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Visualizza Versione Completa : Per il Capitalismo Democratico



Pieffebi
05-03-02, 15:28
Io non sono "un capitalista" (non ho un becco di un quattrino), ma ritengo che il capitalismo democratico, sia il miglior sistema per produrre ricchezza (e se non si produce ricchezza, come sapeva Marx, si distribuisce solo miseria), e sia largamente senza alterantive. E' sicuramente perfettibile, ma nel contesto della sua stessa linea di sviluppo.
Per un liberale essere per il capitalismo non significa essere... per i capitalisti (ossia per i loro interessi particolari) anche se, ovviamente, non vuol dire neppure essere pregiudizialmente contro di loro. Von Mises precisava sempre con forza questo concetto!
La povertà di tanta parte del mondo e le ingiustizie, spesso terribili, che vi regnano sovrane, non sono, per noi liberali, determinate dal capitalismo democratico, ma dalla sua assenza: ossia da un ritardo nello sviluppo del capitalismo medesimo, e/o da un suo sviluppo caotico e senza democrazia.
Il capitalismo è pieno di "contraddizioni"? Certamente sì, ma anzichè esserne i suoi becchini, queste sono tutt'ora, contro le infinite profezie in contrario, i suoi motori.
Il capitalismo deve essere governato? Senz'altro, è stato ampiamente dimostrato che il mercato capitalistico per svilupparsi e riprodursi ha bisogno di regole...
Queste regole non devono tuttavia essere limitazioni del capitalismo o pastoie frapposte al suo sviluppo, ma, al contrario, regole poste a salvaguardia delle condizioni migliori per il suo funzionamento. E le condizioni migliori sono (come sapeva persino Lenin: si veda "Stato e Rivoluzione"), la "repubblica democratica", con la sua dialettica fra le forze politiche, le forze sociali, i diritti sindacali....
Nessuna formazione sociale, in nessuna epoca storica ha garantito tanto benessere a tanta parte della popolazione come il capitalismo.
Questo significa forse che il capitalismo sia perfetto, che sia una sorta di paradiso?
Assolutamente no! Ma i problemi e le tragedie che vengono spesso e con faciloneria imputate "al capitalismo" in quanto tale, potranno essere risolti, o almeno attenuati, dal capitalismo democratico, e altrimenti da nessun altro sistema economico-sociale.
Il comunismo ha dimostato ampiamente di non saper far niente di meglio, anzi. Si è dimostrato un sistema inefficiente per produrre ricchezza, inefficiente per distribuirla, e non privo di forti diseguaglianze, per quanto spesso mascherate o occultate, a favore della nomenklatura di partito e della burocrazia.
Il comunismo si è dimostrato, inevitabilmente, come previsto dai contraddittori liberali di Marx ed Engels, fin da 1847, incompatibile con le libertà individuali, con la democrazia politica, con i diritti civili, sociali e politici dei cittadini.
Certo, sebbene "la repubblica democratica sia il miglior involucro politico possibile per il capitalismo" (Lenin), a volte prevalgono involucri peggiori, ed allora i rapporti sociali si brutalizzano, come quelli politici. Le economie fondate sulla proprietà privata, ove non esiste una moderna ed efficiente democrazia politica e sociale, vedono prevalere i gruppi sociali ed economici, non sulle basi della libera concorrenza e delle sue regole, ma della violenza, dell'inganno, della brutalità.
Le economie che aboliscono la moderna proprietà privata ed il libero mercato sono invece impossibilitate a raggiungere o mantenere la democrazia politica moderna e le libertà correlate, come da noi conosciute. Esse sono oppressive e trasformato il "libero lavoratore salariato" in un servo (quasi in senso medievale) dello Stato, come aveva rilevato il marxista "eretico" Bruno Rizzi nella sua teoria del "Collettivismo Burocratico".

(Forum principale - 23.6.2001)

Pieffebi
17-03-02, 17:59
dal sito di "Ideazione":

"Entrare nel mercato globale per superare il "gap"
di Giuseppe Pennisi

La "new economy" delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione crea nuove disuguaglianze? Solo qualche anno fa la "net economy" era ancora agli albori e si temeva che avrebbe comportato un processo di dislocazione ancora maggiore di quello verificatosi all'epoca della prima rivoluzione industriale. Allora l'ipotesi era che la tecnologia dell'informazione e della comunicazione avrebbe creato nuove esclusioni, sia per fasce di età sia per fasce di reddito sia, principalmente, tra paesi dotati e non dotati di infrastruttura di base. Si pensi che alla metà degli anni Novanta, in tutta l'Africa a sud del Sahara c'erano meno linee telefoniche di quante non ce ne fossero nella sola città di Tokio. I timori non sono del tutto fugati. Tuttavia, l'aumento del gap tra fasce di reddito appare contenuto anche nei paesi in cui il reddito viene comunemente giudicato "spettacolare". E appare, tutto sommato, moderato anche rispetto alle aspettative e alle impressioni iniziali.

Studi più recenti collocano la new economy nel contesto del processo d'integrazione economica internazionale chiamato, giornalisticamente, "globalizzazione". In breve, essi concludono che l'apertura ai mercati e l'integrazione internazionale degli scambi, dei finanziamenti e degli investimenti diretti hanno comportato un aumento delle ineguaglianze mondiali (tra individui e famiglie, anche se non necessariamente tra paesi) dal 1960 al 1975. Da allora, però, si è rilevata una graduale diminuzione delle inuguaglianze, principalmente a ragione della rapida crescita economica di Cina e India: i paesi in via di sviluppo che hanno preso la strada della globalizzazione hanno registrato un tasso annuo di crescita economica del 5% negli anni Novanta (rispetto al 2% riportato dai paesi Ocse); tra il 1987 ed il 1998, la proporzione della popolazione mondiale in "povertà estrema", ossia con meno di un dollaro al giorno, è diminuita dal 28% al 23% - un "successo di proporzioni mai registrate in precedenza nella storia dell'umanità". Pur partendo da livelli di reddito inferiori, i paesi che hanno scelto la globalizzazione, hanno superato quei paesi che, invece, sono rimasti agganciati a politiche "chiuse".

La storia economica, però, prova anche che l'integrazione economica internazionale e la diffusione delle nuove tecnologie non sono irreversibili: si è dovuto attendere sino alla fine degli anni Cinquanta perché si tornasse ad un grado di integrazione internazionale, quale quello prevalente nel 1910. Le fasi di rallentamento economico, come quella in atto nel 2001, aggravano la minaccia di un ritorno al protezionismo e al rallentamento della trasformazione tecnologica, fenomeni fortemente correlati all'aumento della povertà. I casi di successo negli anni Novanta, quelli di paesi in cui l'integrazione economica internazionale e il progresso tecnologico sono stati accompagnati da una riduzione della povertà, riguardano paesi (India, Cina, Vietnam, Messico, Uganda e molti altri) in cui l'apertura al mercato internazionale è stata sorretta dalla costruzione di istituzioni solide in materia di giustizia, pluralismo di stampa, lotta alla corruzione, sviluppo delle risorse umane ed infrastrutture di base nei trasporti, nell'energia e nelle telecomunicazioni, tutti campi in cui l'intervento pubblico è essenziale per creare e consolidare il capitale sociale.

Molte aree del mondo non partecipano al processo d'integrazione economica internazionale e di diffusione della tecnologia, non in quanto chiudono le porte delle loro economie e della loro società, ma per ragioni geografiche, quali la distanza da reti di comunicazione e conseguenti alti costi di trasporto, prevalenza di malattie come la malaria e l'Aids ed alti tassi di mortalità e morbità. I flussi di scambi e di investimenti non risolveranno i problemi di questi paesi e le migrazioni possono farlo solo in parte, solo la strada degli aiuti, pubblici e non solo, può condurli, gradualmente, verso il mercato globale e quindi verso l'introduzione e diffusione della new economy.

15 marzo 2002

gi.pennisi@agora.it"


Saluti liberali.

Pieffebi
06-05-02, 21:52
dal sito di ideazione

"Perché la globalizzazione ci fa bene
di Cristiana Vivenzio

Mentre ci s’interroga sui nuovi scenari globali dopo l’11 settembre e si prefigura un nuovo ordine internazionale; mentre si parla di globalizzazione come l’ultima delle ideologie dell’Occidente, contrapposta alla frammentazione del sistema non globale; mentre si prende atto dell’assoluta indecifrabilità di un pensiero unico sulla globalizzazione e s’incrina definitivamente quell’idea che lega la globalizzazione ad una visione esclusivamente economica di questo processo; mentre si moltiplicano gli interrogativi per cercare di spiegare un fenomeno in corso e i tentativi di ovviare ai mali di una globalizzazione senza regole, Paolo Del Debbio – docente di Etica sociale e dei media allo Iulm di Milano ed editorialista del Giornale – scrive: “Global. Perché la globalizzazione ci fa bene”. Un’analisi “sì-global” che affronta questo tema, tanto demonizzato quanto esaltato, partendo dall’assunto fondamentale che dalla globalizzazione non si torna indietro.

Se globalizzazione significa interdipendenza – prima economica, commerciale e finanziaria poi dell’informazione – questa interdipendenza ha anche posto le basi “per una certa omogeneizzazione culturale, che parte dalla cultura popolare e dai consumi”. Del resto, alcuni studi analitici sull’argomento, condotti da gruppi di ricerca americani e riproposti dall’autore, hanno dimostrato che tanto più alto è il tasso di globalizzazione di un paese, tanto maggiori sono stati i tassi di crescita di quel paese. E, sebbene la maggior globalizzazione accresca anche il divario nella distribuzione del reddito, il beneficio derivante dalla crescita ha sostanzialmente fatto migliorare le condizioni di vita dei più poveri del mondo. Insomma, conclude Del Debbio, la globalizzazione può essere un’opportunità per tutti. Ad avvalorare tutto ciò un altro dato: anche in quei paesi investiti dalla globalizzazione in cui si sono verificati i maggiori problemi di esclusione sociale ed economica di fasce di popolazione, si è rilevato che quell’esclusione è stata dovuta “più all’impreparazione dei destinatari (gli stati nazionali) che non alla globalizzazione in se stessa”.

Eppure, gli argomenti di protesta portati avanti dai no global, che hanno fatto dell’opposizione ad un pensiero unico, a loro volta, un’altra forma di pensiero unico, rimarcano un problema universalmente riconosciuto, che, in definitiva, è rappresentato dall’ampiezza dello spazio che separa globalizzazione e politica. Là dove finiscono le competenze direttamente attribuibili all’economia di mercato deve intervenire la politica: reti di protezione sociale, tutela e garanzia dei beni pubblici, riconoscimento dei diritti dei lavoratori, tutela ambientale, salvaguardia del patrimonio culturale locale. Un’analisi, questa, che Del Debbio conduce di pari passo con la riflessione che negli ultimi tempi ha investito la riforma dello stato sociale. Allo stato, quindi, il compito di favorire quanto più possibile la partecipazione dei cittadini alla competizione del mercato; allo stato il compito di assicurare la “copertura universale delle esigenze minime e offrire ciò che è necessario perché tutti possano essere messi in grado di entrare a pieno nella competizione della vita”; allo stato il compito di creare pari opportunità; il compito di favorire e sostenere le reti di solidarietà sociale. La risposta ai mali della globalizzazione può essere rintracciata nella ricerca in un principio etico globale che superi le facili strumentalizzazioni dell’universo no-global, e affermi un governo della globalizzazione nella libertà, in cui non venga meno l’individualità degli stati-nazione.

25 aprile 2002

c.vivenzio@libero.it "


Saluti liberali.

Pieffebi
08-05-02, 22:11
dal sito di Ideazione:

" Solidarietà o statalismo? [prima parte]
di Antonio Martino

Queste pagine, frutto di riflessioni sviluppatesi negli anni, erano state scritte come contributo alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 13 maggio dello scorso anno. Si proponevano di illustrare la natura dei problemi che affliggono l’assistenzialismo di Stato non solo in Italia, in vista delle riforme che proponevamo in vista della nostra possibile vittoria elettorale. Com’è ovvio, data la sua origine e il suo obiettivo, l’analisi è presentata in forma semplificata, nell’intento di richiamare l’attenzione su quelli che considero gli aspetti più rilevanti degli errori del nostro welfare. Ma il tono non tragga in inganno: non si tratta di un divertissement intellettuale. Pubblicarle oggi, quando ci troviamo a dovere dare esecuzione ad un preciso mandato popolare, può servire a ricordarci la gravità del nostro impegno e le aspettative di cambiamento che la nostra battaglia politica ha determinato. Com’è ovvio, non riusciremo a risolvere in tempi brevi tutti i problemi del welfare – sono ancora insoluti in tutto o in parte in quasi tutti i paesi occidentali – ma può essere utile ricordare a noi stessi qual è la direzione verso cui gli italiani ci chiedono di muovere. Anche se riusciremo a realizzare solo un cambiamento parziale in questa direzione, si tratterà comunque di un’autentica rivoluzione.

Per troppi anni “solidarietà” è stato uno di quei termini usati con grande frequenza, specie dai politici, perché “suonava bene”, aveva un connotato positivo, ma che non veniva quasi mai definito. C’era soltanto la vaga presunzione che essere solidali significasse prelevare quattrini ad alcuni cittadini (i contribuenti) per destinarli ad altri cittadini, beneficiari di quest’atto di solidarietà. Avendo assunto il termine un connotato positivo, c’è stata negli ultimi decenni una nobile gara fra i politici ad accrescere le spese destinate alla solidarietà, ad allargare le dimensioni dello Stato sociale. Questa estensione è stata particolarmente cara alle sinistre, che non hanno mai voluto essere seconde a nessuno in fatto di generosità a spese dei contribuenti. E alla fine ha prevalso l’assunto per cui un paese sarebbe stato tanto più solidale quanto maggiore fosse il livello di spesa pubblica da dedicare allo scopo. La conseguenza di questa idea è che un paese sarebbe tanto più solidale quanto maggiore è il numero delle persone che dipendono dalla carità pubblica per andare avanti. In quest’ottica, il massimo della solidarietà sarebbe la situazione in cui tutti dipendono dalla carità pubblica per sopravvivere.

Noi siamo, invece, convinti che un paese è tanto più efficace e solidale quanto maggiore è il numero di cittadini indipendenti, che riescono ad andare avanti senza doversi affidare alla carità pubblica, e che il massimo di solidarietà si abbia, in realtà, quando nessuno dipende dalle elargizioni pubbliche. Accettando questa seconda impostazione, si perviene all’ovvia conclusione che 1) un paese è tanto più solidale quanto maggiore è il numero di persone che riesce a trovare un lavoro dignitoso che gli consente di essere autosufficiente e, 2) che un sistema assistenziale che, in nome della solidarietà, distrugge posti di lavoro, lungi dall’essere solidale, è in realtà nemico della solidarietà “vera”. Quello che ha prevalso in Italia negli ultimi decenni è stato, appunto, un assistenzialismo di questo tipo, perché le imposte necessarie a finanziare l’assistenzialismo di Stato hanno gravato sulla busta paga dei lavoratori configurando un’autentica imposta sull’impiego. La differenza fra il costo del lavoro (quanto il datore di lavoro spende) e la remunerazione netta (quanto il lavoratore incassa) – il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo” – è arrivato ad aggirarsi sul 50 per cento del totale. Questo significa che per ogni milione di remunerazione netta al lavoratore, il datore è stato costretto a pagare anche una “penale” di un milione allo Stato. È come se lo Stato avesse detto ai datori: «assumete pure, se volete, ma se vi permetterete di farlo, per ogni milione versato al lavoratore dovrete pagare una multa di un milione».

Le conseguenze di questa insensata punizione inflitta all’occupazione sono state devastanti: un tasso di disoccupazione a livelli elevatissimi, un tasso di occupazione fra i più bassi al mondo, una percentuale di disoccupazione “cronica” sul totale inaccettabile (il 70 per cento contro l’11 per cento degli Usa e il 15 per cento del Giappone). Il risultato è stato che la “solidarietà” all’italiana ha avuto come ovvia conseguenza il fatto di avere creato un esercito di persone destinate a dipendere stabilmente dalla carità pubblica perché il costo di questa si è tradotta nella drastica diminuzione di opportunità di impiego produttivo. Il welfare italiano è stato quindi fino ad ora la causa del problema che avrebbe dovuto risolvere. Non sarebbe male, quindi, ripensare a fondo l’intera questione.

L’incertezza ed il rischio sono caratteristiche ineliminabili della nostra vita: qualsiasi attività comporta assunzione di rischi. Quando attraversiamo la strada mettiamo inconsapevolmente a confronto la probabilità di essere travolti da un’automobile con l’importanza che attribuiamo al fatto di passare dall’altro lato della strada. Se decidiamo di attraversare è perché riteniamo la seconda considerazione più importante della prima. Tuttavia, com’è ovvio, la maggior parte di noi preferirebbe ridurre al minimo o eliminare del tutto il rischio dalla propria vita. Anche se si tratta di un auspicio irrealizzabile, gran parte delle decisioni di politica economica è ispirata proprio da quell’obiettivo. L’avversione al rischio sono forse determinati dall’ansia, dalla paura che la mancanza di certezze provoca in noi. Nell’osservare l’organizzazione della società, ci spaventa e rattrista il destino di quanti, senza loro colpa, vengono a trovarsi in condizioni di vita che riteniamo inaccettabili. Non ci sembra “giusto” che ci siano nostri concittadini ammalati privi di assistenza medica adeguata, poveri che non riescono a soddisfare neanche bisogni che ci appaiono elementari, giovani che non riescono a trovare lavoro, anziani privi di mezzi di sussistenza. Si sono trovati in quelle condizioni perché nel gioco della vita hanno estratto a sorte “una carta bassa”, il rischio ha giocato a loro danno. E se la stessa sorte fosse toccata a noi o ai nostri cari?

Non ci rassicura molto la constatazione che la probabilità di un esito tanto triste sia bassa, nè che essa possa essere ulteriormente ridotta grazie al nostro impegno: la situazione è comunque inaccettabile, dobbiamo fare di tutto per eliminarla. Questo sentimento diffuso e nobile ci spinge in molti casi ad adoperarci in prima persona per alleviare le disgrazie dei nostri simili attraverso attività caritatevoli. Ma anche questo “rimedio” volontario, privato e diretto non appare sufficiente; nasce così la richiesta di intervento pubblico, in assenza del quale si ritiene che l’ammontare di mezzi volontariamente destinati allo scopo si rivelerebbe inadeguato per la soluzione dei problemi. In altri termini, riteniamo necessario che lo Stato faccia ricorso alla coercizione per costringere la collettività a dare a scopi di assistenza più di quanto darebbe spontaneamente. È questa l’idea di base del welfare state. Le origini sono controverse: la tesi sostenuta da diversi studiosi, secondo cui l’inventore dell’assistenzialismo di Stato nella sua forma moderna sarebbe stato Bismarck, che lo avrebbe introdotto (1881) per far perdere terreno all’opposizione socialdemocratica, non è accettata da tutti. Ma, anche se si preferisce credere che il welfare state abbia avuto origini nobili, che sia nato cioè per la sincera preoccupazione di venire incontro alle esigenze dei nostri concittadini meno fortunati, il giudizio difficilmente potrebbe essere oggi positivo.

Questo non perché la desiderabilità degli obiettivi dichiarati dell’assistenzialismo sia venuta meno, ché anzi essa è ormai generalmente riconosciuta, ma perché lo strumento si è rivelato inadeguato allo scopo. Mentre il costo dei programmi di assistenza pubblica, infatti, ha ormai raggiunto livelli astronomici, compromettendo in molti casi la solvibilità dello Stato sociale, i risultati sono stati assai deludenti: l’assistenzialismo di Stato si è rivelato un pessimo affare, specie per coloro che si riprometteva di aiutare: i poveri e i deboli, proprio quelli che avrebbe dovuto liberare dalla paura. Il lettore, comunque, farà bene a non dimenticare che quanto vale per l’Italia vale anche, sia pure in misura diversa, per altri paesi: lo Stato assistenziale è ovunque sotto accusa, sia per il costo eccessivo che per i risultati ritenuti insoddisfacenti.

Il costo dell’assistenzialismo

Per avere un’idea delle dimensioni assolute e della crescita nel tempo dell’assistenzialismo di Stato, può essere utile guardare alla spesa per prestazioni sociali e alla sua evoluzione. Secondo i dati ufficiali, dal 1974 al ’99 la spesa per prestazioni sociali è aumentata di oltre ventiquattro volte in termini nominali, passando dal dodici per cento a oltre il diciassette per cento del Pil. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione, l’incremento è stato del 174 per cento; in tutti questi anni, oltre un terzo delle spese totali del settore pubblico è stato destinato appunto a questo scopo. Anche se altre categorie di spesa sono cresciute più rapidamente della spesa per prestazioni sociali, non c’è dubbio che la crescita di questa spesa costituisca una delle ragioni principali dell’iperfiscalità e della conseguente disoccupazione, per non parlare della protesta fiscale. Tanto per darne una illustrazione, nel ’99 la spesa per prestazioni sociali è stata il cinquantasette per cento del gettito combinato delle imposte dirette ed indirette!

E ancora: la crescita della spesa “sociale” è stata in passato largamente responsabile del dissesto finanziario dello Stato: se l’incidenza della spesa “sociale” sul prodotto interno lordo fosse rimasta costante dal 1974 al 1991, nel 1991 il deficit pubblico sarebbe stato inferiore alla metù del suo valore: 68.076 miliardi anziché 151.242, il 4,77 per cento del Pil anziché il 10,6 per cento. Sarebbe stata sufficiente una modesta misura di contenimento della crescita della spesa sociale (non una riduzione del suo valore assoluto) per dare un significativo contributo al risanamento della finanza pubblica. Lo Stato assistenziale, quindi, è arrivato a costare troppo. Tuttavia, se a fronte del costo ingente dell’assistenzialismo di Stato si avessero risultati incontestabili in termini di socialità, la difesa di questo tipo di intervento sarebbe ancora possibile. Le cose, sfortunatamente per i superstiti sostenitori del welfare state, non stanno in questi termini.

Per quanto possa apparire incredibile a chi abbia riflettuto anche solo per un istante sulla realtà della fornitura pubblica di servizi e sul loro costo, c’è ancora chi si dice convinto della natura “sociale” della spesa pubblica. Per difendere l’assistenzialismo di Stato, secondo taluno, basterebbe il richiamo all’articolo 2 della Costituzione, dove si accenna ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La tesi è che le spese assistenziali soddisfano nobili esigenze di “socialità”. Evidentemente, qualcuno crede che l’assistenzialismo sia “sociale”, serva cioè gli interessi dei poveri. Sarà quindi meglio chiarire questo punto. Anzitutto, è perlomeno dubbio che la spesa per prestazioni sociali sia effettivamente motivata dal desiderio di migliorare le condizioni dei meno abbienti. Infatti, alla domanda: «chi ha più bisogno di assistenza, i ricchi o i poveri?» credo che tutti risponderebbero che sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto. Ma, se sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto, perché l’assistenzialismo di Stato è aumentato al diminuire della povertà? Oggi il reddito reale è enormemente più alto e più uniformemente distribuito che in passato, eppure, come detto sopra, le spese per lo Stato assistenziale non hanno smesso di crescere al crescere del reddito. Sembrerebbe proprio che l’assistenzialismo pubblico tanto caro alle sinistre non abbia avuto come fine quello di ridurre la povertà.

Non basta. L’assistenzialismo di Stato di derivazione bismarckiana è basato su una concezione paternalistica della povertà: lo Stato individua alcuni bisogni ritenuti “essenziali” e si assume l’onere di fornire, spesso in condizioni di monopolio, i relativi servizi all’intera collettività. Indipendentemente da tante altre possibili considerazioni, questo modo di affrontare il problema della povertà è inefficiente, perché la ridistribuzione in natura, dal momento che viola la libertà di scelta dei beneficiari, ottiene, a parità di costo, un risultato inferiore dal punto di vista del benessere di questi ultimi; o anche, se si optasse per la ridistribuzione in moneta, si potrebbe conseguire un risultato uguale a quello attuale con un esborso complessivamente minore. Se a questo si aggiunge che il costo dell’assistenzialismo di Stato grava su tutti, anche sui poveri, mentre i benefici vanno spesso a tutti, anche a coloro che non sono poveri, ci si può rendere conto del fatto che la “socialità” dello Stato assistenziale è perlomeno dubbia, data la presenza di elementi regressivi di ridistribuzione.

E ancora: dato che i servizi resi sono spesso assai insoddisfacenti, il bismarckismo nostrano, introdotto da forze politiche di centro-sinistra con il pretesto di garantire “uguaglianza di accesso” a servizi pubblici essenziali, finisce col realizzare una “ineguaglianza di uscita” dall’inefficienza pubblica. In genere, solo i benestanti possono, infatti, permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, optando per la fornitura privata. Inoltre, occorre tenere presente una lezione ormai acquisita: lo Stato assistenziale costa enormemente più di quanto rende, il che è ovvio sol che si ponga mente alle modalità del suo funzionamento. Lo Stato, infatti, grava la collettività di costi per poter distribuire benefici, sotto forma di “servizi sociali”. Tuttavia, dal momento che il trasferimento ha un suo costo, quello che la collettività riceve dallo Stato è sempre meno di quello che la collettività deve pagare. Dal momento che è presumibile che i “costi di trasferimento” siano crescenti al crescere delle dimensioni dei programmi, la differenza fra costo dell’assistenzialismo e benefici da esso resi aumenta al crescere della “socialità”. In altri termini, dove vige l’assistenzialismo una gran parte delle somme va, in vario modo, dispersa nei canali burocratici, rappresentando una perdita netta per il Paese (ma non per politici e burocrati) e non raggiungendo mai i beneficiari dichiarati.

Ci limitiamo a un’illustrazione approssimativa ma importante e relativa alla prassi dell’ultimo governo di centro-sinistra: se i 370.367 miliardi di spesa per “prestazioni sociali” nel 1999 fossero stati distribuiti al 25 per cento più povero dell’intera popolazione (supponendo per assurdo che un italiano su quattro sia povero), avrebbero trasformato l’Italia in un paese di soli benestanti, consentendo di elargire un reddito aggiuntivo di quasi 26 milioni (25.955.000) all’anno ad ognuno dei 14.269.500 italiani “poveri”: quasi 104 milioni (103.820.000) per ogni famiglia di quattro persone. Anche se si tratta di un calcolo sovrasemplificato, non c’è dubbio che esso illustra una considerazione importante: se le risorse per anni destinate all’assistenzialismo di Stato fossero state impiegate effettivamente ed efficacemente per venire incontro ai bisogni dei nostri concittadini meno fortunati, la povertà sarebbe oggi scomparsa. Il fatto che la povertà non sia ancora scomparsa, nel momento in cui illustra l’inefficienza dei programmi delle sinistre, fa sorgere il dubbio che, in realtà, scopo vero dell’assistenzialismo non fosse il benessere dei beneficiari. Del resto, se scopo dell’assistenzialismo fosse quello di migliorare le condizioni dei beneficiari dichiarati, si sarebbe ricorsi alla ridistribuzione in moneta come al metodo più efficace.

E ancora: se l’assistenzialismo pubblico avesse avuto come scopo quello di aiutare chi ne ha bisogno, lo Stato assistenziale avrebbe dovuto adottare un criterio selettivo (dare solo a chi si trova, per esempio, in condizioni di provata indigenza) non universale. Così facendo, infatti, la riduzione del numero dei beneficiari avrebbe consentito di massimizzare le dimensioni dell’aiuto agli effettivamente bisognosi. Il criterio di elargizione universale, invece, si è sostanziato nel conferimento di benefici a tutti, anche ai ricchi, nel momento stesso in cui il costo dell’assistenzialismo è pesantemente gravato su tutti, anche sui poveri. È come se lo Stato avesse preso ai poveri per dare ai ricchi con una ridistribuzione regressiva; in ogni caso non sarebbe stato l’aiuto a chi ne ha bisogno a motivare l’assistenzialismo universale.

25 aprile 2002"

1/continua

Pieffebi
11-05-02, 18:04
continua l'articolo di Antonio Martino :

" Il punto fondamentale da tenere presente per capire la natura dell'assistenzialismo di Stato è che esso è servito agli interessi di burocrati e di politici legati all' "industria dell'assistenza" molto più di quanto non agli interessi dei poveri. Questo spiega perché si sia avuta crescita della spesa pubblica "sociale" al crescere del reddito. Prendiamo il caso dell'assistenza sanitaria pubblica.
Com'è noto, il servizio sanitario nazionale storicamente è stato introdotto col nobile proposito di garantire a tutti, anche ai meno abbienti, un'assistenza adeguata. Questo scopo non è però stato realizzato: anche se non si condivide l'opinione espressa da diversi organi di stampa, secondo cui il sistema delle Asl (ex-Usl) costituisce "lo scandalo del secolo", non c'è dubbio che il fatto che circa la metà degli aventi diritto all'assistenza pubblica abbia comunque fatto ricorso a cure private fornisce una misura del fallimento dell'operazione.

I più penalizzati dal sistema assistenziale sono stati proprio i meno abbienti, che ne hanno dovuto sopportare una parte del costo senza potersi permettere di rivolgersi ad alternative private all'inefficienza pubblica. Solo i benestanti, infatti, hanno sempre potuto disporre dei mezzi per pagare due volte l'assistenza sanitaria: una volta con le imposte ed una seconda volta con il costo delle prestazioni private o dell'assicurazione. Infine, il finanziamento del servizio sanitario ha provocato negli anni il risentimento dei contribuenti. Per rendersi conto delle dimensioni della ridistribuzione non necessariamente progressiva che il servizio sanitario nazionale ha comportato, invito il lettore a immaginare uno scenario alternativo rispetto al passato prossimo assistenzialista. Nell'analizzare il problema è bene tenere distinti due aspetti diversi: il finanziamento del servizio, che deve essere tale da garantire l'accesso anche ai meno abbienti, e la sua fornitura, che deve essere quanto più efficiente possibile.

Cominciando col finanziamento, teniamo presente che l'assistenza sanitaria pubblica non è mai stata "gratis", costando come qualsiasi altro servizio. Il costo del servizio sanitario pubblico ha raggiunto negli anni un livello di spesa annua superiore ai 130 mila miliardi. Una cifra non disprezzabile: circa 2.300.000 lire a testa per ogni italiano, ricco o povero, giovane o vecchio, pensionato o disoccupato, ecc. Se si fosse ottenuto un dimezzamento di tale spesa, bloccandola a un valore massimo di 65 mila miliardi, si sarebbero "restituiti" gli altri 65 mila miliardi ai contribuenti: ogni cittadino italiano avrebbe ricevuto così un assegno di 1.150.000 lire, libero di spenderle come meglio credeva. Oppure, si sarebbe potuto usare quel risparmio per realizzare - già da anni - una riforma fiscale che avrebbe fatto apparire moderata quella attuata da Reagan: quella cifra è infatti superiore al 20 per cento dell'intero gettito delle imposte dirette. (Tante altre cose si potevano realizzare con 65 mila miliardi: si poteva, per esempio, costruire ogni anno 325.000 alloggi da 200 milioni l'uno, ospitando così un'intera città di oltre un milione di abitanti!).

I restanti 65 mila miliardi di spesa sanitaria avrebbero potuto essere devoluti al 20 per cento più povero della popolazione italiana per garantire anche ai poveri l'accesso all'assistenza, attraverso l'acquisto di un'assicurazione sanitaria privata che avrebbe garantito la copertura di ogni tipo di spese mediche. La cifra sarebbe stata, infatti, ampiamente adeguata, consentendo di elargire ad ognuno degli 11.400.000 italiani "poveri" un assegno di 5.700.000 lire, ben 22.800.000 lire per la famiglia media di quattro persone. Con quella cifra i nostri "poveri" avrebbero potuto dotarsi di assicurazioni sanitarie onnicomprensive, adeguate a coprire qualsiasi spesa sanitaria e garantire quanto il servizio sanitario nazionale si è guardato bene dall'offrire negli ultimi decenni: un'assistenza medica di buon livello per tutti. Si sarebbe potuto, poi, obbligare l'altro 80 per cento della popolazione a stipulare un'assicurazione sanitaria con caratteristiche di copertura fissate per legge, pagandola di tasca propria (non dimentichiamo che tutti gli italiani riceverebbero, in qualche forma, quella famosa restituzione di 1.150.000 lire a testa, 4.600.000 lire per la famiglia media di quattro persone). Un finanziamento di questo genere sarebbe convenuto a tutti: ai poveri, che sarebbero stati dotati di una copertura assicurativa adeguata tale da garantire loro libertà di scelta nel campo dell'assistenza sanitaria; ai non poveri cui lo smantellamento del servizio sanitario nazionale avrebbe consentito di "restituire" reddito attraverso una autentica riforma fiscale e che sarebbero stati liberati dalla necessità di pagare due volte l'assistenza sanitaria.

Quanto all'efficienza, è evidente che i problemi sanitari sono stati per un lungo periodo la conseguenza del fatto che i fornitori del servizio hanno operato in condizioni di irresponsabilità senza essere sottoposti alle regole della concorrenza e non rispettando il vincolo del bilancio. Se avessero dovuto finanziarsi sul mercato, coprendo i costi con gli incassi per le prestazioni fornite, avrebbero avuto un incentivo poderoso ad essere efficienti, correndo il rischio di perdere clienti a favore dei loro concorrenti. Disponendo, invece, di un finanziamento "a piè di lista", non hanno di fatto avuto nessuna ragione per migliorare la qualità delle loro prestazioni. Immaginate cosa fosse accaduto se il reddito del salumaio fosse stato fissato dallo Stato e se fossimo stati costretti ad effettuare tutti i nostri acquisti esclusivamente da lui, senza possibili alternative.
Per ciò che riguarda la fornitura, quindi, sarebbe stato opportuno privatizzarla del tutto e costringere gli operatori a rispettare il vincolo del bilancio, finanziandosi esclusivamente con gli incassi connessi alla fornitura del servizio. Se questo progetto si fosse realizzato, tutti gli italiani avrebbero già goduto di un'assistenza sanitaria davvero adeguata, cosa che oggi la nostra spesa sanitaria non può fornire.

In realtà, il vantaggio non riguarderebbe proprio tutti, ed è per questa ragione che quel progetto è stato di difficile realizzazione. In un sistema come quello delineato, l'offerta di servizi sanitari diverrebbe competitiva; le istituzioni relative (ospedali, cliniche, laboratori di analisi, ecc.) verrebbero disciplinate dalla concorrenza e dovrebbero far quadrare i bilanci. I medici e tutti gli operatori sanitari capaci guadagnerebbero forse più di adesso, i pigri e gli incapaci dovrebbero modificare le proprie abitudini o cambiare mestiere. Non ci sarebbe più burocrazia sanitaria e gli attuali burocrati dovrebbero trovare lavoro altrove; nè ci sarebbero più prebende per i politici della sanità, che si vedrebbero costretti a farne a meno. Le frodi si ridurrebbero drasticamente (le compagnie di assicurazione avrebbero interesse a vigilare per impedirle) e quanti per anni si sono "guadagnati da vivere" truffando l'erario nel settore della sanità sarebbero stati costretti a darsi ad attività socialmente meno dannose.

Questo esercito di politicanti, burocrati inutili, operatori sanitari pigri o incompetenti, e profittatori ha goduto di una percezione corretta del proprio interesse: sapendo che la trasformazione dell'assistenza sanitaria nel senso delineato, se avrebbe giocato alla collettività, avrebbe comunque danneggiato il loro interesse privato. Si trattava, del resto, di una lobby potentissima, che difficilmente avrebbe reso possibile una seria riforma del settore. In questa chiave risulta evidente che i famosi 130 mila miliardi non erano affatto destinati all'assistenza sanitaria della collettività, ma avevano invece come scopo principale l' "assistenza" di politici e burocrati che hanno vissuto a spese della sanità pubblica.

Le pensioni

Se è quindi ormai necessario e improrogabile che tutto l'assistenzialismo italiano vada al più presto riformato, è altrettanto vero che alcune riforme sono più urgenti di altre. E la più urgente di queste riforme è senz'altro quella che ci viene da anni inutilmente chiesta da tutti gli esperti del settore, oltre che da organismi indipendenti, come il Fondo monetario, l'Ocse, l'Ue, Bankitalia, ecc.: quella delle pensioni. Per quanto riguarda, infatti, la sostenibilità del nostro sistema pensionistico pubblico nella sua forma attuale - ferma restando una fisiologica, anche se in verità assai contenuta, discordanza di pareri - sembra ormai esserci un consenso assai diffuso: a meno di dar vita a riforme radicali, quel sistema non è davvero più sostenibile.

In aggiunta alla dubbia sostenibilità del sistema sociale assistenziale, va detto che, prescindendo dagli aspetti ridistributivi (per molti fortunati, la sua "generosità" è stata per anni un'autentica manna dal cielo), il sistema a ripartizione non costituisce affatto un buon affare: se gli interessati avessero potuto impiegare liberamente le somme che sono ancora costretti a versare al sistema pensionistico pubblico, avrebbero ottenuto tassi di rendimento marcatamente maggiori. Secondo alcune stime, il rendimento dell'impiego in azioni ed obbligazioni sarebbe in media superiore di circa due volte e mezzo a quello del sistema pubblico a ripartizione. E non mancano stime che suggeriscono una differenza ancora più marcata. Per esempio, fino al 1983 negli Stati Uniti era possibile uscire dal sistema pensionistico pubblico (Social Security) ed optare per un fondo pensione privato. Uno studio relativo a circa un milione di lavoratori che hanno esercitato quella opzione8 mostra come i lavoratori che hanno optato per il sistema privato godono di pensioni da tre a sette volte maggiori di quelle dei pensionati della Social Security.

Tutti questi dati non lasciano adito a dubbi: è innegabile che l'impiego sul mercato del risparmio previdenziale è la via per consentire di elargire pensioni molto più generose, a parità di contributi, e di ridurre sensibilmente i contributi, a parità di pensione. Per esempio, Jeremy Siegel della Wharton School10 ha calcolato che fra il 1802 ed il 1992 l'investimento in Borsa negli Stati Uniti ha fruttato un rendimento medio annuo reale (al netto cioè dell'inflazione) del 7 per cento. E, com'è ovvio, questo esclude gli anni più recenti, quando i rendimenti si sono rivelati nettamente maggiori della media storica. A parità di benefici, quindi, il costo del finanziamento verrebbe ad essere sensibilmente minore: in base ad una ipotesi, la differenza potrebbe rappresentare quasi i 2/3 dei contributi attuali. I vantaggi del passaggio dal sistema pubblico a ripartizione ad uno "privato" a capitalizzazione sarebbero enormi: aumenterebbe il reddito disponibile, si ridurrebbero le aliquote marginali di imposta, causa di notevoli effetti distorsivi, e diminuirebbe l'imposta sull'occupazione responsabile principale dell'attuale intollerabile tasso di disoccupazione. Infine, si potenzierebbe il mercato finanziario con vantaggi notevoli per l'intera economia nazionale. Secondo l'economista di Harvard Martin Feldstein, "nessun paese sarebbe avvantaggiato più dell'Italia (dal passaggio ad un sistema prevalentemente a capitalizzazione)".

L'assistenzialismo indiretto

Com'è noto una delle paure più diffuse in economia è quella connessa all'occupazione, sia quella determinata dal timore di non riuscire ad entrare nel mondo del lavoro sia quella relativa alla stabilita dell'impiego. Questo induce a prendere in considerazione in questo contesto l'intervento pubblico diretto in economia, anche se non si tratta esplicitamente di un aspetto del "welfare state". All'apparenza sembrerebbe, infatti, trattarsi di assistenzialismo, di intervento cioè volto a ridurre incertezza e paura, a vantaggio dei meno abbienti. Un'analisi spassionata del fenomeno conduce però alle stesse conclusioni cui siamo pervenuti in tema di sanità. L'intervento diretto dello Stato nell'economia è stato, nel corso degli anni, variamente giustificato. La prima, e più popolare, giustificazione, com'è noto, è stata quella attinente alla necessità di "sostenere" l'occupazione, di "creare" posti di lavoro. L'idea ispiratrice è stata che, in assenza di intervento pubblico, il mercato avrebbe determinato livelli di occupazione complessiva inaccettabilmente bassi.

Tale tesi, molto diffusa in passato, si è rivelata pericolosissima, proprio perché plausibile: è stato detto che le ipotesi sono come le calunnie, sono tanto più pericolose quanto più sono plausibili. Si tratta di un classico esempio della differenza fra effetti visibili ed effetti invisibili delle decisioni di politica economica. L'intervento pubblico "crea" posti di lavoro per quanti sono assunti nell'impresa in questione; questo è l'effetto visibile. Ma chiediamoci anche da dove sono venuti i quattrini con cui sono stati finanziati i "lavori socialmente utili", la creazione di imprese pubbliche o il ripianamento delle perdite di imprese passive; com'è ovvio, dalle tasche dei contribuenti. Questi hanno avuto, quindi, meno soldi da spendere, e sono stati costretti a ridurre i propri consumi e risparmi. Sia la riduzione dei consumi sia quella dei risparmi si sono sostanzialmente tradotti in una diminuzione di fondi al sistema produttivo, con conseguente riduzione di posti di lavoro: questo è stato l'effetto invisibile.

Il teorema corretto è, in realtà, il seguente: se l'intervento pubblico può "creare" direttamente o indirettamente posti di lavoro nel settore assistito (pubblico o privato), il suo costo ne distrugge però nel settore privato (produttivo). Certo, fortunatamente, anche nel piano teorico le opinioni sull'intervento pubblico e l'occupazione si sono modificate negli ultimi tempi, soprattutto per via della rapida crescita della fiscalità. Il "cuneo salariale" cui si accennava prima - la penale inflitta all'occupazione dagli oneri fiscali e contributivi destinati a finanziare il welfare - ha messo in luce i meccanismi attraverso i quali lo statalismo ha distrutto e continua a distruggere posti di lavoro, chiudendo di fatto le porte del mondo del lavoro ufficiale ai giovani che tentano di entrarvi.

Purtroppo, il contrasto fra la visibilità dell'occupazione "creata" dall'intervento pubblico e l'invisibilità dell'occupazione da esso distrutta permane, e si traduce nel fatto che pochi si rendono conto dei danni determinati dallo statalismo; e ancora oggi, a sinistra, c'è che crede che esso crei occupazione.
Una seconda argomentazione a favore dell'intervento pubblico diretto nell'economia è stata quella che, in Italia, si potesse promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Ma anche questa è oggi una tesi alquanto desueta: dopo i risultati a dir poco deludenti (il tasso di disoccupazione al Sud è quasi quadruplo rispetto a quello del Centro-Nord), chi continua a sostenere l'opportunità dell'intervento pubblico come terapia per lo sviluppo delle regioni meridionali appare quasi provocatorio.

Come meridionale, tuttavia, non posso tacere del danno enorme e duraturo che lo statalismo ha prodotto per decenni all'economia meridionale, distorcendo il sistema di incentivi e rendendo più attraente per i nostri giovani la "sistemazione" nel settore politico-parassitario a scapito di quello produttivo. Anche se di difficile quantificazione, si tratta di un grave colpo inferto alle potenzialità di sviluppo del Sud. Prendiamo, per esempio, i cosiddetti "lavori socialmente utili" che hanno avuto origine nel Mezzogiorno (in Sicilia sono stati creati da un articolo della finanziaria regionale, i beneficiari vengono, pertanto, chiamati "articolisti" e sono ancora un autentico esercito) e sono stati poi esportati anche altrove. Il giovane che per anni ha percepito un assegno, sia pure modesto, ha in realtà subìto un danno permanente per una serie di ragioni. L'incentivo a cercarsi un'occupazione produttiva è stato pesantemente ridotto: se, infatti, trovava un lavoro perdeva l'assegno per il "lavoro socialmente utile", ed è dubbio che, al netto di quello che avrebbe perduto, il compenso per il primo lavoro giustificasse la fatica di cercarlo.

In secondo luogo, l'interessato veniva convinto dalla corresponsione dell'assegno che la sua occupazione era un problema per lo Stato, per i politici, non certo per lui. E ancora, mentre percepiva l'assegno, molto spesso svolgeva un altro lavoro, in nero, guadagnando grazie alle due entrate più di quanto avrebbe guadagnato con un lavoro ufficiale. Infine, ma si potrebbe continuare a lungo, avendo percepito soldi dallo Stato per anni, finiva col convincersi di avere semplicemente usufruito di un suo diritto, di modo che finiva per pretendere (e non è detto che non lo ottenesse) un "posto" stabile nell'amministrazione pubblica. Aggiungendo danno al danno, il costo di questa devastante operazione demagogica ha gravato pesantemente sui datori e sui lavoratori del resto dell'economia, riducendo l'occupazione produttiva. La morale è assai semplice: occupazione non significa - come non poteva significare - percepire un reddito, significa produrre un reddito. Perché l'occupazione possa essere stabile deve essere produttiva. Se, col pretesto di creare occupazione, destiniamo risorse a scopi improduttivi, impoveriamo il Paese, sciupando risorse scarse che potrebbero essere utilizzate proficuamente in altro modo. Non è un caso che dove l'intervento pubblico diretto a creare occupazione è stato più largamente usato, il Mezzogiorno, la disoccupazione è stata maggiore e lo sviluppo economico è stato strutturalmente impedito.

Se, invece, di perseguitare ferocemente l'occupazione tassandola in misura che non ha eguali nel mondo industriale, lo Stato avesse consentito ai datori di assumere senza penali di sorta; se, invece di soffocare sotto una montagna di adempimenti amministrativi le iniziative imprenditoriali, le si fosse incoraggiate; se, ogni qual volta si doveva dar vita ad un insediamento industriale si fosse rinunziato a mettergli i bastoni fra le ruote in mille modi; se, invece di punire il successo, tassandolo, e premiare i fallimenti con le mille forme di "aiuti", si fosse consentito alle imprese di operare in condizioni di piena responsabilità; se si fossero fatte tutte queste cose, l'economia italiana avrebbe da tempo creato in un batter d'occhio molte centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro.
Tornando al filo principale del nostro discorso, vengo quindi a quella che ritengo la spiegazione vera della esistenza di un toppo largo settore pubblico in Italia. Anzitutto, una riflessione ovvia: quello che conta veramente da un punto di vista economico non è la titolarità dell'impresa, se pubblica o privata, ma la sua gestione, se economica o anti-economica. Ora, se si volesse la gestione economica di una data impresa, questa potrebbe benissimo essere privata; se si vuole che sia pubblica, in altri termini, è perché non si vuole che venga gestita economicamente.

2/continua

10 maggio 2002 "

Pieffebi
15-05-02, 21:56
up!

ago
16-05-02, 18:54
Originally posted by Pieffebi
dal sito di ideazione

"[i]Perché la globalizzazione ci fa bene
di [b]Cristiana Vivenzio

Miii!!!! Non ci posso credere!!! Cristiana era mia compagna al liceo! Se il mondo era gia' piccolo prima, con il web e' diventato minuscolo. Grazie Pfb avevo perso i contatti, ora mando un'email!

Pieffebi
16-05-02, 20:31
Originally posted by Ago


Miii!!!! Non ci posso credere!!! Cristiana era mia compagna al liceo! Se il mondo era gia' piccolo prima, con il web e' diventato minuscolo. Grazie Pfb avevo perso i contatti, ora mando un'email!


Prego e ....presentale i miei modesti ma sentiti complimenti.

Cordiali saluti.

Pieffebi
24-05-02, 20:34
Originally posted by Pieffebi
continua l'articolo di Antonio Martino :

" Il punto fondamentale da tenere presente per capire la natura dell'assistenzialismo di Stato è che esso è servito agli interessi di burocrati e di politici legati all' "industria dell'assistenza" molto più di quanto non agli interessi dei poveri. Questo spiega perché si sia avuta crescita della spesa pubblica "sociale" al crescere del reddito. Prendiamo il caso dell'assistenza sanitaria pubblica.
Com'è noto, il servizio sanitario nazionale storicamente è stato introdotto col nobile proposito di garantire a tutti, anche ai meno abbienti, un'assistenza adeguata. Questo scopo non è però stato realizzato: anche se non si condivide l'opinione espressa da diversi organi di stampa, secondo cui il sistema delle Asl (ex-Usl) costituisce "lo scandalo del secolo", non c'è dubbio che il fatto che circa la metà degli aventi diritto all'assistenza pubblica abbia comunque fatto ricorso a cure private fornisce una misura del fallimento dell'operazione.

I più penalizzati dal sistema assistenziale sono stati proprio i meno abbienti, che ne hanno dovuto sopportare una parte del costo senza potersi permettere di rivolgersi ad alternative private all'inefficienza pubblica. Solo i benestanti, infatti, hanno sempre potuto disporre dei mezzi per pagare due volte l'assistenza sanitaria: una volta con le imposte ed una seconda volta con il costo delle prestazioni private o dell'assicurazione. Infine, il finanziamento del servizio sanitario ha provocato negli anni il risentimento dei contribuenti. Per rendersi conto delle dimensioni della ridistribuzione non necessariamente progressiva che il servizio sanitario nazionale ha comportato, invito il lettore a immaginare uno scenario alternativo rispetto al passato prossimo assistenzialista. Nell'analizzare il problema è bene tenere distinti due aspetti diversi: il finanziamento del servizio, che deve essere tale da garantire l'accesso anche ai meno abbienti, e la sua fornitura, che deve essere quanto più efficiente possibile.

Cominciando col finanziamento, teniamo presente che l'assistenza sanitaria pubblica non è mai stata "gratis", costando come qualsiasi altro servizio. Il costo del servizio sanitario pubblico ha raggiunto negli anni un livello di spesa annua superiore ai 130 mila miliardi. Una cifra non disprezzabile: circa 2.300.000 lire a testa per ogni italiano, ricco o povero, giovane o vecchio, pensionato o disoccupato, ecc. Se si fosse ottenuto un dimezzamento di tale spesa, bloccandola a un valore massimo di 65 mila miliardi, si sarebbero "restituiti" gli altri 65 mila miliardi ai contribuenti: ogni cittadino italiano avrebbe ricevuto così un assegno di 1.150.000 lire, libero di spenderle come meglio credeva. Oppure, si sarebbe potuto usare quel risparmio per realizzare - già da anni - una riforma fiscale che avrebbe fatto apparire moderata quella attuata da Reagan: quella cifra è infatti superiore al 20 per cento dell'intero gettito delle imposte dirette. (Tante altre cose si potevano realizzare con 65 mila miliardi: si poteva, per esempio, costruire ogni anno 325.000 alloggi da 200 milioni l'uno, ospitando così un'intera città di oltre un milione di abitanti!).

I restanti 65 mila miliardi di spesa sanitaria avrebbero potuto essere devoluti al 20 per cento più povero della popolazione italiana per garantire anche ai poveri l'accesso all'assistenza, attraverso l'acquisto di un'assicurazione sanitaria privata che avrebbe garantito la copertura di ogni tipo di spese mediche. La cifra sarebbe stata, infatti, ampiamente adeguata, consentendo di elargire ad ognuno degli 11.400.000 italiani "poveri" un assegno di 5.700.000 lire, ben 22.800.000 lire per la famiglia media di quattro persone. Con quella cifra i nostri "poveri" avrebbero potuto dotarsi di assicurazioni sanitarie onnicomprensive, adeguate a coprire qualsiasi spesa sanitaria e garantire quanto il servizio sanitario nazionale si è guardato bene dall'offrire negli ultimi decenni: un'assistenza medica di buon livello per tutti. Si sarebbe potuto, poi, obbligare l'altro 80 per cento della popolazione a stipulare un'assicurazione sanitaria con caratteristiche di copertura fissate per legge, pagandola di tasca propria (non dimentichiamo che tutti gli italiani riceverebbero, in qualche forma, quella famosa restituzione di 1.150.000 lire a testa, 4.600.000 lire per la famiglia media di quattro persone). Un finanziamento di questo genere sarebbe convenuto a tutti: ai poveri, che sarebbero stati dotati di una copertura assicurativa adeguata tale da garantire loro libertà di scelta nel campo dell'assistenza sanitaria; ai non poveri cui lo smantellamento del servizio sanitario nazionale avrebbe consentito di "restituire" reddito attraverso una autentica riforma fiscale e che sarebbero stati liberati dalla necessità di pagare due volte l'assistenza sanitaria.

Quanto all'efficienza, è evidente che i problemi sanitari sono stati per un lungo periodo la conseguenza del fatto che i fornitori del servizio hanno operato in condizioni di irresponsabilità senza essere sottoposti alle regole della concorrenza e non rispettando il vincolo del bilancio. Se avessero dovuto finanziarsi sul mercato, coprendo i costi con gli incassi per le prestazioni fornite, avrebbero avuto un incentivo poderoso ad essere efficienti, correndo il rischio di perdere clienti a favore dei loro concorrenti. Disponendo, invece, di un finanziamento "a piè di lista", non hanno di fatto avuto nessuna ragione per migliorare la qualità delle loro prestazioni. Immaginate cosa fosse accaduto se il reddito del salumaio fosse stato fissato dallo Stato e se fossimo stati costretti ad effettuare tutti i nostri acquisti esclusivamente da lui, senza possibili alternative.
Per ciò che riguarda la fornitura, quindi, sarebbe stato opportuno privatizzarla del tutto e costringere gli operatori a rispettare il vincolo del bilancio, finanziandosi esclusivamente con gli incassi connessi alla fornitura del servizio. Se questo progetto si fosse realizzato, tutti gli italiani avrebbero già goduto di un'assistenza sanitaria davvero adeguata, cosa che oggi la nostra spesa sanitaria non può fornire.

In realtà, il vantaggio non riguarderebbe proprio tutti, ed è per questa ragione che quel progetto è stato di difficile realizzazione. In un sistema come quello delineato, l'offerta di servizi sanitari diverrebbe competitiva; le istituzioni relative (ospedali, cliniche, laboratori di analisi, ecc.) verrebbero disciplinate dalla concorrenza e dovrebbero far quadrare i bilanci. I medici e tutti gli operatori sanitari capaci guadagnerebbero forse più di adesso, i pigri e gli incapaci dovrebbero modificare le proprie abitudini o cambiare mestiere. Non ci sarebbe più burocrazia sanitaria e gli attuali burocrati dovrebbero trovare lavoro altrove; nè ci sarebbero più prebende per i politici della sanità, che si vedrebbero costretti a farne a meno. Le frodi si ridurrebbero drasticamente (le compagnie di assicurazione avrebbero interesse a vigilare per impedirle) e quanti per anni si sono "guadagnati da vivere" truffando l'erario nel settore della sanità sarebbero stati costretti a darsi ad attività socialmente meno dannose.

Questo esercito di politicanti, burocrati inutili, operatori sanitari pigri o incompetenti, e profittatori ha goduto di una percezione corretta del proprio interesse: sapendo che la trasformazione dell'assistenza sanitaria nel senso delineato, se avrebbe giocato alla collettività, avrebbe comunque danneggiato il loro interesse privato. Si trattava, del resto, di una lobby potentissima, che difficilmente avrebbe reso possibile una seria riforma del settore. In questa chiave risulta evidente che i famosi 130 mila miliardi non erano affatto destinati all'assistenza sanitaria della collettività, ma avevano invece come scopo principale l' "assistenza" di politici e burocrati che hanno vissuto a spese della sanità pubblica.

Le pensioni

Se è quindi ormai necessario e improrogabile che tutto l'assistenzialismo italiano vada al più presto riformato, è altrettanto vero che alcune riforme sono più urgenti di altre. E la più urgente di queste riforme è senz'altro quella che ci viene da anni inutilmente chiesta da tutti gli esperti del settore, oltre che da organismi indipendenti, come il Fondo monetario, l'Ocse, l'Ue, Bankitalia, ecc.: quella delle pensioni. Per quanto riguarda, infatti, la sostenibilità del nostro sistema pensionistico pubblico nella sua forma attuale - ferma restando una fisiologica, anche se in verità assai contenuta, discordanza di pareri - sembra ormai esserci un consenso assai diffuso: a meno di dar vita a riforme radicali, quel sistema non è davvero più sostenibile.

In aggiunta alla dubbia sostenibilità del sistema sociale assistenziale, va detto che, prescindendo dagli aspetti ridistributivi (per molti fortunati, la sua "generosità" è stata per anni un'autentica manna dal cielo), il sistema a ripartizione non costituisce affatto un buon affare: se gli interessati avessero potuto impiegare liberamente le somme che sono ancora costretti a versare al sistema pensionistico pubblico, avrebbero ottenuto tassi di rendimento marcatamente maggiori. Secondo alcune stime, il rendimento dell'impiego in azioni ed obbligazioni sarebbe in media superiore di circa due volte e mezzo a quello del sistema pubblico a ripartizione. E non mancano stime che suggeriscono una differenza ancora più marcata. Per esempio, fino al 1983 negli Stati Uniti era possibile uscire dal sistema pensionistico pubblico (Social Security) ed optare per un fondo pensione privato. Uno studio relativo a circa un milione di lavoratori che hanno esercitato quella opzione8 mostra come i lavoratori che hanno optato per il sistema privato godono di pensioni da tre a sette volte maggiori di quelle dei pensionati della Social Security.

Tutti questi dati non lasciano adito a dubbi: è innegabile che l'impiego sul mercato del risparmio previdenziale è la via per consentire di elargire pensioni molto più generose, a parità di contributi, e di ridurre sensibilmente i contributi, a parità di pensione. Per esempio, Jeremy Siegel della Wharton School10 ha calcolato che fra il 1802 ed il 1992 l'investimento in Borsa negli Stati Uniti ha fruttato un rendimento medio annuo reale (al netto cioè dell'inflazione) del 7 per cento. E, com'è ovvio, questo esclude gli anni più recenti, quando i rendimenti si sono rivelati nettamente maggiori della media storica. A parità di benefici, quindi, il costo del finanziamento verrebbe ad essere sensibilmente minore: in base ad una ipotesi, la differenza potrebbe rappresentare quasi i 2/3 dei contributi attuali. I vantaggi del passaggio dal sistema pubblico a ripartizione ad uno "privato" a capitalizzazione sarebbero enormi: aumenterebbe il reddito disponibile, si ridurrebbero le aliquote marginali di imposta, causa di notevoli effetti distorsivi, e diminuirebbe l'imposta sull'occupazione responsabile principale dell'attuale intollerabile tasso di disoccupazione. Infine, si potenzierebbe il mercato finanziario con vantaggi notevoli per l'intera economia nazionale. Secondo l'economista di Harvard Martin Feldstein, "nessun paese sarebbe avvantaggiato più dell'Italia (dal passaggio ad un sistema prevalentemente a capitalizzazione)".

L'assistenzialismo indiretto

Com'è noto una delle paure più diffuse in economia è quella connessa all'occupazione, sia quella determinata dal timore di non riuscire ad entrare nel mondo del lavoro sia quella relativa alla stabilita dell'impiego. Questo induce a prendere in considerazione in questo contesto l'intervento pubblico diretto in economia, anche se non si tratta esplicitamente di un aspetto del "welfare state". All'apparenza sembrerebbe, infatti, trattarsi di assistenzialismo, di intervento cioè volto a ridurre incertezza e paura, a vantaggio dei meno abbienti. Un'analisi spassionata del fenomeno conduce però alle stesse conclusioni cui siamo pervenuti in tema di sanità. L'intervento diretto dello Stato nell'economia è stato, nel corso degli anni, variamente giustificato. La prima, e più popolare, giustificazione, com'è noto, è stata quella attinente alla necessità di "sostenere" l'occupazione, di "creare" posti di lavoro. L'idea ispiratrice è stata che, in assenza di intervento pubblico, il mercato avrebbe determinato livelli di occupazione complessiva inaccettabilmente bassi.

Tale tesi, molto diffusa in passato, si è rivelata pericolosissima, proprio perché plausibile: è stato detto che le ipotesi sono come le calunnie, sono tanto più pericolose quanto più sono plausibili. Si tratta di un classico esempio della differenza fra effetti visibili ed effetti invisibili delle decisioni di politica economica. L'intervento pubblico "crea" posti di lavoro per quanti sono assunti nell'impresa in questione; questo è l'effetto visibile. Ma chiediamoci anche da dove sono venuti i quattrini con cui sono stati finanziati i "lavori socialmente utili", la creazione di imprese pubbliche o il ripianamento delle perdite di imprese passive; com'è ovvio, dalle tasche dei contribuenti. Questi hanno avuto, quindi, meno soldi da spendere, e sono stati costretti a ridurre i propri consumi e risparmi. Sia la riduzione dei consumi sia quella dei risparmi si sono sostanzialmente tradotti in una diminuzione di fondi al sistema produttivo, con conseguente riduzione di posti di lavoro: questo è stato l'effetto invisibile.

Il teorema corretto è, in realtà, il seguente: se l'intervento pubblico può "creare" direttamente o indirettamente posti di lavoro nel settore assistito (pubblico o privato), il suo costo ne distrugge però nel settore privato (produttivo). Certo, fortunatamente, anche nel piano teorico le opinioni sull'intervento pubblico e l'occupazione si sono modificate negli ultimi tempi, soprattutto per via della rapida crescita della fiscalità. Il "cuneo salariale" cui si accennava prima - la penale inflitta all'occupazione dagli oneri fiscali e contributivi destinati a finanziare il welfare - ha messo in luce i meccanismi attraverso i quali lo statalismo ha distrutto e continua a distruggere posti di lavoro, chiudendo di fatto le porte del mondo del lavoro ufficiale ai giovani che tentano di entrarvi.

Purtroppo, il contrasto fra la visibilità dell'occupazione "creata" dall'intervento pubblico e l'invisibilità dell'occupazione da esso distrutta permane, e si traduce nel fatto che pochi si rendono conto dei danni determinati dallo statalismo; e ancora oggi, a sinistra, c'è che crede che esso crei occupazione.
Una seconda argomentazione a favore dell'intervento pubblico diretto nell'economia è stata quella che, in Italia, si potesse promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Ma anche questa è oggi una tesi alquanto desueta: dopo i risultati a dir poco deludenti (il tasso di disoccupazione al Sud è quasi quadruplo rispetto a quello del Centro-Nord), chi continua a sostenere l'opportunità dell'intervento pubblico come terapia per lo sviluppo delle regioni meridionali appare quasi provocatorio.

Come meridionale, tuttavia, non posso tacere del danno enorme e duraturo che lo statalismo ha prodotto per decenni all'economia meridionale, distorcendo il sistema di incentivi e rendendo più attraente per i nostri giovani la "sistemazione" nel settore politico-parassitario a scapito di quello produttivo. Anche se di difficile quantificazione, si tratta di un grave colpo inferto alle potenzialità di sviluppo del Sud. Prendiamo, per esempio, i cosiddetti "lavori socialmente utili" che hanno avuto origine nel Mezzogiorno (in Sicilia sono stati creati da un articolo della finanziaria regionale, i beneficiari vengono, pertanto, chiamati "articolisti" e sono ancora un autentico esercito) e sono stati poi esportati anche altrove. Il giovane che per anni ha percepito un assegno, sia pure modesto, ha in realtà subìto un danno permanente per una serie di ragioni. L'incentivo a cercarsi un'occupazione produttiva è stato pesantemente ridotto: se, infatti, trovava un lavoro perdeva l'assegno per il "lavoro socialmente utile", ed è dubbio che, al netto di quello che avrebbe perduto, il compenso per il primo lavoro giustificasse la fatica di cercarlo.

In secondo luogo, l'interessato veniva convinto dalla corresponsione dell'assegno che la sua occupazione era un problema per lo Stato, per i politici, non certo per lui. E ancora, mentre percepiva l'assegno, molto spesso svolgeva un altro lavoro, in nero, guadagnando grazie alle due entrate più di quanto avrebbe guadagnato con un lavoro ufficiale. Infine, ma si potrebbe continuare a lungo, avendo percepito soldi dallo Stato per anni, finiva col convincersi di avere semplicemente usufruito di un suo diritto, di modo che finiva per pretendere (e non è detto che non lo ottenesse) un "posto" stabile nell'amministrazione pubblica. Aggiungendo danno al danno, il costo di questa devastante operazione demagogica ha gravato pesantemente sui datori e sui lavoratori del resto dell'economia, riducendo l'occupazione produttiva. La morale è assai semplice: occupazione non significa - come non poteva significare - percepire un reddito, significa produrre un reddito. Perché l'occupazione possa essere stabile deve essere produttiva. Se, col pretesto di creare occupazione, destiniamo risorse a scopi improduttivi, impoveriamo il Paese, sciupando risorse scarse che potrebbero essere utilizzate proficuamente in altro modo. Non è un caso che dove l'intervento pubblico diretto a creare occupazione è stato più largamente usato, il Mezzogiorno, la disoccupazione è stata maggiore e lo sviluppo economico è stato strutturalmente impedito.

Se, invece, di perseguitare ferocemente l'occupazione tassandola in misura che non ha eguali nel mondo industriale, lo Stato avesse consentito ai datori di assumere senza penali di sorta; se, invece di soffocare sotto una montagna di adempimenti amministrativi le iniziative imprenditoriali, le si fosse incoraggiate; se, ogni qual volta si doveva dar vita ad un insediamento industriale si fosse rinunziato a mettergli i bastoni fra le ruote in mille modi; se, invece di punire il successo, tassandolo, e premiare i fallimenti con le mille forme di "aiuti", si fosse consentito alle imprese di operare in condizioni di piena responsabilità; se si fossero fatte tutte queste cose, l'economia italiana avrebbe da tempo creato in un batter d'occhio molte centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro.
Tornando al filo principale del nostro discorso, vengo quindi a quella che ritengo la spiegazione vera della esistenza di un toppo largo settore pubblico in Italia. Anzitutto, una riflessione ovvia: quello che conta veramente da un punto di vista economico non è la titolarità dell'impresa, se pubblica o privata, ma la sua gestione, se economica o anti-economica. Ora, se si volesse la gestione economica di una data impresa, questa potrebbe benissimo essere privata; se si vuole che sia pubblica, in altri termini, è perché non si vuole che venga gestita economicamente.

2/continua

10 maggio 2002 "



dal sito di ideazione
continuazione dell'articolo di Antonio Martino....

"È questo il fondamentale punto di partenza di qualsiasi analisi seria delle motivazioni dell’intervento pubblico: si è voluta la titolarità pubblica perché non si voleva la gestione economica. E la ragione va ricercata nel fatto che la gestione anti-economica dell’impresa significava che i fattori produttivi in essa impiegati percepivano remunerazioni superiori al valore della produzione complessiva. Come sostenuto da Leonard Read, quando uno riceve un reddito che non produce, qualcun altro produce un reddito che non riceve e non riceverà mai . La “pubblicità” dell’impresa, in altri termini, è stato semplicemente un espediente per ridistribuire reddito a favore dei fattori produttivi ivi “occupati “.

I vantaggi che ognuno dei dipendenti dell’impresa pubblica passiva ricavava dalla situazione sono stati notevoli, immediati e a lui ben noti. I costi che tale situazione comportava per la collettività sono stati, invece, scarsamente compresi e di lungo respiro. Pertanto, nel contrasto fra l’interesse generale della collettività e quello particolare dei pochi beneficiari, in Italia per troppo tempo è stato quest’ultimo a prevalere. È stato per questa ragione fondamentale, e non per le varie giustificazioni di volta in volta addotte, che l’intervento pubblico si è diffuso, che le imprese in esso operanti sono state inefficienti e che la privatizzazione è stata così difficile da realizzare.

Vediamo di chiarire. Prendiamo come esempio un’impresa pubblica che ha occupato 10.000 persone e realizzato perdite per, diciamo, 57 miliardi all’anno, perdite che sono state “ripianate” con una sovvenzione pubblica. In una situazione del genere, ognuno dei 10.000 dipendenti ha ricevuto in media 5.700.000 lire all’anno di reddito in più rispetto a quello che produceva. Se il costo di tale operazione di “ripianamento” è stato distribuito “a pioggia” sull’intera collettività nazionale, ognuno dei 57 milioni di Italiani ha finito per sopportare un costo annuo di sole 1.000 lire. Ecco la prima asimmetria: ognuno dei dipendenti della impresa pubblica passiva ha avuto molto da guadagnare da una situazione simile (5.700.000 lire), mentre ognuno di coloro su cui è gravato il costo ha, in realtà, sopportato una perdita relativamente piccola (1.000 lire).

In secondo luogo, mentre è assai probabile che ognuno dei 10.000 beneficiari ha saputo esattamente quanto gli rendeva l’esistenza della impresa pubblica, è perlomeno dubbio che lo sapessero tutti i 57 milioni di italiani. In conseguenza di ciò, mentre coloro che hanno finito per trarre vantaggio da questa situazione si sono battuti fino allo stremo perché non venisse modificata, i danneggiati non hanno fatto molto per cambiare le cose, sia perché ognuno di essi sopportava una perdita modesta, sia perché è assai probabile che nessuno sapesse come stavano le cose. Qualsiasi riferimento a noti impianti siderurgici non è casuale.
Inutile aggiungere che questo tipo di situazione è stata certamente conveniente per la classe politica, sia perché ne ha accresciuto enormemente il potere, sia perché ne ha amplificato l’immagine . Pensate alla enorme influenza che per anni ha conferito ai politici la gestione di interessi colossali come quelli del settore pubblico: la possibilità di favorire amici, parenti e sostenitori con lucrose quanto poco impegnative “sistemazioni”, per non parlare della inevitabile, sistematica collusione fra interessi privati e pubblici. Ma, anche quando il politico era certamente onesto sotto il profilo materiale e personale, l’intervento pubblico gli offriva ugualmente qualcosa di importante: l’immagine, la possibilità di dare l’impressione di essere impegnato seriamente al perseguimento del bene comune, la visibilità, che per il politico costituisse condizione essenziale di sopravvivenza. Come diceva Napoleone, la causa vera della rivoluzione francese fu la vanità, la libertà ne fu solo il pretesto.

Allo stato attuale, la correzione di rotta, se le considerazioni sin qui esposte sono vere, non poteva, non può, essere cercata, come sosteneva la sinistra, in un management più efficiente: il problema non è la qualità della gestione, ma l’assenza di corretti incentivi. L’inefficienza dei paesi comunisti non era dovuta ad incapacità di gestione: anche se l’Urss avesse avuto a disposizione manager capaci, sarebbe stata ugualmente spaventosamente inefficiente.

Sembra un paradosso, ma è un’ovvietà; un’economia di mercato concorrenziale si basa infatti su un “meccanismo di filtro”: la concorrenza spazza via le imprese inefficienti e lascia crescere quelle più competitive. Le aziende gestite da manager incapaci non sopravvivono, quelle guidate da gestori di successo prosperano. Ancora più importante è il fatto che nel libero mercato a decidere se un manager sia bravo o meno non è un organismo politico o amministrativo (che non solo manca di criteri obiettivi di valutazione, ma è anche sempre corruttibile), ma un meccanismo impersonale come il mercato. Sono i clienti delle imprese ad attribuire i “voti” nella pagella dei manager: acquistando o rifiutandosi di acquistare il prodotto in questione determinano il successo o il fallimento dell’impresa, la “promozione” o la “bocciatura” del suo manager.

I manager incapaci, quindi, in un’economia libera vengono costretti a cambiare mestiere. Possono continuare ad esistere solo quando manca o viene reso inefficace il criterio di valutazione del loro operato, cioè quando manca il mercato. L’esistenza di manager capaci, quindi, è conseguenza del libero mercato e della proprietà privata, che determinano anche l’efficienza complessiva dell’economia. Il problema dell’efficienza, quindi, è un problema di libertà: un’economia libera è anche efficiente, un’economia che non è libera non può nemmeno essere efficiente11 . Alla luce di queste considerazioni, e dell’esperienza fallimentare del settore pubblico, ci si rende conto della straordinaria validità dell’affermazione fatta dalla signora Thatcher nel 1979, a proposito di un Paese che si trovava allora in condizioni assai simili a quelle dell’Italia di vent’anni dopo: «In Inghilterra esistono due settori: il settore privato, che è controllato dallo Stato, e quello pubblico, che non è controllato da nessuno».

Per quanto riguarda il nostro tema, l’aspetto da sottolineare è che l’intervento pubblico in economia ha sempre rappresentato uno strumento di ridistribuzione di reddito del tutto simile nella sostanza, anche se non nelle motivazioni “ufficiali”, ai programmi dello Stato assistenziale. Come questi ultimi, il suo vero scopo è sempre stato il trasferimento di risorse dal settore produttivo privato a quello politico-burocratico. Solo il futuro dirà se prevarranno gli interessi della collettività alla gestione razionale delle risorse o quelli dei gruppi di pressione volti al mantenimento dello status quo.
Conclusione

La parabola storica dell’assistenzialismo di Stato non ci ha comunque liberato dalla paura. Questo “fratello maggiore” che avrebbe dovuto curarci se ammalati, provvedere alla nostra vecchiaia, alleviare la nostra povertà, garantirci un’istruzione qualificata, assicurarci un impiego, ha insomma miseramente fallito i suoi obiettivi. Il timore di una vecchiaia priva di mezzi non è stato esorcizzato dal sistema pensionistico pubblico: anche se si prescinde dall’esiguità delle pensioni di Stato e dai gravi dubbi sull’equità di un sistema in cui è spezzata la relazione fra contributi pagati e pensione cui si ha diritto, resta il fatto che il sistema pensionistico pubblico, basato sulla ripartizione, versa in condizioni di assai dubbia solvibilità attuariale. Il sistema a ripartizione (in inglese: pay as you go), infatti, copre il costo della pensioni corrisposte con i contributi pagati dai lavoratori attuali. Date le tendenze demografiche in corso, il numero dei potenziali beneficiari va aumentando, mentre si riduce quello di coloro su cui grava il costo del sistema pensionistico. Nasce così la non infondata paura che, quando sarà il momento, la pensione di Stato su cui avevamo fatto affidamento non ci consentirà nemmeno il tenore di vita, anche basso, che ci attendevamo. Se a questo si aggiunge che le imposte che siamo costretti a pagare per coprire le spese dello Stato assistenziale riducono la possibilità di provvedere col nostro risparmio ad assicurarci una comoda vecchiaia, si comprenderà come non sia infondata la tesi secondo cui l’assistenzialismo di Stato ha accresciuto, non ridotto, la paura della vecchiaia.

Allo stesso modo, la paura delle malattie non è stata ridotta dal servizio sanitario nazionale: il crescente ricorso ad assicurazioni sanitarie private e l’elevata percentuale degli aventi diritto a cure pubbliche “gratuite” che si rivolgono a cure private a pagamento costituiscono prova irrefutabile del fallimento dell’assistenzialismo di Stato in campo sanitario. Alla normale paura delle malattie si è aggiunta quella di rischiare di finire in strutture sanitarie pubbliche, di cui le cronache hanno fornito per anni illustrazioni terrificanti. La paura della povertà non è stata ridotta: l’assistenzialismo pubblico non ha eliminato la povertà anche se ha una quantità tale di risorse che avrebbe effettivamente potuto realizzare quell’obiettivo leggendario . In base alla definizione ufficiale di “povertà”, negli ultimi anni il numero di poveri è aumentato, non diminuito.

La disoccupazione non ha smesso di costituire causa di paura solo perché l’assistenzialismo alle aziende, l’intervento diretto dello Stato in economia, si proponevava il nobile obiettivo di “tutelare i livelli di occupazione”. Secondo i dati ufficiali, la disoccupazione ha, anzi, raggiunto nell’ultimo decennio livelli assai elevati, e la paura ad essa connessa è semmai stata accresciuta dalla sistematica distruzione di opportunità di impiego dovuta allo statalismo ed all’iperfiscalità.

In sostanza, se lo Stato assistenziale non ha ridotto le cause di paura, ha in compenso accresciuto enormemente l’incertezza circa il futuro . Se lo scopo reale dell’assistenzialismo di Stato fosse stato quello di ridurre la paura, l’obiettivo non solo è stato mancato, ma si è addirittura ottenuto il risultato opposto. Oggi l’Italia ha l’obbligo e il mandato popolare per invertire la rotta, per riprendere la via dello sviluppo, che avevamo abbandonato e che costituisce l’unica speranza di risolvere i nostri problemi. L’ultimo decennio è stato di gran lunga il peggiore nella storia della Repubblica: dal 1951 al 1960, il reddito reale è aumentato del 66,5 per cento; dal 1961 al 1970, del 53 per cento; dal 1971 al 1980, del 45,75 per cento; dal 1981 al 1990, del 29,7 per cento; dal 1991 al 2000, soltanto del 12,5 per cento. Gli anni Novanta ci hanno fatto diventare un paese in via di sottosviluppo.

Per ricominciare a crescere oggi abbiamo l’obbligo di ridimensionare drasticamente e subito l’invadenza pubblica anzitutto riducendo sia la spesa pubblica sia il prelievo tributario. Uno studio12 basato su dati relativi a 23 paesi membri dell’Ocse e 60 paesi sottosviluppati ha dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, questa elementare verità. Le conclusioni, per quanto ci riguarda, possono così essere sintetizzate:
a) la spesa pubblica per le funzioni fondamentali (core functions) dello Stato stimola la crescita economica, l’aumento della spesa oltre quel livello finisce per rallentare lo sviluppo;
b) una spesa pubblica dell’ordine del 30 per cento del Pil (come in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta) è compatibile con tassi di sviluppo annui pari o superiori al 5 per cento, una spesa pari al 45 per cento del Pil o più riduce la crescita a tassi pari o inferiori al 2 per cento (l’esperienza italiana è conforme).

Ricondurre spesa pubblica e fiscalità al loro livello fisiologico richiede coraggiose riforme dell’assistenzialismo italiano – su più fronti: previdenza, sanità, scuola, università, l’intero sistema di trasferimenti – attribuendo un ruolo crescente alla fornitura privata di questi servizi in concorrenza con quella pubblica, in modo da renderla anzitutto più efficiente, e consentendo inoltre una sempre maggiore libertà degli interessati di scegliere fra fornitori alternativi.

Per troppi anni lo Stato assistenziale ci ha imposto la difesa degli interessi dei fornitori dei servizi (burocrati, politici, sindacalisti, insegnanti, personale sanitario, ecc.) anziché di quelli dei destinatari (pensionati, pazienti, studenti, ecc.). Il costo elevato ed i risultati deludenti nascevano, del resto, proprio da questo: con un sistema monopolistico in cui i fornitori dei servizi sono stati protetti dalla concorrenza e hanno usato l’apparato a loro vantaggio, i destinatari non hanno avuto alcuna voce in capitolo. Adesso, con i risultati elettorali del 13 maggio e il programma della Casa delle libertà, è arrivato il momento per ribaltare la situazione, separare la fornitura (che deve essere effettuata in concorrenza fra vari soggetti) dall’accesso (che deve essere garantito dallo Stato a quanti non se lo possono permettere), e restituire libertà di scelta agli interessati . Questo è possibile, attraverso il sistema dei “buoni” (buono-scuola, buono-sanità, ecc.). Solo così riusciremo a contemperare le esigenze di solidarietà vera con quelle dell’efficienza, in quadro di libertà e concorrenza.

La strada è chiara: dobbiamo passare dalla falsa solidarietà dell’assistenzialismo, col suo patrimonio di ristagno, disoccupazione e incertezza, per non parlare degli sprechi e della corruzione che per troppi anni hanno penalizzato l’Italia, alle concrete opportunità che solo lo sviluppo può darci. La vera solidarietà è quella offerta da un paese che ci affranca dalla dipendenza dalla carità pelosa della politica, ci consente di provvedere da noi stessi ai nostri bisogni, rende facile trovare un’occupazione attraente, produrre un reddito adeguato ai nostri bisogni, e soprattutto ci lascia liberi di scegliere come utilizzare la massima parte del nostro reddito, destinandolo alle alternative da noi preferite.

3/continua

24 maggio 2002 "

Continua....

tony (POL)
26-05-02, 11:29
...liberalizziamo il mercato delle armi come negli USA...

Pieffebi
26-05-02, 20:45
Veramente qui si sta parlando d'altro. In ogni caso il buon Martino è un sostenitore di posizioni libertarie, anche, ad esempio, contro l'uso delle cinture di sicurezza, eccetera. Sono posizioni che molto spessonon condivido perchè troppo astratte ed eccessive, ma hanno una loro logica ferrea e discendono dal principio di libertà e responsabilità individuale e dalla contestazione di ogni ruolo paternalistico dello Stato. Sono idee che possono essere respinte, ma aiutano a riflettere.......su libertà, responsabilità, autorità e bene pubblico.

Saluti liberali.

Gatto Mammome
27-05-02, 13:43
Sono idee che possono essere respinte, ma aiutano a riflettere.......su libertà, responsabilità, autorità e bene pubblico.
Veramente a me più che sul bene pubblico, fanno riflettere sul male individuale.

Che ne diresti di incoraggiare anche la guida senza patente, in stato di ubriachezza, sotto l'effetto della droga, a 220 Km/h?

Questo si che aiuterebbe a riflettere!!

P.S.: Non rimproverare Tony, certo che è fuori tema. Ma chi credi che abbia letto tutti i tuoi chilometrici post?

Pieffebi
27-05-02, 20:26
Vedi i problemi posti da Martino sono seri, e non possono essere affrontati con una battuta di spirito. Sono decenni che i liberali-libreristi litigano fra loro su questi argomenti, con argomentazioni di grande rilievo e spessore culturale. Ripeto....io non sono sempre d'accordo con Martino, ma ammetto che, se seriamente intese (al di là di ogni polemica politica o di schieramento) molte sue idee "libertarie" meritano di essere esaminate e contribuiscono ad arricchire il dibattito sulla libertà individuale e il bene pubblico. Libero ovviamente tu di persarla diversamente.

Cordiali saluti.

Pieffebi
08-06-02, 17:54
dal sito di Ideazione :

" La diagnosi di Fazio: giudizi scomodi e pregiudizi ideologici
di Massimo Lo Cicero

Le quattro coordinate di base della diagnosi di Fazio sull'economia nel 2001 sono tutte molto ruvide nei confronti dei paradigmi interpretativi che dominano la scena domestica in Italia. L'impianto logico del Governatore si fonda su giudizi molto espliciti. Primo : la condivisione della interpretazione che Alan Greenspan offre della crisi americana e della possibilità di superarla. In uno con il giudizio sulla sostenibilità della terapia fiscale per fronteggiarla. Secondo : il riconoscimento degli effetti positivi della globalizzazione sulla crescita futura dei paesi più deboli, a patto che il mondo sappia dare vita ad istituzioni capaci di governare questa dimensione globale dell'economia. Ma i governi e gli stati non hanno un ruolo esclusivo nella progettazione di queste nuove istituzioni. Terzo : l'affermazione che l'economia italiana sia riuscita a darsi nella prima metà degli anni Novanta una ragionevole stabilità monetaria ma, nei cinque anni successivi, non abbia trovato la strada della crescita. Ma la strozzatura dell'espansione non è venuta dal sistema degli intermediari finanziari, che hanno retto la sfida di una trasformazione competitiva: essa deriva dalle regole che disciplinano il mercato del lavoro e la previdenza e dalla complessiva inefficienza della macchina pubblica. Lo stato costa molto; l'amministrazione pubblica controlla il 50% delle destinazione del prodotto interno lordo; gli effetti di questo dilagare dello stato sono inefficienti ed inefficaci, contemporaneamente. Quarto : la denuncia del fatto che l'economia privata del nostro paese, stretta tra la dilagante mediocre presenza dello stato, i vincoli esistenti sul mercato del lavoro e la mancata diffusione della cultura finanziaria si è rifugiata in una ridicola dimensione d'impresa.

Ma - smentendo una leggenda nazionale - il Governatore dimostra che la dimensione microscopica delle imprese italiane non è efficiente e non consente di affrontare la sfida delle tecnologie e della crescita. Fazio denuncia esplicitamente i vizi di questa anomalia dimensionale: molte imprese troppo piccole, da un parte, e poche imprese grandi dall'altra. Mancano le imprese di medie dimensioni mentre le grandi imprese, a loro volta, sono piccole per presentarsi adeguatamente alla scala del mercato mondiale ed europeo e, spesso, non hanno la capacità di competere su quei mercati. Si tratta di quattro verità molto scomode da accettare . Non mancano, infatti, i primi tentativi di deformare il contenuto della diagnosi per denunciarne la inadeguatezza, seppure implicitamente. Giuseppe Turani, ad esempio, si produce in un peana delle medie imprese presentandole come casi di dimensioni più piccole ma di successo: che i mercati finanziari non riescono a vedere e che, al contrario delle grandi, presentano performance migliori. Turani non commenta Fazio ma presenta i risultati di una indagine di Mediobanca anche se il suo articolo appare, sulle pagine di un quotidiano romano, dopo la presentazione delle considerazioni finali. Sarà anche vero che si indovina quando si pensa male ma è davvero strano che Turani arrivi alla medesima conclusione di Fazio - peccato che in Italia ci siano così poche imprese medie capaci di fare innovazione e sviluppo - mentre il lettore trae da quell'articolo la sensazione che l'Italia non sappia capire quanto valgono le sue imprese piccole. Cioè una smentita implicita della denuncia di Fazio. Essendo la definizione di piccolo e le conseguenze dell'analisi i punti ambigui ed opachi dell'articolo di Turani rispetto alla diagnosi di Fazio.

L'impianto del Governatore, insomma, si contrappone a due strade intellettuali molto apprezzate in Italia: quella delle tecnocrazie europee e quella delle ricette socialdemocratiche per riformare il capitalismo . Fazio ripiega su una terza tradizione: quella del cattolicesimo liberale . Quella che difende lo stato ma non lo considera un demiurgo e che non mitizza la funzione delle minoranze illuminate, chiamate a governare la cosa pubblica nell'interesse del bene comune. Il Governatore guarda e commenta; misura la distanza che ci separa da paesi che hanno seguito altre strade e denuncia come l'Europa socialdemocratica registri una performance nella equità della redistribuzione dei redditi, in favore dei salariati, peggiore di quella realizzata negli Stati Uniti, all'insegna del capitalismo. Sono proprio queste opzioni americane - per un "istituzionalismo" dove lo stato sia solo primus inter pares rispetto alle altre organizzazioni pubbliche; per le analisi di Greenspan; per la responsabilità di ogni individuo nella costruzione del futuro - che alimentano la diffidenza di un parte della cultura nazionale verso Antonio Fazio. Gli Stati Uniti non sono un modello positivo per una parte della nostra classe dirigente. Ma questo, forse, è proprio il quinto fattore di ritardo che Fazio non ha indicato e che implicitamente si potrebbe aggiungere alla sua lista delle cause che frenano la nostra crescita .

7 giugno 2002

maloci@tin.it
"

Saluti liberali

Pieffebi
21-07-02, 18:20
da www.lastampa.it


" IL DIBATTITO TRA ESPERTI, OPERATORI E POLITICI
Gli otto nodi da sciogliere per riformare il capitalismo
Lo scoppio della bolla speculativa e la raffica di nuovi scandali negli Usa hanno messo a nudo i punti deboli del sistema finanziario occidentale

LE falsificazioni e le frodi rischiano di distruggere il capitalismo» ha ammonito Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve. Enron, WorldCom, Tyco... Scandalo dopo scandalo, il sistema economico americano rivela le sue debolezze, che poi si riflettono sul sistema mondiale. Si impongono certe domande, alle quali si profilano delle risposte. Come migliorare la «governance» delle imprese?
In teoria, il consiglio di amministrazione, con i suoi 10 o 20 membri, sarebbe il primo contropotere. Dovrebbe controllare e consigliare il presidente e l´amministratore delegato, impedendone eventuali sbandamenti. Nella realtà, il consiglio è composto da membri cooptati che di regola svolgono una funzione meramente notarile. Quando avremo norme contabili mondiali?
Le imprese non parlano tutte il medesimo linguaggio contabile. L´Europa ha deciso di uniformarsi all´International Accounting Standard (Ias) entro il 2005, gli Stati Uniti sono fermi al loro Generally Accepted Accounting Principles (Gaap). Queste differenze non comportano solo una formidabile complessità di gestione: trattare un´operazione con un sistema contabile o con l´altro può gonfiare o comprimere i risultati di un gruppo. Questa indeterminatezza ha favorito la «finanza creativa» a detrimento della trasparenza dei conti. Per risanare il sistema, i revisori e i regolatori perorano la necessità di una convergenza delle due normative. Frits Bolkestein, commissario europeo al Mercato interno, ha dichiarato che «entro il 2005 è necessaria anche un´armonizzazione globale». Secondo un recente sondaggio McKinsey, il 90% dei dirigenti mondiali gradirebbe effettivamente una normativa comune. Però 8 dirigenti europei su 10 vorrebbero che la norma comune fosse lo Ias mentre otto americani su dieci vorrebbero il Gaap ... Come gestire il problema stock option?
Alla fine degli Anni 90, gli introiti derivanti dalle stock option rappresentavano l´80% di quanto guadagnavano i dirigenti americani. Questa somma colossale ha avuto effetti perversi: ci sono stati dirigenti che hanno cercato di massimizzare il valore dei titoli a breve termine a detrimento delle strategie d´impresa a medio e lungo. Inoltre le stock option, in quanto remunerazioni sì, ma differite, non vengono contabilizzate nelle spese delle società. Gli estensori delle norme europee Ias hanno invece stabilito l´obbligo di contabilizzarle. La questione trova gli americani divisi: George Bush e la sua Amministrazione si oppongono ma grandi gruppi come la Coca-Cola hanno deciso di introdurre la contabilizzazione per conto loro. Possiamo ancora credere agli analisti?
La professione dell´analista finanziario è caduta dal piedistallo. Poche settimane prima del fallimento della Enron, alcuni di loro consigliavano ancora di comprare azioni del colosso texano dell´energia. A questi professionisti si rimprovera innanzitutto di non aver mantenuto il dovuto distacco dalle direzioni finanziarie delle imprese. Più nello specifico, molti di loro, impiegati in banche d´affari, sono caduti in un vero e proprio conflitto d´interessi: non osavano esprimere giudizi negativi sulle imprese clienti delle banche per cui lavoravano. Una decine di analisti e diverse banche sono al momento sotto inchiesta da parte dell´autorità che sovrintende al mercato americano, la Securities and Exchange Commission (Sec), e della magistratura ordinaria dello Stato di New York . La Borsa favorisce troppo la visuale a breve termine?
Che i tempi delle imprese siano compatibili con quelli della Borsa è una cosa di cui, ormai, parecchi dirigenti dubitano. Costoro deplorano un´eccessiva pressione borsistica, troppo spesso priva di rapporto con le prospettive reali di crescita. Si può avere fiducia nelle società di auditing?
La scomparsa, sotto i colpi del caso Enron, della Arthur Andersen ha avuto l´effetto di una bomba nel mondo ovattato delle società di auditing. Dopo di allora, le cattive notizie si sono moltiplicate. La più recente: Weiss Rating, l´agenzia americana di controllo sugli investimenti dei fondi pensione americani, ha annunciato che il 94% delle società americane ha ottenuto dagli auditor la qualifica di buona salute, ma è dubbio che questa etichetta sia ancora credibile, dato che la stessa Weiss Rating sottolinea che su 100 imprese fallite negli ultimi sei mesi, 42 non avevano avuto difficoltà a ottenere la qualifica alla fine del 2001 e di 22 è stato dimostrato in seguito che avevano contabilità inesatte. Le società di revisione hanno il distacco e la serenità necessari a controllare davvero i conti dei loro clienti? In Francia, per aumentare l´indipendenza e la chiarezza dei bilanci, viene richiesta la certificazione di due distinte società di auditing. L´Italia, il Belgio, la Germania e l´Irlanda hanno mostrato interesse a questo sistema. Si dà troppa importanza alle agenzie di rating?
Ultima bussola per gli investitori disorientati, le agenzie di rating, incaricate di valutare la capacità delle imprese di rimborsare i debiti, sono diventate protagoniste. Le loro note sono ormai indicatori preziosi per gli analisti finanziari in crisi di identità. «Noi non possiamo prevedere l´avvenire di un´impresa, ne valutiamo solo la solvibilità. Non possiamo sopperire alle inadeguatezze del sistema», mette le mani avanti François Ververka, responsabile di Standard and Poor´s per l´Europa. Il problema è che anche queste agenzie vivono essenzialmente delle parcelle delle imprese che valutano e che la qualità del loro lavoro dipende soprattutto da quella delle informazioni che le stesse imprese forniscono loro . Bisogna rafforzare le autorità di controllo?
Il dibattito è aperto in tutto il mondo: negli Usa si stanno discutendo nuove regole (e anche nuove sanzioni per i manager «infedeli») mentre nuovi è più efficaci poteri d´inchiesta sopno attribuiti alla Sec, in Italia il Parlamento sta lavorando ad un aggiornamento della legge Draghi (testo unico della finanza). In Francia potrebbe presto vedere la luce una nuova Autorità dei mercati finanziari che unificherebbe le competenze di Cob (Commssione di Borsa) e Cmf (Consiglio dei mercati finanziari). Copyright Le Monde "


Saluti liberli

Pieffebi
24-07-02, 15:24
Dal crollo delle borse mondiali qualcuno torna ad attendersi la palingenesi rivoluzionaria, la fine del capitalismo o quanto meno, in una prima fase, del "modello liberista". A costoro ricordo un tardivo insegnamento del signor Lenin : "non c'è assolutamente nessuna situazione che sia senza vie d'uscita per la borghesia". Credo che sia l'unica profezia di Lenin che si è avverata, e continuerà ad avverarsi.


Saluti liberali

tony (POL)
24-07-02, 21:39
ma..credo che nessuno in definitiva si aspetti la palingenesi rivoluzionaria dal crollo delle borse..
semplicemente si vorrebbe capire se e quando finalmente etica e mercato riusciranno a conciliarsi in modo da non giocare brutti scherzi ai piccoli risparmiatori.

Pieffebi
26-07-02, 19:37
non direttamente dal crollo delle borse.....ma dal crollo del capitalismo che qualcuno ritiene esserne, seppur non nell'immediato, l'effetto ultimo....con l'aiuto della spinta delle celebri lotte anti-imperialistiche dei "popoli oppressi" e delle lotte di classe guidate dal "movimento" alleato del Sindacato (epurato dai socialtraditori e socialfascisti firmatari di patti con i governi "reazionari").

Saluti liberali

Pieffebi
26-07-02, 21:25
dal sito di ideazione:

" La sfida della democrazia economica

Le ultime vicende politico-economiche italiane - la necessità di riformare il mercato del lavoro, lo scontro sull'articolo 18, il dibattito sul dialogo sociale, lo stesso attentato terroristico che è costato la vita di Marco Biagi - rimandano quasi tutte alla "questione lavoro". Tutto sembra riportarci alla centralità strutturale del mondo del lavoro. Esso è ancora il luogo d'incontro e sovrapposizione tra il momento materiale della trasformazione, la sua percezione produttiva di vitalità simbolica e la costruzione di prospettive di crescita economica e ricchezza diffusa. Certo, la fabbrica e il lavoro operaio hanno perso negli anni significanza sociale; è tramontato il modello fordista; sono emersi nuovi modelli di organizzazione aziendale; l'eredità di questi processi deve, forse, essere ancora registrata dalla politica nelle sue vibrazioni e potenzialità di lunga durata. Eppure, uno dei fulcri della possibile trasformazione politica contemporanea - all'interno del generale processo di mondializzazione dell'economia (di mondiale operari) - si determina senz'altro sulla capacità di governare questi nuovi processi economico-produttivi. La riforma del mercato del lavoro, del resto, a partire dalla revisione sperimentale dell'articolo 18 dell'ormai antiquato Statuto dei lavoratori, è stato uno dei primi impegni assunti dal governo scaturito dalle elezioni del 13 maggio 2001. Si tratta di un'iniziativa necessaria che, però, va inquadrata e chiarita in un processo più vasto e articolato. Un troppo facile nuovismo, giocato sulla sola manovra parlamentare, non riuscirebbe infatti a dare ragione di questa stagione riformista e, soprattutto, rischierebbe di apparire come l'esatto opposto di una consapevole opera di innovazione.

Non basta pensare di riformare solo attraverso il ricorso a un decreto o a un voto in Parlamento. Occorre spiegare, fornire l'interpretazione complessiva del quadro, dispiegare chiaramente il processo di cambiamento di fronte ai vasti strati della popolazione, soprattutto per vincerne le resistenze diffidenti e il sentimento di paura di fronte al nuovo. Occorre fornire un punto di vista, il punto di vista. Per dirla con le parole dello stesso Marco Biagi: "E' legittimo considerare ogni elemento di modernizzazione o progresso un pericolo per le classi socialmente più deboli. E' sempre stato così nella storia che anche in questo caso si ripete. Tutto il disegno di legge 848 costituisce il passaggio dal vecchio al nuovo e vien da pensare che dopo l'articolo vi sarebbero state altre parti di quel testo a subire il veto di parte sindacale. Lo stesso "Statuto dei lavori" significa rivedere le tutele delle varie forme di lavoro e non solo estendere quelle attuali a chi ancora non ne dispone. Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando prezzi alti alla conflittualità".

Occorre, in altre parole, riuscire a fornire rappresentanza politica alle stesse tensioni sociali, inverandole e politicizzandole nei processi di riforma. Il conflitto va compreso non compresso, affrontato non annullato. E' enorme la differenza tra questo approccio - quello giocato sulla libertà, sull'accettazione agonistica della sfida - e il pensiero socialdemocratico e socialmente debole, risentito e rassicurante, tutto ripiegato sulla difensiva. E il plus consiste soprattutto nella prospettiva di mutazione antropologica derivante da un approccio ispirato al riformismo politico e non al rivendicazionismo assistenzialista e conservatore. Un plus, appunto, che fa propria la dinamica della competizione, che si arrischia con travaglio e che, come diceva Biagi, è consapevole di pagare anche "alti prezzi di conflittualità" . Un plus che, però, consentirebbe di coniugare, in un unico progetto, flessibilità del lavoro, energia agonistica, fervore produttivo, creatività della tradizione italiana, nuovo ruolo di supporto degli enti locali (anche sul piano del rafforzamento psicologico dei soggetti impegnati nella ristrutturazione-riappropriazione) . Una ricetta in grado di consentire alle nostra impresa di competere nel mare aperto della globalizzazione. E' su questa base che deve allora impostarsi l'oggettivo interesse governativo per uscire dall'impasse determinato dal minimalismo di una impostazione non coinvolgente rispetto al modello sociale. Una reale azione riformatrice è infatti capace di trasformazioni socio-economiche ma anche - contemporaneamente - di espressione politica e di una narrazione pubblica all'altezza degli eventi.

Si colloca in questo quadro il dibattito su un nuovo paradigma di relazioni industriali adeguato alle sfide dell'economia globale, un dibattito cui dedichiamo il dossier che segue. Ipotizzare oggi un modello alternativo a quello ingessato dalle vecchie tutele e dalla concertazione delle parti sociali non significa, infatti, tornare a paradigmi socialdemocratici ma, al contrario, introdurre uno schema inedito di democrazia economica che contemperi solidarietà ed efficienza e che tenga conto del tasso necessario di conflittualità. Si tratta della partecipazione competitiva, un modello di relazioni industriali del resto ormai alle porte sia con la società per azioni europea, cui dobbiamo adeguarci, sia con alcuni progetti di legge presentati da parlamentari del centro-destra e recepiti dal ministro Maroni, il quale aveva già dedicato a questa novità l'ultima parte del suo Libro bianco sul lavoro. E' un progetto d'ampio respiro nell'ambito di una società sempre più libera, dinamica e flessibile. Il concetto di partecipazione - nelle sue varie declinazioni: partecipazione attiva di chi lavora alle responsabilità, alle scelte aziendali, agli utili - contiene potenzialità evocative di nuove passioni politiche non inferiori al federalismo o all'estensione degli spazi di libertà (...).

7 giugno 2002

(da ideazione 3-2002, maggio-giugno) "

Saluti liberali

gianniguelfi
28-07-02, 11:41
Ecco qua due pecorelle smarrite che, sospirando, si chiedono dove mai stia di casa il capitalismo democratico (ecché vor di?), il capitalismo etico (andiamo già meglio).
Non lo troverete mai se vi ostinate a cercarlo tra il modello thathcerian-reaganiano di deregulation che tanto piace ai Chicago boys nostrani, proff. Brunetta e Tremonti.
Quello che è successo alla Enron e alla Worldcom è paradigmatico di quell' impostazione economica che ritiene basti togliere vincoli (leggi obbligo di bilanci trasparenti) e lacci e lacciuoli (leggi rappresentanze sindacali) che tengono legati gli uomini del fare, per veder immediatamente crescere il Pil a beneficio di tutti.
Perché parole d' ordine quali "liberi tutti" e "enrichissez-vous" che il liberismo senza vincoli statali sponsorizza, NON favoriranno una crescita a beneficio di molti ma una a favore di pochi.
E quei pochi sono la ben individuata casta brahminica dei top-executives, degli uomini del fare appunto.
Casta che anche nei momenti di bufera delle borse (bufera scatenata dalle loro politiche dissennate favorite dalla mancanza di regole) riesce comunque a salvarsi.
Prendiamone atto (e prima lo faremo meglio sarà):
il mercato NON si autoregola.
Ergo, servono dei paletti, servono, se non proprio dei lacci, dei lacciuoli, che solo uno Stato, solo un governo desideroso di proteggere i suoi cittadini lavoratori-consumatori-investitori può introdurre.
In parole povere: serve un governo socialdemocratico

saluti keynesiani

Gianni Guelfi

Pieffebi
28-07-02, 15:56
Se non sai che cos'è il capitalismo democratico non è colpa nostra, forse neppure tua. E se non lo sai perchè ti ostini a volerne parlare lo stesso?

Saluti liberali

gianniguelfi
28-07-02, 23:49
Abbiam capito che d' economia il Pfb ne capisce poco o punto.
Eccolo quindi accusare il sottoscritto di ignoranza in materia.
"Capitalismo democratico" è un ossimoro.
I capitalisti devono mirare al profitto, assicurare la democrazia non è affar loro.
Capitalismo etico invece mi sta bene.
Significa sempre libertà di accumulare, fare profitti, ma con certe limitazioni.
Alcune delle quali sono il rispetto dell' ambiente e un più consapevole sfruttamento delle risorse.
Cose chieste a gran voce, inutilmente, dal "popolo di Seattle".
Ma simili limitazioni non sono previste dal liberismo in salsa texana di George Dabliù.
Infatti si è ben guardato dal firmare il protocollo di Kyoto.
I liberisti nostrani stravedono per lui e per la sua deregulation e intendono seguirne le gesta.
Ecco quindi la vergognosa depenalizzazione del falso in bilancio e la prossima cancellazione di reati tributari e societari.
Cosi la porta per una futura Enron italiana è spalancata.
Bello vero?

saluti
G. Guelfi

Pieffebi
29-07-02, 15:55
Abbiamo capito che il signor Gianni G. non ha la minima idea di quello che dice, ne' quando parla di storia, ne' di altro. Il Capitalismo Democratico è una formazione storico-sociale, non un modo di organizzazione dell'impresa. E' la combinazione storica fra economia del libero mercato, istituzioni rappresentative liberali e società civile democratica. Rigurado agli estremisti sfasciavetrine del "popolo di Seattle" e alle altre utopie anticapitaliste, lasciamo proprio perdere. Circa il liberalismo economico sarebbe bene che il signor Gianni G. prima di dire spropositi contasse fino a cento....quanto meno.

Saluti liberali

gianniguelfi
30-07-02, 00:11
Non far confusione colle parole.
Non esiste un "liberalismo" economico semmai un "liberismo" economico.
I termini liberale e liberalismo son pertinenti a filosofie o partiti politici, non a scuole economiche.
Infatti si dànno casi di governi liberali che però, in economia, non sono liberisti.
E dei governi antiliberali che invece lo sono.
Ti è chiara la differenza?
Aveva proprio ragione mio padre a dirmi: studia figlio mio, sennò da grande voterai Forza Italia.

saluti antiliberisti
Gianni Guelfi

Pieffebi
30-07-02, 12:00
Visto che non hai studiato o comunque NON hai IMPARATO quasi nulla, dato le grosse...ehm....imprecisioni che scrivi.... è per questo che voti per la sinistretta massimalista italica?
Uno che dice che non esiste "il liberalismo economico" ha bisogno proprio.....di tornare a scuola, ad iniziare dalle elemantari.

Saluti liberali

Pieffebi
04-08-02, 18:59
dal sito di Ideazione...

" Globalizzazione e partecipazione
di Pier Paolo Baretta

A sostegno della tesi che propone la partecipazione dei lavoratori alla vita e alle scelte dell'impresa vi è una abbondante letteratura ed una memoria storica che coinvolge filoni culturali del mondo del lavoro, anche molto diversi tra di loro per gli esiti ideologici o politici ai quali sono approdati, ma tutti orientati da una visione evolutiva del capitalismo . Si pensi alle origini del movimento operaio quando, sia pure in una logica difensiva, si affermarono forme importanti di mutualità e di attività economiche vere e proprie. La storia dei fondi di mutuo soccorso e la straordinaria avventura della cooperazione sono stati anticipatori di un'idea di capitalismo nel quale i lavoratori contano davvero, in prima persona e in quanto persone . Idea alternativa ad una concezione di capitalismo fondato sulla pionieristica, ma totalizzante, figura del "padrone"; alternativa, inoltre, anche alla concezione comunista per la quale, più che il lavoratore, conta per lui lo Stato; o a quella del "capitalismo compassionevole". Ricordo, ancora, il filone culturale nordico dell'autogestione (Meidner e il suo "capitalismo senza padrone"), o la ben conosciuta cogestione tedesca. Penso alla dottrina sociale della Chiesa, al socialismo di inizio secolo o, infine, a tutto il filone corporativo che ha dato vita all'identità di una parte della destra.

Il bisogno di partecipazione trova, comunque, un'attualità urgente ed inesorabile oggi, nell'epoca storica della globalizzazione. Sotto i nostri occhi le opportunità straordinarie ed inedite della dimensione globale sono troppo spesso offuscate dalle forme ingiuste e drammatiche con le quali la mondializzazione avanza. Dobbiamo anche, con tristezza, riconoscere che troppe volte il permanere di situazioni estreme trova avallo in alcune scelte sbagliate e miopi che sono state compiute da grandi organismi internazionali quando intervengono a…"sostegno" dell'economia dei paesi emergenti. Al contempo la fragilità delle istituzioni politiche mondiali rende esplicito ed urgente il problema della governance e del modello economico e sociale. Viviamo, infatti, in una società complessa, nella quale la cittadinanza non si esaurisce nello scambio/scontro tra salari e profitti, ma in un delicato equilibrio di convivenze e di relazioni, individuali e collettive, sia dentro che fuori il lavoro. Viviamo in una libera e moderna economia di mercato protesa verso forme sempre più sofisticate di competizione, basate sul massimo dell'efficienza e dello sviluppo tecnologico . In questo contesto la forma più matura per realizzare un modello economico e sociale che affermi giustizia, uguaglianza e solidarietà, senza rinunciare allo sviluppo economico ed al benessere materiale è, senza dubbio, la democrazia economica e la partecipazione dei lavoratori alla vita dell'impresa .

Sia la old che la new economia sono, infatti, ad un bivio. Proprio le periodiche oscillazioni spettacolari degli indici borsistici dimostrano, particolarmente dopo l'11 di settembre, che lo sviluppo economico non può seriamente affidare il potere sul destino delle imprese ad un modello basato quasi esclusivamente sugli esiti dei mercati finanziari, anziché alle intelligenze progettuali e produttive . Soru sostiene che la proprietà delle imprese di Internet è di chi ci lavora, perché il prodotto immateriale è la conoscenza e l'intelligenza; nella multimedialità il prodotto è plasticamente rappresentato dai contenuti; nella logistica è l'intelligenza organizzativa che fa la differenza; nelle imprese di produzione di beni e servizi è sempre più la qualità che determina il successo. Provocatoriamente e paradossalmente si potrebbe affermare che una buona democrazia economica ed una buona partecipazione tutela il mercato libero ma reale di più del Down Jones o del Nasdaq. Per realizzare un'economia di mercato, per gestire la competizione globale della produzione, della finanza, per… fare futuro non c'è, allora, solo la scuola di Chicago, ma anche le teorie economiche dei premi Nobel A. Sen e Stiglitz.

Tra antagonismo consumato e partecipazione mancata

Da questa visione generale discende la natura culturale e politica dell'approccio partecipativo alla competizione economica. Non si tratta, dunque, di un'impostazione difensiva, protezionista; al contrario, è aperta al cambiamento sociale ed incide sul futuro assetto dei rapporti tra capitale e lavoro. Questione attuale anche nel nostro paese. Dobbiamo, infatti, riconoscere che in tema di relazioni sindacali siamo in mezzo a un guado. Da un lato assistiamo ad una crisi evidente del modello antagonista. Esso, anche se riscuote ancora un discreto consenso sia nel fronte sindacale che imprenditoriale e, ahimè, anche nella politica, dimostra, in pratica, di non essere in grado di rispondere, né per le imprese né per i lavoratori, alle sfide che derivano dalla modernità . Rispetto ad alcune situazioni come, ad esempio, nel Terzo mondo, dove la battaglia sociale e sindacale è ancora direttamente intrecciata con la lotta per la libertà o i diritti fondamentali di accesso alla vita, prima ancora che alla cittadinanza, l'antagonismo è, purtroppo, talvolta la sola risposta di fondo che si può dare. Ma, in una società democratica, come la nostra, a fronte di una matura realizzazione di conquiste sociali consolidate negli stessi ordinamenti, a fronte di una pluralità dialettica di istituzioni e rappresentanze, si rende necessaria una risposta più alta, più elaborata e complessa dello scontro sociale o, addirittura, di classe.

Anche quando queste conquiste sociali fossero messe in discussione - e una nutrita schiera di liberisti ci prova -, la complessità intrinseca alle società industriali evolute o perfino post industriali, rende la risposta propria del modello antagonista una risposta bloccata, insufficiente, inadeguata a cogliere queste complessità e a farle evolvere verso una governance positiva. Serve, invece, elaborare una risposta riformista e partecipativa. Ma bisogna riconoscere, anche, che alla crisi del modello antagonista (non del conflitto! Questa distinzione va fatta sempre perché vi è molta strumentalizzazione su questo punto: il conflitto è una condizione di normalità democratica) si contrappone una preoccupante fragilità della democrazia economica . Le cause di questa fragilità sono molteplici. Quello che mi interessa evidenziare, in questa sede, è che questo stare in mezzo al guado, tra antagonismo consumato e partecipazione mancata, non produce né lo scenario che molti sperano, ovvero la desertificazione delle regole sociali e l'avvento dell'individualismo più esasperato, né, al contrario, quanto sperano i vari Bertinotti, ovvero l'avvio di un ciclo di lotte contro la globalizzazione. Il rischio è l'avvento di una palude di indifferenza e corporativismo, che sarebbe la peggiore soluzione alla crisi di rappresentanza e di identità che sia il lavoro che il capitale attraversano.

In questo scenario va rafforzato il tentativo europeo di competere sul piano internazionale con un proprio modello sociale. Va riconosciuta l'audacia, se si pensa al modello americano o a quello di molte economie emergenti, della scelta europea di affermare la propria capacità competitiva globale senza rinunciare ad un modello sociale fondato sulla collaborazione, o - per dirla meglio con un'espressione europea, meno gradevole linguisticamente in italiano, ma più efficace - sul "partenariato" tra gli attori . Il dibattito europeo sulla partecipazione economica ha avuto varie fasi di avvicinamento: dal primo Rapporto Pepper del '91 alle Raccomandazioni del '92, all'ultimo Rapporto Pepper del '97 che, per la prima volta, introduce il concetto di azionariato collettivo. Inoltre, ricordo il Rapporto Davignon. Ma, negli ultimi tempi, i processi di integrazione monetaria e politica (non dimentichiamo che si sta discutendo di una Costituzione!) stanno determinando un'accelerazione normativa che produrrà una vera e propria rivoluzione organizzativa.

Basti come esempio l'intreccio tra la direttiva sulla società europea e quella sull'Opa. E' ragionevole, infatti, pensare che il recente fallimento della direttiva sull'Opa europea sia solamente un fallimento congiunturale. Ma, allora, quando alla Società di statuto europeo, già approvata ed in via di trasposizione nei diversi Stati membri, si affiancherà l'Opa europea, avremo operante un nuovo sistema di regole che, scavalcando i singoli diritti nazionali e le relative Autorità di regolazione dei mercati, anzi obbligandoli ad un adeguamento forzato del loro diritto societario, consentirà, non solo una nuova organizzazione delle società per azioni, delle società anonime, delle società di capitali, ma anche una loro nuova contendibilità sovranazionale . Sono molte le direttive europee già entrate nella nostra vita quotidiana in punta dei piedi. La legge italiana sulla parità nasce dalla trasposizione di una direttiva europea; così come il decreto 626 sulla sicurezza, così come la legge sui Cae. A ben vedere si tratta di una strumentazione che, mentre afferma dei diritti, favorisce una prospettiva di rapporti non solo negoziale, ma anche di tipo partecipativo. Oltre alla società europea è stata, nelle settimane scorse, approvata la direttiva sulla consultazione ed informazione ed è in revisione quella sui Cae. Si sta discutendo, inoltre, di responsabilità sociale delle imprese e di partecipazione finanziaria dei lavoratori .

Sulla base di questo scenario continentale è urgente avviare, anche in Italia, un percorso concreto di iniziative culturali, contrattuali e legislative di sostegno destinate a far sì che la "democrazia economica" diventi centrale nelle scelte di sistema del paese, motivata dalla rapidità e la profondità con la quale sta evolvendo il modello capitalistico. Basti pensare che il mastodontico processo di privatizzazioni avvenuto in Italia (per la verità più radicale rispetto a Francia e Germania) non è evoluto verso quell'idea di capitalismo diffuso sulla quale, negli scorsi anni, si è molto discusso. Mentre la finanza prendeva il ruolo improprio di unico metro di paragone della salute e dello sviluppo delle imprese (il caso Telecom basta per tutti!), che ruolo hanno avuto il capitalismo diffuso, i piccoli azionisti e l'azionariato dei dipendenti? Una nuova stagione di privatizzazioni è alle porte e riguarderà sia le aziende di servizi municipalizzate, sia le grandi utilitis. E' un'occasione da non perdere.

Ma vi è un'ulteriore riflessione che ci fa sostenere che è attuale occuparsi di democrazia economica e modelli partecipativi. Essa si muove dalla constatazione che l'organizzazione capitalistica del lavoro sta cambiando profondamente . E' in atto una tendenza, maggioritaria in tutti i settori della produzione, dai servizi alla scomposizione del ciclo produttivo. Nelle poste, come nelle banche, nelle telecomunicazioni, nei trasporti, nel manifatturiero, nonché nella pubblica amministrazione: le imprese si aprono e si chiudono come fisarmoniche a seconda della musica che suonano i mercati. I processi di esternalizzazione, out-sourcing, sono all'ordine del giorno ed indicano, ormai, un modello produttivo a rete che se allunga la catena del valore, talvolta interrompe quelli dei diritti. Può la democrazia economica rispondere a tale problematica? Io penso di sì. Accanto ad un'esplicita battaglia per la salvaguardia dei diritti elementari e ad un'irriducibile capacità contrattuale sui processi aziendali e sulle condizioni materiali, si deve sviluppare un sistema complesso finalizzato a saldare tra loro i diversi anelli di questa frantumata catena, attraverso una rete di regole fondate sul principio della consultazione-partecipazione. Questioni come i comitati di consultazione e vigilanza nelle capogruppo, con poteri di intervento sull'intera rete, strutture efficaci di bilateralità, azionariato collettivo, fondi, organizzazioni indipendenti di controllo (esempio: "I consumatori"), sono tasselli che rafforzano il tentativo di orientare positivamente lo sviluppo e la riorganizzazione capitalistica per garantirne la trasparenza .

Corresponsabilità e mission aziendale

Contemporaneamente gli imprenditori, mentre operano per frantumare l'assetto produttivo delle loro imprese per sfruttare al massimo i vantaggi derivanti dalla flessibilità (e più esternalizzano più il problema della competizione si acuisce perché si finisce per inseguire una competizione da costi insostenibile!), più chiedono al lavoratore, di qualsiasi settore, di qualsiasi livello - sia esso l'impiegato di concetto o il lavoratore di terzo livello alla catena o sia esso il coordinato continuativo - di vivere il suo lavoro non semplicemente come l'offerta della sua forza lavoro, ma come se dovesse contribuire con qualcosa in più, con un'idea di corresponsabilità, di farsi parte della "mission" aziendale . Insomma, le imprese più stringono ed esasperano il gioco competitivo, talvolta mettendo a rischio il sistema dei diritti, più chiedono ai lavoratori di lavorare come se fossero dei soci. Ma continuano a trattarli come dei salariati! Di fronte a questa clamorosa contraddizione del sistema capitalistico post fordista si apre il vero dibattito sul futuro delle relazioni industriali . Vi è chi ne approfitta per calcare la mano sul primo dei due aspetti ed inseguire un'esasperata logica competitiva, anche a discapito di un equilibrato modello sociale. Non vi è in questa strada spazio per la partecipazione.

Vi è anche chi, come la Cgil ed una parte della sinistra, si ferma e vede solo il lato oscuro della "forza": la crisi del sistema di garanzie e tutele. Separa i destini del lavoro da quelli dell'impresa rinchiudendosi nell'antagonismo . Io penso che bisogna assumere in pieno la sfida che deriva dal governare questa imponente trasformazione, pari solo, se non per alcuni aspetti addirittura superiore, alla prima rivoluzione industriale per i suoi aspetti sociali e all'introduzione del taylorismo per i suoi aspetti organizzativi e per le conseguenze sul lavoro e la vita delle persone. In sostanza si tratta di comprendere la realtà storica oggettiva nella quale viviamo per rovesciare i termini classici dell'approccio autaritario-rivendicativo sul quale si è fondata l'organizzazione e l'emancipazione del lavoro nel secolo scorso. Per dirla nel modo più semplice possibile: tu, imprenditore, mi chiedi di lavorare con lo stesso atteggiamento e la stessa disponibilità di un socio, ma discuti dei miei diritti e delle mie prestazioni come se fossi un subalterno, un dipendente, un salariato. Io, lavoratore, ti rispondo che ci sto ad assumermi le responsabilità e gli oneri che derivano dall'essere "socio", ma ti chiedo che questa condizione nuova mi venga riconosciuta, ti chiedo di entrare nel gioco. L'impresa diventa anche mia, con tutte le variabili, i limiti, le regole e le condizioni che insieme definiremo .

Si può, in definitiva, sostenere che nelle sfide della modernità globale è possibile affermare un nesso logico ed organizzativo, una proprietà transitiva tra: sfida competitiva = qualità del prodotto e del processo = responsabilità = partecipazione. Se si osserva, anche al di fuori degli orizzonti produttivi, i problemi della vita collettiva e dell'organizzazione sociale contemporanea: dall'ordine pubblico all'immigrazione, al governo delle metropoli, ai servizi alla persona e alla collettività emerge, mi sembra, un'esigenza di ordine e di qualità non risolvibile esclusivamente con l'autorità (che ci vuole e deve essere meglio organizzata), ma anche con l'autorevolezza, che deriva da una visione della democrazia diffusa e del coinvolgimento responsabile dei… cittadini-utenti-clienti-soci ecc. La democrazia economica e la partecipazione affermano, in sostanza, una tesi sulla società, ne implicano una visione e un modello di riferimento. Sono, quindi, tesi non solo sul lavoro, la sua emancipazione e i suoi diritti, ma anche sulla democrazia, sul capitalismo, sulle forme e l'organizzazione della vita moderna. Non si tratta né di corporativismo, né di socialismo, né di autogestione: semplicemente, si tratta di partecipazione .

7 giugno 2002

(da ideazione 3-2002, maggio-giugno)

Saluti liberali

Paul Atreides
04-08-02, 19:14
Originally posted by Pieffebi
dal sito di "Ideazione":

"Entrare nel mercato globale per superare il "gap"
di Giuseppe Pennisi

La "new economy" delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione crea nuove disuguaglianze? Solo qualche anno fa la "net economy" era ancora agli albori e si temeva che avrebbe comportato un processo di dislocazione ancora maggiore di quello verificatosi all'epoca della prima rivoluzione industriale. Allora l'ipotesi era che la tecnologia dell'informazione e della comunicazione avrebbe creato nuove esclusioni, sia per fasce di età sia per fasce di reddito sia, principalmente, tra paesi dotati e non dotati di infrastruttura di base. Si pensi che alla metà degli anni Novanta, in tutta l'Africa a sud del Sahara c'erano meno linee telefoniche di quante non ce ne fossero nella sola città di Tokio. I timori non sono del tutto fugati. Tuttavia, l'aumento del gap tra fasce di reddito appare contenuto anche nei paesi in cui il reddito viene comunemente giudicato "spettacolare". E appare, tutto sommato, moderato anche rispetto alle aspettative e alle impressioni iniziali.

Studi più recenti collocano la new economy nel contesto del processo d'integrazione economica internazionale chiamato, giornalisticamente, "globalizzazione". In breve, essi concludono che l'apertura ai mercati e l'integrazione internazionale degli scambi, dei finanziamenti e degli investimenti diretti hanno comportato un aumento delle ineguaglianze mondiali (tra individui e famiglie, anche se non necessariamente tra paesi) dal 1960 al 1975. Da allora, però, si è rilevata una graduale diminuzione delle inuguaglianze, principalmente a ragione della rapida crescita economica di Cina e India: i paesi in via di sviluppo che hanno preso la strada della globalizzazione hanno registrato un tasso annuo di crescita economica del 5% negli anni Novanta (rispetto al 2% riportato dai paesi Ocse); tra il 1987 ed il 1998, la proporzione della popolazione mondiale in "povertà estrema", ossia con meno di un dollaro al giorno, è diminuita dal 28% al 23% - un "successo di proporzioni mai registrate in precedenza nella storia dell'umanità". Pur partendo da livelli di reddito inferiori, i paesi che hanno scelto la globalizzazione, hanno superato quei paesi che, invece, sono rimasti agganciati a politiche "chiuse".

La storia economica, però, prova anche che l'integrazione economica internazionale e la diffusione delle nuove tecnologie non sono irreversibili: si è dovuto attendere sino alla fine degli anni Cinquanta perché si tornasse ad un grado di integrazione internazionale, quale quello prevalente nel 1910. Le fasi di rallentamento economico, come quella in atto nel 2001, aggravano la minaccia di un ritorno al protezionismo e al rallentamento della trasformazione tecnologica, fenomeni fortemente correlati all'aumento della povertà. I casi di successo negli anni Novanta, quelli di paesi in cui l'integrazione economica internazionale e il progresso tecnologico sono stati accompagnati da una riduzione della povertà, riguardano paesi (India, Cina, Vietnam, Messico, Uganda e molti altri) in cui l'apertura al mercato internazionale è stata sorretta dalla costruzione di istituzioni solide in materia di giustizia, pluralismo di stampa, lotta alla corruzione, sviluppo delle risorse umane ed infrastrutture di base nei trasporti, nell'energia e nelle telecomunicazioni, tutti campi in cui l'intervento pubblico è essenziale per creare e consolidare il capitale sociale.

Molte aree del mondo non partecipano al processo d'integrazione economica internazionale e di diffusione della tecnologia, non in quanto chiudono le porte delle loro economie e della loro società, ma per ragioni geografiche, quali la distanza da reti di comunicazione e conseguenti alti costi di trasporto, prevalenza di malattie come la malaria e l'Aids ed alti tassi di mortalità e morbità. I flussi di scambi e di investimenti non risolveranno i problemi di questi paesi e le migrazioni possono farlo solo in parte, solo la strada degli aiuti, pubblici e non solo, può condurli, gradualmente, verso il mercato globale e quindi verso l'introduzione e diffusione della new economy.

15 marzo 2002

gi.pennisi@agora.it"


Saluti liberali.

Però bisogna mettersi d'accordo. L'esempio della Cina può essere calzante per quel che riguarda i benefici della globalizzazione (ovviamente, sorvolando, ad esempio, sui costi ecologici: immaginiamoci un miliardo e passa di cinesi che consumano energia eguale a quella consumata da un italiano medio) ma non mi pare proprio appropriato per difendere il concetto di capitalismo democratico. Al contrario dimostra come il capitalismo possa svilupparsi e raggiungere risultati di crescita rilevantissimi pur in assenza della democrazia

Saluti

Addenda

Aggiungiamoci a mò di esempio, tutte le altre "tigri asiatiche", in primis la Corea il cui grande sviluppo industriale e capitalistico si è avuto sotto regimi autoritari

Paul Atreides
04-08-02, 19:18
Originally posted by Pieffebi
dal sito di ideazione

"Perché la globalizzazione ci fa bene
di Cristiana Vivenzio

Mentre ci s’interroga sui nuovi scenari globali dopo l’11 settembre e si prefigura un nuovo ordine internazionale; mentre si parla di globalizzazione come l’ultima delle ideologie dell’Occidente, contrapposta alla frammentazione del sistema non globale; mentre si prende atto dell’assoluta indecifrabilità di un pensiero unico sulla globalizzazione e s’incrina definitivamente quell’idea che lega la globalizzazione ad una visione esclusivamente economica di questo processo; mentre si moltiplicano gli interrogativi per cercare di spiegare un fenomeno in corso e i tentativi di ovviare ai mali di una globalizzazione senza regole, Paolo Del Debbio – docente di Etica sociale e dei media allo Iulm di Milano ed editorialista del Giornale – scrive: “Global. Perché la globalizzazione ci fa bene”. Un’analisi “sì-global” che affronta questo tema, tanto demonizzato quanto esaltato, partendo dall’assunto fondamentale che dalla globalizzazione non si torna indietro.

Se globalizzazione significa interdipendenza – prima economica, commerciale e finanziaria poi dell’informazione – questa interdipendenza ha anche posto le basi “per una certa omogeneizzazione culturale, che parte dalla cultura popolare e dai consumi”. Del resto, alcuni studi analitici sull’argomento, condotti da gruppi di ricerca americani e riproposti dall’autore, hanno dimostrato che tanto più alto è il tasso di globalizzazione di un paese, tanto maggiori sono stati i tassi di crescita di quel paese. E, sebbene la maggior globalizzazione accresca anche il divario nella distribuzione del reddito, il beneficio derivante dalla crescita ha sostanzialmente fatto migliorare le condizioni di vita dei più poveri del mondo. Insomma, conclude Del Debbio, la globalizzazione può essere un’opportunità per tutti. Ad avvalorare tutto ciò un altro dato: anche in quei paesi investiti dalla globalizzazione in cui si sono verificati i maggiori problemi di esclusione sociale ed economica di fasce di popolazione, si è rilevato che quell’esclusione è stata dovuta “più all’impreparazione dei destinatari (gli stati nazionali) che non alla globalizzazione in se stessa”.

Eppure, gli argomenti di protesta portati avanti dai no global, che hanno fatto dell’opposizione ad un pensiero unico, a loro volta, un’altra forma di pensiero unico, rimarcano un problema universalmente riconosciuto, che, in definitiva, è rappresentato dall’ampiezza dello spazio che separa globalizzazione e politica. Là dove finiscono le competenze direttamente attribuibili all’economia di mercato deve intervenire la politica: reti di protezione sociale, tutela e garanzia dei beni pubblici, riconoscimento dei diritti dei lavoratori, tutela ambientale, salvaguardia del patrimonio culturale locale. Un’analisi, questa, che Del Debbio conduce di pari passo con la riflessione che negli ultimi tempi ha investito la riforma dello stato sociale. Allo stato, quindi, il compito di favorire quanto più possibile la partecipazione dei cittadini alla competizione del mercato; allo stato il compito di assicurare la “copertura universale delle esigenze minime e offrire ciò che è necessario perché tutti possano essere messi in grado di entrare a pieno nella competizione della vita”; allo stato il compito di creare pari opportunità; il compito di favorire e sostenere le reti di solidarietà sociale. La risposta ai mali della globalizzazione può essere rintracciata nella ricerca in un principio etico globale che superi le facili strumentalizzazioni dell’universo no-global, e affermi un governo della globalizzazione nella libertà, in cui non venga meno l’individualità degli stati-nazione.

25 aprile 2002

c.vivenzio@libero.it "




Saluti liberali.

Simpatico tentativo di cavarsela con la solita "formula magica", capace di tenere assieme funzioni e ruoli tra loro reciprocamente conflittuali. Infatti, ci sarebbe da interrogarsi seriamente sulla capacità del capitalismo transnazionale o globale di accordarsi o meno col ruolo degli Stati-nazione

Saluti

Addenda

Davvero la globalizzazione significa interdipendenza? Cioè la signorina in questione vorrebbe farci forse credere che l'economia italiana e quella del Cameroun o dell'Indonesia sono interdipendenti? O lo sono quella americana e quella argentina? Ne dubito alquanto.

Paul Atreides
04-08-02, 19:35
Originally posted by Pieffebi
dal sito di Ideazione...

" Globalizzazione e partecipazione
di Pier Paolo Baretta

A sostegno della tesi che propone la partecipazione dei lavoratori alla vita e alle scelte dell'impresa vi è una abbondante letteratura ed una memoria storica che coinvolge filoni culturali del mondo del lavoro, anche molto diversi tra di loro per gli esiti ideologici o politici ai quali sono approdati, ma tutti orientati da una visione evolutiva del capitalismo . Si pensi alle origini del movimento operaio quando, sia pure in una logica difensiva, si affermarono forme importanti di mutualità e di attività economiche vere e proprie. La storia dei fondi di mutuo soccorso e la straordinaria avventura della cooperazione sono stati anticipatori di un'idea di capitalismo nel quale i lavoratori contano davvero, in prima persona e in quanto persone . Idea alternativa ad una concezione di capitalismo fondato sulla pionieristica, ma totalizzante, figura del "padrone"; alternativa, inoltre, anche alla concezione comunista per la quale, più che il lavoratore, conta per lui lo Stato; o a quella del "capitalismo compassionevole". Ricordo, ancora, il filone culturale nordico dell'autogestione (Meidner e il suo "capitalismo senza padrone"), o la ben conosciuta cogestione tedesca. Penso alla dottrina sociale della Chiesa, al socialismo di inizio secolo o, infine, a tutto il filone corporativo che ha dato vita all'identità di una parte della destra.

Il bisogno di partecipazione trova, comunque, un'attualità urgente ed inesorabile oggi, nell'epoca storica della globalizzazione. Sotto i nostri occhi le opportunità straordinarie ed inedite della dimensione globale sono troppo spesso offuscate dalle forme ingiuste e drammatiche con le quali la mondializzazione avanza. Dobbiamo anche, con tristezza, riconoscere che troppe volte il permanere di situazioni estreme trova avallo in alcune scelte sbagliate e miopi che sono state compiute da grandi organismi internazionali quando intervengono a…"sostegno" dell'economia dei paesi emergenti. Al contempo la fragilità delle istituzioni politiche mondiali rende esplicito ed urgente il problema della governance e del modello economico e sociale. Viviamo, infatti, in una società complessa, nella quale la cittadinanza non si esaurisce nello scambio/scontro tra salari e profitti, ma in un delicato equilibrio di convivenze e di relazioni, individuali e collettive, sia dentro che fuori il lavoro. Viviamo in una libera e moderna economia di mercato protesa verso forme sempre più sofisticate di competizione, basate sul massimo dell'efficienza e dello sviluppo tecnologico . In questo contesto la forma più matura per realizzare un modello economico e sociale che affermi giustizia, uguaglianza e solidarietà, senza rinunciare allo sviluppo economico ed al benessere materiale è, senza dubbio, la democrazia economica e la partecipazione dei lavoratori alla vita dell'impresa .

Sia la old che la new economia sono, infatti, ad un bivio. Proprio le periodiche oscillazioni spettacolari degli indici borsistici dimostrano, particolarmente dopo l'11 di settembre, che lo sviluppo economico non può seriamente affidare il potere sul destino delle imprese ad un modello basato quasi esclusivamente sugli esiti dei mercati finanziari, anziché alle intelligenze progettuali e produttive . Soru sostiene che la proprietà delle imprese di Internet è di chi ci lavora, perché il prodotto immateriale è la conoscenza e l'intelligenza; nella multimedialità il prodotto è plasticamente rappresentato dai contenuti; nella logistica è l'intelligenza organizzativa che fa la differenza; nelle imprese di produzione di beni e servizi è sempre più la qualità che determina il successo. Provocatoriamente e paradossalmente si potrebbe affermare che una buona democrazia economica ed una buona partecipazione tutela il mercato libero ma reale di più del Down Jones o del Nasdaq. Per realizzare un'economia di mercato, per gestire la competizione globale della produzione, della finanza, per… fare futuro non c'è, allora, solo la scuola di Chicago, ma anche le teorie economiche dei premi Nobel A. Sen e Stiglitz.

Tra antagonismo consumato e partecipazione mancata

Da questa visione generale discende la natura culturale e politica dell'approccio partecipativo alla competizione economica. Non si tratta, dunque, di un'impostazione difensiva, protezionista; al contrario, è aperta al cambiamento sociale ed incide sul futuro assetto dei rapporti tra capitale e lavoro. Questione attuale anche nel nostro paese. Dobbiamo, infatti, riconoscere che in tema di relazioni sindacali siamo in mezzo a un guado. Da un lato assistiamo ad una crisi evidente del modello antagonista. Esso, anche se riscuote ancora un discreto consenso sia nel fronte sindacale che imprenditoriale e, ahimè, anche nella politica, dimostra, in pratica, di non essere in grado di rispondere, né per le imprese né per i lavoratori, alle sfide che derivano dalla modernità . Rispetto ad alcune situazioni come, ad esempio, nel Terzo mondo, dove la battaglia sociale e sindacale è ancora direttamente intrecciata con la lotta per la libertà o i diritti fondamentali di accesso alla vita, prima ancora che alla cittadinanza, l'antagonismo è, purtroppo, talvolta la sola risposta di fondo che si può dare. Ma, in una società democratica, come la nostra, a fronte di una matura realizzazione di conquiste sociali consolidate negli stessi ordinamenti, a fronte di una pluralità dialettica di istituzioni e rappresentanze, si rende necessaria una risposta più alta, più elaborata e complessa dello scontro sociale o, addirittura, di classe.

Anche quando queste conquiste sociali fossero messe in discussione - e una nutrita schiera di liberisti ci prova -, la complessità intrinseca alle società industriali evolute o perfino post industriali, rende la risposta propria del modello antagonista una risposta bloccata, insufficiente, inadeguata a cogliere queste complessità e a farle evolvere verso una governance positiva. Serve, invece, elaborare una risposta riformista e partecipativa. Ma bisogna riconoscere, anche, che alla crisi del modello antagonista (non del conflitto! Questa distinzione va fatta sempre perché vi è molta strumentalizzazione su questo punto: il conflitto è una condizione di normalità democratica) si contrappone una preoccupante fragilità della democrazia economica . Le cause di questa fragilità sono molteplici. Quello che mi interessa evidenziare, in questa sede, è che questo stare in mezzo al guado, tra antagonismo consumato e partecipazione mancata, non produce né lo scenario che molti sperano, ovvero la desertificazione delle regole sociali e l'avvento dell'individualismo più esasperato, né, al contrario, quanto sperano i vari Bertinotti, ovvero l'avvio di un ciclo di lotte contro la globalizzazione. Il rischio è l'avvento di una palude di indifferenza e corporativismo, che sarebbe la peggiore soluzione alla crisi di rappresentanza e di identità che sia il lavoro che il capitale attraversano.

In questo scenario va rafforzato il tentativo europeo di competere sul piano internazionale con un proprio modello sociale. Va riconosciuta l'audacia, se si pensa al modello americano o a quello di molte economie emergenti, della scelta europea di affermare la propria capacità competitiva globale senza rinunciare ad un modello sociale fondato sulla collaborazione, o - per dirla meglio con un'espressione europea, meno gradevole linguisticamente in italiano, ma più efficace - sul "partenariato" tra gli attori . Il dibattito europeo sulla partecipazione economica ha avuto varie fasi di avvicinamento: dal primo Rapporto Pepper del '91 alle Raccomandazioni del '92, all'ultimo Rapporto Pepper del '97 che, per la prima volta, introduce il concetto di azionariato collettivo. Inoltre, ricordo il Rapporto Davignon. Ma, negli ultimi tempi, i processi di integrazione monetaria e politica (non dimentichiamo che si sta discutendo di una Costituzione!) stanno determinando un'accelerazione normativa che produrrà una vera e propria rivoluzione organizzativa.

Basti come esempio l'intreccio tra la direttiva sulla società europea e quella sull'Opa. E' ragionevole, infatti, pensare che il recente fallimento della direttiva sull'Opa europea sia solamente un fallimento congiunturale. Ma, allora, quando alla Società di statuto europeo, già approvata ed in via di trasposizione nei diversi Stati membri, si affiancherà l'Opa europea, avremo operante un nuovo sistema di regole che, scavalcando i singoli diritti nazionali e le relative Autorità di regolazione dei mercati, anzi obbligandoli ad un adeguamento forzato del loro diritto societario, consentirà, non solo una nuova organizzazione delle società per azioni, delle società anonime, delle società di capitali, ma anche una loro nuova contendibilità sovranazionale . Sono molte le direttive europee già entrate nella nostra vita quotidiana in punta dei piedi. La legge italiana sulla parità nasce dalla trasposizione di una direttiva europea; così come il decreto 626 sulla sicurezza, così come la legge sui Cae. A ben vedere si tratta di una strumentazione che, mentre afferma dei diritti, favorisce una prospettiva di rapporti non solo negoziale, ma anche di tipo partecipativo. Oltre alla società europea è stata, nelle settimane scorse, approvata la direttiva sulla consultazione ed informazione ed è in revisione quella sui Cae. Si sta discutendo, inoltre, di responsabilità sociale delle imprese e di partecipazione finanziaria dei lavoratori .

Sulla base di questo scenario continentale è urgente avviare, anche in Italia, un percorso concreto di iniziative culturali, contrattuali e legislative di sostegno destinate a far sì che la "democrazia economica" diventi centrale nelle scelte di sistema del paese, motivata dalla rapidità e la profondità con la quale sta evolvendo il modello capitalistico. Basti pensare che il mastodontico processo di privatizzazioni avvenuto in Italia (per la verità più radicale rispetto a Francia e Germania) non è evoluto verso quell'idea di capitalismo diffuso sulla quale, negli scorsi anni, si è molto discusso. Mentre la finanza prendeva il ruolo improprio di unico metro di paragone della salute e dello sviluppo delle imprese (il caso Telecom basta per tutti!), che ruolo hanno avuto il capitalismo diffuso, i piccoli azionisti e l'azionariato dei dipendenti? Una nuova stagione di privatizzazioni è alle porte e riguarderà sia le aziende di servizi municipalizzate, sia le grandi utilitis. E' un'occasione da non perdere.

Ma vi è un'ulteriore riflessione che ci fa sostenere che è attuale occuparsi di democrazia economica e modelli partecipativi. Essa si muove dalla constatazione che l'organizzazione capitalistica del lavoro sta cambiando profondamente . E' in atto una tendenza, maggioritaria in tutti i settori della produzione, dai servizi alla scomposizione del ciclo produttivo. Nelle poste, come nelle banche, nelle telecomunicazioni, nei trasporti, nel manifatturiero, nonché nella pubblica amministrazione: le imprese si aprono e si chiudono come fisarmoniche a seconda della musica che suonano i mercati. I processi di esternalizzazione, out-sourcing, sono all'ordine del giorno ed indicano, ormai, un modello produttivo a rete che se allunga la catena del valore, talvolta interrompe quelli dei diritti. Può la democrazia economica rispondere a tale problematica? Io penso di sì. Accanto ad un'esplicita battaglia per la salvaguardia dei diritti elementari e ad un'irriducibile capacità contrattuale sui processi aziendali e sulle condizioni materiali, si deve sviluppare un sistema complesso finalizzato a saldare tra loro i diversi anelli di questa frantumata catena, attraverso una rete di regole fondate sul principio della consultazione-partecipazione. Questioni come i comitati di consultazione e vigilanza nelle capogruppo, con poteri di intervento sull'intera rete, strutture efficaci di bilateralità, azionariato collettivo, fondi, organizzazioni indipendenti di controllo (esempio: "I consumatori"), sono tasselli che rafforzano il tentativo di orientare positivamente lo sviluppo e la riorganizzazione capitalistica per garantirne la trasparenza .

Corresponsabilità e mission aziendale

Contemporaneamente gli imprenditori, mentre operano per frantumare l'assetto produttivo delle loro imprese per sfruttare al massimo i vantaggi derivanti dalla flessibilità (e più esternalizzano più il problema della competizione si acuisce perché si finisce per inseguire una competizione da costi insostenibile!), più chiedono al lavoratore, di qualsiasi settore, di qualsiasi livello - sia esso l'impiegato di concetto o il lavoratore di terzo livello alla catena o sia esso il coordinato continuativo - di vivere il suo lavoro non semplicemente come l'offerta della sua forza lavoro, ma come se dovesse contribuire con qualcosa in più, con un'idea di corresponsabilità, di farsi parte della "mission" aziendale . Insomma, le imprese più stringono ed esasperano il gioco competitivo, talvolta mettendo a rischio il sistema dei diritti, più chiedono ai lavoratori di lavorare come se fossero dei soci. Ma continuano a trattarli come dei salariati! Di fronte a questa clamorosa contraddizione del sistema capitalistico post fordista si apre il vero dibattito sul futuro delle relazioni industriali . Vi è chi ne approfitta per calcare la mano sul primo dei due aspetti ed inseguire un'esasperata logica competitiva, anche a discapito di un equilibrato modello sociale. Non vi è in questa strada spazio per la partecipazione.

Vi è anche chi, come la Cgil ed una parte della sinistra, si ferma e vede solo il lato oscuro della "forza": la crisi del sistema di garanzie e tutele. Separa i destini del lavoro da quelli dell'impresa rinchiudendosi nell'antagonismo . Io penso che bisogna assumere in pieno la sfida che deriva dal governare questa imponente trasformazione, pari solo, se non per alcuni aspetti addirittura superiore, alla prima rivoluzione industriale per i suoi aspetti sociali e all'introduzione del taylorismo per i suoi aspetti organizzativi e per le conseguenze sul lavoro e la vita delle persone. In sostanza si tratta di comprendere la realtà storica oggettiva nella quale viviamo per rovesciare i termini classici dell'approccio autaritario-rivendicativo sul quale si è fondata l'organizzazione e l'emancipazione del lavoro nel secolo scorso. Per dirla nel modo più semplice possibile: tu, imprenditore, mi chiedi di lavorare con lo stesso atteggiamento e la stessa disponibilità di un socio, ma discuti dei miei diritti e delle mie prestazioni come se fossi un subalterno, un dipendente, un salariato. Io, lavoratore, ti rispondo che ci sto ad assumermi le responsabilità e gli oneri che derivano dall'essere "socio", ma ti chiedo che questa condizione nuova mi venga riconosciuta, ti chiedo di entrare nel gioco. L'impresa diventa anche mia, con tutte le variabili, i limiti, le regole e le condizioni che insieme definiremo .

Si può, in definitiva, sostenere che nelle sfide della modernità globale è possibile affermare un nesso logico ed organizzativo, una proprietà transitiva tra: sfida competitiva = qualità del prodotto e del processo = responsabilità = partecipazione. Se si osserva, anche al di fuori degli orizzonti produttivi, i problemi della vita collettiva e dell'organizzazione sociale contemporanea: dall'ordine pubblico all'immigrazione, al governo delle metropoli, ai servizi alla persona e alla collettività emerge, mi sembra, un'esigenza di ordine e di qualità non risolvibile esclusivamente con l'autorità (che ci vuole e deve essere meglio organizzata), ma anche con l'autorevolezza, che deriva da una visione della democrazia diffusa e del coinvolgimento responsabile dei… cittadini-utenti-clienti-soci ecc. La democrazia economica e la partecipazione affermano, in sostanza, una tesi sulla società, ne implicano una visione e un modello di riferimento. Sono, quindi, tesi non solo sul lavoro, la sua emancipazione e i suoi diritti, ma anche sulla democrazia, sul capitalismo, sulle forme e l'organizzazione della vita moderna. Non si tratta né di corporativismo, né di socialismo, né di autogestione: semplicemente, si tratta di partecipazione .

7 giugno 2002

(da ideazione 3-2002, maggio-giugno)

Saluti liberali

Forse all'autore sfugge un fatto essenziale e cioè che proprio il crollo del sistema fordista e la possibilità per le aziende transnazionali di disperdere la filiera di produzione ovunque, di andarsene "in toto" all'estero, di avvalersi di contratti flessibili ecc, rende aleatorio questo "ideale partecipativo". Anche qui si osanna la globalizzazione cercando, al contempo, di lenirne gli effetti negativi col ricorso a formule che la globalizzazione per prima ha provveduto diligentemente a mettere in crisi

Saluti

gianniguelfi
04-08-02, 23:27
Ecco dov' era finita la nostra disputa (mia e di PFB) sul liberalismo e sul liberismo economico.
Non riuscivo più a trovare il thread. E' ovvio che parliamo della stessa cosa: di un mercato privo di ogni forma protezionistica internazionale, un mercato dove vige il libero scambio e dove la libera manifestazione dei comportamenti economici individuali è la condizione per il miglior funzionamento del mercato stesso.
Ciò appurato, mantengo la mia posizione che consiste nell' affermare che il termine "liberalismo" è più consono ad una ideologia e/o partito politico che non a un indirizzo economico.

Gianni Guelfi

Pieffebi
05-08-02, 16:34
Originally posted by Paul Atreides


Forse all'autore sfugge un fatto essenziale e cioè che proprio il crollo del sistema fordista e la possibilità per le aziende transnazionali di disperdere la filiera di produzione ovunque, di andarsene "in toto" all'estero, di avvalersi di contratti flessibili ecc, rende aleatorio questo "ideale partecipativo". Anche qui si osanna la globalizzazione cercando, al contempo, di lenirne gli effetti negativi col ricorso a formule che la globalizzazione per prima ha provveduto diligentemente a mettere in crisi

Saluti

L'osservazione è molto pertinente.
L'internazionalizzazione del capitale, tuttavia, non è da osannare o da demonizzare.....è un fenomeno ineluttabile con molti effetti positivi e molte contraddizioni, come ogni fenomeno sociale complesso.
L'interdipendenza insita nel processo di globalizzazione è ovviamente ineguale e diseguale. Se difficilmente la Papua-Nuova Guinea può influenzare fortemente l'economia occidentale, forse l'economia occidentale inizia a diventare determinante per la Nuova Guinea...

Saluti liberali

Paul Atreides
05-08-02, 19:57
Originally posted by Pieffebi


L'osservazione è molto pertinente.
L'internazionalizzazione del capitale, tuttavia, non è da osannare o da demonizzare.....è un fenomeno ineluttabile con molti effetti positivi e molte contraddizioni, come ogni fenomeno sociale complesso.
L'interdipendenza insita nel processo di globalizzazione è ovviamente ineguale e diseguale. Se difficilmente la Papua-Nuova Guinea può influenzare fortemente l'economia occidentale, forse l'economia occidentale inizia a diventare determinante per la Nuova Guinea...

Saluti liberali

1) io distingo tra internazionalizzazione e globalizzazione. La prima faceva perno sugli Stati nazionali e sulle economie nazionali, la seconda è transnazionale, ergo "salta" proprio tutto ciò che è nazionale

2) che la dinamica capitalistica sia intrinsecamente globale, e che, di conseguenza, la fase internazionale sia stata appunto solo una fase, è vero. Ma è altrettanto vero che io non credo all'ineluttabilismo della storia, sia esso laico o religioso, marxista o capitalista, liberale o illiberale.

3) se l'interdipendenza è diseguale, invece di nascondersi dietro parole-feticcio "indolori", chiamiamo le cose col loro nome: in questo caso 'dipendenza' mi pare la più appropriata

4) bisognerebbe studiare con grande accuratezza la genealogia del capitalismo, nel senso, ad es., che un conto è il capitalismo che si è formato sin dall'ottocento (e in Inghilterra sin dal settecento) in occidente beneficiando di protezionismi vari, aiuti dello Stato, guerre (come dimenticare lo splendido esempio della "guerra dell'oppio"?), colonialismo, ecc., e che è oggi in grado di competere sui mercati, un altro conto è prendere economie strutturalmente deboli, indifese e mal-formate e buttarle nel mercato globale: io credo che non avrebbero molte possibilità di successo e quando ce l'hanno (v. Messico o Thailandia negli anni '90) si rivelano essere per quello che realmente sono: un castello di carte che alla prima refola avversa dei mercati, finanziari in primis, crolla.

Saluti

Pieffebi
05-08-02, 20:12
1) non ho difficoltà ad accettare la distinzione, anche se parlando di internazionalizzazione (termine che preferisco....per tradizione) non penso necessariamente affatto all'intermediazione degli Stati nazionali o ad un loro ruolo di primo piano;
2) neppure io credo all'ineluttabilismo della Storia, sì però all'esistenza di determinate tendenze...
3) non ho difficoltà a riconoscere i "rapporti di forza" e le situzioni oggettive di "dipendenza", l'interdipendenza è riferita più propriamente a fenomeni: l'aumento del costo di produzione delle miniere di diamanti nella dipendente Namibia, ad esempio per caos politico locale, può determinare l'aumento del prezzo delle pietre preziose ad Amsterdam;
4) il problema esiste ed è complesso....non sarò io a negarlo, è il problema principale per il capitalismo del terzo millennio, tuttavia bisogna anche qui fare distinzioni fra le economie di carta e le economie fodate su apparati produttivi reali in espansione, e anche evitare di parlare della fine del capitalismo (anche locale) ad ogni crisi o terramoto finanziario.

Saluti liberali

Pieffebi
06-08-02, 20:07
I signori bambinoni di sinistra stanno facendo un po' di caos per cui l'ordine dei messaggi è un po'....sovvertito. Dunque sono necessari dei ...rilanci .....


up!

Pieffebi
10-08-02, 13:52
dal sito di Ideazione

" La share economy è la vera terza via
di Renato Brunetta

All'interno del dibattito tra differenti modelli sociali, lo strumento della partecipazione dei lavoratori all'impresa può assumere un ruolo nevralgico. I successi del capitalismo anglosassone in termini di crescita del reddito e di performance aziendali impongono una riflessione all'Europa. Che, appesantita da vincoli troppo rigidi e da un eccesso di intervento pubblico, viaggia a velocità troppo lenta per tenere il passo di quella americana. Occorre quindi guarire dall'euro-sclerosi, caratterizzata da alti tassi di disoccupazione e bassa crescita del reddito. In primo luogo per ragioni di equità, visto che per distribuire ricchezza bisogna prima produrla . Il costo crescente della protezione sociale in società avanzate e in via di invecchiamento impone un maggiore dinamismo della nostra economia se vogliamo mantenere gli standard sociali attuali (e magari migliorarli, in paesi come il nostro dove sono tuttora insufficienti a proteggere milioni di esclusi). Come si fanno quindi a conciliare le ragioni della solidarietà, caratteristica fondante del modello sociale europeo, con quelle dell'efficienza? Un nuovo modello di relazioni industriali, imperniato sullo sviluppo delle forme partecipative, potrebbe rappresentare la quadratura del cerchio. Come peraltro suggerisce il Libro bianco del governo sul mercato del lavoro (2001) . Una Terza Via che alle forme vaghe e socialdemocratiche della stakeholders society descritta da Anthony Giddens contrappone modelli concreti di shareholders society coerenti con i principi del mercato. Con l'espressione "partecipazione dei lavoratori all'impresa", si intende sia il coinvolgimento nelle decisioni aziendali (power sharing), sia il concorso agli utili (profit sharing). La prima forma implica un modello partecipativo "forte", la seconda un modello "debole". Almeno in apparenza, perché poi le differenti modalità di applicazione determinano l'effettivo radicalismo dei modelli. Che hanno trovato una riformulazione teorica importante negli anni Ottanta, con la pubblicazione di The Share Economy (1984) di Martin L. Weitzman e di Agathotopia (1989) di James Meade.

Non che la letteratura sulla partecipazione fosse cosa nuova, anche perché applicazioni concrete non sono mancate (basti pensare al movimento cooperativo o al Mitbestimmung tedesco). Tanto che anche nella letteratura non specialistica ci si può imbattere in riferimenti interessanti, che riflettono un'ampia diffusione degli istituti partecipativi nel corso della storia moderna. Come emerge da un classico come Moby Dick di Herman Melville, per esempio, pubblicato nel 1851 . Dove nel capitale del "Pequod", baleniera comandata dal capitano Ahab, "le quote…erano detenute da una folla di azionisti: vedove, bambini orfani e affidati alla legge, ognuno proprietario all'incirca del valore di una testa di trave, o di un piede di plancia o di un chiodo o due della nave". A Ismaele, l'io narrativo del romanzo, viene assegnata la trecentesima "pertinenza". Il suo compagno, Queequeg, che dà prova di essere un abile ramponiere, centrando alla perfezione una distante macchia di catrame, viene ingaggiato invece con la novantesima "pertinenza", quindi a condizioni molto più vantaggiose. Un sistema che quindi non discrimina perché l'animista Queequeg viene assunto dai quaccheri Peleg e Bildad a condizioni migliori del cristiano Ismaele. Ciò che conta è il merito individuale perché a ciascun lavoratore-capitalista conviene che il capitale frutti il più possibile .

Tuttavia, specie a sinistra, il filone della partecipazione è stato a lungo spiazzato dall'ascesa di quello marxista, che vedeva un conflitto inconciliabile tra capitale e lavoro. Tramontato il modello fordista, sul fronte della prassi industriale, e il modello marxista, sul versante teorico, lo schema partecipativo è tornato a ricoprire una nuova centralità. Dapprima, sul piano dell'elaborazione astratta, con le proposte di Weitzman e Meade, la prima una versione più liberale della shareholders society, la seconda una versione dalle suggestioni più socialdemocratiche . Nella Share Economy di Weitzman, i lavoratori ricevono una quota fissa di quanto ciascuno di essi produce in media, ai prezzi di vendita. La contrattazione tra sindacati e impresa quindi non verte più sul salario orario bensì sulla "quota di partecipazione". Se l'impresa assume un lavoratore addizionale, il ricavo sarà superiore al costo marginale in quanto i costi, cioè la retribuzione del nuovo lavoratore, sono solo una percentuale dell'incremento dei ricavi che ne deriva. E' pur vero che, dal momento che il ricavo marginale è inferiore al ricavo medio (la produttività marginale è decrescente), il salario medio per ciascun lavoratore decresce al crescere della forza lavoro. Tuttavia, la maggiore domanda che segue ad un più alto livello occupazionale complessivo (fattore macro) e il maggiore interesse dei lavoratori ai risultati dell'impresa (fattore micro) possono, secondo Weitzman, più che compensare l'effetto depressivo sui salari.

La Labour-Capital Partnership di Meade è uno schema molto più complesso e immaginifico, che tuttavia ha molti punti di contatto con quello di Weitzman. Nell'isola di Agathotopia, "il buon posto in cui vivere" (contrapposto all'inesistente Utopia, definita "il luogo perfetto in cui vivere"), tre sono le innovazioni fondamentali apportate rispetto al modello capitalistico classico. A livello di impresa il diritto di voto e di decisione è accordato sia alle azioni di capitale sia a quelle di lavoro, quest'ultime detenute dai lavoratori dell'azienda. Lo Stato lascia alle imprese private la gestione del capitale ma si appropria dei frutti, che distribuisce ai cittadini sotto forma di Dividendo Sociale . In tal modo viene corrisposto a tutti un reddito minimo, indipendentemente dall'attività svolta. Infine, una forte tassazione dei patrimoni ereditari va a finanziare ulteriormente le attività dello Stato e soprattutto a redistribuire la ricchezza secondo criteri di equità, garantendo a classi di reddito differenti livelli di partenza omogenei. Nel sistema capitalistico congegnato da Meade, i lavoratori possono contare su diverse fonti di guadagno. Che, oltre che da un salario "fisso", sono costituite dal Dividendo sociale, dal dividendo delle "azioni di lavoro" e infine dai profitti derivanti dalla proprietà di azioni di capitale delle partnership azionarie fortemente incentivate dal sistema fiscale di Agathotopia. La multiforme composizione del reddito consente una migliore diversificazione del rischio rispetto allo schema di Weitzman. Inoltre, per ovviare alla resistenza dei vecchi soci all'ingresso dei nuovi, Meade sostiene una discriminazione salariale a favore dei primi. Che andrebbe a compensare chi ha detenuto più a lungo le azioni di lavoro, sopportandone i relativi rischi. La pesante interferenza dello schema di Meade con l'assetto proprietario lo rende però estraneo ad una visione liberale della società , al contrario di quello di Weitzman. Temperato nei suoi aspetti più radicali, il mondo di Agathotopia può comunque offrire spunti validi per la realtà odierna.

Sia pure nella loro diversità, gli schemi teorici di Weitzman e Meade sono finalizzati allo stesso obiettivo: raggiungere la piena occupazione . Grazie al fatto che il costo del lavoratore addizionale è minore del ricavo addizionale da esso generato. Quindi, in tempi favorevoli l'impresa è incentivata ad assumere mentre nelle fasi congiunturali negative essa ha minore incentivo a licenziare. Un meccanismo che porta automaticamente alla piena occupazione, nel caso in cui l'adozione del modello partecipativo sia generalizzata. Perché questo accada (o almeno ci si avvicini) occorre però bilanciare la naturale miopia degli imprenditori e dei lavoratori insider con incentivi fiscali e normativi ad hoc. Se l'occupazione è ritenuta un bene pubblico, compito dello Stato deve essere quello di fare ciò che il singolo privato non è in grado di fare, cioè considerare l'aspetto macro del problema. Nel rispetto delle regole di mercato, naturalmente . Sotto la spinta del processo di globalizzazione, si chiede ai governi europei di rendere più flessibili i mercati del lavoro. Una inevitabile e per certi versi giusta sollecitazione che però non può determinare una cancellazione unilaterale dei diritti dei lavoratori, così come sono rimasti codificati per molti decenni. Come tale, darebbe luogo ad una lunga lotta d'attrito dagli esiti incerti. Se si vuole liberalizzare il lavoro in Europa, occorre mettere in cambio qualcosa sul piatto della bilancia. Un maggiore coinvolgimento dei dipendenti nell'impresa (sotto forma di profit sharing, power sharing o entrambi) appare l'univa vera Terza Via percorribile per conciliare l'efficienza del mercato con esigenze solidaristiche.

Perché ciò avvenga, l'adozione dello schema partecipativo deve avvenire solo dove sia giustificato dalla logica economica, a seguito della contrattazione tra le parti sindacali. Come già prevede la normativa comunitaria sui Comitati aziendali europei (Cae) del 1994. Primo tassello di una serie di provvedimenti presi a livello continentale per modernizzare le relazioni industriali, tra i quali i più importanti sono quelli sulla Società Europea e sull'informazione e la consultazione dei lavoratori. La direttiva sui Cae affida alle parti (direzione delle società multinazionali, a cui la normativa in questione si applica, e rappresentanza dei lavoratori) il compito di individuare composizione e funzioni del comitato aziendale europeo. Solo nel caso in cui non si trovi un accordo, si applicano le disposizioni previste dalla legge. Sono oltre 600 le intese firmate a livello aziendale fino ad oggi. Risultato che fa ritenere la direttiva sui Cae uno dei grandi successi della recente legislazione comunitaria (Commissione Europea, 2000). Anche perché in questo caso, a differenza della rigida regolamentazione comunitaria imposta dall'alto in altri campi, l'impianto giuridico si basa su "norme leggere" (soft laws), che rappresentano il passaggio dal cosiddetto management by regulation al management by objectives. In altre parole, si punta al risultato più che ai mezzi per raggiungerlo, in accordo con il principio di sussidiarietà, che lascia il potere decisionale al livello più basso possibile .

La tecnica giuridica comunitaria, esemplificata dalla direttiva sui Cae, è stata presa dal Libro bianco del governo sul mercato del lavoro (2001) come possibile modello di riferimento per la stessa legislazione italiana. Un suggerimento che oggi risulta più che mai attuale. Per almeno due ragioni. Si sta andando verso un progressivo decentramento della contrattazione, con più peso per il livello locale e quello aziendale. Gli accordi tra le parti non saranno più delle gabbie rigide (secondo il principio del one-fits-all) ma si aggiusteranno in modo differente alle varie specificità. Inoltre, in una stagione di rinnovata conflittualità, si può offrire ai sindacati la possibilità di assumere rilevanti responsabilità a livello d'azienda, anche sostitutive della potestà legislativa, nello spirito delle indicazioni contenute nel Libro bianco. Alla stagione della concertazione, dove ai sindacati si è data voce in capitolo su questioni che in una democrazia normale sono in generale di esclusiva competenza del Parlamento e del governo, farebbe seguito una stagione della partecipazione dove le rappresentanze dei lavoratori tornerebbero a svolgere un ruolo più vicino alla loro storia e alla loro missione. Un ritorno alle origini che dovrebbe essere avvertito dai sindacati stessi come necessario e non più eludibile. Anche per cogliere le occasioni che vengono offerte dai processi di trasformazione in corso, come la new economy e le privatizzazioni. Dove programmi di stock options che coinvolgano larghe fasce di dipendenti (esempio americano) e emissioni di azioni riservate agli impiegati (esempio britannico) sono strumenti per accelerare sulla strada del reale empowerment dei lavoratori. Evitando che la new economy coincida con fenomeni di precarizzazione di massa (come i call centers, come li conosciamo oggi) e che le privatizzazioni si traducano soltanto in una redistribuzione del potere all'interno di una ristretta élite . Dunque, a ciascuno il suo mestiere, per garantire all'Italia e all'Europa al contempo più libertà, più occupazione e più solidarietà.


7 giugno 2002

(da ideazione 3-2002, maggio-giugno) "


Saluti liberali

Pieffebi
12-08-02, 18:28
da www.iltempo.it :

" L’EUROPA ABBANDONI VECCHI MODELLI


di ANGELO MARIA PETRONI

LA congiuntura economica nella quale si trova il mondo occidentale è senz'altro difficile. Ma non si tratta affatto di una situazione simile a quella del 1929. E non si tratta neppure, come affermano alcuni leaders della sinistra italiana, della prova che il capitalismo è entrato in una crisi sistemica, proprio come vorrebbero le sopravvissute idee marxiste .
Il quadro dell'economia mondiale è composto da molti elementi, e per averne una visione realistica è necessario distinguere tra quelli di tipo propriamente economico e quelli di tipo propriamente politico. Il più importante di questi ultimi è la situazione di insicurezza che si è venuta a creare dopo gli attacchi terroristici dello scorso anno. Una insicurezza che ha obbligato il governo americano, ed in misura minore gli altri paesi occidentali, a porre al primo piano dell'agenda politica la questione militare. Non si è trattato soltanto della guerra in Afganistan, ma anche - e soprattutto - di un imponente piano di spesa militare. Il governo americano ha quindi dovuto drenare risorse dall'economia proprio nel momento in cui essa, dopo nove anni di espansione continua, stava rallentando.
Quest'ultimo è forse l'elemento economico strutturale di maggiore rilevanza. A ben vedere, è anche quello meno sorprendente. La crescita superiore al 5 per cento che l'economia americana ha avuto per molti anni è stata dovuta all'aumento di produttività legato all'introduzione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche. Sebbene questi effetti siano ancora ben presenti, è del tutto normale che essi non producano una crescita economica come nei primi anni.
Le previsioni sull'economia americana di quest'anno danno una crescita del 3,5 per cento. Non vi è quindi alcuna ragione per parlare né di recessione, né tantomeno di una crisi stile 1929. Piuttosto, la situazione dimostra il ruolo centrale che nelle economie complesse ed altamente finanziarizzate hanno assunto le aspettative degli individui e delle imprese.
Questo ruolo è stato ulteriormente enfatizzato dal fatto che il sistema borsistico americano sta subendo le conseguenze negative di due fattori. Una normativa fiscale errata, che ha anormalmente incentivato la crescita del valore borsistico come sostituto della distribuzione di dividendi, più pesantemente tassati, e un allentamento del sistema dei controlli, che ha permesso ad un numero patologico di società di fare operazioni illecite, e di presentare bilanci non corrispondenti alla realtà .
Gli Stati Uniti stanno reagendo rapidamente per eliminare le anomalie. Se questa azione avrà successo è prevedibile che l'economia americana ritrovi un percorso virtuoso, fatto forse non tanto di una crescita molto più forte, ma di una maggiore certezza per il futuro dei cittadini.
L'Europa avrà ovviamente tutto da guadagnare dal miglioramento dell'economia americana. Tuttavia non è affatto certo che essa sarà in grado di approfittarne pienamente. La ragione è che le economie di quasi tutti i paesi europei presentano rigidità fortissime. La somma di corporativismo, pervasività della regolamentazione da parte dello Stato, controllo dei sindacati sulle regole del mercato del lavoro, fa sì che la crescita della produttività sia molto limitata rispetto alle potenzialità delle nuove tecnologie.
L'Europa potrà esprimere pienamente le sue potenzialità soltanto se saprà abbandonare il modello sociale ed economico che è il risultato di più di mezzo secolo di predominio della socialdemocrazia. Sebbene molti progressi siano stati compiuti negli ultimi venti anni, essi sono ancora limitati. Basti pensare che, nonostante la gran quantità di privatizzazioni effettuate, il peso della mano pubblica sul Pil continua ad essere sostanzialmente quello di trent'anni fa . Questo è il nodo cruciale, che i governi europei non possono cercare di nascondere sotto lo schermo delle difficoltà dell'economia americana.

lunedì 12 agosto 2002 "


Saluti liberali

gianniguelfi
15-08-02, 18:52
Gli piacerebbe, a Petroni, che abbandonassimo il modello sociale socialdemocratico, vero?
Che smantellassimo quella che è stata la più grande conquista dei lavoratori nel 900: il welfare state.
Che gli importa ad Angelo Maria se il governo innalzerà l' età pensionabile oppure se eliminerà le pensioni d' anzianità? tanto l' Ordine dei giornalisti al quale appartiene gode di un fondo pensionistico speciale che certo non verrà toccato.
Insomma, sempre li si va a parare: i famosi liberisti, i famosi imprenditori, non son capaci di far nulla se prima non tolgono qualcosa a quelli che già hanno poco.
Naturalmente adducendo il nobile pretesto che per distribuire ricchezza si deve prima crearla.
E chi ci assicura che una volta che avranno creato ricchezza spogliandoci dei nostri diritti, anziché redistribuircela con gli interessi, non se la vadano a giocare a Montecarlo?
Ma Petroni, e con lui PFB, è pronto a giurare che la redistribuiranno.
E ora che la falsificazione dei bilanci comporta una "mera" sanzione amministrativa, chi ci assicura che per non dover redistribuire un bel nulla non falsificheranno i bilanci a bella posta?
Ma Angelo Maria e PFB son pronti a mettere la mano sul fuoco che ciò non avverrà perché, notoriamente, gli imprenditori italiani son tutti dei buoni samaritani.
Ed allora facciamo cosi: visto che loro si fidano, lasciamo che siano tutti gli Angelo Maria Petroni e i PFB d' Italia a privarsi di qualcuno dei loro diritti per consentire agli imprenditori di accumulare ricchezza.
Cominciate voi due a dare l' esempio. Se funzionerà, noi vi seguiremo.

saluti

Gianni Guelfi

Pieffebi
16-08-02, 19:29
Se le regole sulle pensioni fossero ancora quelle di quando ho iniziato a lavorare.......fra poco più di 5 anni avrei potuto andare in pensione, non con una grande somma (visto che come dice un poveraccio di mia conoscenza, dico poveraccio dal punto di vista morale e intellettuale, son un fallito), ma insomma.....a meno di cinquanta anni sarei stato a carico della collettività, e come tutti, essendo ancora nel pieno delle forze avrei "arrotondato" alla grande "in nero". Sarebbe stata una vergogna. E ancora oggi di vergogne da sistemare, seppur di minore gravità, ce ne sono ancora a bizzeffe.

Saluti liberali

Pieffebi
17-08-02, 13:58
http://www.freecomunity.com/Ag00344_.gif

Pieffebi
25-08-02, 19:34
dal sito di Ideazione:

" La nuova frontiera del "capitalismo molecolare"
di Renato Tubére

Capitalismo molecolare: con questa efficace definizione Aldo Bonomi, sul supplemento economico del Corriere della Sera, lo scorso 25 febbraio tratteggia un nuovo modello della piccola impresa italiana. All'indomani dell'amara rinuncia ad organizzare il Salone Internazionale dell'Auto a Torino, in Piemonte tutti si domandano se sarà questa la forma di capitalismo che riscatterà le speranze regolarmente disattese negli ultimi anni dai due giganti dell'imprenditoria piemontese, Fiat ed Olivetti. In quest'area geografica, da tempo alla ricerca di un'altra identità economica e sociale, emerge la figura di un nuovo imprenditore, desideroso di essere all'altezza delle esigenze del mercato globale.

Nato nei corridoi non sempre accoglienti di qualche camera di commercio, alle spalle un periodo più o meno lungo come dipendente, il nostro deve barcamenarsi ogni giorno tra i tentacoli di una burocrazia mai doma per sbarcare decorosamente il lunario. Dispone mediamente di una decina di dipendenti, non tutti inquadrati regolarmente (molti di loro sono immigrati clandestini), e si avvale delle nuove offerte di credito che gli provengono da banche locali agguerrite nel fidelizzarlo e nel sostenerlo costantemente. Inoltre dimostra la sua predisposizione a conquistare fette cospicue nel suo settore merceologico ricorrendo a sistemi innovativi ed aggressivi, fornitegli dalla net economy, perché adatti a diffondere velocemente la produzione e la vendita dei propri beni o servizi in tutto il mondo.

Dall'Unione Industriali all'API (Associazione Piccole Imprese), dalla Confartigianato all'ASCOM, è tutto un fiorire di proposte per migliorare in segmenti, come l'addestramento professionale o la consulenza legislativa, dove al nostro eroe mancherebbe il tempo per organizzarsi autonomamente. Il capitalismo molecolare del Nord Ovest è oggi a metà del guado: almeno duecento aziende di recentissima costituzione, consolidati con fatica i primi ragguardevoli utili, scoprono preoccupate un orizzonte tutt'altro che sereno. La condizione perché non vengano ricacciate indietro le loro legittime speranze è l'impegno preciso della classe politica, nazionale e regionale, a favorire in tutti i modi gl'investimenti dei due giganti industriali in difficoltà .

Personalmente non crediamo ad una Fiat imprigionata nel Jurassic Park di una Torino sede delle Olimpiadi invernali del 2006, ma ad un gruppo momentaneamente in difficoltà fermo però nei propositi di mantenere il prodotto auto ed i suoi componenti essenziali come suo core businness. Ferrari e Piko-COMAU sono lì a confermare un trend altamente positivo, in controtendenza con quello deficitario della produzione di autoveicoli. L'uscita definitiva dal gruppo di Ivrea dell'Ingegner Carlo De Benedetti, discusso padre padrone di un gruppo che avrebbe potuto essere l'alter ego europeo della californiana Silycon Valley, dimostra la voglia d'imprendere dei nuovi azionisti di maggioranza nel distretto industriale del Canavese.

Cosa dovrebbero fare quindi il governo nazionale di Silvio Berlusconi e quello regionale di Enzo Ghigo per favorire nuovi e più cospicui investimenti nel territorio del Nord Ovest dei due giganti di cui sopra, creando in parallelo uno scenario positivo per questo capitalismo molecolare? Semplicemente, applicare un federalismo virtuoso che non appesantisca, ma al contrario delegiferi in un sistema normativo che soffoca nel presente le potenzialità di tutto il mondo imprenditoriale del Nord Ovest. Ma per riuscirci c'è bisogno del coinvolgimento di tutte le componenti in gioco, prima fra tutte l'attuale organico dell'amministrazione pubblica in ogni suo livello. Meno regole condivisibili, anche perché vantaggiose, da tutti i giocatori (lavoratori, imprese e loro associazioni di riferimento) di una partita che non solo il Piemonte, ma l'Italia intera deve assolutamente vincere per competere adeguatamente in Europa e nel mondo .

15 marzo 2002

renatotubere@email.it "


Saluti liberali

Pieffebi
26-08-02, 20:21
da www.ansa.it :

" JOHANNESBURG: ITALIA PROPONE 'DETAX', DA RICCHI A POVERI
ROMA - Al tavolo di Johannesburg, l' Italia propone la 'detax', una misura fiscale comune a tutti i Paesi ricchi che si basa sulla libera decisione dei consumatori e dei circuiti commerciali di destinare l' 1% del valore degli acquisti a progetti di cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile. Questo contributo, fa sapere il ministro dell' Ambiente, Altero Matteoli, sara' esentato dalle imposte dirette ed indirette.
Entro il 2002, inoltre, l' Italia cancellera' 1 miliardo di dollari di debito estero a favore dei Paesi piu' poveri. Questa decisione fa parte di un piu' ampio programma per la cancellazione di almeno 4 miliardi di dollari di debiti .

Riflettori sulla sanita' nella prima giornata del Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile, in corso a Johannesburg. Tra le emergenze di cui soffre il Pianeta, quella sanitaria e' infatti una delle piu' piu' preoccupanti: dall' Aids alla malnutrizione, dalla malaria alla polmonite, le malattie sono uno degli ostacoli principali allo sviluppo sostenibile , come dimostrano i dati portati al Summit dall' Organizzazione mondiale della Sanita'. "


Saluti liberali

agaragar
28-08-02, 09:42
Originally posted by Pieffebi
Se le regole sulle pensioni fossero ancora quelle di quando ho iniziato a lavorare.......fra poco più di 5 anni avrei potuto andare in pensione, non con una grande somma (visto che come dice un poveraccio di mia conoscenza, dico poveraccio dal punto di vista morale e intellettuale, son un fallito), ma insomma.....a meno di cinquanta anni sarei stato a carico della collettività, e come tutti, essendo ancora nel pieno delle forze avrei "arrotondato" alla grande "in nero". Sarebbe stata una vergogna. E ancora oggi di vergogne da sistemare, seppur di minore gravità, ce ne sono ancora a bizzeffe.

Saluti liberali
bene! quando andrai in pensione potrai finalmente postare degli articoli belli lunghi al posto degli scarni telegrammi che scrivi adesso!!

Pieffebi
28-08-02, 13:12
Ci puoi contare. Scriverò un post di 100.000 righe su Nerone e il liberalismo, cuntent?:D

agaragar
28-08-02, 13:54
100...1000...un milione di mila righe!

Pieffebi
28-08-02, 19:52
Originally posted by Pieffebi
da www.ansa.it :

" JOHANNESBURG: ITALIA PROPONE 'DETAX', DA RICCHI A POVERI
ROMA - Al tavolo di Johannesburg, l' Italia propone la 'detax', una misura fiscale comune a tutti i Paesi ricchi che si basa sulla libera decisione dei consumatori e dei circuiti commerciali di destinare l' 1% del valore degli acquisti a progetti di cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile. Questo contributo, fa sapere il ministro dell' Ambiente, Altero Matteoli, sara' esentato dalle imposte dirette ed indirette.
Entro il 2002, inoltre, l' Italia cancellera' 1 miliardo di dollari di debito estero a favore dei Paesi piu' poveri. Questa decisione fa parte di un piu' ampio programma per la cancellazione di almeno 4 miliardi di dollari di debiti .

Riflettori sulla sanita' nella prima giornata del Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile, in corso a Johannesburg. Tra le emergenze di cui soffre il Pianeta, quella sanitaria e' infatti una delle piu' piu' preoccupanti: dall' Aids alla malnutrizione, dalla malaria alla polmonite, le malattie sono uno degli ostacoli principali allo sviluppo sostenibile , come dimostrano i dati portati al Summit dall' Organizzazione mondiale della Sanita'. "


Saluti liberali +


da www.adnkronos.com

" Lo denuncia l'Iea nella terza giornata del vertice
Johannesburg, nel mondo 1,6 mld di uomini senza luce
In agenda oggi al summit il problema dell'acqua e dell'energia: i settori dove la disparita' fra i 'ricchi' del Pianeta e i piu' poveri, e' eclatante.

Roma, 28 ago. (Adnkronos) - Aumentare del 15% la produzione di elettricita' pulita entro il 2010; garantire l'accesso alla sanita' di base per la maggior parte della popolazione dei paesi piu' poveri entro il 2015; accrescere la disponibilita' di acqua. Questi i tre grandi temi in agenda nel terzo giorno del vertice di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile che si e' aperto lunedi' scorso.
La giornata di ieri era dedicata all'agricoltura e ha visto un parziale accordo sul bando dei pesticidi entro il 2020 e la difesa della pesca, per uno sfruttamento 'sostenibile' delle ricchezze dei mari. Oggi si parla di acqua, luce, energia, settori dove la disparita' fra i 'ricchi' del Pianeta e i piu' poveri, e' eclatante.
Sul fronte energetico, un rapporto presentato oggi a Johannesburg dall'Agenzia Internazionale per l'Energia dell'Ocse (Iea), su 'Energia e Poverta' denuncia i legami fra l'accesso all'energia e la poverta' e sottolinea che nel mondo 1,6 miliardi di esseri umani sono ancora privi di elettricita'. In assenza di politiche radicali, fra 30 anni 1,4 miliardi di persone saranno ancora in queste condizioni. 2,4 miliardi di esseri umani, inoltre, dipendono dalle biomasse povere - sterpi e arbusti - per riscaldarsi e saranno 2,6 miliardi nel 2030.
E ancora, i 4/5 delle popolazione rurale dei paesi in via di sviluppo e' priva di elettricita' . ''La privazione di elettricita' esaspera la poverta' e contribuisce a mantenerla perche' blocca lo sviluppo di numerose attivita' industriali e, di conseguenza, la creazione di nuovi posti di lavoro'' sottolinea il Rapporto. Fra i punti critici che caratterizzano lo scenario energetico mondiale, l'Iea punta il dito sul predominio dei combustibili fossili: nel 2020 il 90% del mix energetico sara' composto da petrolio (40%), gas (26%) e carbone (24%), fonti responsabili della produzione di gas serra. Le conseguenze saranno pesanti, soprattutto per l'aumento della Co2, il principale tra i gas che provocano il surriscaldamento dell'atmosfera.
Anche la bilancia dei consumi energetici pende decisamente da un lato: i due miliardi piu' poveri della popolazione mondiale, con un reddito annuo sotto i 1000 dollari, consumano 0,2 tonnellate equivalenti petrolio (tep) di energia pro capite l'anno, mentre la popolazione piu' ricca del pianeta ne usa 25 volte di piu', ossia 5 tep pro capite l'anno.
Secondo l'Iea la domanda di petrolio, fra 10 anni, passera' dagli attuali 76 a 96 milioni di barili al giorno, arrivando a 115 milioni di barili al giorno nel 2020. Il 70% dell'aumento del fabbisogno verra' proprio dalle aree emergenti e, in particolare (il 45%) dall'Asia e dalla Cina con un fabbisogno 7 milioni di barili al giorno.
L'altra faccia della medaglia sono le fonti rinnovabili: oggi soddisfano il 18% dei consumi elettrici totali. Per il futuro e' previsto un raddoppio di questo contributo ma in proporzione il 'peso' sul mix energetico non aumentera'. Le energie 'pulite' saranno la fonte con il piu' rapido tasso di sviluppo - il 2,8% a livello mondiale (rispetto all'1,7% del petrolio e all'1,9% del gas naturale) - nei prossimi 20 anni ma nonostante questo ritmo galoppante, nel 2020 conquisteranno appena il 3% del mix mondiale.
Anche in Europa le prospettive non sono esaltanti. Nonostante un ritmo di crescita del 3% l'anno e picchi spettacolari (+10%) nell'energia eolica, il contributo di queste fonti al mix energetico del Vecchio Continente e' fermo al 6%, di cui il 2% e' di energia idroelettrica .
Ecco alcuni dati di sintesi dell'emergenza-energia nel mondo:
1,6 MILIARDI DI PERSONE SENZA LUCE
2,4 MILIARDI DI PERSONE SI RISCALDANO SOLO CON LE BIOMASSE
60% L'AUMENTO DELLA DOMANDA DI ENERGIA FRA 20 ANNI
90% IL CONTRIBUTO DELLE FONTI FOSSILI AL MIX ENERGETICO NEL 2020
3% IL CONTRIBUTO DELLE ENERGIE RINNOVABILI AL MIX FONTI NEL 2020
Cristina Corazza "

Cordiali saluti

agaragar
28-08-02, 20:10
Originally posted by Pieffebi
2,4 MILIARDI DI PERSONE SI RISCALDANO SOLO CON LE BIOMASSE

la merda.............

figurati che in un paese vicino alla svizzera la mangiano.

Pieffebi
29-08-02, 20:07
Originally posted by Pieffebi
+


da www.adnkronos.com

" Lo denuncia l'Iea nella terza giornata del vertice
Johannesburg, nel mondo 1,6 mld di uomini senza luce
In agenda oggi al summit il problema dell'acqua e dell'energia: i settori dove la disparita' fra i 'ricchi' del Pianeta e i piu' poveri, e' eclatante.

Roma, 28 ago. (Adnkronos) - Aumentare del 15% la produzione di elettricita' pulita entro il 2010; garantire l'accesso alla sanita' di base per la maggior parte della popolazione dei paesi piu' poveri entro il 2015; accrescere la disponibilita' di acqua. Questi i tre grandi temi in agenda nel terzo giorno del vertice di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile che si e' aperto lunedi' scorso.
La giornata di ieri era dedicata all'agricoltura e ha visto un parziale accordo sul bando dei pesticidi entro il 2020 e la difesa della pesca, per uno sfruttamento 'sostenibile' delle ricchezze dei mari. Oggi si parla di acqua, luce, energia, settori dove la disparita' fra i 'ricchi' del Pianeta e i piu' poveri, e' eclatante.
Sul fronte energetico, un rapporto presentato oggi a Johannesburg dall'Agenzia Internazionale per l'Energia dell'Ocse (Iea), su 'Energia e Poverta' denuncia i legami fra l'accesso all'energia e la poverta' e sottolinea che nel mondo 1,6 miliardi di esseri umani sono ancora privi di elettricita'. In assenza di politiche radicali, fra 30 anni 1,4 miliardi di persone saranno ancora in queste condizioni. 2,4 miliardi di esseri umani, inoltre, dipendono dalle biomasse povere - sterpi e arbusti - per riscaldarsi e saranno 2,6 miliardi nel 2030.
E ancora, i 4/5 delle popolazione rurale dei paesi in via di sviluppo e' priva di elettricita' . ''La privazione di elettricita' esaspera la poverta' e contribuisce a mantenerla perche' blocca lo sviluppo di numerose attivita' industriali e, di conseguenza, la creazione di nuovi posti di lavoro'' sottolinea il Rapporto. Fra i punti critici che caratterizzano lo scenario energetico mondiale, l'Iea punta il dito sul predominio dei combustibili fossili: nel 2020 il 90% del mix energetico sara' composto da petrolio (40%), gas (26%) e carbone (24%), fonti responsabili della produzione di gas serra. Le conseguenze saranno pesanti, soprattutto per l'aumento della Co2, il principale tra i gas che provocano il surriscaldamento dell'atmosfera.
Anche la bilancia dei consumi energetici pende decisamente da un lato: i due miliardi piu' poveri della popolazione mondiale, con un reddito annuo sotto i 1000 dollari, consumano 0,2 tonnellate equivalenti petrolio (tep) di energia pro capite l'anno, mentre la popolazione piu' ricca del pianeta ne usa 25 volte di piu', ossia 5 tep pro capite l'anno.
Secondo l'Iea la domanda di petrolio, fra 10 anni, passera' dagli attuali 76 a 96 milioni di barili al giorno, arrivando a 115 milioni di barili al giorno nel 2020. Il 70% dell'aumento del fabbisogno verra' proprio dalle aree emergenti e, in particolare (il 45%) dall'Asia e dalla Cina con un fabbisogno 7 milioni di barili al giorno.
L'altra faccia della medaglia sono le fonti rinnovabili: oggi soddisfano il 18% dei consumi elettrici totali. Per il futuro e' previsto un raddoppio di questo contributo ma in proporzione il 'peso' sul mix energetico non aumentera'. Le energie 'pulite' saranno la fonte con il piu' rapido tasso di sviluppo - il 2,8% a livello mondiale (rispetto all'1,7% del petrolio e all'1,9% del gas naturale) - nei prossimi 20 anni ma nonostante questo ritmo galoppante, nel 2020 conquisteranno appena il 3% del mix mondiale.
Anche in Europa le prospettive non sono esaltanti. Nonostante un ritmo di crescita del 3% l'anno e picchi spettacolari (+10%) nell'energia eolica, il contributo di queste fonti al mix energetico del Vecchio Continente e' fermo al 6%, di cui il 2% e' di energia idroelettrica .
Ecco alcuni dati di sintesi dell'emergenza-energia nel mondo:
1,6 MILIARDI DI PERSONE SENZA LUCE
2,4 MILIARDI DI PERSONE SI RISCALDANO SOLO CON LE BIOMASSE
60% L'AUMENTO DELLA DOMANDA DI ENERGIA FRA 20 ANNI
90% IL CONTRIBUTO DELLE FONTI FOSSILI AL MIX ENERGETICO NEL 2020
3% IL CONTRIBUTO DELLE ENERGIE RINNOVABILI AL MIX FONTI NEL 2020
Cristina Corazza "

Cordiali saluti


da www.lastampa.it :

" Battaglia a Johannesburg
per vincere la Grande Sete
Un terzo dell’umanità è privo di acqua e la beve infetta. Il progetto
di ridurre il numero degli assetati entro il 2015 a seicento milioni
appare una speranza. E sfuma anche l’accordo sui prodotti chimici


29 agosto 2002

di Fiamma Nirenstein
inviata a JOHANNESBURG


Non era andato a parlare al popolo delle Ong nel grande centro di Nasrec, in periferia, dove gente di tutti i colori lo aspettava con la solita passione sfrenata; ma neppure al Centro dove si svolge la parte in giacca e cravatta del summit mondiale per l’ambiente, dove si incontrano i delegati dei governi. E’ apparso, invece, circonfuso di acqua, a dissetare la sete di carisma del summit al «WaterDome».

Nelson Mandela con una giacca di seta a gocce e piccole onde grige, azzurrine e bianche, ha scelto un tempio di pragmatismo acquatico per fare la sua apparizione nel suo regno, il Sud Africa: l’inaugurazione dell’Aquaforum, il grande centro in cui grandi compagnie, piccoli Comuni, organizzazioni verdi mostrano la loro acqua per dare acqua al nostro assetatto pianeta, e ne discutono insieme.


E’ un luogo enorme, rotondo e azzurro, dove per l’occasione danzavano e tambureggiavano una quantità di ballerini zulu; è un incitamento a dare a tutto il mondo acqua potabile e sana, usando la cooperazione fra settore pubblico e privato, come le 70 organizzazioni che lo finanziano. «Sono, in maniera totale e impegnata, una persona dell'acqua», ha detto il padre della fine dell'apartheid, mentre intorno sfolgoravano immense cascate di cristalli finti, che alla fine del discorso si sarebbero accesi fra suoni. «L’acqua è un diritto di base per tutti gli esseri umani»: non deve essere negata a nessuno, dunque, per nessuna ragione, tantomeno quella del denaro. Ed è anche un complemento indispensabile e dinamico della democrazia, dice «Madiba».


Mandela ha fatto una scelta molto oculata: il discorso, mentre la Conferenza spendeva milioni di parole oggi proprio sulla grande sete del mondo, si teneva in una specie di mercato delle esperienze e delle tecnologie idriche più sane e moderne, un luogo di praticità e di azione. Ci sono più di un miliardo e 200 milioni di persone che non hanno acqua potabile, e la Conferenza litigava sul ruolo del settore privato e di quello pubblico, e quindi, in fondo, si chiedeva se l’acqua deve essere proprio di tutti.

Mandela, che non ha mancato di ricordare la sofferenza dell’Africa assetata e in particolare del suo antico villaggio, ha trovato praticamente un ruolo a tutti, imprenditori e Stati, «senza forzare nessuno»; ha biasimato, fuori dal testo ufficiale, che le conclusioni del «World Water Forum» dell’Aja non siano divenute realtà, e ha chiesto, dato che tutti sospettano del buonismo della conferenza sullo «Sviluppo sostenibile», un’accurata sorveglianza.

Un Mandela particolarmente istituzionale; tuttavia prima di parlare con affetto dei suoi amici, «Sua altezza Reale il Principe di Orange» e l'ambasciatore saudita Salim Ahmed Salim, con lui sul palco, ci ha tenuto con modi civettuoli a precisare che viviamo strani tempi, in cui «ex terroristi e rivoluzionari sono ormai al governo». Un ammiccamento alle folle che lo adorano, e che lo vedono trasformato, sempre di più, in un monumento cerimoniale.


E invece, il vecchio leader è riuscito a catalizzare e rendere positivo un giorno di contrasti e anche di umore fosco: nel parlare d’acqua, alla Conferenza, si è sottolineato molto l’aspetto del disequilibrio ambientale contenuto nelle recenti inondazioni e catastrofi, prevedendone a bizzeffe. Per esempio, un rapporto dell’Organizzazione metereologica mondiale (Wmo) ha spiegato che El Nino - il fenomeno climatico che provoca alluvioni torrenziali e cicloni nella costa del Pacifico e nel Sud America ed è anche responsabile della grandi siccità che affliggono numerose regioni africane - sta tornando. Colpirà le coste del Pacifico fino al 2003 e costituirà un «insostenibile» rischio per qualsiasi sviluppo.

Anche l’alluvione in Cina e i recenti avvenimenti in India possono essere collegati al ritorno del Nino, e il mondo deve attrezzarsi ad affrontare, in tutti i sensi, le catastrofi portate dall’acqua, perchè i paesi poveri diventano, con le catastrofi, sempre più poveri e desertificati. E se il 75 per cento di tutte le catastrofi ha un carattere di inondazione, il guaio più grande del mondo resta la mancanza d’acqua: se più di un miliardo di persone non ha acqua da bere, 2 miliardi e 400 milioni mancano di acqua pulita. Renderla utilizzabile all’uomo, naturalmente, contribuisce nel ridurre la diffusione delle malattie. Si tratta di un terzo dell’umanità che non ha rubinetti, bagni, fogne, che beve acqua piena di bacilli .


Ieri il solito sforzo immane di trovare un accordo che invece non c’è mai. Prima ha preso le ali su una frase piena di buona volontà: dimezzare entro il 2015 il numero degli assetati a 600 milioni di persone. Ma subito una parte della Conferenza ha chiesto: e che fare con chi usufruisce solo di acqua sporca, e poca? Che fare per renderla utilizzabile?

C’è chi dice che le due cose non possono non marciare parallele, mentre c’è chi vuole innanzitutto dissetare chi non può bere. Ma non è il solo contrasto: quello cui fra le righe ha accennato Mandela, ovvero dell’acqua come bene gratuito o tutto al più gestito con accordi fra il pubblico e privato, resta un obiettivo delle organizzazioni ambientalistiche più grandi. Il Wwf per esempio, spiega Gianfranco Bologna, vuole che i grandi bacini idrici che occupano il 45 per cento delle superfici emerse, raccolgono l’80 per cento del flusso di acqua dolce e sulle cui rive vive l’80 per cento della popolazione della Terra, dal Danubio all’Eufrate, siano gestiti in comune da Stati e aziende, con un management «integrato» .


Buona idea? Qui di buone idee ce ne sono tante, ma le dinamiche politiche sono diaboliche: per esempio, l’eliminazione dei prodotti chimici dannosi entro il 2020 che era stata decisa martedì, è già in via di revisione: i G77, ovvero, i paesi del Terzo Mondo, chiedono tempi più morbidi . Si avvicina l’ora dell’arrivo dei ministri e dei presidenti, ma soprattutto quella del castigamatti: il 31, la manifestazione dei no global. "

La verità è che i paesi "in via di sviluppo" e i paesi a giovane capitalismo, per non dire dei paesi comunisti, inquinano molto di più degli USA e del mondo occidentale e ricco e sprecano molte più risorse.


Cordiali saluti.

Pieffebi
30-08-02, 22:35
da www.iltempo.it :

" I cattivi profeti della catastrofe ambientale


di GIOVANNI SOMOGYI

I PROFETI delle catastrofi ambientali amano tenerci in angoscia ma, ora che è cominciato a Johannesburg il Vertice delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, addirittura imperversano. Occorre distinguere tra due specie di ecologisti: quelli che sono contro i poveri, e se la prendono con il pericolo della sovrapopolazione, e quelli che sono contro i ricchi, e tuonano contro il consumismo. Questi ultimi, quando si dedicano alla politica, prendono il romantico nome di Verdi. Ma cominciamo dai primi.
La razza dei profeti di sventura è di antichissima origine. Nel 1798 Malthus, uno dei padri della demografia, scrisse un celebre saggio, nel quale avvertiva l'umanità che, se continuava a produrre figli a rotta di collo, la pressione sulle risorse sarebbe divenuta intollerabile. Malthus consigliava il genere umano di limitare le nascite praticando l'astinenza; ma (complice la sua signora) mise al mondo otto figli. Cioè predicava bene e razzolava male. Mezzo secolo fa, quando si parlava dello spauracchio dei sei miliardi di uomini, eravamo due miliardi e mezzo. Ai sei miliardi siamo oggi arrivati: e gli uomini godono in media di maggior benessere, hanno mediamente più cibo, vivono più a lungo e sono più istruiti dei due miliardi e mezzo di allora.
La seconda razza di catastrofisti è costituita dai Verdi, che ad esempio lamentano la minaccia alla foresta tropicale. Ma anche l'Italia, a metà del Trecento, era coperta dai boschi: e la peste fece sparire dall'Europa trenta milioni di persone. I morti di peste forse non si rendevano conto della fortuna di essere vissuti in un mondo boscoso, incontaminato, senza multinazionali farmaceutiche. Oggi in Italia il Veneto è fra le regioni meno boscate. Ebbene, sfido chiunque a sostenere che in Veneto si viva meno bene che nelle altre regioni italiane. I veneti hanno tagliato gli alberi, si dice, per costruire le navi della Serenissima; ma al loro posto hanno piantato vigne, dalle quali ricavano i migliori vini e le migliori grappe d'Italia. I Verdi lamentano altresì i pericoli di scomparsa di numerose specie animali. Nel corso del tempo sono scomparsi i dinosauri, il mammut, la tigre dai denti a sciabola, l'australopiteco; è scomparso anche mio nonno; sono fatti dolorosi, ma tiriamo avanti lo stesso.
Come i marxisti, anche i Verdi si nutrono di pretese leggi scientifiche, in base alle quali saremmo avviati verso l'inesorabile catastrofe. Tocchiamo ferro e occupiamoci dei guai veri, che non mancano di sicuro.

venerdì 30 agosto 2002 "


Cordiali saluti

Pieffebi
11-09-02, 13:01
da www.ilsole24ore.com .

" COMMENTI E INCHIESTE torna indietro



Friedman: «Niente crisi, gli Usa restano forti»

CONTINUA DA pag.1 Come può essere buona per le statistiche ma non per l'economia? Perché le attività produttive sono in movimento e l'economia gira, ma c'è uno slittamento della produzione da beni funzionali a una crescita sana e pacifica a beni costruiti per distruggere, e questo non aiuta un'efficiente allocazione delle risorse. Parliamo di Borsa, ci sono molte incertezze quando si guarda al futuro ... Quando si parla del futuro della Borsa rispondo sempre con una battuta di J.P Morgan: «I mercati fluttuano, è nella loro natura». Siamo dunque in un normale momento di fluttuazione dei mercati? Da un punto di vista strettamente congiunturale, sì. Non dimentichi che il momento peggiore della recessione lo abbiamo avuto l'anno scorso. La ripresa è ancora giovane, dobbiamo darle tempo. Ma fondamentalmente l'economia è sana. Il tasso di disoccupazione resta su livelli straordinariamente buoni per questo momento della fase congiunturale. Forse l'inflazione avrà qualche sussulto al rialzo prima o poi, ma per ora è sotto controllo. C'è, a mio avviso, una disparità tra la percezione psicologica e la percezione reale della situazione dell'economia, dovuta a due fattori. Il primo è la caduta dei valori di Borsa. Molti hanno ancora le dita che scottano per le forti perdite e con i pericoli di cui si parla preferiscono tenere liquidità. Il secondo riguarda gli scandali. Hanno instillato diffidenza e i media hanno costruito dei casi che sembrano senza precedenti, proprio perché capitavano in un momento di fragilità. Ma in tempi di prosperità ci sono lo stesso molti scandali, eppure nessuno se ne preoccupa con la stessa intensità. Eppure qualcuno ha paura che si possa ripetere una crisi simile a quella degli anni 30. In fondo, il '29 fu solo l'inizio, la depressione venne dopo. Ho vissuto la depressione e posso dire che la situazione oggi è molto diversa. Posso anche affermare che non si ripeterà. Abbiamo troppi strumenti a disposizione per evitarla. Ma, soprattutto, torno a dirlo, bisogna guardare all'occupazione, ai fondamentali ... Ritiene che la coincidenza dei due fattori di cui parla, cadute in Borsa e scandali, abbia creato un problema sistemico? C'è una crisi del capitalismo americano? No. Non c'è una crisi del capitalismo americano. Il Paese resta vitale e non esiste un problema sistemico. Pensi a tutto quello che è successo: il ridimensionamento della bolla sui tecnologici in Borsa, l'attacco dell'11 settembre, gli scandali. Eppure l'indice Dow Jones resta al di sopra dei valori di due anni fa. Lei crede che Greenspan abbia sbagliato a non fermare la bolla? Alan Greenspan ha gestito la situazione con grande solidità e ha fatto quel che doveva fare. Non è compito della Fed interrompere una bolla, anzi, dal mio punto di vista è entrato in un territorio non suo quando ha parlato di «esuberanza irrazionale» . Il presidente della Fed si deve occupare di politica monetaria, di stabilità dei prezzi. Eppure alcuni, l'economista Paul Krugman ad esempio, lo hanno attaccato duramente sulla questione della bolla, per non aver imposto margini più elevati. Ripeto: la Fed non si deve immischiare nelle questioni che riguardano la Borsa. E comunque finora si è comportata molto bene nella politica dei tassi. Qualcuno dice che c'è una bolla del mercato immobiliare. La preoccupa? Non so se ci sia o meno, ma so che in generale gli americani godono di una buona situazione netta patrimoniale. Eppure si indebitano per una casa il cui valore potrebbe essere gonfiato ... Si indebitano perché i tassi di interesse sono molto bassi e molto vantaggiosi. Insomma lei non vede problemi di fondo. No. Guardi mi spingo un po' più in là: credo che siamo vicini alla fine del ciclo negativo in Borsa. Prima o poi i fondamentali economici finiranno con il prevalere sui problemi psicologici . Mario Platero "

Saluti liberali

Pieffebi
11-09-02, 13:01
da www.ilsole24ore.com .

" COMMENTI E INCHIESTE torna indietro



Friedman: «Niente crisi, gli Usa restano forti»

CONTINUA DA pag.1 Come può essere buona per le statistiche ma non per l'economia? Perché le attività produttive sono in movimento e l'economia gira, ma c'è uno slittamento della produzione da beni funzionali a una crescita sana e pacifica a beni costruiti per distruggere, e questo non aiuta un'efficiente allocazione delle risorse. Parliamo di Borsa, ci sono molte incertezze quando si guarda al futuro ... Quando si parla del futuro della Borsa rispondo sempre con una battuta di J.P Morgan: «I mercati fluttuano, è nella loro natura». Siamo dunque in un normale momento di fluttuazione dei mercati? Da un punto di vista strettamente congiunturale, sì. Non dimentichi che il momento peggiore della recessione lo abbiamo avuto l'anno scorso. La ripresa è ancora giovane, dobbiamo darle tempo. Ma fondamentalmente l'economia è sana. Il tasso di disoccupazione resta su livelli straordinariamente buoni per questo momento della fase congiunturale. Forse l'inflazione avrà qualche sussulto al rialzo prima o poi, ma per ora è sotto controllo. C'è, a mio avviso, una disparità tra la percezione psicologica e la percezione reale della situazione dell'economia, dovuta a due fattori. Il primo è la caduta dei valori di Borsa. Molti hanno ancora le dita che scottano per le forti perdite e con i pericoli di cui si parla preferiscono tenere liquidità. Il secondo riguarda gli scandali. Hanno instillato diffidenza e i media hanno costruito dei casi che sembrano senza precedenti, proprio perché capitavano in un momento di fragilità. Ma in tempi di prosperità ci sono lo stesso molti scandali, eppure nessuno se ne preoccupa con la stessa intensità. Eppure qualcuno ha paura che si possa ripetere una crisi simile a quella degli anni 30. In fondo, il '29 fu solo l'inizio, la depressione venne dopo. Ho vissuto la depressione e posso dire che la situazione oggi è molto diversa. Posso anche affermare che non si ripeterà. Abbiamo troppi strumenti a disposizione per evitarla. Ma, soprattutto, torno a dirlo, bisogna guardare all'occupazione, ai fondamentali ... Ritiene che la coincidenza dei due fattori di cui parla, cadute in Borsa e scandali, abbia creato un problema sistemico? C'è una crisi del capitalismo americano? No. Non c'è una crisi del capitalismo americano. Il Paese resta vitale e non esiste un problema sistemico. Pensi a tutto quello che è successo: il ridimensionamento della bolla sui tecnologici in Borsa, l'attacco dell'11 settembre, gli scandali. Eppure l'indice Dow Jones resta al di sopra dei valori di due anni fa. Lei crede che Greenspan abbia sbagliato a non fermare la bolla? Alan Greenspan ha gestito la situazione con grande solidità e ha fatto quel che doveva fare. Non è compito della Fed interrompere una bolla, anzi, dal mio punto di vista è entrato in un territorio non suo quando ha parlato di «esuberanza irrazionale» . Il presidente della Fed si deve occupare di politica monetaria, di stabilità dei prezzi. Eppure alcuni, l'economista Paul Krugman ad esempio, lo hanno attaccato duramente sulla questione della bolla, per non aver imposto margini più elevati. Ripeto: la Fed non si deve immischiare nelle questioni che riguardano la Borsa. E comunque finora si è comportata molto bene nella politica dei tassi. Qualcuno dice che c'è una bolla del mercato immobiliare. La preoccupa? Non so se ci sia o meno, ma so che in generale gli americani godono di una buona situazione netta patrimoniale. Eppure si indebitano per una casa il cui valore potrebbe essere gonfiato ... Si indebitano perché i tassi di interesse sono molto bassi e molto vantaggiosi. Insomma lei non vede problemi di fondo. No. Guardi mi spingo un po' più in là: credo che siamo vicini alla fine del ciclo negativo in Borsa. Prima o poi i fondamentali economici finiranno con il prevalere sui problemi psicologici . Mario Platero "

Saluti liberali

Pieffebi
15-12-02, 21:46
dal sito di Ideazione

" Crescita economica, proprietà privata e libertà
di Massimo Lo Cicero

The Heritage Foundation e il Wall Street Journal, due istituzioni culturali americane, elaborano dal 1995 un indice comparato della libertà economica nel mondo contemporaneo. L'obiettivo era ed è fornire ai dirigenti politici e alla comunità degli affari un indice oggettivo degli spazi di libertà offerti all'iniziativa economica. L'indice copre 161 paesi ed è un indice "negativo". Per essere un paese libero bisogna riportare un punteggio basso. L'oggetto della misurazione è la intensità delle forze che si oppongono alla libertà degli scambi e dell'investimento. E' disponibile, sul sito web della Fondazione, le dimensioni dell'indice nella edizione 2003. Il mondo è più libero, commentano gli autori del rapporto che si affianca alle graduatorie. 32 paesi hanno mantenuto inalterata la propria posizione; 74 hanno migliorato il proprio grado di libertà e 49 hanno riportato un punteggio peggiore. 5 paesi non sono stati ammessi alla misurazione perché erano in condizioni di disordine interno, governati da regimi autoritari: Angola, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Irak e Sudan. Ma, dei rimanenti 156, 15 sono considerati veramente liberi, 56 sono prevalentemente liberi, 74 risultano prevalentemente repressi, nell'esercizio della libertà economica e 11 sono davvero repressi.

Nei primi dieci paesi, in ordine di libertà, sei si trovano in Nord America ed in Europa e quattro sono in Asia. La parte prevalente dei paesi con una ridotta libertà economica si trova nella regione asiatica . Gli indicatori utilizzati per creare le graduatorie sono ricavati da 50 variabili, reciprocamente indipendenti, che si possono raggruppare in dieci fasce secondo il contenuto della misura ottenuta. Le dieci fasce riguardano: le politiche commerciali e la libertà degli scambi; il grado di pressione fiscale, vale a dire il peso del settore pubblico su quello privato; la estensione della proprietà pubblica delle risorse; la politica monetaria e la sua efficacia nel battere la tassa sui poveri, cioè l'inflazione; l'apertura dei mercati finanziari e la libera trasferibilità dei capitali, in entrata ed in uscita; la libertà di ingresso nell'attività finanziaria e la efficienza interna dei sistemi bancari; la possibilità degli attori economici di determinare i prezzi e di utilizzarli come drivers nel processo di allocazione delle risorse, ivi compresa la determinazione del prezzo del lavoro, cioè dei salari; la tutela e la diffusione dei diritti di proprietà; le contenute dimensioni delle pratiche di regolazione amministrativa dei mercati; l'esistenza di un'economia sommersa, non legale ma neanche collegata all'esercizio di attività criminali, che rappresenta, in ogni caso, un segnale dell'esistenza latente di capacità imprenditoriale.

L'Italia si colloca al ventinovesimo posto nella graduatoria mondiale 2003. Non è nei primi dieci, pur essendo il sesto paese del mondo nella graduatoria per il Prodotto interno lordo. Singolare che, nella graduatoria secondo il reddito pro-capite, il nostro paese sia il ventottesimo del mondo: esiste una forte co-graduazione tra benessere individuale e libertà economica, evidentemente. Quasi tutti i paesi europei godono di una libertà economica più elevata di quella italiana . Nell'ordine Lussemburgo, Irlanda, Danimarca, Regno Unito, Islanda, Svezia, Finlandia, Olanda, Svizzera, Austria, Belgio, Germania, Cipro, Norvegia. La Spagna si affianca all'Italia con il medesimo punteggio mentre la Francia risulta essere la pecora nera dei grandi paesi europei: con un piazzamento al quarantesimo posto della graduatoria: alle spalle del Portogallo e della Lituania.

A queste informazioni statiche bisogna aggiungere anche una misura della dinamica intervenuta dal 1995 ad oggi. Il Regno Unito è più libero: il suo indice passa da 1,90 ad 1,85. La Germania risulta stabile su 2,10. L'Italia migliora, perché passa da 2,50 a 2,35, come la Spagna (anche in questo caso). La Francia peggiora perché passa da 2,30 a 2,55. I punti più negativi del nostro paese si leggono nel livello della pressione fiscale e in quello della regolazione amministrativa delle attività economiche. Si registrano anche nell'economia sommersa - che viene stimata nel 25% delle attività rilevate dalle statistiche ufficiali - e soprattutto nella divisione tra Nord e Sud del paese, nella rigidità del mercato del lavoro e nel livello di corruzione nella vita pubblica, più alto che nel resto del Nord Europa .

Ma perché la tutela del diritto di proprietà risulta così importante in queste graduatorie? Perché la proprietà ha una rilevante funzione di ordinamento efficiente della vita sociale . La proprietà è il diritto di disporre degli usi delle risorse - sulle quali quel diritto si esercita - e di governare l'accesso a quegli stessi usi. Posso utilizzare bene le mie proprietà immobiliari, o posso tutelare il loro impiego economico, concedendole in fitto a chi paga un prezzo ragionevolmente alto: perché egli ricaverà un valore adeguato dalla loro utilizzazione. Non è un caso che beni pubblici, per i quali non esista un "proprietario" che ne tuteli la utilizzazione, vengano sprecati senza senso: valga per tutti il caso dell'aria, consumata dall'eccesso di inquinamento industriale, o delle foreste, danneggiate dagli incendi e da altre forme di vandalismo. Se nessuno vi chiede, e vi impone di pagare, un prezzo per accedere alle risorse voi non potete percepirne il valore perché non potete confrontare quel prezzo di accesso - il vostro costo - con i ricavi che otterrete dall'uso della risorsa, cioè con i vostri benefici. Ma questa asimmetria che vi impedisce di essere razionali nel consumo delle risorse si trasforma in un danno sociale quando si cumula con analoghi comportamenti diffusi. Ecco perché la tutela della proprietà è una forma di difesa del mercato e di promozione della crescita. E se crescono le dimensioni della torta possono crescere anche quelle delle fette da attribuire ai vari commensali. Ma, se nessuno produce ricchezza, non esiste alcun benessere da distribuire .

Il caso italiano rischia di avere un esito assai singolare: per concludere. L'Italia arranca in un'Europa che arranca rispetto agli Stati Uniti. Questa affermazione è vera se guardiamo al mondo che abbiamo alle nostre spalle. Tra contraddizioni e problemi si vede emergere una nuova dimensione internazionale di libertà in cui i paesi new comers sorpassano i paesi attardati a conservare le proprie fragili tradizioni. La storia futura dell'Italia, nell'inevitabile processo di allargamento della Unione Europea, potrebbe essere proprio una conferma di questo destino. Leggendo gli indici della Heritage Foundation si scopre che una potente concorrenza latente potrebbe essere sviluppata, nei nostri confronti, dai paesi europei reduci del catastrofico esperimento del socialismo reale.

6 dicembre 2002

maloci@tin.it "


Saluti liberali

Pieffebi
02-01-03, 21:15
dal sito di IDEAZIONE

" La sfida della democrazia economica

Le ultime vicende politico-economiche italiane - la necessità di riformare il mercato del lavoro, lo scontro sull'articolo 18, il dibattito sul dialogo sociale, lo stesso attentato terroristico che è costato la vita di Marco Biagi - rimandano quasi tutte alla "questione lavoro". Tutto sembra riportarci alla centralità strutturale del mondo del lavoro. Esso è ancora il luogo d'incontro e sovrapposizione tra il momento materiale della trasformazione, la sua percezione produttiva di vitalità simbolica e la costruzione di prospettive di crescita economica e ricchezza diffusa. Certo, la fabbrica e il lavoro operaio hanno perso negli anni significanza sociale; è tramontato il modello fordista; sono emersi nuovi modelli di organizzazione aziendale; l'eredità di questi processi deve, forse, essere ancora registrata dalla politica nelle sue vibrazioni e potenzialità di lunga durata. Eppure, uno dei fulcri della possibile trasformazione politica contemporanea - all'interno del generale processo di mondializzazione dell'economia (di mondiale operari) - si determina senz'altro sulla capacità di governare questi nuovi processi economico-produttivi. La riforma del mercato del lavoro, del resto, a partire dalla revisione sperimentale dell'articolo 18 dell'ormai antiquato Statuto dei lavoratori, è stato uno dei primi impegni assunti dal governo scaturito dalle elezioni del 13 maggio 2001. Si tratta di un'iniziativa necessaria che, però, va inquadrata e chiarita in un processo più vasto e articolato. Un troppo facile nuovismo, giocato sulla sola manovra parlamentare, non riuscirebbe infatti a dare ragione di questa stagione riformista e, soprattutto, rischierebbe di apparire come l'esatto opposto di una consapevole opera di innovazione.

Non basta pensare di riformare solo attraverso il ricorso a un decreto o a un voto in Parlamento. Occorre spiegare, fornire l'interpretazione complessiva del quadro, dispiegare chiaramente il processo di cambiamento di fronte ai vasti strati della popolazione, soprattutto per vincerne le resistenze diffidenti e il sentimento di paura di fronte al nuovo. Occorre fornire un punto di vista, il punto di vista. Per dirla con le parole dello stesso Marco Biagi: "E' legittimo considerare ogni elemento di modernizzazione o progresso un pericolo per le classi socialmente più deboli. E' sempre stato così nella storia che anche in questo caso si ripete. Tutto il disegno di legge 848 costituisce il passaggio dal vecchio al nuovo e vien da pensare che dopo l'articolo vi sarebbero state altre parti di quel testo a subire il veto di parte sindacale. Lo stesso "Statuto dei lavori" significa rivedere le tutele delle varie forme di lavoro e non solo estendere quelle attuali a chi ancora non ne dispone. Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando prezzi alti alla conflittualità".

Occorre, in altre parole, riuscire a fornire rappresentanza politica alle stesse tensioni sociali, inverandole e politicizzandole nei processi di riforma. Il conflitto va compreso non compresso, affrontato non annullato. E' enorme la differenza tra questo approccio - quello giocato sulla libertà, sull'accettazione agonistica della sfida - e il pensiero socialdemocratico e socialmente debole, risentito e rassicurante, tutto ripiegato sulla difensiva. E il plus consiste soprattutto nella prospettiva di mutazione antropologica derivante da un approccio ispirato al riformismo politico e non al rivendicazionismo assistenzialista e conservatore. Un plus, appunto, che fa propria la dinamica della competizione, che si arrischia con travaglio e che, come diceva Biagi, è consapevole di pagare anche "alti prezzi di conflittualità". Un plus che, però, consentirebbe di coniugare, in un unico progetto, flessibilità del lavoro, energia agonistica, fervore produttivo, creatività della tradizione italiana, nuovo ruolo di supporto degli enti locali (anche sul piano del rafforzamento psicologico dei soggetti impegnati nella ristrutturazione-riappropriazione). Una ricetta in grado di consentire alle nostra impresa di competere nel mare aperto della globalizzazione. E' su questa base che deve allora impostarsi l'oggettivo interesse governativo per uscire dall'impasse determinato dal minimalismo di una impostazione non coinvolgente rispetto al modello sociale. Una reale azione riformatrice è infatti capace di trasformazioni socio-economiche ma anche - contemporaneamente - di espressione politica e di una narrazione pubblica all'altezza degli eventi.

Si colloca in questo quadro il dibattito su un nuovo paradigma di relazioni industriali adeguato alle sfide dell'economia globale, un dibattito cui dedichiamo il dossier che segue. Ipotizzare oggi un modello alternativo a quello ingessato dalle vecchie tutele e dalla concertazione delle parti sociali non significa, infatti, tornare a paradigmi socialdemocratici ma, al contrario, introdurre uno schema inedito di democrazia economica che contemperi solidarietà ed efficienza e che tenga conto del tasso necessario di conflittualità. Si tratta della partecipazione competitiva, un modello di relazioni industriali del resto ormai alle porte sia con la società per azioni europea, cui dobbiamo adeguarci, sia con alcuni progetti di legge presentati da parlamentari del centro-destra e recepiti dal ministro Maroni, il quale aveva già dedicato a questa novità l'ultima parte del suo Libro bianco sul lavoro. E' un progetto d'ampio respiro nell'ambito di una società sempre più libera, dinamica e flessibile. Il concetto di partecipazione - nelle sue varie declinazioni: partecipazione attiva di chi lavora alle responsabilità, alle scelte aziendali, agli utili - contiene potenzialità evocative di nuove passioni politiche non inferiori al federalismo o all'estensione degli spazi di libertà . Abbiamo ritenuto opportuno introdurre il tema ai nostri lettori fornendo i contributi di un economista-politico (Renato Brunetta), di un sindacalista attivo su questo specifico fronte (Pier Paolo Baretta) e di un autorevole manager delle risorse umane (Maurizio Castro). Contributi non solo teorici ma espressi da chi opera nella massima concretezza dei rapporti quotidiani nel mondo economico, sociale e della produzione.

7 giugno 2002

(da ideazione 3-2002, maggio-giugno) "

Shalom!

Pieffebi
02-01-03, 21:21
dal sito di ideazione

" "Un mercato sregolato non produce benessere"
intervista a Michele Salvati

Professore Salvati, lei è un esponente della sinistra: non è che la sinistra, dopo essere stata per tanto tempo non-liberale in campo economico, ora si ritrova espropriata delle sue tradizioni di "correzione", di "riforma" dell'economia, del mercato capitalistico?

Tutti i grandi liberali, a cominciare da Luigi Einaudi, avevano ben chiaro in mente che il mercato è una creatura politica importante e difficile. Un mercato sregolato, totalmente sregolato, non è un mercato che produce benessere. Oggi sembra che tutto ciò venga dimenticato per eccesso di zelo: io continuo a temere che ci siano, nell'ambito della sinistra, riserve di vecchio tipo ma non per eccesso di zelo liberale, bensì per eccesso di conservatorismo.

Allora, da "liberal", qual è il suo giudizio sull'analisi di Pelanda e Savona?

Non ho la più piccola obiezione. Penso che abbiano perfettamente ragione. Sullo stesso argomento sta uscendo proprio in questi giorni, negli Stati Uniti, un bel libro di Charles Lindblom, intitolato "Il sistema di mercato", in cui questo elemento del mercato come reazione politica e sociale estremamente complessa e regolata, è il punto centrale. Lindblom, è un intellettuale liberal americano e negli Usa questo vuol dire che è di sinistra.

Secondo lei, quindi, l'economia mondiale rischia un bel crollo?

Abbiamo rischiato forte e in parecchie circostanze nel recente passato. Questa preoccupazione è condivisa in numerosi settori che poi, ufficialmente, danno un'immagine rassicurante.

Però, oltre ai rischi di crollo economico ci sono anche quelli di crisi sociale.

E' proprio così. Questa è una mia preoccupazione anche perché si buttano addosso al mercato globale, all'internazionalizzazione dell'economia, problemi di cui la globalizzazione non è responsabile, anzi la cui colpa è tutta interna, spesso delle autorità politiche. Allora, per evitare che colpe che il mercato globale non ha si scarichino su di esso, è bene che i governi nazionali partecipino alla definizione delle regole internazionali. E' la stessa faccenda del federalismo italiano. Si potrebbe dire: anche in questo caso c'è il rischio (anzi non solamente il rischio teorico) che le singole regioni scarichino sullo stato centrale delle colpe che magari questo non ha. Si ha un buon federalismo quando anche a livello regionale si ha una piena condivisione del progetto federalista e ci sono chiare delimitazioni di responsabilità. La responsabilità politica deve andare sempre assieme alla sovranità. (c. lan.)

13 marzo 2001

appiocaludio@yahoo.com "


Saluti liberali

Pieffebi
02-01-03, 21:24
dal sito di IDEAZIONE

" "Dobbiamo riconquistare la sovranità
espropriata dal mercato"
intervista a Paolo Savona

Cosa vuol dire riempire il vuoto politico della globalizzazione e cosa è questo vuoto politico?

Noi riteniamo che il mercato globale stia rendendo un ottimo servizio allo sviluppo e al benessere del mondo. Tuttavia, esso può presentare dei difetti dal punto di vista del funzionamento, se non vi è un intervento politico. Ma questa, come è noto, è una vecchia questione nelle relazioni fra mercato (che non è una creatura spontanea, ma è una creatura politica) e stato. Ecco allora che prendiamo atto che il mercato globale tende ad espropriare le sovranità nazionali (si parla addirittura di fine degli stati nazionali grazie allo sviluppo del mercato globale). Noi riteniamo invece che le sovranità nazionali, conquistate anche con il sangue da parte dei nostri genitori e progenitori, debbano essere oggetto di un ripensamento politico. Di una sorta di riconquista della sovranità che il mercato sta espropriando, ovviamente laddove questa sovranità spetti allo stato. Ad esempio la moneta. C'è da segnalare il comportamento delle autorità sovranazionali. Queste da un lato stanno aiutando gli stati a riconquistare la sovranità, fissando al contempo regole internazionali, però dall'altro lato tendono ad impossessarsi in proprio della sovranità. E questo noi lo riteniamo sbagliato: le autorità sovranazionali debbono riprendersi sovranità, ma per restituirla allo stato. E qui avanziamo la teoria della sovranità bilanciata.

Nel libro voi sostenete che se è vero che fino ad oggi sono state superate le crisi del mercato globale, questo è avvenuto con affanno, affidandosi alla locomotiva degli Usa. Da oggi in poi questo potrebbe non essere sufficiente. In che senso?

Noi da un lato apprezziamo il fatto che gli Stati Uniti fungano da locomotiva del mercato globale. Ma dall'altro sosteniamo la tesi che questo ruolo di locomotiva degli Usa può venir meno (come peraltro in parte si sta verificando proprio in questi giorni), e quindi bisognerebbe avere almeno un altra locomotiva in hangar. Ora, siccome il Giappone non riesce minimamente a riprendersi, noi candidiamo l'Europa a questo ruolo. Ma affinché questo avvenga, occorre che l'Europa e le singole nazioni, si rimpossessino della sovranità. Questa è la prima traccia del libro. O noi riusciremo a far domiciliare le sovranità presso i centri decisionali e non esclusivamente presso il mercato e presso pochissime nazioni del mondo (ed ecco quindi il discorso delle locomotive) o non riusciremo a mantenere un ritmo di accumulazione delle ricchezze capace di soddisfare le aspettative dei popoli del mondo. Noi insistiamo moltissimo su questo tema: la grande invenzione della democrazia è stata quella di riportare la sovranità nelle mani del popolo. Il quale, votando, nomina parlamenti e governi, assumendosi le relative responsabilità. Insomma, la democrazia ha messo insieme sovranità e responsabilità. Nel mercato globale questo meccanismo è saltato.

Ci spieghi...

Il mercato globale espropria la sovranità monetaria ed espropria anche la sovranità fiscale: i parlamenti non sono più liberi in ambito fiscale perché se il parlamento di un paese X dovesse decidere di aumentare le tasse, l'indomani quel paese potrebbe facilmente essere vittima di una crisi valutaria o addirittura di una crisi finanziaria. E quindi quel parlamento deve tornare indietro.

Come recuperare allora questa sovranità?

Facciamo l'esempio della Wto, l'Organizzazione mondiale del commercio. Attualmente essa è un luogo dove si negoziano regole per la liberalizzazione dei mercati. Anche recentemente abbiamo assistito alla liberalizzazione dei brevetti e dei diritti di autore e dei relativi accordi. Una volta che il Wto ha definito le regole, ogni stato si rivolge al proprio parlamento per la ratifica e quindi si assume le responsabilità di rispettarle. In altre organizzazioni, invece, come il Fondo monetario internazionale o la Banca centrale europea, vi è stata una vera espropriazione della sovranità nazionale degli stati, senza che ci sia stato un parallelo progresso della sovranità popolare in un parlamento tale che riporti in equilibrio, in rapporto, sovranità e responsabilità. Allora bisogna metterci le mani: in Europa o facciamo lo stato europeo con tutte le caratteristiche dello stato, oppure restituiamo la gestione della politica monetaria agli stati nazionali.

Questo per quello che riguarda il livello europeo...

Certo. A livello mondiale ovviamente la cooperazione deve portare allo stesso obbiettivo. La cooperazione monetaria internazionale deve riportare sotto controllo il mercato della moneta.

Come?

Intanto c'è immediatamente da chiarire che i cambi non possono essere fissati dal mercato, altrimenti inevitabilmente il mercato stesso, alterando i rapporti di cambio, altera le possibilità di esportazione e importazione e cioè la competitività del paese.

Ma questo vuol dire che vi è necessità di una nuova Bretton Woods?

Naturalmente la mia proposta non è quella dei cambi fissi, bensì dei cambi coordinati, nel senso che occorre una responsabilità internazionale. Lasciando i cambi flessibili, come lasciano gli Stati Uniti, da un lato si chiede il mercato globale e si invocano queste regole del mercato per controllare bilanci pubblici e mondo del lavoro, ma dall'altro si consente ad ogni paese di proteggersi attraverso variazioni del rapporto di cambio più o meno indotte. Ma in tal modo si rompe proprio l'unità del mercato globale.

Lei ha evocato un ruolo dell'Europa a fianco degli Stati Uniti, ma questa Europa, con le sue rigidità, può realisticamente assumere questo compito?

Beh, se colma il vuoto politico - non della globalizzazione in questo caso ma del mercato unico europeo - allora questo ruolo lo può assumere. Certo che, in assenza di un governo politico e di regole comuni, conterà sempre di più la forza militare, e quindi a un certo punto sul tavolo, invece della ragione, prevarrà la forza. A livello globale, io non ho grandi preoccupazioni che ci sia una involuzione del mercato o comunque un'involuzione di carattere economico: in un modo o nell'altro, con costi pesanti per singoli paesi e per i ceti sociali, questi fenomeni riusciremo a controllarli. Ciò che preoccupa maggiormente è che il crollo avvenga a partire dalla base sociale. Quando i popoli si accorgeranno di essere stati espropriati della sovranità nazionale senza magari aver ottenuto nulla in cambio si potrebbero sentire dominati economicamente dal mercato globale e politicamente dagli Stati Uniti. Il timore insomma non è il crollo economico bensì il crollo sociale.

Insomma, lei teme un scoppio di nazionalismi fondamentalistici...

E' esattamente così. (c. lan.)

13 marzo 2001

appiocaludio@yahoo.com




Saluti liberali

Pieffebi
05-01-03, 13:14
Una rilettura di Von Mises, Von Hayek, Einaudi potrebbe essere utile a tutti coloro che attaccano il liberalismo senza conoscerlo, con i soliti stereotipi vetero-classisti riproponendo strade già fallite nella storia.

Saluti liberali

Pieffebi
01-05-03, 18:45
dal sito di IDEAZIONE

" Globalizzazione e politica industriale
di Fernando Napolitano

Il passaggio di secolo si è caratterizzato per una serie di eventi davvero straordinari, permanenti e transitori allo stesso tempo. La somma delle due caratteristiche pone però nuove sfide ai Paesi leader e anche l’Italia dovrà adattarsi rapidamente. La sommatoria e il mixage di questi eventi ha, del resto, mutuato profondamente lo scenario geo-politico e industriale di riferimento. Scorriamoli rapidamente. L’11 settembre 2001 la tragedia e la guerra hanno sfidato e incrinato il processo di globalizzazione . Il successo nell’introduzione dell’euro ha segnato una tappa centrale per la costruzione europea, anche se il ruolo dell’Europa e dei suoi membri, i cosiddetti “part-petitor”, resta ancora da chiarire. Il fallimento Enron ha scatenato il panico e determinato sempre minore fiducia nelle pratiche delle corporations. La recessione globale e una serie di scenari economici incerti non fanno ancora intravvedere la fine del tunnel. Mentre la bolla tecnologica Internet ha messo in ginocchio un’industria trainante, l’instabilità politica in alcune regioni rischia di minare la “Consumer confidence”.

La struttura del “nuovo mondo” che abbiamo ereditato dalla fine del Secondo millennio e che si affaccia al Terzo richiede, insomma, un generoso, poderoso e rapido ritorno della politica, quella con la “p” maiuscola. Oggi il mondo è in presenza di un potere militare unipolare: gli Stati Uniti d’America sono, di fatto, l’unica potenza con armi nucleari intercontinentali, Forze armate di terra, navali e aree con capacità di rapido dispiegamento globale. Il potere economico è, però, quantomeno multilaterale: gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone rappresentano i due terzi della produzione globale. La Cina, potenzialmente è la quarta potenza. Il potere delle transazioni è inarrestabile, transnazionale e indomabile: sfugge al controllo dei governi. E si tratta di un arcipelago o poligono irregolare e dinamico che va dal trasferimento elettronico di fondi sino al terrorismo.

Se da una parte questo scenario ha colto tutti di sorpresa, dall’altra il secolo che è terminato, è stato, specie dopo la seconda guerra mondiale, tutt’altro che pacifico. Dal 1946 al 2000 si sono verificati ben 262 conflitti armati: 202 tra governi e gruppi interni, 41 tra Stati, 19 extra-sistemici tra uno Stato e un non- Stato al di là dei propri confini . Certo, l’economia è cresciuta specie negli ultimi dieci anni di aumento della produttività: in particolare l’economia Usa, senza precedenti. Il grafico [..] illustra come il Price earning ratio sia aumentato in maniera smisurata, ben oltre quell’euforia che aveva preceduto i periodi prima della grande crisi del 1929. Le implicazioni di questa bolla le abbiamo vissute con il crollo dei titoli tecnologici e del Nasdaq e con la tenuta di alcuni titoli tradizionali. Se avessimo investito un euro nella Johnson & Johnson, oggi avremmo rivalutato quell’investimento di circa il 30 per cento. Avremmo, di contro, perso circa 70 centesimi su quell’euro se avessimo comperato il mitico Titolo Amazon.

Cosa ci riserva, da questo punto di vista, il prossimo futuro? All’inizio del 2001, prima del tragico 11 settembre, si parlava di hard o soft landing dell’economia Usa. In verità, l’atterraggio è stato più che brusco e ben precedente ai fatti dell’11 settembre. Certo, la tragedia ha particolarmente colpito la travel industry e ha precipitato il mondo nell’incertezza: la peggiore nemica della crescita . La statitistica ci conforta, comunque, e ci spinge ad essere ottimisti . Dal dopoguerra in poi l’economia Usa è stata nove volte in recessione. Le crisi recessive hanno avuto una durata minima di 6 mesi nel 1980 e massima di 16 nel periodo ’73-’75 e ’81-’82. Possiamo quindi dire che oggi stiamo di fatto nella parte alta della forchetta di oscillazione e quindi il 2003, caeteris paribus, potrebbe esserci una ripresa. L’Italia però, con l’Europa deve fare la sua parte. E' fuori da ogni ragionevole dubbio che la nostra economia, per una serie di motivi che vedremo, ha prodotto micro-imprese e perso le medie e le grandi dimensioni. Benché l’Italia sia stata osannata da M. Porter con la definizione altisonante di industrial district assurti a best practice, l’evidenza dei dati ci suggerisce che questo modello non è percorribile nel lungo termine. Per di più, nel periodo di grande crescita economica che si è appena concluso, la produttività dell’Italia è rimasta al palo: di fatto non è cresciuta. In un benchmarking internazionale sulle dimensioni che influenzano la crescita del multifactor of productivity (aumento dell’utilizzo dell’information technology, barriere all’entrata, rigidità del mercato del lavoro), l’Italia realizza sempre il punteggio più basso. Dal 1970 ad oggi l’Italia ha più che raddoppiato la sostituzione del lavoro con le macchine (K/L). Facendo 100 il 1970, gli Usa sono sempre in sostituzione di macchine con lavoro a 130; il Regno Unito a 150; l’Italia a 210!

Non deve quindi meravigliare se negli investimenti diretti esteri in entrata (Fdi) che nel 1999 hanno toccato 865 miliardi di dollari Usa da 473 miliardi di dollari nel ‘97, l’Italia ne ha catturato il solo 0,6 per cento. E' quindi chiaro che non siamo abbasanza “attraenti”. Di contro, Francia e Germania hanno un quota del 4,5 per cento e del 9,5 per cento rispettivamente . Le proiezioni al 2006 non sono migliori e confermano il trend. E' quindi necessario il ritorno della politica e della politica industriale di programmazione per quei grandi assets che sono ancora in mano pubblica e devono essere sì valorizzati, ma non per le transazioni economiche da Opa, bensì per creare valore per il paese. Senza la politica si può, nel migliore dei casi, raggiungere solo il primo obiettivo.

In questi anni di privatizzazione e di grande supremazia del mercato, che si pensava potesse risolvere tutto, siamo stati in realtà più preda che predatori, come dimostra il nostro modesto livello di presenza industriale dei paesi G7 e cioè quelli con tassi di consumo e ricchezza paragonabili al nostro. E quindi non esposti a casi di insolvenza. Senza la politica è stato, è e sarà sempre difficile ottenere reciprocità nei paesi G7. E' tempo quindi di una politica estera non scissa dalle priorità domestiche. E' arrivato quindi il tempo di una leadership coraggiosa, che sappia valorizzare gli assets, che rimangono a disposizione con una serie precisa di obiettivi: segnare una visione e una strada di crescita all’industria, realizzare quelle riforme strutturali (pensioni, mercato del lavoro, tasse, controllo della criminalità e del territorio) che ci rendono un paese ostile e non attraente per gli investimenti . Esistono, del resto, una serie di opzioni e di azioni nel breve. Per quanto riguarda la politica industriale, occorre puntare sulla costruzione di un sistema-paese teso a supportare le grandi aziende nella realizzazione delle loro strategie internazionali. Sul piano della ricerca e sviluppo si tratta di puntare sulla cooperazione con paesi leader. Il sistema educativo ci impone il rimpatrio dei cervelli. Senza trascurare la reciprocità con i paesi industrializzati nei settori chiave: energia, telecomunicazioni, difesa/elettronica. Non da ultimo, l’obiettivo centrale di saper attrarre investimenti stranieri. Solo alla luce della consapevolezza di questi obiettivi potemmo cominciare un cammino di crescita e consolidamento per riattivare i circuiti virtuosi del sapere, solamente i quali portano alla ricchezza per un paese come il nostro.

14 febbraio 2003

(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre) "

Saluti liberali

Pieffebi
24-04-04, 22:35
dal sito di IDEAZIONE

" Chi ha paura del libero mercato?
intervista a Anthony De Jasay di Stefano Magni

Il libero mercato ha sempre fatto paura agli Italiani, ma mai come in questo periodo. Dopo gli scandali di Parmalat, di Cirio e dei bond argentini, non passa giorno senza sentir parlare di proposte di nuove regole per controllare il mercato, di nuove istituzioni e “authorities” per controllare le banche, le imprese e la Borsa stessa. L’investitore comune ha paura di essere truffato dai promotori finanziari e chiede protezione dallo Stato. Ha paura che le notizie che circolano siano false e siano sfruttate da “squali” pronti a speculare su ogni terremoto provocato in Borsa. Ha paura dei paradisi fiscali e delle “zozzerie” che vi si possono nascondere. Di sicuro il clima in cui si vive dopo l’11 settembre americano e l’11 marzo madrileno, non facilita la serenità d’animo. Ma perché, qualsiasi cosa succeda, l’uomo della strada punta il dito contro il mercato? E’ solo a causa degli intellettuali, quasi tutti anti-capitalisti? O c’è una certa predisposizione naturale a temere la libertà di commercio? Lo abbiamo chiesto al grande filosofo liberale Anthony De Jasay, venuto a Roma, nella sede di Ideazione per presentare le sue teorie più recenti: “La proprietà sotto la legge della jungla”. De Jasay non ha paura del libero mercato, ma ha molta paura dello Stato e della sua tendenza (che il filosofo giudica irreversibile) ad ingrandirsi fino ad assorbire ogni aspetto della vita associata e ad imporre, in modo del tutto arbitrario, gli interessi dell’élite politica ai suoi cittadini/sudditi.

Perché l’uomo di strada ha paura del libero mercato?

La risposta più semplice è che la gran maggioranza della gente comune trae beneficio dallo Stato o spera di guadagnarci qualcosa in futuro. Possono essere direttamente impiegati dello Stato, o pensionati, o persone che hanno investito gran parte dei loro risparmi nei sistemi di previdenza statali. Se si ammalano gli viene dato questo, se perdono il lavoro gli viene dato quello… Per loro, tutto ciò che non è libero mercato è un’assicurazione, un’eliminazione dei rischi. Pensano di sapere quello che guadagneranno in un sistema statale, mentre non sanno quello che guadagnerebbero in un sistema di libero mercato. Di solito ragionano così: “Voi, solo voi liberali, dite che un sistema di mercato sarebbe il migliore, perché ci sarebbe una crescita economica più rapida, più merci a disposizione e che tutto il Paese diverrebbe più ricco, ma che ne sarà di me?”

In questi ultimi mesi la gente è rimasta inorridita e spaventata da enormi frodi, come quella di Parmalat…

Anche se l’ammontare delle frodi e delle ruberie è poco rilevante, se espresso in percentuale rispetto al Pil, agli occhi dell’uomo della strada, il fatto di sapere che sono stati rubati 5 milioni o anche meno, è assolutamente orribile, inaccettabile ed è portato a rigettare quel sistema che permette a qualcuno di rubare così tanti soldi. Ma all’uomo della strada sfugge che anche in un sistema socialista si rubano 5 milioni e spesso anche molto di più, solo che non viene fuori la notizia: è un fatto che non diventa pubblico. Così possiamo leggere tanti argomenti contro il libero mercato e a favore di una qualche forma di socialismo che sono parzialmente basati su una mera illusione: quella secondo cui c’è una parte della popolazione che è più pulita dell’altra, ma nella realtà entrambe le parti sono sporche.

Alcuni propongono di intensificare i controlli.

Sì, si sono proposte un’infinità di cose: mettere controlli qua, creare authority là… Ma tutto ciò si è sempre dimostrato inutile perché tutti i tipi di controllo possono essere elusi. Quando si istituisce una nuova forma di controllo, occorrono da sei mesi a un anno perché alcuni imparino a scivolar via dalla nuova rete e poi alla fine il risultato è sempre lo stesso. L’unico vero controllo è la competizione.

Perché c’è così tanto odio nei confronti dei paradisi fiscali?

E’ solo una questione di invidia. Il fatto che in un paradiso fiscale non si paghino le tasse genera invidia nella gente e nei governi. L’invidia non è un sentimento molto salutare e non è nemmeno un bene promuoverlo come valore. Non ci sono particolari ragioni per giustificare la soppressione dei paradisi fiscali, se non la volontà di eliminare dei privilegi che non tutti hanno.

23 aprile 2004
"

Saluti liberali

Pieffebi
07-08-04, 17:01
dalla rete

" Spezzare le catene della povertà*
Intervista a Michael Novak
a cura di Flavio Felice

D. Professor Novak, lei è conosciuto come il teologo del capitalismo democratico; in cosa consiste tale ideale?

R. La virtù della creatività è il centro dinamico del sistema capitalistico, tutte le istituzioni di tale sistema servono come supporto all’azione creativa dell’uomo, ed è per questa ragione che pongo l’accento sulle istituzioni che difendono e promuovono una libera educazione. Inoltre, indicando nella creatività il fulcro dell’intero sistema capitalistico, sottolineo la necessità di una maggiore offerta di capitale di rischio, affinché anche ai poveri sia data l’opportunitàdi tradurre le proprie idee in reali imprese produttive.

Tutto ciò appare con estrema chiarezza se osserviamo il caso America: l’esperimento americano. Prima dell’arrivo dei coloni non c’erano città, industrie, né tanto meno esisteva un’autentica realtà commerciale; possiamo affermare che la principale attività dei pionieri fu la costruzione delle comunità, a dispetto di una reputazione che, cedendo ad uno dei più abusati luoghi comuni della storia, indica nel cittadino americano il prototipo dell’individualista: the lone ranger. La ragione fondamentale del successo delle prime comunità fu segnata, in ogni caso, dall’opera dei primi imprenditori, i quali riuscirono nell’intento di creare nuove iniziative imprenditoriali: uno divenne fabbro, un altro aprì una falegnameria ed un altro ancora un negozio. Dove le imprese ebbero successo, le città crebbero e con esse si diffuse nuovo lavoro e benessere, mentre, là dove le imprese fallirono, le città decaddero. Ecco la ragione per cui da anni vado affermando che la vita di una comunità dipende in gran parte dalla capacità creativa dei suoi imprenditori, ed è per questo motivo che l’attività imprenditoriale in America gode di alta considerazione: si ritiene che sia una vocazione. Cosicché il talento, le virtù, quella particolare forza che si richiede a tutti gli uomini d’impresa che io chiamo capacità creativa e che consente la realizzazione pratica di un’idea, sono stati da sempre altamente stimati nella nostra Nazione. Non c’è dubbio che tutto ciò è riscontrabile anche nel Continente europeo, tuttavia non è emerso in un modo altrettanto chiaro come negli Stati Uniti. In Europa, molti dei primi imprenditori e degli uomini addetti al commercio provenivano da una tradizione aristocratica, così la linea di confine tra aristocratici e uomini d’affari era alquanto confusa.

D. In relazione al nostro Paese, come ha giudicato a suo tempo il tentativo del Governo Prodi di incidere sull’occupazione attraverso la riduzione per legge dell’orario di lavoro settimanale?

R. Lo considero un gravissimo errore. In economia non esistono azioni prive di conseguenze: ogni misura economica comporta necessariamente conseguenze, anch’esse di natura economica. Temo che il tentativo del Governo italiano di ridurre l’orario settimanale a parità di salario, possa provocare principalmente due conseguenze. In un’epoca di profonda internazionalizzazione dei mercati, siamo sicuri che i lavoratori vogliano lavorare di meno e non di più? Ed inoltre, ho ragione di ritenere che i costi derivanti dalla riduzione dell’orario di lavoro provocheranno un rialzo dei prezzi o un calo della produzione, oppure, il che sarebbe disastroso, la concomitanza dei due fenomeni. Un tale intervento legislativo finirà per rendere più difficile la vita sia agli imprenditori sia ai lavoratori, dal momento che i primi, vedendo lievitare i costi, saranno costretti a ridurre il numero degli occupati. È inevitabile, la demagogia nel lungo periodo perde la sua efficacia e non inganna più nessuno.

D. In America lei è considerato uno dei più autorevoli interpreti del movimento cattolico neoconservatore. Potrebbe indicarci i principi fondamentali che caratterizzano tale realtà politico-culturale?

R. Circa quindici anni fa un piccolo gruppo di donne e di uomini, molti dei quali ebrei e cattolici, ma anche protestanti e non credenti, che tradizionalmente erano considerati di sinistra, cominciarono ad essere critici nei confronti di quella parte politica. La nostra critica riguardava la gestione economica della Nazione, la politica militare, la politica estera ed anche i rapporti tra stato e religione. Man mano che cresceva il nostro disappunto nei confronti della sinistra americana, crebbe anche l’astio nei nostri confronti e, ben presto, cominciarono a chiamarci con un nome che a loro doveva apparire come il peggiore degli insulti: neo-conservative. Potete immaginare quale reazione susciti la parola conservatore in un uomo di sinistra: ebbene, il suffisso neo, almeno nelle intenzioni, andava tradotto con la parola pseudo. Dunque, agli occhi della sinistra, oltre a non essere più socialdemocratici, noi non eravamo degni di essere considerati neppure conservatori: un doppio insulto. Qualcuno all’inizio reagì energicamente e negò con forza di essere un conservatore o, peggio, un neoconservatore, ma, con il passar del tempo, rinunciammo a discutere sui nomi e sulle etichette con le quali altri pretendevano di definirci: il nominalismo finisce sempre per limitare ed impoverire la realtà. Tuttavia, volendo essere precisi, il nome più vicino alla realtà politica e culturale che intendiamo rappresentare, almeno per coloro che sono cattolici, è l’inglese whig; noi ci sentiamo parte della ricca tradizione del cattolicesimo whig. Lord Acton, il grande storico inglese della libertà, ebbe a definire San Tommaso d’Aquino il primo whig, in un certo senso, il fondatore del partito della libertà. All’Aquinate andrebbe il merito di aver riconosciuto nella persona umana il centro dell’universo, la creatura più nobile dell’intero creato, e di aver affermato che il potere dei governi deriva dal consenso popolare, ossia dalla libera scelta di ciascuna persona. Ebbene, queste due intuizioni, sia di ordine politico sia di ordine etico, rappresentano le fondamenta del partito della libertà. Inoltre quelle intuizioni hanno dato vita ad un nuovo modo di intendere la libertà, una libertà ordinata, sottoposta alla ragione intesa come recta ratio; in breve: la libertà nella legge. A mio parere non è un caso che proprio Lord Acton, lo storico della libertà, il cui background culturale era in parte italiano, essendo nato a Napoli, ed in parte anglosassone, venga oggi designato come il più fedele continuatore di quella tradizione. Inoltre, essa è legata anche a Tocqueville, che con la sua famosa opera Democracy in America celebrò la particolare idea di libertà - la libertà nella legge - che distingue l’esperimento americano dall’idea francese, e più in generale continentale, della cosiddetta liberté. La parola liberté o libertinismo, ossia la licenza di fare ciò che si vuole, è un concetto diverso dalla nostra liberty, la libertà ordinata, ossia la libertà di fare ciò che si deve. La persona è l’unica creatura dell’universo capace di rispondere liberamente alle sfide quotidiane, in sintonia con le leggi della propria natura: in ciò consiste la sua eminente dignità. In breve, la persona umana è posta nella condizione di scegliere tra lo sviluppare pienamente le proprie potenzialità, rispettando la legge della propria natura oppure l’agire contro di essa. Ecco, queste sono le radici di un nuovo modo di intendere la politica, al centro della quale troviamo ciò che nella modernità ha assunto la forma delle attuali repubbliche democratiche: un governo fondato sulla rappresentanza popolare che, riconoscendo il limite della realtà umana - segnata dal peccato originale - è consapevole che il potere può corrompere e, per questa ragione, opera una continua ricerca di quei cheks and balances per limitare ogni forma di potere, affinché non ci sia un solo potere non controllato da un altro potere. Un ulteriore aspetto di questo nuovo modo di intendere la politica, tipico della tradizione whig, è la difesa dei diritti individuali. Tale caratteristica delle moderne repubbliche democratiche nasce dal riconoscimento della naturale capacità di ogni individuo di riflessione e di scelta al fine di perseguire, insieme con altri, la propria felicità ed il bene comune. Questi sono i punti cardine della vicenda storica americana, ma sono anche le idee fondamentali che sostanziano la cosiddetta tradizione cattolica whig, la cui linea storica procede da Sant’Agostino e San Tommaso e giunge fino a Tocqueville e Lord Acton. Più recentemente tale posizione politico-culturale è stata espressa in America dal gesuita, padre conciliare, John Courtney Murray, dal filosofo Jacques Maritain in Francia, da don Luigi Sturzo in Italia; attualmente nel vostro Paese, i filosofi Dario Antiseri e Rocco Buttiglione rappresentano l’espressione più autentica di tale tradizione di pensiero, ma tanti esponenti oggi danno vita al movimento whig nel mondo, in Francia, in Germania ed in particolar modo in Polonia, basti pensare al padre domenicano Marciej Ziemba. In un certo senso potremmo dire che Papa Giovanni Paolo II è un grande esponente della tradizione whig, certo, mi rendo conto che l’attuale Pontefice non può essere definito un whig, non fosse altro perché whig è un termine anglo-americano, tuttavia il suo pensiero e la sua opera si collocano in modo autentico all’interno di quella tradizione.

D. Professor Novak, ci ha appena descritto il processo di trasformazione di una certa sinistra americana che ha consumato in modo definitivo lo strappo con la socialdemocrazia e ha dato vita al movimento neo-conservatore. A tal proposito, qual è la sua opinione sul ruolo svolto dalla cosiddetta “nuova destra” nel mondo anglosassone e quali sarebbero i suoi valori fondamentali?

R. In Gran Bretagna il termine “nuova destra” sta ad indicare l’avanzamento della dottrina hayekiana – liberalismo classico in economia, accanto ad un’attenta sollecitudine circa il governo della legge e la costituzione della libertà nell’ordine politico –, la quale impresse un particolare slancio culturale alla politica del Primo Ministro Thatcher. A causa della posizione egemonica che il pensiero socialdemocratico si è conquistato all’interno delle università e degli organi d’informazione inglesi, specialmente nel dibattito economico, l’espressione “nuova destra” ha posto l’accento sull’attualità della dottrina del libero mercato, lì dove Marx è onorato con una grande statua alla memoria e la tomba di Adam Smith è totalmente dimenticata.

Al contrario, negli Stati Uniti, il termine “nuova destra” venne coniato intorno al 1980 per indicare la coalizione che sosteneva Ronald Reagan, composta da quattro o cinque differenti famiglie di conservatori. (George Nash ha scritto una meravigliosa storia delle componenti che diedero vita al conservatorismo americano). Tutti questi sforzi ad opera dei movimenti conservatori hanno mostrato una nuova vitalità in quegli anni, e la confluenza dei suddetti movimenti all’interno di una nuova maggioranza – dopo anni di divisioni – è stata motivo di nuovi stimoli. All’interno di questa coalizione convivevano i libertari nella sfera economica (fautori del governo minimo), i conservatori nel campo fiscale, i sostenitori dell’economia dell’offerta (l’invenzione, la creatività e la bassa tassazione sul capitale, dai quali scaturisce il dinamismo del capitalismo, sono d’importanza cruciale per coloro che sono appena entrati nel mercato), gli agricoltori del Sud, i conservatori nel campo dell’etica sociale (circa i valori della famiglia, la moralità nell’insegnamento scolastico, la libertà religiosa, il degrado morale di Hollywood, ecc.), il movimento per la vita (contrari all’aborto) ed i neo-conservatori (provenienti dalla sinistra, ma che divennero critici nei confronti delle teorie economiche socialiste e dell’espansione del governo).

Talvolta, quando le persone parlano di “nuova destra” pongono l’accento sul libero mercato, altre volte enfatizzano i suoi contenuti morali ed altre ancora evidenziano il vasto quadro ideologico – tentando di condurre a sintesi tutti gli elementi –; quest’ultimo rappresenta il contributo specifico dei neo-conservatori. Gran parte dei gruppi conservatori, in sintonia con Edmund Burke che preferiva l’aristotelica saggezza pratica all’utopia assassina della Rivoluzione Francese, tendono ad evitare di identificarsi con un grande progetto ideologico. Ciò concede un notevole vantaggio alla sinistra, la quale è abilissima nel disegnare il proprio grande affresco ed utilizzarlo per ingannare il popolo. I neo-conservatori, forti della loro passata appartenenza alla sinistra, sanno come comportarsi, e tentano di offrire il miglior contributo nel presentare pubblicamente un’alternativa alla sinistra. I neo-conservatori contrastano l’utopismo della sinistra con l’umile senso pratico.

La più grande alleata del neo-conservatorismo (noi preferiamo parlare di conservatorismo piuttosto che di desta) è il realismo, mentre la sinistra si mostra sempre più distante dal mondo reale. Il termine “conservatorismo” suggerisce un certo legame con l’esperienza, la saggezza ed il discernimento. La parola “destra”, invece, non suggerisce altro che una mera posizione, una provocazione polemica, un’immagine allo specchio dell’utopia di sinistra. Questa è la ragione per cui noi preferiamo l’uso del termine “conservatorismo” piuttosto che “destra”. Tuttavia, è altrettanto vero che chiunque sostiene un’economia dinamica e creativa, una politica democratica aperta alla continua evoluzione e gli ideali che promuovono la libertà morale (per esempio la libertà ordinata e l’autocontrollo) non si può definire realmente un “conservatore”, bensì sarebbe più corretto l’uso del termine “progressista”. Sfortunatamente, i comunisti si sono appropriati di questa parola ed hanno finito per infangarla, al punto che oggi essa è divenuta impresentabile. Ecco perché alcuni di noi preferiscono far rivivere l’antico termine “Whig”, il quale sta ad indicare gli ideali dell’autogoverno e della libertà.

D. Tornando alla vicenda storica del suo Paese, come definirebbe l’esperimento americano e, alla luce della modernità, considera ancora attuali i principi enunciati dalla Dichiarazione d’Indipendenza?

R. Gli Stati Uniti sono indubbiamente una Nazione anomala per il fatto stesso che essi videro la luce in un momento storico ben determinato, al contrario della maggior parte dei Paesi al mondo, come ad esempio l’Italia, i quali hanno assunto la forma attuale con il passare dei secoli. Ebbene, tutto ciò non è avvenuto per Stati Uniti. L’immagine migliore per rappresentare il modo in cui è nato il nostro Paese ci è dato dal famoso dipinto del Botticelli che mostra la nascita di Venere dal mare. In seguito, tale immagine fu confermata da un libero atto di riflessione e scelta che trovò la sua massima espressione teorica nei primi paragrafi del The Federalist in cui si affermava, per la prima volta nella storia, che era responsabilità degli americani decidere circa la forma da dare alla propria Nazione, attraverso un libero atto di riflessione e scelta. Dunque, non la forza o il caso, bensì la riflessione e la scelta, il che significava operare in favore del proprio destino storico attraverso un atto di libertà. La Costituzione del 1789 probabilmente non sarebbe mai nata se prima non ci fosse stata la Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776. L’intenzione dei coloni non era certo quella di rompere con la Madre Patria, tuttavia gli abusi subiti da parte del Re inglese, incluso l’impiego di mercenari per scatenare una guerra contro di loro, li spinse a prendere coscienza del fatto che si trovavano di fronte ad un bivio, erano chiamati a scegliere tra il continuare ad essere assoggettati al tradimento da parte della Madre Patria ed il dichiarare la propria indipendenza, dando vita semplicemente e spontaneamente ad una nuova Nazione, fondata sul consenso dei propri cittadini. Inoltre i pastori e le chiese insegnavano che Gesù, oltre ad aver rivelato Dio all’uomo, ha rivelato all’uomo la propria eminente dignità; una dignità trascendente che, prima di ogni altra cosa è sorgente di libertà, e nessuno stato avrebbe mai potuto arrogarsi il diritto di limitarla, dal momento che, fonte di quella non era lo Stato, ma Dio stesso, il quale l’ha donata al genere umano.

Hannah Arendt ebbe a definire la vicenda americana come il più glorioso esperimento della civiltà europea, un esperimento di libertà che è parte della storia europea, poiché le idee che mossero gli uomini e le donne del nuovo Continente ebbero origine in Europa, ma in America trovarono lo spazio necessario per una nuova fioritura, lontano dai privilegi ereditari e dalla stratificazione sociale che caratterizzava la società europea di quegli anni. Questo è a mio parere il significato più autentico della Dichiarazione d’Indipendenza e la ragione per cui ancor oggi celebriamo quel giorno con tanto entusiasmo.

D. Professor Novak, il mondo finanziario è attraversato da una profonda crisi che sembrerebbe gettare un’ombra sugli istituti classici dell’economia di mercato. Qual è la sua opinione sulle cause di tale crisi?

R. Caro Flavio, l’attuale crisi finanziaria mondiale affonda le proprie radici nel collasso dell’ordine morale e politico, piuttosto che di quello economico. La società libera poggia su tre pilastri o, se vogliamo usare un’altra metafora, essa può essere vista come una piramide con tre angoli, ciascuno dei quali svolge una funzione d’importanza cruciale. È un sistema costituito da tre sistemi interdipendenti ma autonomi: un ordine economico fondato sulla creatività e sulla conoscenza appresa attraverso la logica di mercato; un ordine politico basato sul rispetto della legge, sulla divisione dei poteri, sul governo limitato e sul riconoscimento dei diritti; ed un sistema etico-culturale che poggia sulle virtù dell’autogoverno, sul rispetto per la verità (o quantomeno, il popperiano principio di fallibilità), per la trascendente dignità umana, in base alla quale ciascuna persona è un soggetto ragionevole e libero che si approssima alla verità attraverso la ragione e non con la forza. Il caso russo mostra come un’economia non fondata su di un adeguato ordine politico e su di un vitale sistema etico-culturale, non può che trasformarsi in una giungla affollata da banditi, nella quale nessuno si fida più dell’altro. Quanto alla fiducia finanziaria, non si può dimenticare il profondo significato morale implicito nelle monete: le monete sono simboli nei quali si deve poter riporre fiducia, e questa fiducia è basata su di una aspettativa del comportamento morale. Il Giappone mostra come un sistema privo di autentica competizione politica vada incontro a gravi pericoli: la sovraesposizione delle banche sui collaterali dei valori di proprietà, che sono instabili per natura; una popolazione che invecchia, con un’immigrazione praticamente nulla; un basso tasso di natalità ed un eccesso di comunitarismo (collusioni e mutui favori). Dunque, per una chiara comprensione delle prospettive future, l’assenza di competizione risulta fatale e la delusione dei singoli si manifesta con maggiore facilità. Le riforme sono state troppo a lungo neglette.

In breve, tutti quei critici che hanno applaudito al tribalismo ed alle solide comunità asiatiche, hanno trascurato i pericoli connessi alla caduta della competizione ed alla mancanza di spazio per l’azione di individui capaci che non accettano facili luoghi comuni. Tali critici hanno applaudito erroneamente a quei sistemi che, in virtù delle loro stesse strutture, sono condannate alla parziale cecità. Tutti questi esperti che hanno offerto consigli alla Russia, fondati esclusivamente su parametri economici, trascurando le essenziali precondizioni politiche e morali necessarie al perseguimento del successo economico, hanno lastricato la via che ha condotto al disastro.

D. Dunque lei ritiene che il capitalismo democratico non sia da annoverare tra le cause della crisi, ma che essa dipenda dall’aver disatteso le sue stesse premesse. E se ciò fosse vero, quali potrebbero essere le prospettive per il futuro?

R. L’ideale del “capitalismo democratico” presta attenzione a tutte e tre le precondizioni della buona società: politiche, economiche e soprattutto morali. In tal modo, i recenti eventi hanno fatto giustizia dell’ideale del capitalismo democratico ed hanno evidenziato l’alto prezzo pagato per il suo oblio.

Quanto al futuro, temo che l’Europa (Italia inclusa) possa rimanere ancora a lungo attratta dalla tradizione dello statalismo – questa rappresenta l’elemento che lega l’Europa alla tradizione del socialismo nazionale ed internazionale, nonché a quella di un welfare state troppo ambizioso, tipico dei sistemi socialdemocratici - e troppo diffidente sia nei confronti delle virtù individuali dell’autogoverno sia delle distinte istituzioni, tipiche dell’esperienza repubblicana. Di conseguenza, temo che l’Europa non diverrà leader nello sviluppo di nuove tecnologie e scoperte per il futuro. Inoltre, dovrà affrontare serie difficoltà per pagare quelle prestazioni dello stato sociale che ha già promesso ai suoi cittadini, ma per le quali mancano le risorse. Gli europei descrivono la competizione come un cappio alla gola, e non si accorgono dei vantaggi epistemologici che essa apporta – ciascun competitore aggiunge un proprio personale angolo visuale al senso comune. I competitori a loro volta stimolano la nascita di altri competitori e promuovono una costante ed universale auto realizzazione. Nella vita privata (nella cucina, nella letteratura e nella vita quotidiana) gli europei, rispetto agli americani, sono più individualisti, hanno sviluppato un più elevato gusto individuale. Tuttavia, nel campo dell’economia, della politica, ma in particolar modo dell’economia, gli europei tendono a sminuire il valore dell’individuo e ricercano una maggiore protezione.

Le città europee sono spesso circondate da mura, e, a volte, si ha l’impressione che gli stessi europei vivano all’interno di mura psicologiche che non gli consentono di nutrire fiducia l’un per l’altro, nei confronti del libero individuo e nei confronti della libertà.

In Europa la parola libertà ha assunto il significato di “fare ciò che si vuole”, piuttosto che “fare ciò che si deve”, che sta alla base dell’idea di libertà ordinata e del principio repubblicano dell’autogoverno. Sembrerebbe che gli europei non vogliano una società libera, bensì una società sicura.

Tale giudizio potrebbe trovare una conferma anche nel declino del tasso di natalità. È un cattivo messaggio quello che l’Italia ed altri Paesi stanno inviando al mondo intero, è il segno che tali Paesi non promuovono l’ottimismo, il rischio e l’avventura di avere più figli, ma incoraggiano la dipendenza e la sicurezza che derivano dal vivere in circoli ristretti. Tutto ciò è il segno di una perdita di fiducia nella capacità che le donne e gli uomini liberi hanno di conquistare il proprio futuro. È un sintomo di paura.

Tali considerazioni mi consentono di cogliere le ragioni in base alle quali gli europei non comprendono il significato autentico del capitalismo, ossia, un ordine morale costruito sullo spirito di creatività, d’impresa e sull’avventura d’immaginare e costruire un nuovo futuro. Dopo tutto, il caput (la mente) umano è stato creato ad immagine di Dio, del Creatore.

Osserva attentamente la nuvola raffigurata da Michelangelo dietro il Creatore sulla volta della Cappella Sistina.

Grazie professore.



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* La presente intervista è tratta da: Michael Novak, Spezzare le catene della povertà. Saggi sul personalismo economico, a cura di Flavio Felice, Liberilibri, Macerata 2000. "


Saluti liberali

Pieffebi
10-08-04, 12:23
dalla rete

" La nuova era
di Marco Respinti
Piccola storia dei quindici anni che hanno segnato
la svolta del secolo per tutto il pensiero liberale

Il movimento conservatore intellettuale si era notevolmente allontanato da quell’isolamento ghettizzante in cui era stato costretto nei primi anni del dopoguerra» (1): così scrive lo storico George H. Nash in quella che può essere senza ombra di dubbio considerata l’opera storiografica fondamentale sul conservatorismo statunitense nella seconda metà del secolo Ventesimo, The Conservative Intellectual Movement in America since 1945, il cui oggetto di studio è appunto il movimento conservatore intellettuale dal dopoguerra agli anni Novanta del Novecento. Era il 1964, l’anno in cui il senatore dell’Arizona Barry M. Goldwater (1909-1998) aveva corso come candidato presidenziale del Grand Old Party (Gop), il Partito repubblicano, segnando tre punti fermi che restano imprescindibili per gli sviluppi successivi della politica statunitense e della storia del conservatorismo, nonostante la sconfitta elettorale occorsa soprattutto per l’onda lunga dell’emotività generata dall’assassinio del presidente democratico John F. Kennedy (1917-1963) e dalla fortissima ostilità scatenata dai media, con il senatore, pure democratico, William Fulbright (1905-1995) che paragonò il goldwaterismo allo stalinismo e Martin Luther King (1929-1968) che credette di vedervi segni d’hitlerismo (2). Goldwater, infatti, compattò e galvanizzò attorno alla propria candidatura le diverse articolazioni, spesso litigiose, della destra nordamericana; portò con significativo, anche se non completo, successo il conservatorismo in politica; e influenzò ampi settori del Partito repubblicano in modo tanto profondo da imprimere a una certa parte di quella formazione politica una svolta a destra mai più venuta meno. «La crociata del 1964 si concluse, certo, in una sconfitta elettorale schiacciante» osserva Nash. «Eppure per gli intellettuali conservatori si trattò di un’esperienza pedagogica intensissima» (3). Anzi, «gli eventi del 1964 rafforzarono nei conservatori la coscienza di quanto l’opposizione fosse agguerrita e di come il loro movimento costituisse l’alternativa frontale all’establishment» (4). Fu da questa sconfitta ad extra - ma vittoria fondamentale ad intra - che iniziò la riscossa politica conservatrice, seconda fase della rinascita del conservatorismo nella seconda metà del Novecento, essendo la prima quella della fondazione teoretica. E la riscossa culminò nel 1980 con l’elezione alla presidenza del governatore della California Ronald Wilson Reagan (5). I quindici anni impiegati dal conservatorismo per trasformare la sconfitta elettorale in vittoria, vale a dire per portare a termine la propria maturazione politica, sono infatti trascorsi nel segno di Reagan (6). Già nel 1968, quando M. Stanton Evans, oggi direttore del National Journalism Center di Washington, pubblicò The Future of Conservatism: From Taft to Reagan and Beyond (7), era chiaro ai commentatori conservatori più attenti, ma anche più familiari con la vita interna del Partito repubblicano, che sarebbe stato Reagan l’uomo su cui puntare. Reagan giunse dunque ai vertici istituzionali del Paese nel 1980 in modo molto meno improvviso di quanto spesso sia stato dato a intendere soprattutto al di fuori degli Stati Uniti.

Da Meyer a Goldwater
Prima pionieristicamente, poi sempre più coscientemente, a partire dal dopoguerra la destra conservatrice aveva generato un vero e proprio movimento di opinione che negli anni si era venuto configurando come un grande network d’iniziative editoriali, di fondazioni, di organizzazioni e di associazioni. Se la prima fase della rinascita conservatrice statunitense è stata dunque quella della fondazione teoretica e la seconda anche quella dell’azione politica, le figure che hanno fatto da cerniera fra di esse sono certamente state quelle di Frank S. Meyer (1909-1972) e di Goldwater, il primo articolando teoreticamente e il secondo giocando come carta politica il Fusionism (8). Il «fusionismo» meyeriano è stato il tentativo intelligente non tanto di giustapporre o di mescolare artificialmente le varie componenti della destra statunitense che procedevano in ordine sparso, quanto quello di cercare motivi di unità non omologante fra forze culturali che, avendo certamente in comune un nemico, potevano supporre, e dunque positivamente cercare, fonti d’ispirazione comune. Nonostante le differenze fra le proprie varie componenti, infatti - differenze sovente affatto triviali, né dappoco - il mondo conservatore presentava caratteri non estemporanei di solidarietà teoretica. Anzi, l’analisi della storia culturale e politica di quel movimento - che come tutte le ricostruzioni e le narrazioni storiche ha il vantaggio di essere fatta a posteriori, quindi di poter contare su una capacità prospettica decisiva per la comprensione autentica dei fatti - mostra anzitutto che il «fusionismo» estisteva spesso già in re prima che Meyer lo formulasse e che quindi la formulazione meyeriana è a un certo livello solo un’opportuna razionalizzazione teoretica di un fatto; dunque, e in ragione di questa preminenza anche cronologica dei fatti rispetto all’elaborazione teorica, il carattere del conservatorismo statunitense è di per sé sostanzialmente fusionista (cosa che peraltro non significa affatto che la formulazione meyeriana del fusionismo esaurisca né l’idea fusionista né la realtà del conservatorismo fusionista). Che il conservatorismo statunitense sia fusionista, e che lo sia addirittura stato prima della formulazione meyeriana del fusionismo, lo mostrano bene certamente la sua storia, i dibattiti che si svolsero soprattutto nell’epoca di fondazione teoretica, lo sviluppo del movimento e il suo ingresso sul proscenio della politica attiva e talvolta anche partitica, ma anche la dialettica delle critiche e l’animosità dei critici che spesso di fatto, anche per via di contrapposizione, non fanno che portare acqua al mulino della chiave di lettura fusionista del conservatorismo statunitense, ancorché non sempre e solo nella sua formulazione - o versione - meyeriana.
Ora, se Meyer è stato il teorico del fusionismo - meglio, il padre putativo che ha battezzato e coltivato un fenomeno che anche cronologicamente lo ha preceduto - Goldwater è l’uomo che, sul piano politico, si è messo a disposizione del conservatorismo fusionista, cioè anche del fusionismo nella formulazione meyeriana. Il fenomeno «Goldwater 1964» assume allora anche le caratteristiche della discesa nell’arena politica nazionale del conservatorismo fusionista, soprattutto - ma non esclusivamente - nella sua formulazione meyeriana, né la sconfitta elettorale di Goldwater nel 1964 ha segnato la fine della ricerca fusionista. Fedele e al contempo innovativa rispetto alla formulazione meyeriana del fusionismo è dunque stata l’ipotesi conservatrice fusionista del quindicennio che lega la sconfitta elettorale di Goldwater nel 1964 alla vittoria di Reagan nel 1980: un’ipotesi definibile «neofusionista», la cui crisi, proprio durante i due mandati presidenziali di Reagan, ha quindi generato, fra l’altro, anche l’ipotesi di un nuovo fusionismo, il quale una volta esauritosi esso stesso ha lasciato sul terreno materiali per un nuovo neofusionismo secondo un gioco di scatole cinesi e di cerchi concentrici che una volta in più rafforzano la certezza della natura eminentemente fusionista del conservatorismo statunitense, al di là dei successi concreti (in politica e in altri campi) di questa o di quella sua specifica formulazione, meyeriana, postmeyeriana, neomeyeriana o per nulla meyeriana. Insomma, se la storia del conservatorismo statunitense, fra elaborazione teoretica e azione politica, è storia di fusionismi (del fusionismo in re e delle sue diverse formulazioni), è certamente possibile riassumere i suoi parametri storici in una formula siffatta: Goldwater è stato l’inventore di un «polo delle libertà» (9) capace di proporre un’alternativa politica al dominio delle sinistre negli Stati Uniti, Meyer è stato il suo profeta e Reagan l’uomo che quel «polo» ha fatto vincere e rivincere. E questa storia ha avuto il suo Nuovo e Vecchio Testamento, dunque la sua patristica e la sua scolastica, le sue ortodossie (ricercate) e le sue eresie (stimolate, giacché l’ambito di «arte del possibile» in cui esse si muovono lo consente senza scandalo né peccato), il suo barocco fra trionfi e manierismi così come le sue neoscolastiche, le sue involuzioni seguite ai suoi rinnovamenti e viceversa, lungo un percorso seguito, descritto e talora elaborato da una produzione teoretica, storiografica e giornalistica che ha per esempio il suo emblema (simbolo e strumento) nel periodico, de facto fusionista, National Review, fondato nel 1955 da William F. Buckley jr. e da sempre testimone delle vicende del movimento, cioè anche dei suoi pregi e dei suoi difetti, nonché vademecum del vero fusionista dedito, fra alta divulgazione e azione politica, a elaborare quella che è stata definita conservative mainstream come senso comune dell’homo americanus che ne racchiuda ethos e identità culturale. L’espressione conservative mainstream ha del resto ottenuto una sorta di consacrazione «ufficiale» proprio con Meyer (10).

Da Goldwater a Reagan
I quindici anni che separano la sconfitta elettorale di Goldwater dalla vittoria di Reagan sono dunque il teatro in cui agisce una nuova forma di fusionismo, meyeriana e oltre, nel corso della quale la virata verso destra impressa da Goldwater a settori importanti del Partito repubblicano si rafforza, si radica e si sviluppa, anche grazie all’outing goldwateriano operato da uomini come Reagan, divenendo irreversibili, per quanto concerne gli ambiti del partito che ne sono stati interessati, e contagiosa, ancorché non priva di apostati né di falsari, per quanto riguarda altri ambiti di quella stessa formazione politica. Se prima di Goldwater, infatti, con riferimento all’azione politica del senatore Robert A. Taft (1889-1953) - definito un «repubblicano reazionario» - si parlava espressamente di «Taft Republicans» proprio per designare una componente specifica e minoritaria del Gop, quasi un’eccezione (11), dopo il 1964 per le componenti e per gli orientamenti del movimento conservatore in politica sono state di volta in volta adottate anche formule quali «National Review-style conservatism» (in riferimento al «canone» del «movimento» definito dal periodico National Review) e «Nixon Conservatives» (12). Lungo il cammino che da Goldwater giunge a Reagan, quella di Richard M. Nixon (1913-1994) è peraltro una figura decisamente ambigua. Poco amato dai conservatori (in specie da National Review e in particolare da Meyer, che sin dal 1968 gli preferì Reagan come candidato presidenziale del Gop; più disponibile fu invece Russell Kirk), sostenuto politicamente, pure con una certa enfasi non solo strumentale, nei momenti decisivi, deludente in troppe scelte politiche ma convincente in numerose altre, certamente migliore di quanto sia stato normalmente descritto dai media - tanto da guadagnarsi il plauso, condizionato ma persistente, di un esponente del conservatorismo certo non di bocca buona qual è Patrick J. Buchanan, fra l’altro suo speechwriter e «ufficiale di collegamento» con il mondo conservatore dal gennaio 1966 (13) -, Nixon (a posteriori questo si può certamente affermare) ha intrecciato più volte il proprio cammino con quello del conservatorismo senza però mai identificarvisi profondamente; cosa, questa, che invece hanno fatto Reagan e prima di lui Goldwater, fatta salva la distinzione che intercorre fra l’uomo di elaborazione teoretica e l’uomo di azione politica.
L’avventura reaganiana inizia dunque remotamente quando il futuro presidente raccoglie il testimone consegnatogli da Goldwater. Nel momento in cui, dopo l’avventura Goldwater, i «conservatori dovevano “trasformare” con maggiore efficacia i princìpi in azioni» (14), Reagan non esitò ad assumere in prima persona l’eredità del senatore dell’Arizona sconfitto; e lo fece pubblicamente, scegliendo di parlare in prima persona dalla tribuna più ascoltata - e autorevole - del mondo conservatore, ossia partecipando al simposio The Republican Party and the Conservative Movement organizzato all’inizio del dicembre 1964 sulle pagine di National Review con interventi di George Bush, di John Davis Lodge (1903-1985), di Kirk, di Gerhart Niemeyer (1907-1997) e appunto di Reagan (15). Interpretando con finezza il rapporto che doveva sussistere fra Partito repubblicano e movimento conservatore, in quell’occasione Reagan scrisse: «Sì abbiamo perso; abbiamo perso una guerra infinita per la libertà, ma la nostra posizione non è per nulla insostenibile. Anzitutto, siamo 26 milioni di persone e non possiamo essere semplicemente descritti come irriducibili o fedelissimi di partito. La nostra dedizione a un filosofia precisa, infatti, scavalca le rigide divisioni fra i partiti» (16). Il senso della «svolta Goldwater», infatti, era stato quello di un partito - o d’importanti componenti di esso - che si piegava su un vasto e radicato movimento di opinione chiedendo a esso il modo in cui avrebbe potuto servirlo al meglio, e non viceversa, come invece avviene quando un partito usa e quindi strumentalizza una potenziale base elettorale significativa. E questo senso Reagan lo comprese fino in fondo, non dimenticando mai che Partito repubblicano e conservatorismo non sono affatto la medesima cosa, che il primo può aspirare al successo politico solo piegandosi al servizio del secondo e che il secondo è un movimento di opinione anche estremamente esigente. La sfida (e la scommessa) lanciata da Goldwater, insomma, era ancora del tutto aperta e Reagan si candidò subito a raccoglierla assumendo una posizione di guida che lo portò a proporsi, nella conclusione del suo intervento al simposio di National Review, in questi termini: «Non credo affatto sia bene affidare l’alto comando a quei leader che nella battaglia appena conclusa si sono dimostrati dei traditori» (17). Infatti, se con Goldwater i conservatori si erano, per la prima volta in maniera decisa, accasati elettoralmente nel Partito repubblicano pur senza identificarvicisi completamente mai - né allora né poi - la sconfitta del 1964 fu l’occasione che avviò immediatamente la riflessione sull’opportunità di proseguire il sodalizio. E se l’«effetto Goldwater» produsse pure l’illusione ottica - che in molti è divenuta però un’affermazione positiva - di una perfetta identificazione fra conservatorismo e Partito repubblicano, il quindicennio che ha portato all’elezione di Reagan nel 1980 è stato fortemente caratterizzato anche dalla doppia e parallela idea d’ipotizzare eventualmente anche opzioni politiche alternative al Gop (in ragione del fatto che se Goldwater ne aveva spostato a destra molte componenti, il partito nel suo insieme restava comunque davvero altro rispetto al movimento e talora pure contro), ovvero di scegliere nuovamente, ma sub iudice, il Gop cercando di alzare il prezzo del proprio sostegno, dunque di ripetere e di ampliare al suo interno la «svolta Goldwater».
Se tipico di questo doppio atteggiamento è stato il comportamento tenuto dai conservatori in occasione di tutte le tornate elettorali successive al 1964 (con la sola esclusione, forse e a certe condizioni, proprio della prima elezione di Reagan nel 1980), un suo caso classico è certamente stato il modo in cui i conservatori hanno considerato Nixon, eletto presidente nel 1968, quindi - fatte le debite differenze e proporzioni - George W. Bush prima nel 1988 e ancora nel 1992, Newt Gingrich nelle elezioni di medio termine del 1994 che scelsero il 104° Congresso degli Stati Uniti - e con le quali i repubblicani riguadagnarono il controllo della Camera dei deputati per la prima volta dagli anni Cinquanta - Robert Dole nel 1996 e George W. Bush jr. nel 2000, senza dimenticare l’«effetto Buchanan». Ossia il fatto che Buchanan - vera e propria celebrità del mondo conservatore, giornalista di razza prestato alla politica con un passato da consigliere e da speechwriter per Nixon e per Reagan - correndo da repubblicano nelle primarie del 1992 e del 1996, poi da «indipendente» nelle fila del Reform Party nel 2000, ha assommato nella propria persona i due corni del dilemma (i conservatori nel Gop oppure con i «terzi partiti»?) divaricandoli però inconciliabilmente invece che sanarli. Come tutti i conservatori che hanno scelto di operare in prima persona nel Gop, anche Buchanan ha del resto sempre corso - addirittura appunto anche da frontrunner per il Reform Party - da reaganiano, ovvero ripronendo nuove versioni del (neo)fusionismo che già era stato di Reagan, seppur riveduto e corretto in base alle nuove sensibilità. Ma, se la nuova sensibilità buchananiana - alla base anche della sua decisione di lasciare il Gop una volta giudicatolo «irrimediabilmente perduto» - affondano le radici proprio nell’era Reagan, ovvero soprattutto in alcuni nodi venuti al pettine durante il secondo mandato presidenziale (1984-1988) dell’ex governatore della California, la sua realtà è quella di un nuovo fusionismo comunque reaganiano, che è pure neogoldwateriano nella misura in cui cerca di ricompattare il vecchio mondo della destra a esclusione però dei neoconservatori, gli «ultimi venuti» di origine liberal o trotzkysta giudicati di volta in volta, e a seconda dei casi e delle persone, conservatori a metà, conservatori spuri, falsi conservatori o addirittura traditori e quinte colonne del nemico (18). Il tutto mentre, negli stessi momenti e negli stessi luoghi, una parte dei conservatori e i neoconservatori pretendevano di fare la medesima cosa, ovvero di rilanciare il fusionismo reaganiano leggendolo come neogoldwaterismo, allargato appunto proprio ai neoconservatori: così è infatti successo a supporto della candidatura di Bush padre nel 1992 (vicepresidente Dan Quayle) e di quella di Dole nel 1996 (candidato alla vicepresidenza Jack Kemp) laddove Buchanan correva in loro alternativa nelle fila del Gop, finendo poi per sostenerli nel rush finale delle elezioni; e così è successo anche in appoggio di George W. Bush jr. nel 2000 (vicepresidente Richard «Dick» Cheney), mentre Buchanan correva in alternativa a loro al Gop nelle fila del Reform Party, quindi senza decidere alla fine di sostenere pubblicamente Bush jr. contro Al Gore (candidato vicepresidente Joseph Lieberman), avendo forse così qualche responsabilità negli scarsi margini di maggioranza ottenuti in quell’elezione da Bush.
Il Reagan che non c’è
Reagan, invece, assomando in sé e combinando sapientemente (si tratta, del resto, di un saggio della sua proverbiale capacità retorica da «grande comunicatore»), entrambe le propensioni - i conservatori nel Gop, i conservatori con i «terzi partiti» - ha impersonificato per anni la figura del conservatore che sceglie nuovamente, ma sempre sub iudice, i repubblicani, facendolo peraltro sempre dall’interno del partito, per poi (far) concludere al momento opportuno che lui in persona era finalmente quel candidato politico nuovo che i conservatori, vigili da tempo, potevano scegliere riducendo al minimo o addirittura cancellando completamente le remore nutrite fin dal 1964 rispetto all’identificazione tout court di sé con il Gop. Per questo, portando alla vittoria non una ma ben due volte - il massimo consentito dalla legge statunitense - il «polo» neogoldwateriano, Reagan ha offerto ai conservatori e alla nazione intera la propria amministrazione come casa comune definitiva della politica conservatrice, rilanciando e incarnando l’idea goldwateriana del partito politico che si piega sul movimento facendosene interprete: da sempre sul piano culturale, ma con Reagan presidente finalmente in modo efficace anche politicamente e amministrativamente, il conservatorismo si propone alla nazione - vale a dire sia ai conservatori sia ai non conservatori - come l’espressione più autentica dell’identità statunitense e il Gop come il «partito della nazione» che se ne fa suo strumento. Con queste caratteristiche il reaganismo è impossibile da ripetere e difficilissimo da imitare; e proprio per questo ha anzi ospitato dentro di sé i semi del proprio sgretolamento. Se, infatti, il reaganismo è stata la fase suprema del fusionismo neogoldwateriano in grado di governare un Paese come gli Stati Uniti, esso è stato anche l’inizio della sua fine. E la differenza fra il successo e la sconfitta del reaganismo l’ha fatta proprio Reagan: solo Reagan è stato capace di quel successo e senza Reagan si è prodotto il disfacimento di un mondo intero e di una intera prospettiva politico-culturale. Solo un altro Reagan potrebbe dunque ripetere quel successo, ma altri Reagan non ve ne sono all’orizzonte. Laddove, infatti, oggi il nuovo fusionismo avrebbe bisogno di un leader adeguato come non ve ne sono, il nuovo fusionismo non può permettersi il lusso di essere identico a quello neogodwateriano che già fu di Reagan, esattamente come quello di Reagan non poté permettersi il lusso di essere solamente la riedizione di quello goldwateriano. Mutati i contesti e gli scenari in cui il nuovo fusionismo ancora in cerca di un proprio Reagan deve prodursi ed esprimersi, in attesa di quel Reagan - che comunque si coltiva e non s’improvvisa - il nuovo fusionismo ha anzitutto bisogno di un nuovo Meyer, vale a dire di un nano sulle spalle di giganti che abbia il merito di dissotterrare, di battezzare e di offrire in una confezione accattivante ed efficace ciò che già esiste spezzettato e disseminato nella realtà, facendo passare all’atto quanto in potenza già c’è, e soprattutto avendo la capacità di tessere un grandioso arazzo collegando trame, annodando fili e sbrogliando nodi. Opera certo colossale, ma già compiuta una, due volte. Eventi eccezionali, certo; ma il loro ripetersi parla già il linguaggio della continuità: e le tradizioni incominciano così.

Dalla «New Right» ai neoconservatori
Così «nel 1980 ciò che un tempo sembrava impossibile si realizzò» e «nel 1981 gli Stati Uniti sono entrati nell’era che subito alcuni si sono affrettati a definire Reagan revolution», «descrizione» che però «era una iperbole». Affatto rivoluzionaria nel senso sovversivo del termine, secondo Nash, quella espressione però un contenuto di verità lo possiede nella misura in cui per «rivoluzione» sovente s’intende il momento di passaggio stesso in cui le idee divengono pratica: e «negli anni Ottanta gli Stati Uniti sono stati testimoni del passaggio di un’idea dalla teoria alla pratica» (19). Ancora alla vigilia dell’elezione di Reagan nel 1980, «il conservatorismo non era affatto un fenomeno monolitico. Era di fatto un insieme di orientamenti differenti e non sempre fra loro coerenti, uniti solo dalla comune e profonda avversione al progressismo del Ventesimo secolo. Per i libertarian, il moderno liberalismo progressista era l’ideologia che puntellava la crescita abnorme e continua della burocrazia dello Stato assistenzialistico. [...] Per i tradizionalisti il liberalismo progressista era una filosofia corrosiva che, come un acido, erodeva le fondamenta morali e istituzionali della civiltà occidentale per creare al suo posto un enorme vuoto spirituale facilmente colmato dai falsi dèi del totalitarismo. Per gli anticomunisti della guerra fredda, il liberalismo progressista moderno - razionalistico, relativistico, laicista, antitradizionale e semisocialista - era per sua stessa natura incapace di resistere con vigore ai nemici alla sua sinistra» (20). L’immediata vigilia della vittoria elettorale di Reagan - i quattro anni della presidenza di James Earl «Jimmy» Carter jr., dal 1976 al 1980 - vide affacciarsi sulla scena culturale e politica statunitense due componenti nuove del conservatorismo, la «New Right» e i neoconservatori. «La “New Right” fu la reazione scatenata dal tentativo dei progressisti d’impossessarsi del Partito repubblicano (ben simboleggiata, dopo le dimissioni di Nixon, dal fatto che il presidente Gerald R. Ford decidesse di nominare Nelson Rockefeller alla vicepresidenza), esattamente come i neoconservatori erano la risposta alla trasformazione progressista del Partito democratico» (21).
Considerata in senso cronologico, la «New Right» - questo il termine tecnico utilizzato dagli storiografi a indicare un fenomeno che però con la «Nuova destra» francese e italiana ha in comune solo la denominazione - costituì, all’epoca, l’ultima stagione del «movimento», in una fase storica in cui l’opzione politica si era fatta sempre più praticabile e auspicata. Considerata per i suoi contenuti politico-culturali, invece, la «New Right» è un crogiuolo d’istinti diversi, che solo il tempo ha saputo sviluppare e distinguere, anche con esisti diversi e fra loro contraddittori. Alcuni analisti ne rinvengono peraltro una certa connotazione «populista» (peraltro in un’accezione tipicamente americana, ovvero sostanzialmente «jeffersoniana»): è la stagione in cui la cosiddetta «Destra religiosa», o «Destra cristiana», condiziona fortemente il panorama politico, il momento in cui l’anticomunismo e il patriottismo classici trovano nuove forme espressive, e l’era in cui la «questione morale» (su tematiche quali il diritto alla vita, la famiglia e la preghiera nelle scuole) diviene uno dei punti irrinunciabili e qualificanti di ogni piattaforma conservatrice. Benché l’investitura di Reagan non abbia trovato d’accordo tutti i leader della «New Right», proprio la vittoria elettorale del 1980 costituisce il successo principale e il merito storico di quel segmento del movimento, secondo alcuni continuazione innovativa della «Old Right» fusionista degli anni Cinquanta e Sessanta, secondo altri «inizio del tradimento». Se, dunque, per molti aspetti, è proprio in quel periodo che la pianta di antica seminagione del conservatorismo inizia a dar frutto coagulando il consenso attorno a periodici, fondazioni e organizzazioni, la stessa «New Right» emerge fondamentalmente come momento critico della destra nordamericana contemporanea. Alla rapida disgregazione di questa «Nuova destra» possono quindi essere ricondotte, in forma più o meno diretta, le successive mutazioni del conservatorismo statunitense. La reazione culturale all’attivismo della «New Right» coincide infatti con la nascita di quella che è stata definita «seconda generazione della “Old Right” postbellica»: al suo centro, il tentativo di adeguare la filosofia conservatrice classica al mutare delle circostanze storiche, ma soprattutto quello di salvare la destra da ogni compromesso con le ideologie progressiste. Un altro esito della «New Right» è l’ingresso formale di molti ex attivisti ed ex leader nei ranghi del Partito repubblicano: quello di Newt Gingrich, l’ex docente di storia divenuto presidente della Camera dei deputati nel 1994, ne è stato un esempio illustre. Novità invece assoluta - e coscientemente tale - rispetto alla «Old Right» e alla «New Right» (ancorché in alcuni momenti e a tratti in cerca di ponti o di alleanze strategiche con quei mondi) è il fenomeno del neoconservatorismo. Di per sé, infatti il neonconservatorismo designa quel fenomeno sociale-sociologico, e al contempo movimento politico, che, anch’essa dalla metà degli anni Settanta, vede convertirsi a destra porzioni significative dell’intellettualità newyorkese trotzkysta. A essa si sono poi uniti i cosiddetti Cold War Liberal - i progressisti non comunisti - e quei socialdemocratici non marxisti per i quali l’Unione Sovietica è stata il grande nemico di ogni riformismo.
Fra «New Right» e neoconservatori vi sono stati da subito motivi di forti contrasti: «“La New Right” - scrive Lee Edwards, protagonista e storiografo del conservatorismo statunitense - era religiosa negli scopi che si prefiggeva, nel linguaggio che adoperava e nel personale che l’animava, con l’occhio sempre fisso alla Città di Dio. I neoconservatori erano laici nell’immagine e nella retorica pubblica, preoccupati com’erano soprattutto della Città dell’Uomo». Inoltre, «la “New Right” era profondamente diffidente nei confronti del governo, laddove invece i neoconservatori ne erano degli entusiastici sostenitori». Ma entrambe queste nuove componenti del conservatorismo «aborrivano il comunismo e disprezzavano i progressisti; la “New Right” per ciò che essi erano sempre stati, i neoconservatori per ciò che erano divenuti». Alla fine «fu il risoluto anticomunismo dei neoconservatori e la loro egualmente determinata resistenza alla controcultura arrabbiata degli anni Sessanta e Settanta che fece guadagnare loro il favore dei conservatori di ogni obbedienza e che portò al matrimonio d’interessi che si celebrò nel 1980». E «il sacerdote che celebrò le nozze fu Ronald Reagan». Per essere eletto alla presidenza, infatti, l’ex governatore della California «aveva bisogno delle capacità di elaborazione culturale dei neoconservatori così come delle capacità di mobilitazione e di attivismo della “New Right”, in particolare della loro componente più potente, la “Destra cristiana”. Ironicamente, non vi sarebbe mai stata alcuna “Destra cristiana” se il presidente Jimmy Carter, un born-again christian, non si fosse alienato le simpatie dei cristiani fondamentalisti che ne avevano favorito l’elezione con grande fervore» (22). Il mandato di governo consegnatogli dagli americani impegnò dunque il presidente Reagan a realizzare le promesse elettorali: riduzione fiscale e ridimensionamento della burocrazia pubblica. Il Senato era a maggioranza repubblicana, alla Camera vi era una combattiva minoranza del Gop e il presidente poteva contare su «qualcosa d’altro, qualcosa su cui né Robert Taft né Barry Goldwater avrebbero potuto contare se fossero stati eletti presidenti: un movimento conservatore attivo e fedele.
«Per le idee Reagan poteva rivolgersi a The Heritage Foundation, all’American Enterprise Institute, al Center for Strategic and International Studies e ad altri think tank. Per la vigoria politica poteva fare affidamento su gruppi quali The Committee for the Survival of a Free Congress, l’American Conservative Union, la National Rifle Association e The National Tax Limitation Committee. E potè pure riempire la propria amministrazione di professionisti che avevano mosso i primi passi dentro il movimento. Nella sola Casa Bianca vi erano conservatori come Edwin Meese III, Richard V. Allen, Martin Anderson, Robert Carleson, Lyn Nofzinger, Tony Dolan e T. Kenneth Cribb jr. nelle posizioni più rilevanti, e Reagan potè poi rivolgersi al mondo neoconservatore in cerca di stimati esperti di politica estera quali Jeane Kirkpatrick, Max Kampelman, Richard Perle, Kenneth Adelman ed Elliott Abrams. All’esterno della sua amministrazione, Reagan godeva dell’appoggio di opinionisti e di commentatori quali George F. Will, Patrick J. Buchanan, William F. Buckley jr., James J. Kilpatrick e John Chamberlain», né gli vennero mai meno i consigli e le indicazioni «dei direttori e delle penne di una vasta cerchia di pubblicazioni quali National Review, Human Events, The American Spectator, Commentary, The Public Interest e The National Interest, così come le pagine dei commenti e delle opinioni di The Wall Street Journal» (23). Sul piano economico, Reagan ha sempre seguito l’impostazione della scuola detta Supply-side - descritta in The Way the World Works di Jude Wanniski e in Wealth and Poverty di George Gilder (24), e all’interno dell’amministrazione Reagan sostenuta in prima persona da Paul Craig Roberts e da Jack Kemp - la quale, anch’essa espressione di un aspetto della cultura fusionista del movimento, giocando rigorosamente sul principio della domanda e dell’offerta mira ad aumentare la ricchezza disponibile per i cittadini di un Paese e non solo a ridistribuire secondo geometrie sempre nuove e sempre variabili quella esistente.

Alla ricerca di un nuovo fusionismo reaganiano dopo Reagan
Il successo del momento neoconservatore nell’ambito del complesso e stratificato mondo della destra statunitense contemporanea, sostanzialmente coinciso con i dodici anni di dominio repubblicano dall’era Reagan alla transizione Bush, è del resto all’origine di un’altrettanto oggettiva mutazione - ma anche di una sensibile crisi - del conservatorismo nordamericano. L’epoca post-Reagan è stata infatti attraversata da forti dibattiti che spesso si sono trasformati in scontri assai seri, tanto che non è mancato chi, a metà degli anni Novanta, ha creduto di poter addirittura parlare di «guerre conservatrici» (25). La visione del mondo neoconservatrice, infatti, più «centrista» e, secondo alcuni, poco - o addirittura punto - in continuità con le tradizioni conservatrici più autentiche e con le diverse anime della «Old Right», hanno determinato presto - soprattutto su tematiche di politica estera, sulla spinosa questione del welfare state, sul dibattito fra società e Stato - l’incompatibilità con altri fronti della destra culturale degli anni Ottanta e Novanta. Di fatto, il dibattito interno innescato dalla scomparsa dell’elemento istituzionale comunista negli ex Paesi d’Oltrecortina, l’accelerazione del processo di globalizzazione dell’economia mondiale, la crisi dello Stato nazionale, nonché il perdurare e l’acuirsi della «questione morale» che aveva infiammato la «New Right» negli anni Settanta, hanno rischiato di schiacciare un fecondo movimento politico-culturale che è stato espressione dell’«America profonda», dell’Heartland. Le defezioni, l’abbassamento dei toni ideali, le mutazioni culturali, ma anche la critica che rischia di scadere in criticismo preconcetto, uniti all’oggettiva mancanza - per ora? - di «spiriti magni» che non sfigurino accanto ai grandi padri del conservatorismo angloamericano del Novecento, ma anche dei secoli Diaciannovesimo e Diciottesimo (benché non manchino neppure oggi studiosi di razza, discepoli seri e figure di tutto rispetto), è il grande problema della destra statunitense attuale, sulla quale esercita un ruolo di predominio significativo la «seconda generazione» neoconservatrice, fra ricerca di un nuovo fusionismo e recupero della propria identità culturale soprattutto di fronte al grande richiamo costituito dall’11 settembre. La presidenza Reagan - e soprattutto il variegato mondo che, più o meno remotamente, ne ha preparato i successi elettorali - ha costituito l’emblema di come l’azione culturale profonda possa incidere seriamente nella vita politica e istituzionale di un Paese. In America settentrionale questo è avvenuto perché l’azione culturale, spesso nascosta e umile, ma decisa nei contenuti e nelle proposte, si è raccordata e ha saputo esprimere l’ethos stesso del Paese, ovvero un senso comune in cui i cittadini americani si sono ritrovati e riconosciuti. "

Saluti liberali

Come no!
11-08-04, 09:06
In origine postato da Pieffebi
Se le regole sulle pensioni fossero ancora quelle di quando ho iniziato a lavorare.......fra poco più di 5 anni avrei potuto andare in pensione, non con una grande somma (visto che come dice un poveraccio di mia conoscenza, dico poveraccio dal punto di vista morale e intellettuale, son un fallito), ma insomma.....a meno di cinquanta anni sarei stato a carico della collettività, e come tutti, essendo ancora nel pieno delle forze avrei "arrotondato" alla grande "in nero". Sarebbe stata una vergogna. E ancora oggi di vergogne da sistemare, seppur di minore gravità, ce ne sono ancora a bizzeffe.

Saluti liberali

Vedi questo è un luogo comune e si vede che non sai come funzionano le cose, lì chiuso nel tuo ufficetto in simil legno. Io lavoro in una bella Agenzia per il lavoro e la realtà non è come dici tu: ho parlato con molte persone, anche qualificate, che perso il lavoro al'età di 50 anni fanno fatica a rientrarci in 'sto benedetto mercato del lavoro. Se aumenti ancora di più l'età pensionale significa quasi 20 di lavoretti vari, se sei fortunato: ho appena mandato un ex-responsabile amministrativo di 55, laureato ed appena "esuberato", a fare il turno di notte in un caseificio; se ha fortuna sarà il suo lavoro per i prossimi due anni, fino alla pensione.
Il tuo capitalismo democratico è solo egoismo economico: siamo in democrazia, puoi essere povero liberamente!

Saluti a tempo determinato.

Pieffebi
11-08-04, 13:17
Nella tua agenzia del menga avvengono cose davvero riprorevoli, mandare un dirigente in esubero a fare il taxista o il formaggiaro può essere normale a Los Angeles o a Wellington, ma nell'italietta dove si ha una concezione semi-feudale del "posto di lavoro" e del "grado acquisito", giammai! Qui lo "status simbol" (brokkoliniko) è intangibile, come il fuoristrada e il cellulare.
Che bei tempi quelli in cui a meno di 45 anni gli statali erano già ben pensionati, eh?

Salutami la Sinistruzza rentier

Come no!
11-08-04, 14:20
In origine postato da Pieffebi
Nella tua agenzia del menga avvengono cose davvero riprorevoli, mandare un dirigente in esubero a fare il taxista o il formaggiaro può essere normale a Los Angeles o a Wellington, ma nell'italietta dove si ha una concezione semi-feudale del "posto di lavoro" e del "grado acquisito", giammai! Qui lo "status simbol" (brokkoliniko) è intangibile, come il fuoristrada e il cellulare.
Che bei tempi quelli in cui a meno di 45 anni gli statali erano già ben pensionati, eh?

Salutami la Sinistruzza rentier

Vedi non sai proprio quello che succede la fuori!
La mia agenzia del menga è una multinazionale n° 1 nel settore e queste cose si fanno perchè è legale (lo era prima con l'interinale ed ancor di più adesso con la legge Biagi)

Comunque ti spiego meglio:
1) I licenziamenti esistono
2) Un 55 licenziato, anche se di professionalità alta, fa fatica a trovare lavoro per il semplice motivo che vuole (giustamente) molto per il lavoro che sa fare così bene o nopn è ricollocabile perchè nessuno vuole dare un ruolo chiave ad uno che fra 5 o 6 anni va in pensione.
3) Quindi l'unico altro posto di lavoro che siamo risuciti a trovargli è quello. E' ovvio che prima le abbiamo provate tutte per collocarlo come responsabile amministrativo.

Io ti faccio una semplce domanda: cosa fa il tuo capitalismo democratico per persone come queste, e cioè,capaci, affidabili, che lavorano e hanno lavorato?
(ovviamente apparte le favolette liberiste)

Pieffebi
11-08-04, 16:58
Ci sono anche multinazionali del menga e mi è stato detto che esistono i licenziamenti e quello che Carletto chiamava "esercito industriale di riserva". Mi sono state raccontate tante altre cosette sulle malefatte dell'economia di mercato, visto che per un po' di anni sono stato un marxista rivoluzionario non proprio di ultima fila, benchè giovanissimo.

Che cosa ha fatto il capitalismo democratico? Meglio di quanto non faccia il capitalismo non democratico (che noin prevede neppure gli ammortizzatori sociali) o qualsiasi forma di socialismo.
Il capitalismo democratico è infatti un pessimo sistema, il peggiore, ad eccezione di tutti gli altri (parafrasando Winston).

Shalom bello

Come no!
11-08-04, 17:00
In origine postato da Pieffebi
Ci sono anche multinazionali del menga e mi è stato detto che esistono i licenziamenti e quello che Carletto chiamava "esercito industriale di riserva". Mi sono state raccontate tante altre cosette sulle malefatte dell'economia di mercato, visto che per un po' di anni sono stato un marxista rivoluzionario non proprio di ultima fila, benchè giovanissimo.

Che cosa ha fatto il capitalismo democratico? Meglio di quanto non faccia il capitalismo non democratico (che noin prevede neppure gli ammortizzatori sociali) o qualsiasi forma di socialismo.
Il capitalismo democratico è infatti un pessimo sistema, il peggiore, ad eccezione di tutti gli altri (parafrasando Winston).

Shalom bello

Non hai detto un cazzo, ma l'hai detto bene!
Complimenti e grazie per il bello!

Pieffebi
11-08-04, 17:05
Eccome se ho detto.
Prego.

Come no!
11-08-04, 17:15
In origine postato da Pieffebi
Eccome se ho detto.
Prego.

Ma io non sto scherzando! Scusa ma gli autori dei 3ad dovrebbero accettare le critiche ed in questo, tra quello che hai scritto e quello che hai postato, 'sto Capitalismo Democratico sembra uno strano miscuglio di corporativismo e liberismo.
Non si capisce che forma abbia.
Allora per capirlo ti ho fatto un esempio concreto, reale e ti ho chiesto: quel'è il meccanismo che in questo sistema scatta in questo caso o in casi simili?

Tu mi hai risposto: il migliore di tutti!

Capisci, non è una risposta!

Pieffebi
11-08-04, 20:15
Il capitalismo democratico non è altro che il sistema sociale esistente in Europa occidentale (in fase di estensione ad est), in nord america e in qualche altra area del mondo (esempio giappone). Non è un progetto si società, è "l'impasto" fra economia del libero mercato, società civile e istituzioni democratiche. Non è una società perfetta, paradisiaca, esente da problemi o da conflitti. Non garantisce in modo costante la piena occupazione ( abbisogna di un "esercito industriale di riserva" diceva Marx), non prevede soluzioni preconfezionate a qualsiasi questione, giacchè le soluzioni sono quelle che, in ogni paese, sono liberamente intraprese. Sicuramente esistono "soluzioni" ai problemi che il sistema sociale pone e spontaneamente non risolve, almeno nel breve periodo, che sono peggiori dei problemi stessi. Alcune di queste soluzioni hanno a che fare con l'assistenzialismo, la dilatazione conseguente delle spese pubbliche parassitarie, la burocratizzazione della società e dell'economia, la "via verso la schiavitu" (introduzione di elementi "di socialismo" nell'economia capitalistica). Quello che è certo è che l'espulsione anticipata dal mercato del lavoro non può trovare soluzione in una generalizzata anticipazione dell'età pensionabile, e in ogni caso il trattamento previdenziale NON può ritenersi un "ammortizzatore sociale", pena, entro non molti decenni, il colasso totale del sistema previdenziale, che non sarebbe certamente il solo effetto.
Dal punto di vista personale io avrei potuto fra pochissimi anni andare in pensione con "la mimina" permanendo il regime pensionistico in vigore fino ai primi anni novanta. Invece dovrò ancora lavorare 20 anni, e per avere una pensione appena paragonabile alla "massima" che mi sarebbe stata garantita con il vecchio sistema dovrò sacrificare la "liquidazione" per una pensione integrativa. Non è sul piano individuale un grosso guadagno. Riconosco tuttavia che come era prima non poteva durare e che è stato un bene intervenire, e che si deve intervenire ancora, e che persino la riforma del governo berlusconi dovrà essere ulteriormente rivista più avanti.

Saluti liberali

Come no!
12-08-04, 09:04
In origine postato da Pieffebi
Il capitalismo democratico non è altro che il sistema sociale esistente in Europa occidentale (in fase di estensione ad est), in nord america e in qualche altra area del mondo (esempio giappone). Non è un progetto si società, è "l'impasto" fra economia del libero mercato, società civile e istituzioni democratiche. Non è una società perfetta, paradisiaca, esente da problemi o da conflitti. Non garantisce in modo costante la piena occupazione ( abbisogna di un "esercito industriale di riserva" diceva Marx), non prevede soluzioni preconfezionate a qualsiasi questione, giacchè le soluzioni sono quelle che, in ogni paese, sono liberamente intraprese. Sicuramente esistono "soluzioni" ai problemi che il sistema sociale pone e spontaneamente non risolve, almeno nel breve periodo, che sono peggiori dei problemi stessi. Alcune di queste soluzioni hanno a che fare con l'assistenzialismo, la dilatazione conseguente delle spese pubbliche parassitarie, la burocratizzazione della società e dell'economia, la "via verso la schiavitu" (introduzione di elementi "di socialismo" nell'economia capitalistica). Quello che è certo è che l'espulsione anticipata dal mercato del lavoro non può trovare soluzione in una generalizzata anticipazione dell'età pensionabile, e in ogni caso il trattamento previdenziale NON può ritenersi un "ammortizzatore sociale", pena, entro non molti decenni, il colasso totale del sistema previdenziale, che non sarebbe certamente il solo effetto.
Dal punto di vista personale io avrei potuto fra pochissimi anni andare in pensione con "la mimina" permanendo il regime pensionistico in vigore fino ai primi anni novanta. Invece dovrò ancora lavorare 20 anni, e per avere una pensione appena paragonabile alla "massima" che mi sarebbe stata garantita con il vecchio sistema dovrò sacrificare la "liquidazione" per una pensione integrativa. Non è sul piano individuale un grosso guadagno. Riconosco tuttavia che come era prima non poteva durare e che è stato un bene intervenire, e che si deve intervenire ancora, e che persino la riforma del governo berlusconi dovrà essere ulteriormente rivista più avanti.

Saluti liberali

Vedi tutto quello che scrivi può essere condivisibile! Però c'è un "però"! Ed è il "peccato" originale di questo capitalismo: quando si parla di parassitismo si guarda sempre al basso, ma guardiamo come il privilegio sia in realtà nei piani alti ed è lì che si immobilizzano risorse; penso a tutti i figli di papà che "non sanno meritarsi" le risorse che il paparino si è faticosamente guadagnato; penso all'eccesso di risorse che viene dilapidato nella comunicazione (nella mia società c'è un ufficio che si occupa di marketing interno: ci ripetono tutto il giorno quanto siamo bravi e quanto l'azienda ci vuole bene).
Sono esempi, anche stupidi, ma il mio ragionamento è sulla distribuzione dei redditi che deve essere ripensato: se nella nostra società "l'utilità" del lavoro di un uomo è espressa in soldi, come è, mi sono sempre chiesto se ci sia una così grande differenza tra Bill Gates e la Centralinista della Microsoft.
E' una domanda che ancora non ci si pone visto che in paesi come gli Usa la distanza tra i redditi alti e quelli medio bassi è costantemente in aumento.

Pieffebi
12-08-04, 09:10
Come insegnava Marx la distribuzione dei redditi è determinata dai rapporti sociali di produzione. Quelli capitalistici sono gli unici che storicamente si sono dimostrati in grado di produrre ricchezza. Quelli alternativi hanno alla fine distribuito solo la miseria senza abolire neppure il privilegio, visto che le nomenklature comuniste potevano permettersi cose che il popolino non si sognava neppure lontanamente. E i figli del compagno Ceausescu (come di tutti gli altri idoli marxisti dei papà di D'Alema, Cofferati e Agnoletto...) erano altrettanto stron** dei figli di certi industriali occidentali, che se non altro a volte distruggono le aziende di papà e finiscono alcoolizzati o in overdose. Notevoli sono i casi di padri semi-analfabeti che hanno costruito belle aziende produttive e di figli super-istruiti che le hanno distrutte.....

Shalom

Pieffebi
22-08-04, 16:17
http://www.societalibera.org/archivio/documdi/documentodi_01.htm

Pieffebi
14-10-04, 14:34
up!

Pieffebi
06-04-07, 17:55
interessanti le informazioni (e taluni concetti base) contenute in questo articolo



Economia
Cavalcare le onde della globalizzazione

di Massimo Lo Cicero

Lo scorso dicembre la Banca Mondiale ha pubblicato un corposo rapporto sulle prospettive economiche che si aprono con il 2007: Global Economic Prospects: Managing the Next Wawe of Globalization. Alla fine di novembre un altro qualificato centro di osservazione della dinamica economica internazionale ha presentato il suo Economic Outlook: l’Oecd, la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che raccoglie un numero assai rilevante di paesi economicamente strutturati. Sulla base di queste due analisi si può ricostruire la natura dei problemi e delle sfide che l’economia mondiale dovrà fronteggiare nei prossimi anni. Per capire ancora meglio la dimensione relativa delle singole economie nazionali, tuttavia, è utile ricorrere anche ai dati esposti dal rapporto che annualmente predispone il Fondo Monetario Internazionale per descrivere, appunto, la dimensione e la dinamica dell’economia mondiale. L’edizione che utilizzeremo è stata pubblicata nel settembre del 2006 e si tratta del World Economic Outlook: Financial Systems and Economic Cycles.

Individuiamo, per prima cosa, la dimensione relativa delle singole economie nazionali e dei loro aggregati: per misurare il peso, e di conseguenza l’impatto, che le variazioni della crescita in uno di questi paesi, od in un gruppo di essi ragionevolmente integrato, determinano sull’economia mondiale nel suo complesso. I dati si riferiscono al 2005 che, al momento della pubblicazione del rapporto del Fondo Monetario, erano quelli assestati. Ma è evidente che le proporzioni relative resteranno abbastanza stabili almeno fino alla fine del decennio in corso. Le economie avanzate (Usa, i dodici paesi dell’euro, il Giappone, il Regno Unito, il Canada ed altre tredici economie, tra cui rientrano le prime quattro del Sud-est asiatico) raccolgono il 15,3 per cento della popolazione mondiale ma generano il 52,5 per cento del prodotto lordo ed il 69,1 delle esportazioni di beni e servizi. L’Asia in via di sviluppo, che include la Cina e l’India, dispone del 52,3 per cento della popolazione mondiale, ma genera solo il 15,4 per cento del prodotto lordo ed esporta beni e servizi per il 12 per cento del totale mondiale. Le medesime percentuali sono, rispettivamente, pari al 3,7 per cento, al 2,8 per cento ed al 4,5 per cento per il Medio Oriente ed al 12,8 per cento, 3,3 per cento e 2,5 per l’Africa, nel suo complesso. La Csi, la confederazione che raccoglie i paesi europei confederati con la Russia, ospita una popolazione pari al 4,4 per cento del totale mondiale, genera il 3,8 per cento del prodotto, esporta il 3,1 per cento dei beni e servizi esportati nel mondo. I paesi dell’Europa orientale che non fanno parte della confederazione russa raccolgono il 2,9 per cento della popolazione e forniscono il 3,3 per cento del prodotto ed il 4,3 per cento delle esportazioni, sempre rispetto al totale mondiale. Fin qui abbiamo visto, in dettaglio, gruppi di paesi omogenei, ma diversi dal gruppo delle economie avanzate, così come esse vengono aggregate dagli analisti del Fondo Monetario. È naturale che il resto del mondo, in totale e rispetto ai valori delle economie avanzate, presenti il complemento a 100 dei valori che abbiamo ricordato sopra.Esiste, lo indicano chiaramente i dati, una grande disparità nella distribuzione della popolazione e della capacità di produrre ma anche nella capacità di esportare i beni ed i servizi, che ciascuna economia è in grado di produrre. Vediamo anche le dinamiche con cui sono cresciute queste economie negli ultimi venti anni. Tra il 1988 ed il 1997 il mondo è cresciuto al 3,4 per cento come media annua. Nel decennio seguente, dal 1998 al 2007, il tasso di crescita mondiale è stato pari al 4,1 per cento: è aumentato. Per le economie avanzate è accaduto il contrario: 2,9 per cento nel primo decennio e solo il 2,6 nel secondo. Ovviamente è il resto del mondo, rispetto alle economie avanzate, che è cresciuto di più nel secondo decennio e, così facendo, ha spostato in avanti la media mondiale: le altre economie, complessivamente, sono cresciute al 4,1 per cento nel primo decennio ed al 5,9 nel secondo decennio. Come sappiamo la Cina e l’India hanno fatto la parte del leone, con tassi di crescita del 9,9 e del 9,1 per cento in Cina e del 6 e del 6,6 per cento in India, rispettivamente nel primo e nel secondo decennio. Fin qui i dati principali pubblicati dal Fondo Monetario ed è in questo contesto che si deve collocare la diagnosi della Banca Mondiale sulle modalità necessarie per gestire la nuova onda di crescita suscitata dalla globalizzazione dell’economia.

Secondo la Banca Mondiale i due motori della crescita saranno, fino alla fine del decennio, l’area del Pacifico e quella del Sud est asiatico oltre quella del sud dell’Asia stessa. Europa ed Asia centrale saranno un poco più veloci dell’America latina e dell’Africa subsahariana mentre il resto dell’Africa rimane, con grande probabilità, il fanalino di coda dell’economia mondiale. La integrazione economica, assicurata dal processo di globalizzazione, sta offrendo una chance di espansione a molte economie mondiali, periferiche o catturate da regimi ostili al mercato ed alla circolazione internazionale delle merci e dei capitali, fino alla fine degli anni Ottanta. Questa opzione viene colta da molti degli attuali protagonisti della scena mondiale e li porta a ridurre il gap che li separa dalle economie avanzate. La globalizzazione, insomma, riduce la povertà del mondo in termini assoluti ma crea disuguaglianze tra chi riesce a coglierne le opportunità e chi rsta incapace di catturare i vantaggi potenziali, offerti dalla possibilità di crescita che essa ha generato per tutti. Inoltre, ma questo è un problema ancora più delicato di quello della disuguaglianza relativa nella capacità di profittare delle onde della crescita, la globalizzazione genera problemi perché, essendo essenzialmente un fenomeno affidato alla competizione ed all’integrazione nei mercati delle merci, non può assicurare lo sviluppo dei beni collettivi e delle infrastrutture automaticamente e non è in grado di offrire un’adeguata tutela delle risorse naturali, che restano scarse sia rispetto ai bisogni della popolazione mondiale attuale che di quella futura. Esiste, infine, un ultimo problema legato alla formazione di capitale umano: la maggiore mobilità e la grande accessibilità assicurata dalla diffusione delle tecnologia dell’informazione e della comunicazione consentono a larga parte della popolazione mondiale di accedere a nuovi livelli di capacità e competenza. In questo modo si sta creando una ulteriore disuguaglianza nella struttura del patrimonio cognitivo e delle abilità individuali tra grandi regioni e singole nazioni.

Negli anni che ci separano dalla fine del decennio in corso dovremo affrontare quelli che gli economisti chiamano problemi strutturali. Si tratterà di lavorare sui traguardi del capitale fisso sociale e del capitale umano (infrastrutture e beni comuni) e sulla tutela e l’impiego razionale delle risorse naturali su scala mondiale e non solo nei paesi sviluppati: che, proprio grazie al tenore di vita conseguito, avranno sviluppato una maggiore sensibilità verso questi problemi. Ma l’agenda che ci deve guidare fino alla fine del decennio deve anche contemplare alcune politiche di carattere congiunturale, destinate a dare stabilità al sistema economico mondiale nel suo complesso. Si tratta di garantire un maggior coordinamento dei cicli economici tra le economie avanzate, per evitare che le oscillazioni nel prezzo delle materie prime in relazione alle impennate della crescita e la variabilità del cambio tra euro e dollaro americano, in relazione all’asimmetria dei cicli congiunturali in questi due grandi mercati, diventino fattori di instabilità su scala globale e compromettano l’efficienza della crescita, necessaria per garantire la soluzione dei problemi strutturali, che abbiamo ricordato prima.
La morale di questa storia è abbastanza evidente e rende obsolete molte delle convinzioni che dominano la discussione sulla politica economica in Europa. Gli Stati nazionali e le politiche da essi realizzate contano ma non sono più così determinanti come avveniva nella stagione passata: quella in cui il mondo era diviso dalla guerra fredda e dalla opzione ideologica a favore e contro l’economia di mercato. Gli Stati nazionali potevano, in quel contesto bipolare, agire sulle economie domestiche, incluse nei rispettivi perimetri nazionali, e creare condizioni di compromesso tra governi e sindacati, che stabilizzavano il ciclo e garantivano i livelli di occupazione. Il nuovo ordine mondiale è più aperto alla competizione e riconosce e premia il merito di chi agisce con lungimiranza, accelerando il ritmo della crescita e la possibilità di ridistribuire benessere per quegli Stati che mettono imprese e lavoratori in grado di produrre ricchezza. Gli Stati, quindi, possono e devono giocare piuttosto sul terreno della giustizia sociale e del supporto agli individui troppo deboli che non su quello dell’interventismo economico e del dirigismo industriale. Insistere su politiche economiche di quel genere peggiorerà le condizioni di vita per la popolazione degli Stati che vorranno farlo. La fine del decennio premierà chi saprà cavalcare l’onda crescente della globalizzazione e non chi riproporrà chiusure autarchiche e troppo protettive del mercato domestico: coloro che lo faranno saranno solo privati della forza generata dall’energia che muove l’onda della globalizzazione che, invece, deve essere utilizzata per migliorare il benessere nel mondo intero.

maloci@tin.it

Massimo Lo Cicero, professore di economia della comunicazione ed economia dell'informazione e della conoscenza all’Università di Roma Tor Vergata è esperto di politiche del Mezzogiorno e di globalizzazione. Collabora con il quotidiano Il Riformista.

http://magazine.enel.it/emporion/rubriche_dett.asp?iddoc=1493044&DataEmporion=24/01/2007



Saluti liberali