nuvolarossa
08-03-02, 00:44
Tra pochi giorni ricorre (10 marzo 1872) il centotrentesimo anno dalla morte del Grande Apostolo della Patria, terzo assieme a Socrate e Cristo......maestro di liberta' e democrazia.
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MAZZINI "UOMO" NEL '48 E '49
di Alessandro Levi
In una lettera diretta il 30 maggio 1848 da Milano, ad Emi-
lie Hawkes a Londra, Giuseppe Mazzini le racconta che ha ri-
fiutato di essere deputato, di essere ancora di più con Carlo
Alberto; aggiunge che è più che mai odiato, temuto, sospetta-
to, calunniato, minacciato; che i suoi scritti sono bruciati a Ge-
nova quasi sotto gli occhi di sua madre. Non può negare di
sentirsi completamente esule nel proprio paese; egli nutre la
sua anima con la propria sostanza come il pellicano coi suoi
piccini. Ciò nonostante egli ha molti giovani pronti ad obbedi-
re ad ogni suo cenno; si sente politicamente abbastanza forte;
e questa è la causa per cui il partito regio fa tanto rumore. Ma
-continua, alludendo evidentemente a quanto aveva scritto
poche righe innanzi, ma «io vi parlavo di me stesso, di Giusep-
pe (about my-self: about ]oseph), e non di Mazzini» (Ed. Naz.
XXXV 189-92).
Anch'io qui voglio parlare di Giuseppe, dell'uomo, quale ci è
rivelato da alcuni dei più notevoli sfoghi che si leggono in
quei documenti di inestimabile valore psicologico, che sono le
sue lettere private, anziche della sua, assai più nota, operosità
politica in quei due anni, '48 e '49, che dividono in periodi di
durata press' a poco eguale il primo dal secondo esilio.
Poco prima che spuntasse l'alba del '48, i sentimenti dell'E-
sule, improntati a quella «virtù vera ch'è la costanza», erano
stati da lui manifestati, incisivamente, nello scrivere a Giusep-
pe Lamberti: «volendo dieci, abbiamo prodotto due» , egli di-
ceva, è vero; ma questa è ragione per continuare, non per
troncare l'opera intrapresa. fu questo nostro lavoro siamo in-
vecchiati, egli ammonisce il fedelissimo seguace, e lo incalza
con un crescendo di domande: «e vorresti abbandonarlo? e
potresti, volendolo? E credi che tu saresti meno infelice per
questo?» Le domande mettono capo ad una dichiarazione di
fede, tanto più significativa perche espressa in una lettera de-
stinata all'esclusiva confidenza d'un amico: «noi non possia-
mo rifarci egoisti: abbiamo intravveduto l'Idea, e ci tormente-
rebbe dovunque; siam suoi: nati a incarnarla in noi, e vada co-
me sa andare» (XXXII, 257-58).
Quando, nel discendere in Italia, poco dopo la insurrezio-
ne di Milano, egli attraversa, non senza pericolo, il San Gottar-
do, la sua anima sensibile si accende di entusiasmo: «non sa
cos'è Poesia chi non si è trovato lassù, al punto più elevato
della strada, sull'altipiano circondato dai picchi delle Alpi, nel
continuo silenzio che parla di Dio. Non vi è ateismo possibile
sulle Alpi» (XXXV 108). Sì, egli si compiace della spontanea
accoglienza fattagli dal popolo appena varcata la frontiera:
perfino ufficiali di dogana gli hanno citato parole dei suoi
scritti: a Como giovani e perfino preti l'hanno acclamato: a
Milano, giungendovi dopo le nove di sera, ha udito in istrada
una voce che gridava: Viva Mazzini! «Mi sono sentito com-
mosso, profondamente commosso (deeply moved), entrando in
Italia: ma, strano e triste a dirsi, senza gioia. Non importa (ne-
ver mind). Se sono, come temo, morto alla gioia, non sono
morto al dovere». Così scrive ad un'amica, a Londra, la sera
stessa del suo arrivo (XXXV 82-83). La notte dell'indomani,
raccontando alla madre la dimostrazione di simpatia fattagli
sotto le finestre dell'albergo Bella Venezia «ho avuto scene -le
dice- che v'avrebbero dato gioia» (ivi, 88). Ma il giorno ap-
presso ripete al suo fido Lamberti la confessione che, appena
giunto, aveva fatta, scrivendo a Susanna Tancioni: «Ho prova-
to emozioni grandi sull' Alpi: quanto all’Italia sono invecchiato
e mi pare pur troppo di portare la catena dell'esilio con me.
Lasciamo andar questo e facciamo il nostro dovere» (ivi, 97).
«L'esperienza è compiuta», scrive allo stesso amico,"in set-
tembre, da Lugano, dopo le delusioni subìte da lui che, alla i-
dolatrata unità, avrebbe sacrificato la sua stessa fede repubbli-
cana: «se non vogliono udirci, tal sia di loro. Abbiamo passato
il fiore della vita in esilio; potremo e sapremo morirvi» (ivi,
313). Ma, sempre da Lugano, in quello stesso mese, leggiamo
in una lettera alla Madre un passo ancora più patetico: «ho
piacere -le dice -che vediate qualche volta la mia buona Giu-
ditta»; e più avanti le confessa: «Avrei più bisogno d'avere
qualcheduna di queste vostre e mie amiche vicina! La vita cor-
re così arida, che somiglia un'acqua che scorra sopra un letto
di rupi; e sento il bisogno d'avere un volto gentile col quale io
potessi scambiare un sorriso, e dimenticare le faccende politi-
che che m' assediano da mane a sera» .Ma ecco che egli teme i
rattristare la Madre; ed aggiunge: «scherzo, come vedete»; se
non che ha tosto il sopravvento quella malinconia profonda,
che il figlio, che Giuseppe non sa più celare alla confidente dei
suoi sentimenti più intimi, e, in un brano, che a me pare, psi-
cologicamente, stupendo, esce in questo sfogo: «non ch'io non
senta veramente questo vuoto d'intorno a me; ma non devo
sperare ne cercare di riempirlo. Sono consecrato a un Dovere;
e ho ancora tanta onda di poesia nell ' anima che la vicinanza
d'una donna amica mi snerverebbe, addormentandomi negli
affetti individuali. E sento tanto questo pericolo, che certe mat-
tine quando splende il sole ed apro le mie finestre, il lago mi
appare bello come una tentazione e chiudo la finestra per non
lasciarmi andare alla melanconia d'una vita, per ciò che con-
cerne l'individuo, perduta» (XXXVII, 20).
Vita individuale perduta? Un'altra volta, dodici anni avan-
ti, egli l'aveva creduta tale; ma si era ripreso. E, guidato forse
da un impulso del memore animo, l'eterno pellegrino, l'ulti-
mo giorno di quell'anno 1848, che si era dischiuso sotto l'au-
spicio di tante speranze e si chiudeva con tanta amarezza, ri-
torna a Grenchen (XXXVll, 238-39), proprio là dove, alla fine
del 1836, egli aveva sofferto, ed aveva superato, la giovanile
tempesta del Dubbio.
Ancora una volta, come allora, come ognora, riprende fi-
ducia, se non in se stesso, nella causa ch'egli serve, incrolla-
bilmente. Il 7 gennaio 1849 scrive, da Marsiglia, alla Madre:
«Credo che in quest'anno, fra un mese o due, avremo ancora
da trapassare, per le cose d'Italia, una grande burrasca; e poi
l'orizzonte si rischiarerà. Dio vuole il giusto, e noi non pos-
siamo a meno di trionfare» (XXXVII, 243). Ma, sempre da
Marsiglia, alla vigilia d'imbarcarsi, a Carolina Stansfeld, a
Londra, scrive parole di malinconia, che un tocco faceto non
riesce a nascondere: «Iddio, io credo, debole d'animo, indeci-
so, triste e non so che altro ancora. Forse il mal di mare e l'a-
ria italiana mi faranno guarire di questo mio stato sentimen-
tale» (ivi, 335).
Livorno, Firenze, Roma: le tre tappe italiane incomincia ad
abbandonarmi. Mi sento abbattuto, del Mazzini nel 1849. Ho
detto, fin da principio, che non avrei parlato della sua azione
politica; e non mi diffonderò, nè sui suoi contrasti, a Firenze,
col Guerrazzi, ne sul glorioso periodo del triumvirato romano.
Ricorderò piuttosto che a Firenze l'uomo Mazzini rivide Giu-
ditta Sidoli. “Ti scrivo dalla casa di Giuditta, che ho riveduta
con più gioia che non posso dirti», si legge in una lettera del
16 febbraio al sicuro amico di lui e conterraneo di lei, Giusep-
pe Lamberti. Ma doveva essere gioia di breve durata, ed egli
lo sapeva; «se non che -aggiunge, infatti, subito dopo le paro-
le testè rammentate -comincio l'ultimo periodo della vita er-
rante, e Dio sa dove vado a finire» (ivi, 352).
Per intanto, come ognun sa, andò a Roma, che il 12 feb-
Braio l'aveva ascritto «alla Cittadinanza della gloriosa Repub-
blica», e, del pari che Ferrara, l'aveva eletto deputato. Notissi-
me le parole, che il Mazzini scrisse nelle note autobiografiche sul
suo arrivo a Roma: «...v' entrai, la sera, a piedi, sui primi di
marzo, trepido e quasi adorando»; ed ancora: «Io avea viag-
giato alla volta della sacra città coll'animo triste sino alla mor-
te per la disfatta di Lombardia, per le nuove delusioni incon-
trate in Toscana, pel dissolvimento di tutta la parte repubblica-
na in Italia. E nondimeno trasalii, varcando Porta del Popolo,
d'una scossa quasi elettrica, d'un getto di nuova vita» (LXX-
Vll, 341). Meno conosciute le linee d'una lettera del 12 marzo
ad Enrico Mayer, che ci offrono la conferma dell'esattezza del
brano autobiografico, dettato, come si sa, molto più tardi: «Ho
provato ancora un momento dell'antica poesia a mezz'ora da
Roma...» (XL, 25). Tristissima lettera: egli è al colmo della glo-
ria, ma, «io non posso più godere» , dice e ripete come un ri-
tornello: «Non so se sia conseguenza dell'aver passato una se-
ria lunghissima di delusioni, o una condanna, o una benedi-
zione; ma non posso più godere. Fo quel che mi pare debito
mio, ma senza entusiasmo o speranza di vita individuale», e
finisce: «non opero che per galvanismo» (l. ult. cit.).
Ma, quand'anche senza gioia, -forse, in molte ore, senza
speranza, -per puro sentimento del Dovere, l'uomo pubblico,
l'uomo di Stato ch'egli era divenuto, nel quadrimestre romano
operò con così febbrile energia che, nell'epistolario di quel pe-
riodo, non si trovano se non pur troppo scarse tracce dei suoi
sentimenti intimi. Qualche volta, però, la contenuta amarezza
trabocca, come allora quando a Goffredo Mameli, il 26 mag-
gio, scrive: «sono nero come un'anima carbonizzata» (Ap-
pend., IV, 74); oppure, esaurito dall'incessante lavoro, confessa
che non ne può più -il giorno avanti (racconta il 9 giugno al-
l'americana Margaret Fuller) era stato ininterrottamente a scri-
vere per dodici ore, dalle sette del mattino alle sette della sera,
a scrivere anche quando doveva parlare nel contempo con
qualcuno, ed alle sette di sera era stato chiamato all'ospedale
dove giaceva ferito Goffredo Mameli per indurlo a farsi am-
putare una gamba, ma l'aveva trovato così malato che l'opera-
zione allora non si potè fare, e soltanto alle nove di sera per la
prima volta nella giornata aveva preso un po' di cibo, e poi a-
veva ripreso a lavorare fino al tocco di notte -e dice all'amica:
non vi meravigliate del mio silenzio, meravigliatevi piuttosto
che io sia ancora vivo. Aggiunge verso la fine della lettera: «se
la cosa durasse a lungo, ne forza ne volontà umana potrebbe
resistere»; ma poi, quasi avesse il pudore della sua fatica, «te-
nete questo biglietto per voi sola (le dice), non mi piace che gli
altri sappiano che io lavoro più che qualsiasi altri uomo» (Ap-
pend., VI, 537-39). Ed il 28 giugno scrive a George Sand: “j'as-
siste à l'agonie d'une grande ville, et mon ame agonise avec
elle» (XL, 173).
Ho voluto, a disegno, lasciar parlare lo stesso Mazzini, il
Mazzini «uomo» quale ci apparisce nella espansione di confi-
denze epistolari, per certo non destinate originariamente alla
pubblicità, in quel fortunoso biennio, per non indulgere da
parte mia ad una facile retorica. E non credo che si potrà tac-
ciar di retorica neppure la conclusione di queste mie righe, se
affermo che, a parer mio, la vera grandezza del Mazzini, per
quella sua infaticabile devozione al dovere, scevra di ogni am-
bizione e d'ogni altro sentimento egoisticamente individuale,
qual'è attestata anche dalle lettere di quel periodo che segnò
l'acme della sua gloria terrena, è la più alta che un uomo pos-
sa raggiungere: la grandezza morale.
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MAZZINI "UOMO" NEL '48 E '49
di Alessandro Levi
In una lettera diretta il 30 maggio 1848 da Milano, ad Emi-
lie Hawkes a Londra, Giuseppe Mazzini le racconta che ha ri-
fiutato di essere deputato, di essere ancora di più con Carlo
Alberto; aggiunge che è più che mai odiato, temuto, sospetta-
to, calunniato, minacciato; che i suoi scritti sono bruciati a Ge-
nova quasi sotto gli occhi di sua madre. Non può negare di
sentirsi completamente esule nel proprio paese; egli nutre la
sua anima con la propria sostanza come il pellicano coi suoi
piccini. Ciò nonostante egli ha molti giovani pronti ad obbedi-
re ad ogni suo cenno; si sente politicamente abbastanza forte;
e questa è la causa per cui il partito regio fa tanto rumore. Ma
-continua, alludendo evidentemente a quanto aveva scritto
poche righe innanzi, ma «io vi parlavo di me stesso, di Giusep-
pe (about my-self: about ]oseph), e non di Mazzini» (Ed. Naz.
XXXV 189-92).
Anch'io qui voglio parlare di Giuseppe, dell'uomo, quale ci è
rivelato da alcuni dei più notevoli sfoghi che si leggono in
quei documenti di inestimabile valore psicologico, che sono le
sue lettere private, anziche della sua, assai più nota, operosità
politica in quei due anni, '48 e '49, che dividono in periodi di
durata press' a poco eguale il primo dal secondo esilio.
Poco prima che spuntasse l'alba del '48, i sentimenti dell'E-
sule, improntati a quella «virtù vera ch'è la costanza», erano
stati da lui manifestati, incisivamente, nello scrivere a Giusep-
pe Lamberti: «volendo dieci, abbiamo prodotto due» , egli di-
ceva, è vero; ma questa è ragione per continuare, non per
troncare l'opera intrapresa. fu questo nostro lavoro siamo in-
vecchiati, egli ammonisce il fedelissimo seguace, e lo incalza
con un crescendo di domande: «e vorresti abbandonarlo? e
potresti, volendolo? E credi che tu saresti meno infelice per
questo?» Le domande mettono capo ad una dichiarazione di
fede, tanto più significativa perche espressa in una lettera de-
stinata all'esclusiva confidenza d'un amico: «noi non possia-
mo rifarci egoisti: abbiamo intravveduto l'Idea, e ci tormente-
rebbe dovunque; siam suoi: nati a incarnarla in noi, e vada co-
me sa andare» (XXXII, 257-58).
Quando, nel discendere in Italia, poco dopo la insurrezio-
ne di Milano, egli attraversa, non senza pericolo, il San Gottar-
do, la sua anima sensibile si accende di entusiasmo: «non sa
cos'è Poesia chi non si è trovato lassù, al punto più elevato
della strada, sull'altipiano circondato dai picchi delle Alpi, nel
continuo silenzio che parla di Dio. Non vi è ateismo possibile
sulle Alpi» (XXXV 108). Sì, egli si compiace della spontanea
accoglienza fattagli dal popolo appena varcata la frontiera:
perfino ufficiali di dogana gli hanno citato parole dei suoi
scritti: a Como giovani e perfino preti l'hanno acclamato: a
Milano, giungendovi dopo le nove di sera, ha udito in istrada
una voce che gridava: Viva Mazzini! «Mi sono sentito com-
mosso, profondamente commosso (deeply moved), entrando in
Italia: ma, strano e triste a dirsi, senza gioia. Non importa (ne-
ver mind). Se sono, come temo, morto alla gioia, non sono
morto al dovere». Così scrive ad un'amica, a Londra, la sera
stessa del suo arrivo (XXXV 82-83). La notte dell'indomani,
raccontando alla madre la dimostrazione di simpatia fattagli
sotto le finestre dell'albergo Bella Venezia «ho avuto scene -le
dice- che v'avrebbero dato gioia» (ivi, 88). Ma il giorno ap-
presso ripete al suo fido Lamberti la confessione che, appena
giunto, aveva fatta, scrivendo a Susanna Tancioni: «Ho prova-
to emozioni grandi sull' Alpi: quanto all’Italia sono invecchiato
e mi pare pur troppo di portare la catena dell'esilio con me.
Lasciamo andar questo e facciamo il nostro dovere» (ivi, 97).
«L'esperienza è compiuta», scrive allo stesso amico,"in set-
tembre, da Lugano, dopo le delusioni subìte da lui che, alla i-
dolatrata unità, avrebbe sacrificato la sua stessa fede repubbli-
cana: «se non vogliono udirci, tal sia di loro. Abbiamo passato
il fiore della vita in esilio; potremo e sapremo morirvi» (ivi,
313). Ma, sempre da Lugano, in quello stesso mese, leggiamo
in una lettera alla Madre un passo ancora più patetico: «ho
piacere -le dice -che vediate qualche volta la mia buona Giu-
ditta»; e più avanti le confessa: «Avrei più bisogno d'avere
qualcheduna di queste vostre e mie amiche vicina! La vita cor-
re così arida, che somiglia un'acqua che scorra sopra un letto
di rupi; e sento il bisogno d'avere un volto gentile col quale io
potessi scambiare un sorriso, e dimenticare le faccende politi-
che che m' assediano da mane a sera» .Ma ecco che egli teme i
rattristare la Madre; ed aggiunge: «scherzo, come vedete»; se
non che ha tosto il sopravvento quella malinconia profonda,
che il figlio, che Giuseppe non sa più celare alla confidente dei
suoi sentimenti più intimi, e, in un brano, che a me pare, psi-
cologicamente, stupendo, esce in questo sfogo: «non ch'io non
senta veramente questo vuoto d'intorno a me; ma non devo
sperare ne cercare di riempirlo. Sono consecrato a un Dovere;
e ho ancora tanta onda di poesia nell ' anima che la vicinanza
d'una donna amica mi snerverebbe, addormentandomi negli
affetti individuali. E sento tanto questo pericolo, che certe mat-
tine quando splende il sole ed apro le mie finestre, il lago mi
appare bello come una tentazione e chiudo la finestra per non
lasciarmi andare alla melanconia d'una vita, per ciò che con-
cerne l'individuo, perduta» (XXXVII, 20).
Vita individuale perduta? Un'altra volta, dodici anni avan-
ti, egli l'aveva creduta tale; ma si era ripreso. E, guidato forse
da un impulso del memore animo, l'eterno pellegrino, l'ulti-
mo giorno di quell'anno 1848, che si era dischiuso sotto l'au-
spicio di tante speranze e si chiudeva con tanta amarezza, ri-
torna a Grenchen (XXXVll, 238-39), proprio là dove, alla fine
del 1836, egli aveva sofferto, ed aveva superato, la giovanile
tempesta del Dubbio.
Ancora una volta, come allora, come ognora, riprende fi-
ducia, se non in se stesso, nella causa ch'egli serve, incrolla-
bilmente. Il 7 gennaio 1849 scrive, da Marsiglia, alla Madre:
«Credo che in quest'anno, fra un mese o due, avremo ancora
da trapassare, per le cose d'Italia, una grande burrasca; e poi
l'orizzonte si rischiarerà. Dio vuole il giusto, e noi non pos-
siamo a meno di trionfare» (XXXVII, 243). Ma, sempre da
Marsiglia, alla vigilia d'imbarcarsi, a Carolina Stansfeld, a
Londra, scrive parole di malinconia, che un tocco faceto non
riesce a nascondere: «Iddio, io credo, debole d'animo, indeci-
so, triste e non so che altro ancora. Forse il mal di mare e l'a-
ria italiana mi faranno guarire di questo mio stato sentimen-
tale» (ivi, 335).
Livorno, Firenze, Roma: le tre tappe italiane incomincia ad
abbandonarmi. Mi sento abbattuto, del Mazzini nel 1849. Ho
detto, fin da principio, che non avrei parlato della sua azione
politica; e non mi diffonderò, nè sui suoi contrasti, a Firenze,
col Guerrazzi, ne sul glorioso periodo del triumvirato romano.
Ricorderò piuttosto che a Firenze l'uomo Mazzini rivide Giu-
ditta Sidoli. “Ti scrivo dalla casa di Giuditta, che ho riveduta
con più gioia che non posso dirti», si legge in una lettera del
16 febbraio al sicuro amico di lui e conterraneo di lei, Giusep-
pe Lamberti. Ma doveva essere gioia di breve durata, ed egli
lo sapeva; «se non che -aggiunge, infatti, subito dopo le paro-
le testè rammentate -comincio l'ultimo periodo della vita er-
rante, e Dio sa dove vado a finire» (ivi, 352).
Per intanto, come ognun sa, andò a Roma, che il 12 feb-
Braio l'aveva ascritto «alla Cittadinanza della gloriosa Repub-
blica», e, del pari che Ferrara, l'aveva eletto deputato. Notissi-
me le parole, che il Mazzini scrisse nelle note autobiografiche sul
suo arrivo a Roma: «...v' entrai, la sera, a piedi, sui primi di
marzo, trepido e quasi adorando»; ed ancora: «Io avea viag-
giato alla volta della sacra città coll'animo triste sino alla mor-
te per la disfatta di Lombardia, per le nuove delusioni incon-
trate in Toscana, pel dissolvimento di tutta la parte repubblica-
na in Italia. E nondimeno trasalii, varcando Porta del Popolo,
d'una scossa quasi elettrica, d'un getto di nuova vita» (LXX-
Vll, 341). Meno conosciute le linee d'una lettera del 12 marzo
ad Enrico Mayer, che ci offrono la conferma dell'esattezza del
brano autobiografico, dettato, come si sa, molto più tardi: «Ho
provato ancora un momento dell'antica poesia a mezz'ora da
Roma...» (XL, 25). Tristissima lettera: egli è al colmo della glo-
ria, ma, «io non posso più godere» , dice e ripete come un ri-
tornello: «Non so se sia conseguenza dell'aver passato una se-
ria lunghissima di delusioni, o una condanna, o una benedi-
zione; ma non posso più godere. Fo quel che mi pare debito
mio, ma senza entusiasmo o speranza di vita individuale», e
finisce: «non opero che per galvanismo» (l. ult. cit.).
Ma, quand'anche senza gioia, -forse, in molte ore, senza
speranza, -per puro sentimento del Dovere, l'uomo pubblico,
l'uomo di Stato ch'egli era divenuto, nel quadrimestre romano
operò con così febbrile energia che, nell'epistolario di quel pe-
riodo, non si trovano se non pur troppo scarse tracce dei suoi
sentimenti intimi. Qualche volta, però, la contenuta amarezza
trabocca, come allora quando a Goffredo Mameli, il 26 mag-
gio, scrive: «sono nero come un'anima carbonizzata» (Ap-
pend., IV, 74); oppure, esaurito dall'incessante lavoro, confessa
che non ne può più -il giorno avanti (racconta il 9 giugno al-
l'americana Margaret Fuller) era stato ininterrottamente a scri-
vere per dodici ore, dalle sette del mattino alle sette della sera,
a scrivere anche quando doveva parlare nel contempo con
qualcuno, ed alle sette di sera era stato chiamato all'ospedale
dove giaceva ferito Goffredo Mameli per indurlo a farsi am-
putare una gamba, ma l'aveva trovato così malato che l'opera-
zione allora non si potè fare, e soltanto alle nove di sera per la
prima volta nella giornata aveva preso un po' di cibo, e poi a-
veva ripreso a lavorare fino al tocco di notte -e dice all'amica:
non vi meravigliate del mio silenzio, meravigliatevi piuttosto
che io sia ancora vivo. Aggiunge verso la fine della lettera: «se
la cosa durasse a lungo, ne forza ne volontà umana potrebbe
resistere»; ma poi, quasi avesse il pudore della sua fatica, «te-
nete questo biglietto per voi sola (le dice), non mi piace che gli
altri sappiano che io lavoro più che qualsiasi altri uomo» (Ap-
pend., VI, 537-39). Ed il 28 giugno scrive a George Sand: “j'as-
siste à l'agonie d'une grande ville, et mon ame agonise avec
elle» (XL, 173).
Ho voluto, a disegno, lasciar parlare lo stesso Mazzini, il
Mazzini «uomo» quale ci apparisce nella espansione di confi-
denze epistolari, per certo non destinate originariamente alla
pubblicità, in quel fortunoso biennio, per non indulgere da
parte mia ad una facile retorica. E non credo che si potrà tac-
ciar di retorica neppure la conclusione di queste mie righe, se
affermo che, a parer mio, la vera grandezza del Mazzini, per
quella sua infaticabile devozione al dovere, scevra di ogni am-
bizione e d'ogni altro sentimento egoisticamente individuale,
qual'è attestata anche dalle lettere di quel periodo che segnò
l'acme della sua gloria terrena, è la più alta che un uomo pos-
sa raggiungere: la grandezza morale.
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