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Unghern Kahn
29-08-09, 01:00
L'Eurasia è sempre stata il perno geopolitico del mondo



di Robert D. Kaplan18 Agosto 2009



Se si vogliono comprendere le intuizioni della geografia, bisogna considerare quei pensatori che più irritavano gli umanisti e i liberali, ossia gli autori secondo cui la cartina geografica determina praticamente tutto, lasciando ben poco alle possibilità di scelta degli uomini.

Uno di questi è lo storico francese Fernand Braudel, che nel 1949 ha pubblicato “Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo nell’età di Filippo II”. Introducendo la demografia e la natura nel processo storico, Braudel diede un importante contributo nel riportare la geografia al posto che gli compete. Nel suo racconto degli eventi, le forze perenni dell’ambiente determinano tendenze storiche durature che annunciano i futuri eventi politici e le guerre regionali a venire. Per Braudel, ad esempio, fu la povertà delle terre mediterranee, unita a un clima incerto e spesso secco, a spingere i greci e i romani a fare le loro conquiste. In altre parole, ci illuderemmo qualora pensassimo di controllare il nostro destino. Per comprendere le attuali sfide del cambio climatico, del riscaldamento globale e della scarsità di risorse quali l’acqua e il petrolio, dobbiamo richiamarci all’interpretazione ambientale degli eventi sviluppata da Braudel.

E così, sarà bene riprendere in considerazione la strategia navale di Alfred Thayer Mahan, ufficiale della marina statunitense, autore di “The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783”. Guardando al mare come al grande fattore in comune a tutte le civiltà, Mahan riteneva che la potenza navale fosse stata sempre il fattore decisivo in ogni contesa internazionale. E’ stato Mahan che, nel 1902, coniò il termine “Medio Oriente” per indicare quell’area compresa tra l’Arabia e l’India, che tanta importanza aveva nella strategia navale dell’epoca. In effetti, Mahan vedeva gli oceani Pacifico e Indiano come i cardini della geopolitica mondiale, perché attraverso quelle due enormi distese d’acqua una potenza marittima avrebbe potuto proiettare la propria influenza attorno al perimetro dell’intera Eurasia, e quindi anche all’interno dei due continenti. Il pensiero di Mahan aiuta a capire perché l’Oceano Indiano sia diventato il cuore del confronto geopolitico del XXI Secolo, e perché le sue opere siano richiestissime tra gli strateghi indiani e cinesi.

Analogamente, lo stratega americano-olandese Nicholas Spykman vedeva quei due oceani come la chiave per il dominio dell’Eurasia, e come il mezzo naturale per controllare la potenza terrestre della Russia. Prima della sua morte, nel 1943, Spykman previde – in un momento in cui gli Stati Uniti erano in guerra col Giappone – l’ascesa della Cina, e la necessità per gli americani di difendere in un non lontano futuro quello che, allora, era il loro nemico; così come previde, a dispetto dell’impegno Usa in Europa, che l’emersione postbellica di una potenza costituita dall’unione di stati europei avrebbe costituito un intralcio per gli Stati Uniti. Tale è la lungimiranza del determinismo geografico.

Forse la guida più significativa alla rivincita della geografia è lo stesso padre della moderna geopolitica, Sir Halford J. Mackinder, il quale è famoso non in quanto autore di un libro, bensì di un singolo articolo, “The Geographical Pivot of History” (“Il perno geografico della storia”), che ebbe origine da una lezione tenuta nel 1904 presso la Royal Geographical Society di Londra. L’opera di Mackinder è l’archetipo della disciplina geografica, che egli sintetizza così: “Chi inizia è l’uomo, non la natura; ma chi mantiene il controllo è, soprattutto, la natura”.

La sua tesi è che Russia, Europa orientale e Asia centrale sono i “perni” attorno ai quali ruota il destino del mondo. Mackinder, in un altro libro, si riferisce a questa parte di Eurasia come alla “heartland”, ossia al centro della terra, naturalmente da un punto di vista geopolitico. Attorno a essa vi sono quattro regioni “marginali” che corrispondono, e non è un caso, alle aree di diffusione di quattro grandi religioni; perché, per Mackinder, anche la fede è una questione di geografia. Ci sono due “terre dei monsoni”: una all’est, affacciata sul Pacifico, dove è nato il buddismo; un’altra a sud, affacciata sull’Oceano Indiano, patria dell’induismo. La terza regione marginale è l’Europa, bagnata dall’Atlantico e dimora della cristianità. La più fragile di queste quattro regioni è il Medio Oriente, casa dell’Islam, “privo di umidità a causa della vicinanza dell’Africa” e per la gran parte “scarsamente popolato” (così era, nel 1904).

Questa mappa orografica dell’Eurasia, e gli eventi che vi si svolsero all’alba del XX Secolo, costituiscono l’oggetto dello studio di Mackinder, la cui frase di apertura annuncia la sua grande intuizione: “Quando gli storici di un lontano futuro guarderanno ai secoli attraverso cui stiamo passando, vedendoli rimpiccioliti, esattamente come noi vediamo oggi l’antica civiltà egizia, potrà anche accadere che descrivano gli ultimi 400 anni come l’epoca colombiana, e potrebbero dire che ebbe termine subito dopo il 1900”.

Mackinder spiega che, mentre la cristianità medievale era “confinata in una regione ristretta, minacciata dai barbari che ne erano fuori”, l’era colombiana – l’Età della Scoperta – vide l’Europa espandersi oltre gli oceani, attraverso nuove terre. Così, alla fine del XX Secolo, “avremo ancora a che fare con un sistema politico chiuso”, ma questa volta “di scala planetaria”.

“Ogni esplosione di forze sociali, invece di potersi sfogare in uno spazio esterno barbaro e caotico – è sempre Mackinder che scrive – andrà [forzatamente] a riverberarsi in ogni angolo del mondo, e tutte le fragilità politiche ed economiche del sistema ne saranno scosse in conseguenza”.

Avendo compreso che gli imperi europei non avevano più nuovi spazi in cui espandersi, e che i loro contrasti avrebbero assunto una dimensione globale, Mackinder previde, sia pure vagamente, le dimensioni di entrambe le guerre mondiali.

Mackinder guardava alla storia d’Europa come “dipendente” da quella asiatica, in quanto vedeva lo sviluppo della civiltà europea in funzione delle lotte in difesa delle invasioni asiatiche. Se l’Europa, scrive Mackinder, divenne il fulcro della cultura fu solo grazie alla sua geografia: un’intricata rete di montagne, vallate e penisole, delimitata a nord dai ghiacci e a ovest dall’oceano, chiusa dal mare e dal Sahara a sud e posta di fronte alle immense, minacciose pianure russe a est. In queste terre ben circoscritte si riversarono le invasioni delle tribù nomadi provenienti dalle desolate steppe asiatiche. L’unione stretta da franchi, goti e popoli cresciuti sotto l’ala dell’Impero romano per difendersi da questa minaccia gettò le basi della Francia moderna. In modo analogo altre potenze europee nacquero, o perlomeno maturarono, con gli scontri che ebbero con i nomadi dell’Asia. In effetti, fu il presunto cattivo trattamento che i turchi avrebbero riservato ai cristiani in pellegrinaggio a Gerusalemme a provocare le Crociate, che Mackinder considera essere l’inizio della moderna storia collettiva dell’Europa moderna.

Nel frattempo la Russia, sebbene protetta da fitte foreste contro molti vicini aggressivi, nel XIII Secolo era preda dell’Orda mongola. Questi invasori decimarono la popolazione, e la cambiarono profondamente. La maggior parte dell’Europa non conobbe un tale livello di devastazione, ed emerse quindi come il centro politico del mondo, mentre alla Russia fu a lungo negato un posto nel Rinascimento europeo. Ultimo impero terrestre, quasi privo di barriere naturali contro un’invasione, la Russia avrebbe conservato la memoria di ciò che significa essere conquistati da un nemico spietato. Di qui, la sua ossessione di espandersi e mantenere il controllo delle zone ai suoi confini.

Le scoperte fondamentali di questa cosiddetta era colombiana – scrive Mackinder – non fanno altro che confermare i concetti base della geografia. Nel Medio Evo, i popoli europei erano, per la maggior parte, confinati alla terra. Ma quando si scoprì la rotta per l’India, attorno al Capo di Buona Speranza, gli europei ebbero d’improvviso accesso all’intera costa dell’Asia meridionale, per tacere delle scoperte strategiche legate al Nuovo Mondo. Mentre gli europei occidentali “coprivano gli oceani con le loro flotte”, la Russia andava espandendosi in modo altrettanto impressionante sulla terraferma, “emergendo attraverso le foreste del nord” per controllare la steppa con i suoi cosacchi, investendo la Siberia, e mandando i suoi contadini a fare della steppa sudoccidentale una distesa di grano. Era la vecchia storia: Europa contro Russia, una potenza marittima e liberale (come Atene o Venezia) contro una potenza terrestre reazionaria (come Sparta o la Prussia). Perché è lo stesso mare che, oltre a portare il cosmopolitismo derivato dai contatti con gli approdi di tutto il mondo, fornisce l’inviolabilità dei confini di cui la democrazia ha bisogno per mettere radici.

Nel XIX Secolo – osserva Mackinder – l’avvento del motore a vapore e l’apertura del canale di Suez moltiplicarono le possibilità della potenza marittima europea verso il l’orlo meridionale dell’Eurasia, proprio come le ferrovie cominciavano a fungere da strumento di potere per le potenze terrestri nel cuore dell’Europa. Era dunque pronto lo scenario per la supremazia dell’Eurasia, che porta Mackinder ad affermare: “Mentre consideriamo questa rapida rassegna delle correnti della storia, non risalta forse una certa persistenza delle relazioni geografiche? Non è forse il fulcro della politica mondiale quella vasta regione euroasiatica inaccessibile alle navi, ma che nell’antichità era aperta alle scorribande dei nomadi a cavallo e adesso sta per essere coperta da una rete di strade ferrate?”.

Proprio come i mongoli un tempo bussavano, talvolta sfondandole, alle porte delle frontiere dell’Eurasia, così in quel momento, cioè nel 1904, la Russia avrebbe giocato lo stesso ruolo da conquistatore, perché – scrive Mackinder – “le grandezze geografiche sono ben più misurabili e assai più costanti delle variabili umane”. Si lascino da parte gli zar e i commissari di là da venire; sono argomenti banali in confronto alle immense forze fisiche della geografia.

Il determinismo di Mackinder ci prepara all’ascesa dell’Unione sovietica e alla sua vasta zona di influenza nella seconda metà del XX Secolo, così come alle due guerre che l’hanno preceduta. Dopo tutto, come ha osservato lo storico Paul Kennedy, si è trattato di conflitti attorno alle regioni “marginali” di Mackinder, che vanno dall’Europa orientale all’Himalaya e oltre. La strategia di contenimento adottata durante la guerra fredda, peraltro, dipendeva fortemente da basi collocate ai bordi di quella zona, localizzate nel Medio Oriente e nell’Oceano Indiano. In effetti, l’intervento americano in Afghanistan e in Iraq, e le tensioni attuali con la Russia in merito ai destini dell’Asia centrale e del Caucaso, sono fattori che rinforzano le tesi di Mackinder. Nell’ultimo paragrafo del suo articolo, Mackinder arriva a sollevare lo spettro di una conquista cinese del “fulcro” mondiale, ciò che la porterebbe ad essere la potenza geopolitica dominante. Si guardi alla conquista demografica di parte della Siberia da parte dei cinesi, in un periodo in cui il controllo della Russia sulle sue terre esterne sta vacillando. Un altro punto, si può ben dire, su cui Mackinder ha visto giusto.

La sensatezza del determinismo geografico resiste attraverso l’abisso di un secolo perché riconosce che la più autentica lotta dell’umanità non è per le idee, bensì per ottenere il controllo del territorio, e specialmente il centro e i confini dell’Eurasia. Naturalmente contano anche le idee, che si estendono sulla geografia. Eppure esiste un’intrinseca logica geografica, alla quale sono agganciate certe ideologie. L’Europa orientale comunista, la Mongolia, la Cina, la Corea del Nord sono state tutte vicine alla potenza terrestre dell’Unione sovietica. Il fascismo classico è stato un fenomeno prevalentemente europeo. Il liberalismo ha sviluppato le sue radici più profonde negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, che sono entrambe, essenzialmente, stati insulari e potenze marittime. Un tale determinismo è facile da detestare, ma difficile da negare.

Per capire dove porta lo scontro delle idee, dobbiamo riesaminare Mackinder adattandolo ai nostri giorni. Dopo tutto, Mackinder non poteva prevedere come i cambiamenti di un secolo potessero ridefinire – e migliorare – l’importanza della geografia nel mondo attuale. Uno che lo ha fatto è Paul Bracken, professore alla università di Yale, che nel 1999 ha dato alle stampe “Fire in the East”. Bracken descrive una mappa concettuale dell’Eurasia definita dalla contrazione dei tempi e delle distanze e dal riempimento delle zone vuote. Ciò lo porta a enunciare una “crisi di spazio”. Nel passato, una geografia scarsamente popolata agiva da meccanismo di sicurezza. Ora non è più così, spiega Bracken, perché mentre gli spazi vuoti vanno scomparendo, la stessa “dimensione finita della Terra” diventa un fattore di instabilità. E come io stesso ho imparato al comando dell’esercito e al General Staff College, “attrition of the same adds up to big change”, il logoramento di uno stesso fattore determina un grande cambiamento. (continua...)

Tratto da Foreign Policy

Traduzione di Enrico De Simone

l'Occidentale (http://www.loccidentale.it)

Unghern Kahn
29-08-09, 01:02
Ovviamente il sito e l'autore non sono eurasiatisti ma occidentalisti però l'articolo credo sia interessante indipendentemente dalle loro posizioni.