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nuvolarossa
08-03-02, 00:44
Tra pochi giorni ricorre (10 marzo 1872) il centotrentesimo anno dalla morte del Grande Apostolo della Patria, terzo assieme a Socrate e Cristo......maestro di liberta' e democrazia.
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MAZZINI "UOMO" NEL '48 E '49

di Alessandro Levi

In una lettera diretta il 30 maggio 1848 da Milano, ad Emi-
lie Hawkes a Londra, Giuseppe Mazzini le racconta che ha ri-
fiutato di essere deputato, di essere ancora di più con Carlo
Alberto; aggiunge che è più che mai odiato, temuto, sospetta-
to, calunniato, minacciato; che i suoi scritti sono bruciati a Ge-
nova quasi sotto gli occhi di sua madre. Non può negare di
sentirsi completamente esule nel proprio paese; egli nutre la
sua anima con la propria sostanza come il pellicano coi suoi
piccini. Ciò nonostante egli ha molti giovani pronti ad obbedi-
re ad ogni suo cenno; si sente politicamente abbastanza forte;
e questa è la causa per cui il partito regio fa tanto rumore. Ma
-continua, alludendo evidentemente a quanto aveva scritto
poche righe innanzi, ma «io vi parlavo di me stesso, di Giusep-
pe (about my-self: about ]oseph), e non di Mazzini» (Ed. Naz.
XXXV 189-92).
Anch'io qui voglio parlare di Giuseppe, dell'uomo, quale ci è
rivelato da alcuni dei più notevoli sfoghi che si leggono in
quei documenti di inestimabile valore psicologico, che sono le
sue lettere private, anziche della sua, assai più nota, operosità
politica in quei due anni, '48 e '49, che dividono in periodi di
durata press' a poco eguale il primo dal secondo esilio.
Poco prima che spuntasse l'alba del '48, i sentimenti dell'E-
sule, improntati a quella «virtù vera ch'è la costanza», erano
stati da lui manifestati, incisivamente, nello scrivere a Giusep-
pe Lamberti: «volendo dieci, abbiamo prodotto due» , egli di-
ceva, è vero; ma questa è ragione per continuare, non per
troncare l'opera intrapresa. fu questo nostro lavoro siamo in-
vecchiati, egli ammonisce il fedelissimo seguace, e lo incalza
con un crescendo di domande: «e vorresti abbandonarlo? e
potresti, volendolo? E credi che tu saresti meno infelice per
questo?» Le domande mettono capo ad una dichiarazione di
fede, tanto più significativa perche espressa in una lettera de-
stinata all'esclusiva confidenza d'un amico: «noi non possia-
mo rifarci egoisti: abbiamo intravveduto l'Idea, e ci tormente-
rebbe dovunque; siam suoi: nati a incarnarla in noi, e vada co-
me sa andare» (XXXII, 257-58).
Quando, nel discendere in Italia, poco dopo la insurrezio-
ne di Milano, egli attraversa, non senza pericolo, il San Gottar-
do, la sua anima sensibile si accende di entusiasmo: «non sa
cos'è Poesia chi non si è trovato lassù, al punto più elevato
della strada, sull'altipiano circondato dai picchi delle Alpi, nel
continuo silenzio che parla di Dio. Non vi è ateismo possibile
sulle Alpi» (XXXV 108). Sì, egli si compiace della spontanea
accoglienza fattagli dal popolo appena varcata la frontiera:
perfino ufficiali di dogana gli hanno citato parole dei suoi
scritti: a Como giovani e perfino preti l'hanno acclamato: a
Milano, giungendovi dopo le nove di sera, ha udito in istrada
una voce che gridava: Viva Mazzini! «Mi sono sentito com-
mosso, profondamente commosso (deeply moved), entrando in
Italia: ma, strano e triste a dirsi, senza gioia. Non importa (ne-
ver mind). Se sono, come temo, morto alla gioia, non sono
morto al dovere». Così scrive ad un'amica, a Londra, la sera
stessa del suo arrivo (XXXV 82-83). La notte dell'indomani,
raccontando alla madre la dimostrazione di simpatia fattagli
sotto le finestre dell'albergo Bella Venezia «ho avuto scene -le
dice- che v'avrebbero dato gioia» (ivi, 88). Ma il giorno ap-
presso ripete al suo fido Lamberti la confessione che, appena
giunto, aveva fatta, scrivendo a Susanna Tancioni: «Ho prova-
to emozioni grandi sull' Alpi: quanto all’Italia sono invecchiato
e mi pare pur troppo di portare la catena dell'esilio con me.
Lasciamo andar questo e facciamo il nostro dovere» (ivi, 97).
«L'esperienza è compiuta», scrive allo stesso amico,"in set-
tembre, da Lugano, dopo le delusioni subìte da lui che, alla i-
dolatrata unità, avrebbe sacrificato la sua stessa fede repubbli-
cana: «se non vogliono udirci, tal sia di loro. Abbiamo passato
il fiore della vita in esilio; potremo e sapremo morirvi» (ivi,
313). Ma, sempre da Lugano, in quello stesso mese, leggiamo
in una lettera alla Madre un passo ancora più patetico: «ho
piacere -le dice -che vediate qualche volta la mia buona Giu-
ditta»; e più avanti le confessa: «Avrei più bisogno d'avere
qualcheduna di queste vostre e mie amiche vicina! La vita cor-
re così arida, che somiglia un'acqua che scorra sopra un letto
di rupi; e sento il bisogno d'avere un volto gentile col quale io
potessi scambiare un sorriso, e dimenticare le faccende politi-
che che m' assediano da mane a sera» .Ma ecco che egli teme i
rattristare la Madre; ed aggiunge: «scherzo, come vedete»; se
non che ha tosto il sopravvento quella malinconia profonda,
che il figlio, che Giuseppe non sa più celare alla confidente dei
suoi sentimenti più intimi, e, in un brano, che a me pare, psi-
cologicamente, stupendo, esce in questo sfogo: «non ch'io non
senta veramente questo vuoto d'intorno a me; ma non devo
sperare ne cercare di riempirlo. Sono consecrato a un Dovere;
e ho ancora tanta onda di poesia nell ' anima che la vicinanza
d'una donna amica mi snerverebbe, addormentandomi negli
affetti individuali. E sento tanto questo pericolo, che certe mat-
tine quando splende il sole ed apro le mie finestre, il lago mi
appare bello come una tentazione e chiudo la finestra per non
lasciarmi andare alla melanconia d'una vita, per ciò che con-
cerne l'individuo, perduta» (XXXVII, 20).
Vita individuale perduta? Un'altra volta, dodici anni avan-
ti, egli l'aveva creduta tale; ma si era ripreso. E, guidato forse
da un impulso del memore animo, l'eterno pellegrino, l'ulti-
mo giorno di quell'anno 1848, che si era dischiuso sotto l'au-
spicio di tante speranze e si chiudeva con tanta amarezza, ri-
torna a Grenchen (XXXVll, 238-39), proprio là dove, alla fine
del 1836, egli aveva sofferto, ed aveva superato, la giovanile
tempesta del Dubbio.
Ancora una volta, come allora, come ognora, riprende fi-
ducia, se non in se stesso, nella causa ch'egli serve, incrolla-
bilmente. Il 7 gennaio 1849 scrive, da Marsiglia, alla Madre:
«Credo che in quest'anno, fra un mese o due, avremo ancora
da trapassare, per le cose d'Italia, una grande burrasca; e poi
l'orizzonte si rischiarerà. Dio vuole il giusto, e noi non pos-
siamo a meno di trionfare» (XXXVII, 243). Ma, sempre da
Marsiglia, alla vigilia d'imbarcarsi, a Carolina Stansfeld, a
Londra, scrive parole di malinconia, che un tocco faceto non
riesce a nascondere: «Iddio, io credo, debole d'animo, indeci-
so, triste e non so che altro ancora. Forse il mal di mare e l'a-
ria italiana mi faranno guarire di questo mio stato sentimen-
tale» (ivi, 335).
Livorno, Firenze, Roma: le tre tappe italiane incomincia ad
abbandonarmi. Mi sento abbattuto, del Mazzini nel 1849. Ho
detto, fin da principio, che non avrei parlato della sua azione
politica; e non mi diffonderò, nè sui suoi contrasti, a Firenze,
col Guerrazzi, ne sul glorioso periodo del triumvirato romano.
Ricorderò piuttosto che a Firenze l'uomo Mazzini rivide Giu-
ditta Sidoli. “Ti scrivo dalla casa di Giuditta, che ho riveduta
con più gioia che non posso dirti», si legge in una lettera del
16 febbraio al sicuro amico di lui e conterraneo di lei, Giusep-
pe Lamberti. Ma doveva essere gioia di breve durata, ed egli
lo sapeva; «se non che -aggiunge, infatti, subito dopo le paro-
le testè rammentate -comincio l'ultimo periodo della vita er-
rante, e Dio sa dove vado a finire» (ivi, 352).
Per intanto, come ognun sa, andò a Roma, che il 12 feb-
Braio l'aveva ascritto «alla Cittadinanza della gloriosa Repub-
blica», e, del pari che Ferrara, l'aveva eletto deputato. Notissi-
me le parole, che il Mazzini scrisse nelle note autobiografiche sul
suo arrivo a Roma: «...v' entrai, la sera, a piedi, sui primi di
marzo, trepido e quasi adorando»; ed ancora: «Io avea viag-
giato alla volta della sacra città coll'animo triste sino alla mor-
te per la disfatta di Lombardia, per le nuove delusioni incon-
trate in Toscana, pel dissolvimento di tutta la parte repubblica-
na in Italia. E nondimeno trasalii, varcando Porta del Popolo,
d'una scossa quasi elettrica, d'un getto di nuova vita» (LXX-
Vll, 341). Meno conosciute le linee d'una lettera del 12 marzo
ad Enrico Mayer, che ci offrono la conferma dell'esattezza del
brano autobiografico, dettato, come si sa, molto più tardi: «Ho
provato ancora un momento dell'antica poesia a mezz'ora da
Roma...» (XL, 25). Tristissima lettera: egli è al colmo della glo-
ria, ma, «io non posso più godere» , dice e ripete come un ri-
tornello: «Non so se sia conseguenza dell'aver passato una se-
ria lunghissima di delusioni, o una condanna, o una benedi-
zione; ma non posso più godere. Fo quel che mi pare debito
mio, ma senza entusiasmo o speranza di vita individuale», e
finisce: «non opero che per galvanismo» (l. ult. cit.).
Ma, quand'anche senza gioia, -forse, in molte ore, senza
speranza, -per puro sentimento del Dovere, l'uomo pubblico,
l'uomo di Stato ch'egli era divenuto, nel quadrimestre romano
operò con così febbrile energia che, nell'epistolario di quel pe-
riodo, non si trovano se non pur troppo scarse tracce dei suoi
sentimenti intimi. Qualche volta, però, la contenuta amarezza
trabocca, come allora quando a Goffredo Mameli, il 26 mag-
gio, scrive: «sono nero come un'anima carbonizzata» (Ap-
pend., IV, 74); oppure, esaurito dall'incessante lavoro, confessa
che non ne può più -il giorno avanti (racconta il 9 giugno al-
l'americana Margaret Fuller) era stato ininterrottamente a scri-
vere per dodici ore, dalle sette del mattino alle sette della sera,
a scrivere anche quando doveva parlare nel contempo con
qualcuno, ed alle sette di sera era stato chiamato all'ospedale
dove giaceva ferito Goffredo Mameli per indurlo a farsi am-
putare una gamba, ma l'aveva trovato così malato che l'opera-
zione allora non si potè fare, e soltanto alle nove di sera per la
prima volta nella giornata aveva preso un po' di cibo, e poi a-
veva ripreso a lavorare fino al tocco di notte -e dice all'amica:
non vi meravigliate del mio silenzio, meravigliatevi piuttosto
che io sia ancora vivo. Aggiunge verso la fine della lettera: «se
la cosa durasse a lungo, ne forza ne volontà umana potrebbe
resistere»; ma poi, quasi avesse il pudore della sua fatica, «te-
nete questo biglietto per voi sola (le dice), non mi piace che gli
altri sappiano che io lavoro più che qualsiasi altri uomo» (Ap-
pend., VI, 537-39). Ed il 28 giugno scrive a George Sand: “j'as-
siste à l'agonie d'une grande ville, et mon ame agonise avec
elle» (XL, 173).
Ho voluto, a disegno, lasciar parlare lo stesso Mazzini, il
Mazzini «uomo» quale ci apparisce nella espansione di confi-
denze epistolari, per certo non destinate originariamente alla
pubblicità, in quel fortunoso biennio, per non indulgere da
parte mia ad una facile retorica. E non credo che si potrà tac-
ciar di retorica neppure la conclusione di queste mie righe, se
affermo che, a parer mio, la vera grandezza del Mazzini, per
quella sua infaticabile devozione al dovere, scevra di ogni am-
bizione e d'ogni altro sentimento egoisticamente individuale,
qual'è attestata anche dalle lettere di quel periodo che segnò
l'acme della sua gloria terrena, è la più alta che un uomo pos-
sa raggiungere: la grandezza morale.
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Alberich
08-03-02, 01:04
Grazie dei sempre interessanti articoli, appena ho tempo lo leggo.


W MAZZINI, W LA REPUBBLICA.

nuvolarossa
09-03-02, 13:42
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tratto da LA STAMPA del 09-03-2002

A 130 ANNI DALLA MORTE

Le cerimonie sul Priamar per Mazzini

SAVONA.
Nel centotrentesimo anniversario della morte, oggi Savona ricorda, come tradizione, Giuseppe Mazzini che fui tenuto prigioniero nel Priamar e qui ideò la «Giovane Italia». Stamane alle 10, nella sala consiloare del civico palazzo, parleranno Giuseppina Moretti, presidente della sezione savonese dell´Associazione Mazziniana italiana, il vice presidente nazionale Renzo Brunetti e il sindaco Carlo Ruggeri. Seguirà, sul tema «Educazione, morale, diritto in Giuseppe Mazzini» l´orazione ufficiale di Mario Di Napoli, consigliere parlamentare alla Camera dei deputati, docente di storia contemporanea all´università La Sapienza di Roma. Alle 11,15 partenza del corteo di autorità cittadini e scolaresche per il viale Dante Alighieri al Prolungamento a mare dove è in programma la deposizione di una corona d´alloro alla lapide che ricorda la prigionia di Mazzini nel Priamar e visita alla cella e al «Centro Studi Mazziniani» che ha sede all´interno del complesso monmentale.

i. p.

nuvolarossa
09-03-02, 13:44
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Non so se avete mai notato ma la fortezza del PRIAMAR sembra nascondere un messaggio ermetico....basta invertire e scomporre le parole per avere AMAR PRI....come se Mazzini avesse lasciato un messaggio ai posteri verso l'amore per il P.R.I. da lui fortemente voluto ed amato.

Possa questo messaggio d''affetto essere motivo di riflessione per tutti quei libertari e democratici repubblicani che sono stati attratti dai luccichii della demagogia di destra e di sinistra.

nuvolarossa
09-03-02, 22:42
A STAGLIENO
di Alfredo Oriani

Giuseppe Mazzini. Null'altro sul fronte egjziano, che gra-
va i due pilastri, scanellati come doriche colonne, della sua
tomba; e pare una porta chiusa sulla caverna di un monte, ma
il monte è lontano e a tingerlo l' architetto coronò di sassi il
frontone. Perchè?
Dinnanzi alla porta nera un salice piange sulla tomba
bianca della madre, che attese per venti anni il figlio esule dal-
1’1ta1ia per lui solo redenta nell'idealità di una nuova vita; esu-
le e orfano come tutti i geni creatori condannati a nutrirsi colla
ingratitudine e a dominare dal deserto. Intorno la valle è
squallida, i monti nudi, e il piccolo torrente senz' acqua: nel ci-
rnitero la folla delle croci densa come quella della gente in un
giorno di festa per le strade, quell'altra dei monumenti, alli-
neati sotto i portici, è così fitta che la loro volgarità, ricca e fa-
stosa diventa quasi insopportabile; ma troppe tombe stringo-
no quella del Grande in una intimità, che la morte non basta a
giustificare.
Egli doveva essere solo, lontano, dalla moltitudine che
amò colla inesauribile passione dei redentori, e dalla quale
non potè essere nè amato nè compreso, perchè ogni messia
deve essere vittima, e il dolore soltanto può rinnovare la fe-
de della morte solamente compiere nella vita un' altra rive-
lazione.
Hanno detto che egli medesimo desiderò di essere sepolto
a Staglieno presso la madre; perchè dunque fu lasciata dinan-
zi alla porta come una straniera, che morte stessa ricusava di .
riconoscere? La tragica donna silenziosa aveva ben guada-
gnato in tanti anni di angoscia solitaria il diritto di unirsi al
grande figlio nell'ombra e nel silenzio, dietro quella porta alla
quale si arrestava finalmente l'ingratitudine dei loro nuovi
maestri. Adesso invece la tomba del sublime poeta non è che
un anacronismo architettonico fra i troppi, che deturpano il ci-
mitero; una cornice dorata per la più moderna delle figure, u-
na porta dietro la quale vi è un vuoto, e sulla quale vi è un
vuoto, e sulla quale uno scenografo infelice credette di signifi-
care una montagna rocciosa con pochi sassi ferrigni.
Non così, non così doveva essere sepolto colui che evocò
tutti i morti e soffiò l'alito della giovinezza in tutti i malvivi
d’Italia, quando l'ombra della servitù secolare era così fitta che
i volti e le anime non potevano più riconoscersi; non così do-
veva essere sepolto colui, che dette un esercito a Garibaldi e
un regno a Vittorio Emanuele soltanto colla forza di una paro-
la luminosa come il sole, eloquente come il mare, irresistibile
come l'uragano.
Se non osò nell'estreme malinconie della vecchiezza puni-
re la patria morendo a Londra ignoto fra la moltitudine della
oceanica metropoli, e colla umiltà di un imperatore troppo
grande per ogni impero chiese al re della sua Italia il permes-
so di potervi rientrare sconosciuto per morire a Pisa, dove
Leopardi, il suo minore fratello, aveva indarno cercato la salu-
te; poesia e storia, passione di gloria e di amore vietavano
egualmente il seppellirlo a Staglieno dentro una falsa tomba
classica, fra un volgo di cadaveri, ai quali nessuna retorica di
epigrafi o di scultura potrà mai dare diritto di vita nell'im-
mortalità della storia.
Non so, errando per quel cimitero il mio spirito si faceva
sempre più triste, mentre dalla giovinezza ormai troppo lon-
tana mi tornavano in lenta processione, come di pellegrini
mendichi, le memorie dei giorni, nei quali gli echi di Italia ri-
petevano ancora le ultime parole di Mazzini, e qualche cosa
singhiozzava nell'anima nazionale e ad ogni viltà della nostra
politica e ad ogni sua ingiusta fortuna.
Poi egli morì, e i giovani lo dimenticarono.
E io mi lagno ancora che non lo abbiano sepolto dentro lo
scoglio di Quarto, dal quale il suo pensiero portò sull'acque il
naviglio dei Mille. Non so, ma parmi, che là soltanto sul mare,
sotto il sole, alle bufere mediterranee egli sarebbe contento; co-
me Cristoforo Colombo, il suo grande antenato, guarderebbe
oltre l'orizzonte marino il profilo di altre terre, di altri mondi;
con lui aspetterebbe dal vento i messaggi dei popoli scono-
sciuti. Che importa più 1’Italia a Mazzini? Egli la dimentica nel
suo ultimo sogno di una alleanza repubblicana universale.
I grandi morti non hanno più bisogno della nostra gloria
fatta di vittorie, nelle quali la gioia sale al vincitore dal pianto
dei vinti; i nostri cimiteri sono troppo piccoli per coloro, che la
nostra vita non potè contenere nell'angusta opera di una ge
nerazione. Garibaldi vigila, cavaliere che la morte non potè
addormentare, su Roma dal Gianicolo: Mazzini doveva ve
gliare sul mare che recò il pensiero creatore d'Italia a tutti i li-
di, e ne aspetta ancora le grandi risposte nei tempi futuri.
A Staglieno gli altri morti non debbono averlo riconosciu-
to. Infatti le loro tombe sono troppo ricche, troppo brutte,
troppo affollate di statue perchè abbiamo ancora potuto vede-
re quella porta nera, sotto quel frontone dorico. A lettere di
bronzo vi è inciso soltanto: Giuseppe Mazzini.
Chi era? La più grande anima d'Italiano dopo Dante.
Chi e’?
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nuvolarossa
11-03-02, 19:15
Mazzini, la lezione
d'un padre della patria

Il 10 marzo di centotrent'anni fa morì a Pisa Giuseppe Mazzini, che dal 1871 vi si era rifugiato sotto il falso nome del dottor John Brown, presso la casa della famiglia Nathan Rosselli. Esule in Patria, in condizioni di sostanziale semiclandestinità, Mazzini incarnava, con intransigenza civile, morale e politica, l'ideale repubblicano che non si era voluto integrare nell'Italia unita da Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Nel 1867, per coerenza repubblicana, Mazzini rinunciò anche all'elezione alla Camera dei Deputati che gli era stata tributata dal Collegio elettorale di Messina.
Negli ultimi anni di vita Mazzini (qui accanto in un ritratto della maturità) continuò a scrivere articoli ed opuscoli ed ancora nel 1870 sollecitò un moto insurrezionale a Palermo, venne arrestato, rinchiuso nel carcere militare di Gaeta ed amnistiato nello stesso anno a seguito della presa di Roma, la città simbolo dell'unità nazionale dove Mazzini allora poté tornare brevemente dopo la gloriosa vicenda della Repubblica Romana del 1849 di cui fu il principale ispiratore ed artefice. Mazzini, quindi, riprese poco dopo la via dell'esilio, di Lugano e Londra, ma già nel marzo 1871 raggiunse Pisa dove prevalentemente rimase nel suo ultimo anno di vita, pur recandosi ancora a Lugano e Londra e talvolta anche a Firenze e Livorno.
Negli ultimi anni di vita Mazzini polemizzò con l'Internazionale comunista ed il dispotismo di Stato in nome della crescita morale, civile ed economica degli operai di cui propugnò sempre l'associazionismo come base per l'unione fra capitale e lavoro per la diffusione della proprietà privata. Infatti l'emancipazione del lavoratore-cittadino italiano ed europeo, nel quadro della giustizia sociale, fu sempre vista da Mazzini come profondamente legata al ruolo fondamentale dell'istruzione.
La salma di Mazzini venne imbalsamata e seguita con grande commozione e partecipazione popolare durante tutto il trasporto funebre da Pisa fino a Genova, sua città natale. Grandi manifestazioni si svolsero a Milano e Roma. A Montecitorio, da pochi mesi sede della Camera dei Deputati in Roma capitale dell'Italia unita, Mazzini venne commemorato da Francesco Crispi e da Urbano Rattazzi, mentre il Presidente del Consiglio Giovanni Lanza si associò all'elogio funebre, ma non volle inviare una rappresentanza parlamentare ai funerali.
A Pisa, la casa Nathan Rosselli, dove John Brown-Giuseppe Mazzini morì nel 1872, è divenuta la sede della «Domus Mazziniana» che conserva intatta l'ultima stanza dove visse Mazzini (anche con gli ultimi suoi libri e le stesse medicine che gli furono prescritte) e contiene numerosi ed importanti cimeli e sviluppa molteplici attività culturali in particolare su Mazzini e il Risorgimento. La casa fu donata allo Stato dalla famiglia Rosselli affinché divenisse «santuario di fede e di patriottismo per i posteri», e fu dichiarata monumento nazionale con una legge dello Stato del 1910.

di Antonio Patuelli
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nuvolarossa
29-12-02, 12:09
LA POLITICA ECONOMICO-SOCIALE
E LA CRISI DELLA RIVOLUZIONE ROMANA
DEL '48-'49

di Domenico Demarco

La Rivoluzione romana del 1848-49 fu quella che più di o-
gni altra ebbe a subire l'accusa di mirare al socialismo e al Co-
munismo. Tale il rimprovero dei conservatori verso il governo
repubblicano. I moderati, dall'altro canto, dimostrarono alla
Repubblica una ostilità che aveva il suo fondamento nel di-
sappunto di essere stati superati e travolti, e l'accusarono di
spirito demagogico.ll Farini scrisse, infatti, che l'atteggiamen-
to del popolo verso la Repubblica va spiegato col miraggio di
benessere che il governo rivoluzionario fece balenare agli oc-
chi della povera gente. Che cosa c'è di vero in tutto questo?
Per spiegarci gli avvenimenti romani del 1848-49 bisogna
inquadrarli nella situazione economico-sociale del paese. Nel-
la società romana dell'epoca le classi dominanti erano l'alto
clero e l'aristocrazia. Al di sotto si era andato organizzando un
medio ceto agiato, costituito da appaltatori, usurai, monopoli-
sti, industriali, commercianti. Infine, c' erano le classi più umili
della popolazione: in campagna i contadini, i piccoli possiden-
ti dissanguati dal fisco, i braccianti; in città operai e artigiani.
Era questo «terzo» e «quarto stato» , gente decisa a risolvere in
qualche modo i propri problemi economici, guidata da una e-
lite irrequieta di intellettuali, che costituiva la enorme massa
degli scontenti dello Stato pontificio.
l' avvento di Pio IX, largo di promesse, lasciò le cose presso
a poco al punto in cui erano prima. Anzi, sotto certi aspetti, la
situazione peggiorò. Le finanze dei Comuni, stremate dal pe-
so dei lavori pubblici e dall'annona frumentaria, i gravosi
provvedimenti fiscali, la crisi annonaria e quella creditizia,
l'arresto nel movimento turistico, in seguito allo scoppio delle
rivoluzioni, tuttò ciò contribuì a maturare la situazione rivolu-
zionaria.
Alla rivoluzione parteciparono uomini di ogni ceto e di o-
gni provenienza: aristocratici dissidenti, possidenti, professio-
nisti (avvocati, medici, farmacisti, notai, ecc.), negozianti, mili-
tari, sensali, contadini, braccianti, operai, ecc., e, nella Capitale,
anche gli operai specializzati e gli artisti.
Era logico che il governo uscito dall'insurrezione del 16
novembre cercasse di esaudire le richieste dei suoi autori: bor-
ghesia e popolo minuto. Molto, infatti, si fece in favore della
classi disagiate della popolazione. Il governo provvisorio sop-
presse il dazio sul macinato, agevolò la corresponsione delle
imposte, accordando dilazioni di pagamento, rese più facile al
popolo il ricorso all'autorità giudiziaria, riformò i tributi locali,
prese a cuore le sorti di una delle più tristi categorie di lavora-
tori: gli operai dell'industria artistica. L'Assemblea Costituente
condannò l'appalto delle pubbliche entrate, odioso mezzo di
riscossione di talune imposte, la cui esosità gravava soprattut-
to sul popolo minuto, proclamò il suffragio universale e la
spartizione dei beni delle manimorte tra i contadini, perseui’
una vigorosa politica di lavori pubblici, mentre il fabbisogno
di armi e di altro materiale di guerra procurò impiego a molti
lavoratori disoccupati. Insomma la Repubblica restitui’ al po-
polo quella importanza sociale cui esso credeva di aver diritto,
cui violentemente aspirava.
Ma anche la borghesia trasse notevoli vantaggi dalla politi-
ca del governo rivoluzionario: commercianti e industriali con
la soppressione del divieto della corresponsione di interessi da
parte dei debitori, l'abolizione della carcerazione per debiti di
commercio e della tassa sulle pantenti di esercizio; i capitalisti
con la soppressione delle sostituzioni fedecommissarie,la se-
colarizzazione e la vendita dei beni delle manimorte. L'infla-
zione, poi, favorì i proprietari fondiari, i coloni, gli affittuari, i
commercianti, gl' industriali, gli speculatori. Anche la classe
degl' intellettuali entrò trionfalmente nella vita politica, con-
quistandovi posizioni preminenti.
Ciò nonostante la Repubblica partorì una folla di malcon-
tenti, costituita, innanzitutto, dagli uomini del vecchio regime,
cui si unirono i moderati sconfitti. Ma anche il popolo minuto
fu insoddisfatto, perchè la crisi economica perdurava, la sva-
lutazione della moneta colpiva soprattutto le classi lavoratrici,
la nuova tariffa doganale, più liberistica, danneggiava le indu-
strie protette e gli operai che vi lavoravano, mentre i contadini
mal tolleravano la coscrizione obbligatoria. Il popolo sogna un
avvenire migliore, migliore dell'odiato governo pontificio, ma
non vede realizzato il suo ideale nel regime presente, ossia
nella Repubblica Mazziniana. Esso perciò si dibatte tra il desi-
derio di difendere la Repubblica, che ha spezzato le maglie
più grosse della servitù, e la impossibilità di sostenere più a
lungo le mille difficoltà che la Rivoluzione gli ha recato.
Non solo il popolo minuto si allontanò dalla Repubblica,
ma anche la borghesia. Numerose furono le cause del suo
malumore, ma soprattutto la paura dell'avvento del sociali-
smo e del comunismo. Se l' Assemblea Costituente ha confi-
scato i beni ecclesiastici, si dice, essa può, con uguale facilità,
incamerare le proprietà private, creare nello Stato il più asso-
luto comunismo, cioè «la distruzione piena e intera della fa-
miglia e della società, ciò che non hanno tentato i più aborriti
tiranni» (1). Questa paura era aggravata dall'effettivo stato di
insicurezza, dalla mancanza di ordine pubblico nel paese.
Nelle Romagne si ebbero, infatti, aperte forme di assalto alla
proprietà privata. Queste violenze ebbero luogo, indifferente-
mente, sotto il segno del vessillo repubblicano come sotto
quello del Papa, ma, in verità, gli autori delle rivolte erano gli
uomini del popolo minuto, cui sembrava giunto il momento
per assidersi al banchetto sociale e saziare la lunga fame. Ciò
non poteva non spaventare la borghesia. Era quindi naturale
che anche la Rivoluzione romana, al pari delle altre, non fosse
chiamata ad una lunga esistenza. Se l'intervento straniero non
ci fosse stato, una reazione interna sarebbe scoppiata, che, co-
me già in Toscana, avrebbe soffocato la Rivoluzione. Cosicche’
a ragione potrà scrivere, poco dopo la caduta della Repubbli-
ca, il Gioberti, ribadendo un'affermazione del Pantaleoni: An-
corchè la spedizione francese non avesse avuto luogo, Mazzi-
ni, ossia la Repubblica ch'egli incarnava, sarebbe precipitato
ugualmente!

(1) Sono parole del Costituzionale Romano del 12 marzo 1849.

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