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Roderigo
08-03-02, 10:00
Pregiudizi di ieri e di oggi

Quando immigrato «criminale» era il marchio affibbiato agli italiani

di GIAN ANTONIO STELLA


Lo chiamavano «El petiso orejudo», cioè il monello dalle orecchie a sventola, ed era il terrore di Buenos Aires. Figlio di immigrati scaricati da qualche nave venuta da Genova, aveva il nome di Gaetano Godino, comandava una banda di bambini di strada italiani e fu protagonista d’una catena di omicidi così insensata e spaventosa da spingere i giornali argentini a una incandescente campagna di stampa contro i nostri connazionali. Campagna dove spiccò la citazione del professor Cornelio Moyano Gacita, che riprendendo Cesare Lombroso teorizzava: «La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italiani c’è il residuo della sua alta criminalità di sangue». Il senatore leghista Antonio Vanzo, che l’altro ieri se l’è presa con romeni e albanesi urlando che «l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, non sulla prostituzione, lo spaccio di droga e le rapine», del «Petiso orejudo» forse non sa niente.
Pazienza. Certi toni volgari che accompagnano il dibattito sulla legge per l’immigrazione, sulla quale la destra fa legittimamente la parte della destra, invitano però a ricordare una cosa da troppi rimossa: per oltre un secolo, nel mondo, gli indesiderabili siamo stati noi.
Non c’è invettiva, non c’è preoccupazione sanitaria, non c’è norma restrittiva oggi invocata che non siano già state usate contro i nostri nonni e zii andati a «catàr fortuna» in giro per il pianeta. Largo agli «stagionali» che lavorino e poi via? E’ quello che voleva la Svizzera spezzando il cuore ai nostri bellunesi e bergamaschi. Gli stranieri «rubano il lavoro ai nostri ragazzi»? E’ ciò che dicevano gli operai francesi («Italiens: basta mangiare il nostro pane!») che il 17 agosto 1893 ad Aigues Mortes assaltarono i liguri, lombardi e piemontesi che per una paga da fame lavoravano nella saline della Camargue, uccidendo nove poveretti e ferendone decine.
Un massacro che, nonostante il monito d’una canzone popolare («Acque morte ci addita l’orrenda / ecatombe di vittime inulte / No, jamais, sì ferale tregenda / in Italia obliata sarà»), è stato dimenticato. Come il quotidiano gocciolìo di veleni xenofobi, scrupolosamente riportati da Enzo Barnabà nel libro «Morte agli italiani!», che lo aveva prodotto. Basti ricordare quanto scriveva Maurice Barrès: «Il decremento della natalità e il processo di esaurimento della nostra energia (...) hanno portato all’invasione del nostro territorio da parte di elementi stranieri che s’adoprano per sottometterci». Il quotidiano «Le Jour» non aveva dubbi: il governo doveva proteggere i francesi «da questa merce nociva, e peraltro adulterata, che si chiama operaio italiano».
Richard Gambino ha raccontato in «Vendetta» una storia avvenuta dall’altra parte dell’Oceano. Quella di un gruppo di siciliani di New Orleans, dove la nostra comunità, arrivata per sostituire nei campi gli ex-schiavi neri (portando secondo la Commissione Federale per l’Immigrazione «a un aumento del 40% del cotone prodotto pro-capite») era cresciuta in pochi anni fino a rappresentare un decimo della popolazione e guadagnare una posizione fortissima nel mercato nel pesce e della frutta.
Tutto nacque da un agguato al giovane capo della polizia, David Hennessy, assassinato mentre tornava a casa. Neanche il tempo d’indagare e i colpevoli c’erano già: gli italiani. Decine di arresti, centinaia di perquisizioni, pioggia di insulti su tutti i giornali a partire da una oscena invettiva del sindaco Shakespeare: «Il clima mite, la facilità con la quale ci si può assicurare il necessario per vivere e la natura poliglotta dei suoi abitanti hanno fatto sì che, sfortunatamente, questa parte del Paese sia stata scelta dai disoccupati e dagli emigrati appartenenti alla peggiore specie di europei: i meridionali italiani (...) Gli individui più pigri, depravati e indegni che esistano (...) Tranne i polacchi non conosciamo altre persone altrettanto indesiderabili».
Il processo, costruito su prove inventate a tavolino, finì in un’assoluzione. Inveleniti, i «bravi cittadini» di New Orleans si diedero appuntamento in 20 mila, presero d’assalto il carcere, piombarono su undici italiani (rimandati in galera nonostante la sentenza!) e li fecero a pezzi. Non uno, dei bravi assassini, fu condannato. Non un giornale si indignò. E quasi quasi, per aver definito il linciaggio «un’offesa contro la legge e l’umanità», il presidente Benjamin Harrison rischiò di essere incriminato dal Congresso.
Certo, erano altri tempi. La diffidenza verso i «nostri», però, è durata per decenni, da una parte all’altra del mondo. Parole che in questi giorni suonano stranamente familiari. Chi era, secondo l’industriale laniero Emanuele Serra, l’immigrato in Svizzera «più rozzo nell’aspetto esteriore come anche moralmente ed intellettualmente»? L’italiano. Chi era, come ha scoperto Paolo Cacciari spulciando nei vecchi archivi della Farnesina, l’immigrato in Germania più indifferente («In alcuni alloggi si nota talvolta una depravazione orribile, poiché non è raro che la baccana che affitta casa come pensionato divenga l’amante e la concubina di tutti gli operai») al «sentimento della pulizia e della decenza»? L’italiano. Chi, come scriveva «The view of the New York Gentleman», era mille volte peggio di «uno sporco irlandese»? «Un orribile italiano».
Emilio Franzina, curatore della monumentale «Storia della emigrazione italiana» edita da Donzelli, ha scritto una montagna di libri, su questi temi. Ricordando le tragedie di chi come il povero Francesco Fazio nel ’22, al ritorno a New York dopo aver combattuto per l’Italia nella Grande Guerra, si vide respingere dagli Stati Uniti dove già si era costruito un futuro perché con le nuove leggi, da analfabeta, era «fuori quota». E Ulderico Bernardi, che ha appena pubblicato il bellissimo «Addio patria» (edizioni Biblioteca dell’Immagine), ha ricostruito mille episodi di discriminazione razziale. Dalla decisione di Alabama, North Carolina e South Carolina di accettare solo «cittadini bianchi Usa, irlandesi, scozzesi, svizzeri, francesi e ogni altro straniero di origine sassone» alla legge che in Luisiana non consentiva «ai bimbi italiani di frequentare le scuole dei bianchi» fino alla deposizione in una commissione del Congresso di un grande imprenditore delle ferrovie: «Lei definirebbe di razza bianca un italiano?». «No, sir: un italiano è un dago».
Un essere inferiore. Perfino in Argentina, dice Eugenia Scarzanella in «Italiani malagente», arrivarono a accusare i nostri d’essere «avidi accaparratori delle ricchezze nazionali», d’aver incrementato i reati e contribuito a far sì che «delle prostitute registrate nel 1875 a Buenos Aires il 75 per cento erano nate all’estero».
Insomma: ben vengano certe norme più severe coi clandestini. Ma alla larga dalla xenofobia. Dall’altra parte, delinquenti a parte, ci sono quelli che fino a ieri eravamo noi. E magari scrivono alle sorelle come Bartolomeo Vanzetti, che avendo girato per tre mesi l’America senza trovar lavoro (da noi oggi verrebbe subito espulso) sognava «un tetto per ogni famiglia, un pane per ogni bocca, una educazione per ogni cuore».


Corriere della Sera 22 febbraio 2002