s'era andata rianimando la sua passione, del resto mai sopita, per la riflessione filosofica. Ma non era uomo di riflessioni solitarie. La produzione scientifica e pubblicistica è sterminata: ha dato contributi fondamentali nel campo del diritto di famiglia, della storia delle codificazioni e della teoria dei diritti umani. In maniera strettamente intrecciata alla sua attività scientifica e accademica, si svolgeva un'intensa attività politica, nel senso più ampio del termine. Aveva ricoperto vari incarichi istituzionali e presiedeva la Commissione per i Diritti dell'uomo presso la Presidenza del Consiglio. D'altra parte, questa ricca e feconda attività di ricerca e di militanza, era disseminata di potenti intuizioni teoriche, mai raccolte in maniera sistematica, ma sulle quali il professore andava da qualche tempo riflettendo, in relazione a quello che sta accadendo nel mondo dopo la caduta del comunismo.
Recentemente, in più d'una occasione pubblica,ha messo in luce come la cultura politica italiana, e forse europea, sia molto in ritardo rispetto alle sfide delle globalizzazione. Ecco come spiegò la questione ad un gruppo di studenti: << Hegel dice: non esiste un tribunale della storia del mondo perché il tribunale della storia del mondo è la stessa storia del mondo; analogo giudizio fu poi espresso dal Croce che, quando si trovò di fronte alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, si lasciò andare a dire: ma questa è astrattezza illuministica. Ebbene, questo è ancora il modo in cui non trattiamo i diritti dell'uomo. Siamo a metà tra secolarizzazione e paradosso della speranza cristiana. Ma se avessimo ragionato in questo modo negli ultimi cinquant'anni - e cioè se ci fossimo "realisticamente" affidati alla forza pura dello stato nazione - oggi non avremmo le concezioni internazionali e i patti interregionali sui diritti dell'uomo, né il Tribunale europeo dei diritti dell'uomo>>. Insomma, Ungari combatteva lo scetticismo, presuntamene "realistico", con cui la cultura politica - in specie dell'Europa continentale - considera spesso la questione dei diritti dell'uomo. Negli ultimi tempi abbiamo ragionato molte volte di come la cosiddetta realpolitik si configuri oggi come la più (tragicamente) utopistica delle politiche perché ancora vincolata alla vecchia idea dello stato-nazione, a canoni geo-politici e strumenti giuridici che nel mondo della globalizzazione vanno scomparendo. E del resto, a che cosa ha portato la realpolitik continentale nei confronti della Serbia negli anni Novanta? E come capire quello che sta accadendo nel Timor Est senza ricordare che solo dal 1993 - e cioè da quando la tragedia di quel paese, cominciata nel 1975, ha iniziato a viaggiare su Internet - i paesi occidentali hanno assunto un atteggiamento più o meno intransigente nei confronti dell'Indonesia?
Paolo Ungari era sicuramente l'uomo adatto per capire quello che sta accadendo nel mondo e per lavorare algi strumenti giuridici e politici da escogitare. Si dice di lui che fosse "un'enciclopedia vivente". Certamente lo era, ma non solo nel senso consueto, nozionistico. In ciò era di straordinaria modernità. Pur non capendo nulla di Internet, ragionava come un "motore di ricerca", stabiliva collegamenti impensati, scovava particolari ignorati o dimenticati: pensava, insomma, in chiave "planetaria". Ci manca e ci mancherà, Paolo Ungari. Chi, come noi, ha avuto la fortuna di essergli amico e di lavorare con lui, ricorda oggi la delicata confusione che ne avvolgeva la figura e la gestualità; ricorda quella piccola lieve nube, dalla quale piovevano con generosità idee, notizie, intuizioni, suggerimenti sui temi più disparati. Per il popolo dei distratti e dei timidi era una consolazione sapere che c'era lui, esempio vivente di una genialità generosa e operosa, mai supponente, sempre affabile e aperta al mondo.





Pubblicato su
Quaderni dell'Istituto di
Studi Storico-Politici n.6