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Visualizza Versione Completa : Alcune considerazioni ortodosse sull'Europa:DOVE PORTA LA CULTURA UMANISTICA?



Qoelèt
08-03-02, 16:16
Archimandrita Justin [Popovich]

Dove porta la cultura umanistica?



Il presente articolo sembra echeggiare la voce d'un profeta
vetero testamentario. Nella Bibbia si legge che quando il
popolo d’Israele, dimenticando Dio, chiedeva dolci parole e
predizioni radiose, i profeti preconizzavano tempi duri e
prove. Per tal motivo essi venivano condannati. Eppure
costoro non facevano altro che affermare un principio
perenne: senza Dio l’agire dell’uomo si svuota e tutto ciò che
fa è come un gigante dai piedi di argilla. Davanti a questa
situazione non resta che la conversio. L'involontario suo
prodotto determinerà una cultura che, partendo dal
nascondimento e dalla modestia cristiana, sarà la
testimonianza d'un modo alternativo e d’un orizzonte più
vasto nel quale situare l’esistenza umana.



Qual'è l'obiettivo della cultura ortodossa? Introdurre e
realizzare, nel miglior modo possibile, il Divino nell'uomo e
nel mondo che lo circonda; incarnare Dio nell'uomo e nel
mondo. Ecco perché la cultura ortodossa è un incessante
servizio a Cristo, nostro Dio, un incessante servizio divino.
L'uomo serve Dio attraverso tutta la creazione; tutto quanto
è attorno a lui lo introduce sistematicamente e regolarmente
nel divino che appare in ogni sforzo e nella creatività
umana. L'uomo riscopre ogni realtà divina nella natura che
lo circonda in modo che tutto ciò che sta in essa, sotto la
sua guida, possa servire Dio. Così tutta la creazione
partecipa a una generale e vicendevole lode divina. Per la
natura è necessario che l'uomo serva Dio.

La cultura teantropica trasfigura l'uomo in se stesso e, con
ciò, influenza la sua condizione esterna, trasfigura l'anima e
attraverso essa, il corpo. In questa cultura il corpo è il
tempio dell'anima. Esso vive, si muove e ha il suo essere
dall'anima stessa. Togli l'anima dal corpo e cosa rimane se
non un cadavere decomposto? L'uomo-Dio trasfigura prima
di tutto l'anima e, di conseguenza, il corpo. L'anima
trasfigurata trasfigura il corpo e la materia. Trasfigurando
l'anima si trasfigura il corpo e la materia.

La meta della cultura teantropica non è solo quella di
trasfigurare l'uomo e l'umanità, ma pure tutta la natura
attraverso essi. Come si può raggiungere questa meta? Solo
attraverso dei mezzi teantropici ossia attraverso le virtù
evangeliche della fede e dell'amore, della speranza e della
preghiera, del digiuno e dell'umiltà, della mansuetudine e
della compassione, dell'amore e della speranza in Dio. È
attraverso queste virtù che è forgiata la cultura teantropica
ortodossa. Perseguendo queste virtù, l'uomo trasfigura la
sua anima ottenebrata e la rende bella; la trasforma e la
illumina, la cambia da realtà peccaminosa a santa, da realtà
scura a divina. In tal modo, il corpo viene trasfigurato in un
tempio degno d'ospitare un'anima divinizzata.

Attraverso le prove spirituali si acquisisce poco a poco le
virtù evangeliche che danno all'uomo potere e autorità sopra
se stesso e sopra la natura che lo circonda. Bandendo il
peccato da se e dal mondo, l'uomo bandisce la sua forza
selvaggia, distruttiva, rovinosa; trasfigura pienamente se
stesso, il mondo e domina la natura. Gli esempi più
eccellenti di tutto ciò sono i santi: essendo stati santificati e
trasfigurati attraverso le prove spirituali e avendo raggiunto
le evangeliche virtù, santificano e trasformano similmente la
natura attorno a loro. Ci sono molti santi che sono stati
serviti da bestie selvatiche e che il solo semplice fatto della
loro presenza poteva soggiogare e addomesticare i leoni e
sopportare i lupi. Essi hanno trattato la natura con
devozione, mitezza, rispetto, compassione e dolcezza
evitando d'essere aspri, severi, ostili, e feroci.

Con ciò, non hanno creato un'imposizione esterna, violenta,
meccanica, ma hanno assimilato intimamente,
benevolmente, personalmente il Signore Gesù Cristo
attraverso la prova delle virtù cristiane che stabiliscono il
Regno di Dio sulla terra. La cultura ortodossa indica che il
Regno di Dio non viene con fragore, esternamente o
visibilmente ma internamente, spiritualmente,
impercettibilmente. Il Salvatore dice: "Il Regno di Dio non
viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà:
Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è tra voi". (Lc
17, 20-21); il Regno è fra il Dio-Creatore e l'anima divina
santificata dallo Spirito Santo. Perciò "Il Regno di Dio non è
questione di bevanda o di cibo, ma di rettitudine, pace e
gioia nello Spirito Santo". (Rom 14, 17) Sì, nello Spirito
Santo, e non nello spirito dell'uomo. Può essere nello spirito
dell'uomo solo nella misura in cui è in lui lo Spirito Santo
attraverso le virtù evangeliche. Perciò proprio il primo e più
grande comandamento della cultura ortodossa è: "Cerca
prima il Regno di Dio e la Sua giustizia, e tutto il resto ti
sarà dato in sopraggiunta". (Mt. 6, 33). Quanto viene
aggiunto è l'indispensabile per sostenere la vita del corpo: il
cibo, l'abbigliamento, la casa. (Mt 6, 25-32) Tutte queste
cose sono accessorie rispetto al Regno di Dio, eppure la
cultura occidentale cerca prima di tutto proprio queste. In
ciò si rivela e si fonda il suo paganesimo. Attraverso le
parole del Salvatore, si scopre che sono i pagani che
cercano prima di tutto le cose accessorie. Da ciò nasce la
tragedia in chi ha reso affamata l'anima nella sua
preoccupazione per le cose materiali; mentre il Dio
innocente ha affermato una volta per tutte: "Perciò vi dico:
non vi affannate per la vostra vita, di che cosa mangerete o
berrete, né per il vostro corpo di che vi vestirete. Tutte
queste cose infatti cercano ansiosamente i pagani, ma il
Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutto ciò.
Cercate piuttosto il suo Regno e queste cose vi saranno
date in più". (Mt 6, 25, 32-33; Lc 12, 22-31)

Grande è la quantità delle necessità che l'uomo moderno
appassionatamente crea nella sua immaginazione. Per
soddisfare questo genere di necessità gli uomini hanno
trasformato il nostro meraviglioso pianeta in un mattatoio.
Ma il nostro filantropico Dio ha da tempo rivelato che "una
cosa sola è indispensabile" per ciascun uomo e per tutta
l'umanità. Cosa? Gesù Cristo uomo-Dio e tutto quanto viene
con Lui: la verità divina, la giustizia, l'amore, la bontà, la
santità, l'immortalità, l'eternità e tutte le altre perfezioni
divine. Questa è "una cosa indispensabile" per l'uomo e per
l'umanità e dona completa soddisfazione alle necessità
umane. In paragone a ciò, tutto il resto è così insignificante
che pare quasi non necessario. (Lc 10, 42)

Quando l'uomo analizza seriamente e in concordanza con il
Vangelo, il mistero della sua vita e della vita attorno a lui,
allora deve necessariamente concludere che il bisogno più
urgente è quello di rigettare tutte le sue necessità per
seguire decisamente il Signore Gesù Cristo e unirsi a Lui
nella via di perfezione evangelica e spirituale. Se non fa
questo, l'uomo rimane spiritualmente infruttuoso,
inanimato, esanime; la sua anima si prosciuga, si sbriciola,
si disintegra e cresce gradualmente nell'insensatezza, fino a
che muore completamente. Le labbra divine di Cristo hanno
infatti detto: "Restate in me e io in voi. Come il tralcio non
può portar frutto da sé se non resta nella vite, così neppure
voi, se non restate in me. Io sono la vite, voi i tralci; chi
resta in me e io in lui, questi porta molto frutto, perché
senza me non potete fare nulla. Se uno non resta in me è
gettato fuori come il tralcio e si secca, poi vengono raccolti e
gettati nel fuoco e bruciano". (Gv 15, 4-6)

È solo attraverso un'unità organica spirituale con
l'uomo-Dio, Cristo, che l'uomo può continuare la sua vita
nella vita eterna e il suo essere nell'unica esistenza eterna.
Un uomo di cultura teantropica non è mai solo: quando
pensa è Cristo che pensa attraverso lui, quando agisce è
Cristo che agisce attraverso di lui, quando sente è Cristo
che sente attraverso di lui. In una parola: egli vive
incessantemente attraverso Cristo-Dio. Perciò: può mai
esistere un uomo senza Dio? In questa prospettiva egli è,
inizialmente, un mezzo uomo e, alla fine, un nulla assoluto.
È solo nell'uomo-Dio che l'uomo trova la completezza e la
perfezione del suo proprio essere, il suo Prototipo, la sua
immortalità ed eternità, il suo valore assoluto. Il Signore
Gesù Cristo ha proclamato fra gli uomini che l'anima umana
è il tesoro più grande. "Perciò non abbiate paura perché non
vi è nulla di nascosto che non sarà rivelato e nulla di occulto
che non sarà conosciuto" (Mt. 10, 26).

Tutte le stelle e i pianeti non valgono una singola anima. Se
un uomo devasta la sua anima nella via dei peccati e dei vizi,
non potrà riscattarla, neppure se fosse il padrone di tutti i
sistemi stellari. L'uomo ha un solo modo e una sola via
nell'uomo-Dio Cristo, l'unico ad accordare l'immortalità
all'anima umana. L'anima non è liberata dalla morte dalle
cose materiali, ma ne viene asservita; è solo l'uomo-Dio che
libera l'uomo dalla loro tirannia. Le realtà materiali non
hanno potere sopra l'uomo che appartiene a Cristo; è egli
che, piuttosto, ha potere su di loro. Costui ha il vero valore
di tutte le cose, perchè le valuta nello stesso modo di Cristo.
Così, dal momento che l'anima umana secondo il Vangelo ha
un incomparabile valore rispetto a tutti gli esseri e a tutte le
cose del mondo, la cultura ortodossa è primariamente una
cultura dell'anima.

La grandezza dell'uomo è solamente in Dio. Questo è il
motto della cultura teantropica. L'uomo senza Dio è 70 kg di
creta insanguinata, un sepolcro che precede la sua tomba.
L'uomo europeo ha condannato a morte sia Dio che l'anima,
ma con ciò non ha forse condannato se stesso ad una morte
per la quale non esiste resurrezione? Provate ad analizzare
spassionatamente l'essenza della filosofia, della scienza,
delle scelte politiche, della cultura, della civiltà europea, e
vedrete che l'uomo europeo ha ucciso Dio e l'immortalità
dell'anima. E se uno seriamente pondera la tragedia della
storia umana, allora è possibile vedere che il deicida muore
sempre suicidandosi. Ciò ricorda Giuda: il primo che ha
ucciso Dio e in seguito si è autodistrutto. È l'inevitabile
legge della storia del nostro pianeta.

La struttura della cultura europea, è stata eretta senza
Cristo. Perciò deve sbriciolare rapidamente, come ha
sostenuto con penetrante intuito Dostoyevskii 100 anni fa,
e il dolente Gogol più di 100 anni fa. È davanti ai nostri
occhi la realtà preconizzata da questi due profeti. La torre
europea di Babele è stata edificata per 10 secoli. Ora il
nostro sguardo fisso s'incontra su un quadro tragico: tutto
ciò che è stato costruito è un enorme nulla! È iniziata così
una generale perplessità e confusione: l'uomo non può
capire l'uomo, l'anima anima, la nazione la nazione. L'uomo
è insorto contro il suo simile un regno contro un altro, una
nazione contro un'altra, un continente contro un altro.

L'uomo europeo ha cercato di determinare il proprio destino
e di raggiungere una posizione sublime. Ha posto il
superuomo alla sommità della sua Torre di Babele cercando
d'incoronare la sua struttura. Tuttavia il superuomo è
impazzito proprio quando è giunto all'apice e ha abbattuto la
torre che, sbriciolandosi, è crollata attraverso varie guerre e
rivoluzioni. L' homo europaeicus è giunto al suicidio. Il suo
"Wille zur Macht" (desiderio di potenza) è divenuto "Wille zur
Nacht" (desiderio di notte). E una notte, una notte greve, è
discesa sull'Europa. Gl'idoli dell'Europa crollano e non è
lontano quel giorno nel quale, della cultura europea, non
rimarrà pietra su un pietra, di quella cultura che costruisce
le città e distrugge le anime; che deifica le creature e getta
via il Creatore.

Il pensatore russo Herzen era innamorato dell'Europa e
visse a lungo in essa. Tuttavia, al tramonto della sua vita,
100 anni fa, scrisse: "Per qualche tempo abbiamo studiato il
verme che mangia l'organismo dell'Europa; in ogni ambito
abbiamo visto la firma della morte... L'Europa avanza verso
una spaventosa catastrofe. Le rivoluzioni politiche crollano
sotto il peso della loro inadeguatezza. Esse hanno
progettato grandi cose, ma non hanno terminato il loro
compito. Hanno distrutto la fede, ma non hanno assicurato
la libertà. Hanno fatto accendere nei cuori degli uomini
desideri che, in passato, non sono mai nati... Mi muovo
mortalmente pallido e sono afflitto nella notte dell'incubo di
fronte a tutti gli altri. Addio, mondo morente! Addio,
Europa!"

I cieli sono vuoti, non c'è alcun Dio in loro; la terra è vuota,
non c'è alcuna anima immortale sopra di essa. La cultura
europea ha tramutato tutti i suoi schiavi in cadaveri e l'ha
fatta divenire un cimitero. "Voglio viaggiare in Europa",
diceva Dostoyevskii, "e so che vado in un cimitero." (F. M.
Dostoyevskii, Zimniya zametki o lyetnikh vpechatlyeniyakh
[Note invernali su impressioni estive].)

Antecedentemente alla prima guerra mondiale, lo
smarrimento incombente è stato percepito solo da questi
malinconici veggenti. Seguendo loro, anche alcuni europei si
sono resi conto di ciò. Il più notevole e sincero fu
indubbiamente Oswald Spengler, che scosse il mondo col
suo libro Untergang des Abendlandes (O. Spengler, vol. 1,
Obraz i deystvityel'nost [Immagine e Attualità] M.- Pg.,
1923). In lui, attraverso tutti i mezzi che la scienza europea
(la filosofia, la politica, la tecnologia, l'arte, la religione, ecc)
lo hanno dotato, dimostrò lo smarrimento dell'Occidente.
Prima della prima guerra mondiale, l'Europa non faceva
ancora sentire il suo rantolo pre mortem. La cultura
occidentale, o faustiana, che, secondo Spengler, aveva le
sue origini nel X secolo, ora sta passando, si sgretola ed è
destinata a perire completamente nel XXII secolo.
(Attualmente sembra che questo processo si stia
accelerando). Nella veglia funebre della cultura europea,
Spengler prevede l'arrivo della cultura di Dostoyevskii, la
cultura dell'Ortodossia.

Con ciascuna nuova scoperta culturale l'uomo europeo si
mortifica e muore sempre più. L'amore per gli affari che egli
coltiva - è una tomba dalla quale non può desiderare di
risorgere. La sua infatuazione per la ragione è la passione
fatale che devasta l'umanità europea. La sola salvezza da
tutto ciò è Cristo, dice Gogol. Ma un mondo nel quale "sono
cosparsi milioni d'oggetti brillanti che disperdono i pensieri
in tutte le direzioni, non ha la forza d'incontrarsi
direttamente con Cristo".

Il tipico uomo europeo ha capitolato davanti al problema
fondamentale della vita; l'uomo-Dio ortodosso ha risolto
tutto per tutti, per ciascuno ed ognuno. L'uomo europeo ha
risolto il problema della vita finendo nel nichilismo;
l'uomo-Dio l'ha risolto attraverso la vita eterna. Per il
darwiniano-faustiano uomo europeo, l'oggetto principale
della vita è l'auto-conservazione; per l'uomo di Cristo è il
sacrificio di se. Il primo dice: "Per te si sacrifichino gli altri!"
mentre il secondo dice: "Sacrificati per gli altri!" L'uomo
europeo non ha risolto il problema pernicioso della morte;
l'uomo-Dio lo ha risolto attraverso la Risurrezione.

Indubbiamente, i principi della cultura e della civiltà
europea sono teomachici [contro Dio]. È molto diverso
l'antico uomo europeo da ciò che poi è divenuto quando ha
sostituito l'uomo-Dio Cristo con la filosofia, la scienza, le
politiche e la tecnologia, con la sua religione e la sua etica.
L'Europa s'è servita di Cristo "soltanto come un ponte tra la
barbarie senza cultura e la barbarie colta il che ha per lei
significato passare da una barbarie ingenua ad una astuta"
(Bp. Nikolai [Velimirovich], Slovo o vsecheloveke, [Un
sermone su ogni uomo], p. 334.)

Le mie conclusioni sulla cultura europea vedono molti
elementi catastrofici ma, detto questo, non bisogna stupirci
perchè parliamo della maggior catastrofe della storia umana,
dell'apocalisse dell'Europa, il cui corpo e spirito sono piagati
da orrori. Senza alcun dubbio in quest'Europa sono
disseminate contraddizioni vulcaniche che, se non sono
rimosse, potranno portare solo alla finale distruzione della
cultura europea.

http://digilander.iol.it/ortodossia/luce1.jpg
http://digilander.iol.it/ortodossia/luce2.jpg

Patrizio (POL)
09-03-02, 00:39
Come dargli torto!
Magari si sentissero simili parole da parte della Chiesa cattolica.
La modernità vi è invece entrata in maniera lenta da secoli, prendendo il sopravvento negli ultimi decenni - come sappiamo.

Qoelèt
09-03-02, 01:18
Caro patrizio,se l'argomento ti interessa ti invito a leggere il T. che ho postato sia sul Forum Principale sia su Senescenti: "Colloquio di una sera sull'Athos".
Saluti tradizionalisti romano-bizantini :D

Qoelèt
09-03-02, 01:29
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=608

Patrizio (POL)
09-03-02, 01:45
Ti ringrazio, caro Qoelet, conosco già le posizioni degli ortodossi; anche se è sempre un piacere leggere tali dichiarazioni - e le giuste risposte date a Wojtyla in questi mesi.
Volevo chiederti, piuttosto, visto che sembri partecipare di quella tradizione cristiana: sai qualcosa dell'esicasmo?
So che non è un tema dei più discussi, concernendo detereminate tecniche ascetiche, ma volevo sapere se fa parte integrante del monachesimo ortodosso, oppure solo di alcuni siti particolari.

Ti saluto. Leggerò la tua risposta domani perché ora devo andare.

Qoelèt
09-03-02, 02:33
http://digilander.iol.it/ortodossia/monachos.jpg
Premetto che è impossibile spiegare da occidentale a un occidentale il ruolo esatto dell'esicasmo nel cristianesimo ortodosso:diciamo che l'esicasmo(che si può per semplificare il concetto identificarlo per il momento con la preghiera del cuore o monologica:"Signore Gesù Cristo,Figlio di Dio,abbi pietà di me peccatore")è stato conosciuto in Occidente verso la metà del secolo XX con le traduzioni dei Racconti di un pellegrino russo,il guaio è che tale libro è stato interpretato con l'ottica tomista-razionalista del cattolicesimo romano:nulla di più sbagliarto!Ecco perchè spesso in Occidente si sente classificare l'esychia come uno Yoga cristiano:una vera blasfemità!
L'esychia comunque non è l'ortodossia,diciamo che è stata la via preferenziale per percorrere la strada divinizzante dell'ascesi (e l'Ortodossia è ASCESI)ma ci sono stati molti santi che si sono divinizzati pur non conoscendo la preghiera monologica.
Per farti capire meglio l'esychia ti posto alcune considerazioni di veri esperti in materia (io sia per ignoranza,sia perchè sono un pò stordito dal sonno data l'ora tarda non me la sento di continuare oltre.....)

Élisabeth Behr-Sigel

La preghiera di Gesù:mistero della spiritualità ortodossa

Uno tra gli elementi più importanti della preghiera
monastica nella Chiesa ortodossa è la "Preghiera di Gesù"
chiamata anche "preghiera" o "azione spirituale" (1). La sua
forma esterna - si potrebbe dire la sua realtà "materiale"- è
la ripetizione più frequente possibile del Nome di Gesù
Cristo, associata alla preghiera del pubblicano (Lc 18,14) e
si esprime in questi termini: "Signore Gesù Cristo, Figlio di
Dio, abbi pietà di me, peccatore". La sua essenza spirituale
è "la discesa della mente nel cuore", giungendo, attraverso
la purificazione del pensiero e la memoria costante di Gesù
Cristo, all'illuminazione dell'uomo interiore attraverso la
Grazia divina e la coscientizzazione dell'abitazione mistica in
se dello Spirito Santo.

La pratica di questa preghiera è una tradizione antica e
venerabile della Chiesa d'Oriente. Essa proviene da una
corrente spirituale che risale ai Padri del deserto della quale
l'insegnamento dei grandi pensatori cristiani del III e del IV
secolo è l'espressione teologica.

Male o poco conosciuta in Occidente, tale grande tradizione
mistica, in qualche sorta anima della teologia orientale, ha
suscitato comunque ricerche e lavori interessanti (2). Ma
questi studi, scritti da specialisti di letteratura patristica
greca ignoravano generalmente le forme più recenti che
riguardano la tradizione antica praticata dalle chiese slave e
greche moderne, tradizione vivente al di fuori della quale gli
antichi testi rimangono spesso incomprensibili al punto che
Padre Hausherr scriveva: "La questione dell'esicasmo (3)
non presenta solo un interesse storico - sufficente del resto
a meritargli l'attenzione dei ricercatori in questi tempi di
rinnovamento degli studi ascetici e mistici - essa non ha
perso la sua attualità nell'Oriente ortodosso. Alcuni
pensano pure che, tra tutte le questioni il cui studio
s'impone - in chi s'interessa dell'avvenire religioso greco o
slavo - questa è la più importante" (4). Noi aggiungiamo che
la letteratura ascetica e mistica russa, che potrebbe fornire
degli insegnamenti preziosi sulla permanenza e il
rinnovamento della pratica della preghiera spirituale, resta
quasi totalmente sconosciuta in Occidente.

Sappiate che l'opera divina della santa preghiera
spirituale fu l'occupazione costante dei nostri anziani
padri teofori e che, simile al sole, essa risplendette tra i
monaci, tra i numerosi eremitaggi e nei monasteri dove si
praticava la vita comunitaria, al Monte Sinai, presso i
solitari d'Egitto e del deserto nitrico, a Gerusalemme e
nei monasteri situati attorno a tale città; in breve in tutto
l'Oriente, a Costantinopoli, al Monte Athos, nelle isole
dell'Arcipelago e infine, in questi ultimi tempi per grazia
di Cristo, nella Grande Russia.

È con queste parole che inizia il primo dei Capitoli sulla vita
spirituale del grande starets russo del XVIII secolo, san
Paisi Velitchkovski (5). Così, secondo la testimonianza di
uno dei più zelanti promotori della "preghiera spirituale" nel
monachesimo russo dei tempi moderni, la pratica di tale
preghiera risale alla più alta antichità cristiana e fa parte del
patrimonio sacro della tradizione ortodossa. Attraverso la
loro opera letteraria, san Paisi e i suoi discepoli si
proponevano, d'altronde, di far conoscere ai monaci slavi i
testi patristici greci riguardanti la "Preghiera di Gesù" e di
provare che i suoi diffusori non portavano cose nuove ma, al
contrario, rinnovavano una tradizione antica e venerabile
della Chiesa. Tale era, in particolare, uno dei fini proposti
nella traduzione della famosa Filocalia dei Padri neptici (6),
che fu, lungo la prima metà del XIX secolo con la Bibbia e il
Gran menologio (Vita dei santi) di san Dimitri di Rostov, il
nutrimento spirituale preferito dei monaci russi. La scuola
di Paisi non faceva altro che proseguire, d'altronde, l'opera
iniziata nel XVI secolo da san Nil Sorski, primo religioso
scrittore russo presso il quale troviamo un'esposizione
sistematica de "L'opera spirituale". [...]

Non bisogna dimenticare che la tradizione della Preghiera di
Gesù è trasmessa, prima di tutto, da un insegnamento orale
diretto. Un po' in disparte dai centri monastici russi, ma
sempre in intima relazione con essi, si trovava sovente una
poustinia, cioè un eremitaggio, o una skite, nome dato a un
piccolo gruppo di celle isolate dove viveva qualche monaco
sotto la direzione di un "anziano". Là, lontano dal rumore
dei pellegrini e della vita comune del monastero, uno o più
solitari si dedicavano all'opera spirituale. Erano ammessi
solamente qualche raro visitatore laico e qualche giovane
monaco che aveva sentito la chiamata per la "vita in
solitudine". Essi ricevevano dagli anziani l'iniziazione alla
preghiera spirituale, iniziazione sempre molto personale,
adattata al temperamento e al grado di maturità spirituale
del discepolo. Tutti gli starets russi, da Paisi Velitchkovski a
Teofane il Recluso, hanno sempre insistito sulla necessità,
per coloro che si vogliono impegnare nella via della
preghiera contemplativa, di fare ricorso a un maestro
sperimentato e di seguirne i consigli in uno spirito di totale
sottomissione. "I santi Padri - afferma lo starets Paisi -
dicono che questa santa preghiera è un'arte. La ragione, mi
sembra, che sia la seguente: com'è impossibile ad un uomo
istruirsi in un'arte senza ricevere lezione da un artista
affermato, così è impossibile praticare questa opera
spirituale senza un maestro sperimentato" (7). Ne segue che
ogni conoscenza puramente libresca e razionale dell'opera
spirituale, senza essere accompagnata da un'esperienza
vissuta in intimità con un maestro spirituale, rimane
schematica e totalmente inadeguata.



2. L'invocazione del nome

Abbiamo già brevemente definito la "preghiera spirituale"
come l'invocazione del Nome di Gesù Cristo accompagnata
dall'intelligenza (o spirito) nel cuore. Ora è giunto il
momento di precisare il senso di tale definizione.

Essa afferma, inizialmente, che il contenuto oggettivo
essenziale della preghiera è il Nome di Gesù Cristo. Lo
starets Paisi, al capitolo V del suo opuscolo (8), la descrive
come il fatto di "portare costantemente nel cuore il
dolcissimo Gesù e d'essere infiammato dall'incessante
appello del suo beneamato Nome con un ineffabile amore
per lui" (9). Colpisce che questa definizione stabilisca uno
stretto legame tra il "Nome" e la "Persona" di Gesù Cristo.
Invocare il Nome, è già un portarLo in se. La potenza del
Nome è quella di Cristo stesso. Il fuoco della sua Grazia, si
rivela nel Nome del Signore, infiamma il cuore di un amore
ineffabile e divino. Ogni sorta di interpretazione "psicologica"
e "nominalista" è, qui, sbagliata. La Preghiera di Gesù non è
un esercizio per creare, con una ripetizione meccanica, una
sorta di monoideismo psicologico. Non si tratta di far
funzionare un meccanismo psicologico ma di liberare una
spontanea forza spirituale, quel "grido del cuore" che fa
zampillare, come una sorgente d'acqua viva, la presenza del
Signore, comunicato dalla pronuncia del Nome divino. Il
Nome di Cristo è dunque certamente un'altra cosa che un
semplice segno. È un simbolo, se con questo termine si
designa quello che è lo strumento di una comunicazione
reale con l'oggetto significato. Rivela il Verbo divino e Lo
rappresenta, cioè lo rende presente in una maniera
comparabile a quella dell'icona, rappresenta e attualizza per
il credente, nella Chiesa ortodossa (8 bis), la potenza del
Cristo e dei suoi santi.

Questo spiega come per i diffusori della "preghiera di Gesù",
la recita di essa sia, da una parte un "mezzo", dall'altra il
"fine" stesso della vita spirituale. È un mezzo perché "le
parole sono un aiuto per lo spirito debole che non ama
fermarsi in un luogo e su un solo oggetto". Il grande male di
cui soffre l'umanità decaduta è il disordine interiore, la
dispersione dei pensieri e dei sentimenti che rendono
l'uomo incapace di fissare il suo spirito su Dio. La preghiera,
e più d'ogni altra la Preghiera di Gesù, tende a ricreare
l'unità spirituale e questo non solo perché essa "riassume
in qualche parola molto semplice l'essenza della fede
cristiana", ma perché il Nome di Cristo comunica all'uomo la
forza della Grazia divina con la quale diviene capace di
allontanare le forze demoniache la cui presenza genera
disordine e menzogna. Chiamando in aiuto il Signore Gesù
nella lotta contro il nemico e contro le passioni, l'orante è
testimone della loro sconfitta nel Nome terribile di Cristo e
riconosce la potenza di Dio e del suo aiuto (10).

Ma se, nella lotta contro le forze del Male la cui opera è la
disintegrazione spirituale dell'uomo, la Preghiera di Gesù è
un mezzo, uno strumento, essa trova pure in se stessa il
suo proprio fine. La realtà trascendente di Dio si rivela e si
comunica nel Nome di Gesù Cristo, il fine consiste
nell'assorbirsi nella pronuncia di questo, far rimanere il
Nome, cioè la Persona di Cristo, impossessandosene
nell'intero essere e principalmente nel cuore, affinché lo
stesso suo battito divenga preghiera, glorificazione del Nome
del Signore. Fintanto che la preghiera è meccanica e
celebrale, il fine non è raggiunto. È necessario che lo spirito
in qualche maniera s'immerga nella preghiera, ch'essa
prenda intero possesso di lui affinché l'irraggiamento del
Nome divino penetri fino alle profondità dell'essere e le
rischiari. Questo è il senso delle misteriose parole degli
starets quando esortavano i loro discepoli "a discendere dal
cervello nel cuore" (11). Qui non si tratta d'uno sforzo
puramente intellettuale d'assimilazione del senso delle
parole della preghiera, accompagnato da un certo calore
emotivo. Il Nome di Gesù Cristo contenuto nella preghiera
"apporta" realmente con se la presenza di Dio. Aprirsi a
questa "presenza reale" affinché essa penetri le profondità
più intime del suo spirito e le illumini, è quanto costituisce
lo sforzo dell'orante.

Dal punto di vista soggettivo, ossia, dal punto di vista
dell'ascensione dell'uomo, gli starets hanno l'abitudine di
distinguere due gradi nell' "opera spirituale". (Senza dubbio
in realtà ne esistono un numero infinito, ma questa prima
distinzione è essenziale). Così, secondo la testimonianza
degli "Anziani", ci sarebbe per coloro che si dedicano all'
"opera spirituale" un primo periodo nel quale predomina il
sentimento per lo sforzo personale e il dolore: è la preghiera
attiva o "laboriosa". Il secondo periodo è quello della
preghiera "spirituale" o "carismatica", chiamata anche
"spontanea" (12) o "contemplativa".



3. La preghiera attiva

Affermare che nella frase sull'opera spirituale predomina,
almeno apparentemente, lo sforzo della volontà umana, non
significa che la Grazia sia assente. Ma questa non agisce
che all'insaputa dell'uomo. Egli fatica con il sudore della sua
fronte, ma il suo lavoro non porta alcun frutto. Senza
dubbio è sollecitato dalla Grazia divina, dal momento che
costui decide di consacrare la sua vita a Dio aspirando al
dono della preghiera spirituale. Ma quello che, per iniziare,
gli tocca in sorte, è un lavoro fastidioso, una lotta ardua
contro le passioni, i pensieri malvagi, la noia e la tristezza,
lotta dove molto sovente viene vinto e dalla quale ne esce
estenuato, scoraggiato dalla visione deprimente del suo
peccato e della sua impotenza. È segno della privazione della
Grazia divina? No. Perché è proprio là che essa vuole
condurre: "Il cammino verso la perfezione è il cammino che
conduce alla confessione della mia cecità, della mia povertà,
della mia nudità e, indissolubilmente legata alla coscienza di
questo stato, alla contrizione spirituale, al sentimento
doloroso della nostra impurità, ossia, detto diversamente, al
pentimento perpetuo" (13).

Così, all'ingresso della via che conduce ai gradi supremi
della preghiera mistica, troviamo, secondo l'insegnamento
degli starets russi, l'approfondimento della coscienza del
nostro stato di peccato e la contrizione a causa di tale
peccato.

Forse questo vorrebbe dire che, per i diffusori della
"preghiera spirituale", la lotta attiva contro il male e le opere
ascetiche propriamente dette non contano niente? No. La
lotta contro le passioni i pensieri vani o malvagi, caratterizza
precisamente la prima fase dell'opera spirituale, quella della
"preghiera laboriosa". Anche l'ascetismo ha il suo luogo ben
definito (14). Senza dubbio vale meglio, secondo i Padri,
"cadere e rialzarsi che rimanere in piedi e non pentirsi". Ma
d’altra parte, è spiritualmente pericoloso darsi alla preghiera
in stato di grave peccato. Maledetto colui che si compiace
della sua falsa tranquillità, rassicurandosi all'idea che
nessuno può vivere senza peccare volontariamente o
involontariamente. Al contrario, è salutare all'uomo lottare
virilmente contro il peccato fino allo stremo delle sue forze.
Dopo essere caduto, si rialzerà implorando umilmente l'aiuto
della misericordia di Cristo. Lavorando con pena sarà
veramente vivo e porrà in se il fondamento della vita nuova.
Dunque non esiste alcun quietismo, alcuna passività
lassista e, allo stesso tempo, alcuna confidenza in se e nelle
proprie opere.

Teofane il Recluso ha espresso ancor più chiaramente
questa paradossale esigenza dell'opera spirituale:
"Sforzatevi fino allo sfinimento. Portate le vostre forze fino
all'ultimo grado, ma la stessa opera della vostra salvezza
attendetela solo dal Signore... Il Signore desidera sempre
tutto quanto ci è salutare ed è pronto a donarcela. Attende
solo che noi siamo pronti o capaci di ricevere i suoi doni.
Ecco perché la domanda 'come imparare a conservarmi?' si
muta in quest'altra: 'Come essere sempre pronto a ricevere
la forza salutare che è sempre pronta a discendere dal
Signore su di noi?...' Ed ecco la risposta a questa domanda.
Aprirsi alla grazia ossia 'sapere vuotarsi, privarsi di ragione,
senza forza; sapendo che solo il Signore può, vuole e sa
colmare questo vuoto" (15).

Così lo sforzo morale e spirituale e i successi ascetici che ne
sono la manifestazione non sono fecondi se non conducono
all'umiltà, un'umiltà attiva, che non si compiace dello
spettacolo della miseria umana, ma conduce alla sua
essenziale opera, quella che è sia la confessione della sua
impotenza, sia il segno della sua speranza nella preghiera di
tutti gli istanti: "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me,
peccatore". Per colui che conosce la sua miseria, essa non è
più, in effetti, un' "opera meritoria" gradita a Dio, ma un
grido del cuore, di disperazione e di speranza, un bisogno
irresistibile e perpetuo di chiamare Cristo in aiuto della sua
impotenza nella lotta contro le forze demoniache e le
inclinazioni malvage del proprio cuore, che sono tra loro
complici.



4. Lo spirito d'obbedienza

Prima di parlare dell'opera della preghiera propriamente
detta, è necessario menzionare ancora un'altra condizione
che deve trovar luogo, secondo l'insegnamento degli
"Anziani", in colui che aspira alla preghiera spirituale. Si
tratta dell'acquisizione dello spirito d'obbedienza.
L'obbedienza di cui si parla non è l'obbedienza gerarchica ai
superiori. È la sottomissione al "padre spirituale", scelto
liberamente al quale il novizio (16) si affida totalmente.
"Colui che vuol apprendere l'opera divina deve,
conformemente alle Scritture, sottomettersi all'obbedienza
nel corpo e nell'anima, cioè sottomettersi ad un uomo
timoroso di Dio, che osserva scrupolosamente i
comandamenti divini e sia provato nell'opera spirituale,
rinunciando totalmente alla sua volontà e al proprio
giudizio" (17). L'insegnamento degli starets russi raggiunge
qui la dottrina ascetica degli esicasti greci (18). Ma, forse,
più di loro, pone l'accento sul carattere libero e personale di
quest'atto d'elezione reciproca che implica la paternità
spirituale.

Qual'è il fine di tale obbedienza ascetica? Prima di tutto essa
libera il novizio da ogni pensiero a proposito della sua anima
e del suo corpo e da ogni affezione verso qualsiasi oggetto,
facendo giungere così alla serenità, a questa leggerezza
spirituale che è la condizione della vera libertà. Solo colui
che ha rinunciato alla propria "volontà", ossia alla sua
superficiale individualità, schiavo degli elementi di questo
mondo, è capace di concentrare le sue facoltà sulla
preghiera interiore.

Un altro beneficio dell'obbedienza è quello di allontanare
dalla precipitazione chi, cercando prematuramente degli
stati mistici superiori, cade con sicurezza vittima delle
trappole del Seduttore. Una delle essenziali cause di caduta
nell'opera della preghiera è, in effetti, "l'orgoglio satanico di
coloro che vogliono sondare, prima d'esserne chiamati, i
misteri della grazia". Unico rimedio efficace a tale funesta
impazienza è la sottomissione ai saggi consigli di un "aziano"
capace di discernere il grado di crescita spirituale di colui
che guida facendolo avanzare passo-passo nella via
contemplativa.



5. La pratica della preghiera

Fin'ora abbiamo parlato dell'atmosfera spirituale nella quale
dev'essere intrapresa l'opera della preghiera. Quanto alla
preghiera in se stessa, in apparenza, non sembra
presentare alcuna difficoltà. In effetti, si tratta di ripetere
centinaia e migliaia di volte: "Signore Gesù Cristo, Figlio del
Dio, abbi pietà di me, peccatore" (19). Ma precisamente,
questa semplicità è la sorgente di parecchie tentazioni. Le
anime pure e rozze, come il pellegrino dei Racconti, possono
compiacersi e fare dei rapidi progressi. Ma per la maggior
parte, essa è causa di noia e scoraggiamento. La preghiera
appare loro come un lavoro fastidioso e sterile dal quale lo
spirito tende incessantemente a spogliarsi.

Comunque, non si tratta assolutamente di creare,
attraverso la ripetizione, un'abitudinte puramente
meccanica. Tra i diffusori della Preghiera di Gesù esiste una
reazione vivissima contro il formalismo e il meccanicismo, i
due scogli della preghiera monastica. Come la confidenza
eccessiva nelle opere esterne, nell'ascetismo e nelle
mortificazioni, l'importanza esagerata alla quantità,
nell'opera della preghiera, è sorgente di fariseismo e di vana
soddisfazione di se. Contro coloro che credono di potersi
salvare con l'osservanza d'una regola di preghiera più o
meno lunga, "attraverso il canto dei salmi e dei tropari",
contro coloro che si dedicano all'opera spirituale accordando
troppa attenzione al numero di preghiere da recitare, essi
affermano che non è la "quantità", ma la "qualità" della
preghiera che conta (20).

"Non inquietatevi per il numero delle preghiere da recitare -
scrive a tal proposito Teofane il Recluso - ma il vostro unico
pensiero sia che la preghiera sgorghi dal vostro cuore,
vivente come una sorgente d'acqua zampillante. Allontanate
dal vostro spirito l'idea della quantità" (21). Questa
esortazione può parere paradossale perché, nella pratica
della Preghiera di Gesù, la ripetizione della stessa
implorazione gioca certamente un ruolo essenziale. In
realtà, questa da se stessa non produrrebbe altro che un
effetto puramente psicologico e superficiale. La preghiera
non sarà che un flusso di parole vane, se essa non si
accompagna con ciò che il linguaggio ascetico denomina con
i termini di "attenzione" o "vigilanza" (nepsis in greco).



6. L'attenzione spirituale

In che consiste quest'attenzione spirituale? Bisogna che al
momento della preghiera lo spirito "discenda dal cervello nel
cuore" e che egli "custodisca il cuore". I commentatori
occidentali hanno sovente dato a quest'espressione
un'interpretazione ristretta e superficiale. Riferendosi alla
descrizione d'una certa tecnica psico-fisiologica, che si trova
in parecchi testi esicasti e in particolare nel famoso Metodo
d'orazione esicasta (22), al consiglio dato di concentrare
l'attenzione sul luogo fisico del cuore, trattenendo per un
po' la respirazione e regolando il ritmo di questa su quello
della preghiera, alcuni autori hanno parlato, riguardo alla
"custodia del cuore", d' "omfaloscopia" e hanno visto in
questo un'essenziale caratteristica dell'orazione esicasta.

In realtà, essi hanno confuso una certa tecnica esteriore, la
cui efficacia è, d'altronde, discutibile perfino negli ambienti
favorevoli alla preghiera di Gesù (23), con lo sforzo spirituale
che essa sostiene. La sua vera ragione d'essere, in effetti, è
quella di condurre l'orante a sentire, in una maniera in
qualche sorta fisica - l'autopercezione che noi abbiamo di
noi stessi in quanto esseri fisici è differente a seconda della
parte del corpo sulla quale si fissa l'attenzione (24) - che il
centro della personalità non si trova nel cervello, punto
d'intersezione delle forze spirituali della persona con il
mondo esterno, mondo delle cose "soprapersonali", ma nel
cuore, o piuttosto nelle profondità misteriose dell'essere di
cui il cuore fisico è simbolo (25).

Il ruolo della tecnica è, dunque, puramente strumentale. È
uno strumento temibile che il novizio non deve maneggiare
se non ponendosi sotto la direzione di un maestro sicuro e
sperimentato. Non si tratta né d'esagerare il suo ruolo, né
di minimizzarlo sotto l'influenza d'un certo
pseudo-spiritualismo razionalista che non ha nulla di
cristiano. L'attenzione alla preghiera, condizione della
"discesa dell'intelligenza nel cuore" è, in realtà, una
tensione di tutto l'essere che allontana da se tutto quello
che potrebbe distrarlo dalla sua essenziale opera: quella
della preghiera. È una vigilanza dello spirito e del corpo
nell'attesa del Dio vivente. Essa esige uno sforzo continuo e
cosciente della volontà e trascina con sè, attraverso
appropriati mezzi, la pesante corporeità. Essa comporta un
doppio movimento, il primo di rifiuto e l'altro d'acquiescenza;
rifiuto del mondo da una parte (questo termine nel nostro
contesto non designa il mondo fisico in se, ma "un
erramento dell'anima all'esterno, un tradimento alla propria
natura" (26) sotto l'influenza della Potenza del Male) e,
dall'altra, l'acquiescenza alla volontà di Dio, che si trasforma
in dono e abbandono a lui. Lo spirito "attento" e "sobrio"
(27), si porta dall'esteriore che lo sollecita, agli abissi
interiori del cuore, unico luogo dove, nella luce dello Spirito
Santo, può effettuarsi l'incontro tra la persona umana e la
divinità. "Il Signore cerca un cuore pieno d'amore per lui e
per il prossimo - questo è un trono sul quale ama sedersi e
dove appare nella pienezza della sua gloria", diceva san
Serafim di Sarov (28).

Per meglio comprendere la natura dell'attenzione, conviene
precisare il senso dei termini "cuore" e "spirito" (o
"intelligenza") nel linguaggio mistico della Chiesa d'Oriente.
Il termine russo um, che traduciamo con "spirito" o
"intelligenza", corrisponde all'originale termine greco noûs.
Non designa l'intelletto nello stretto senso razionalista del
termine, ma l'insieme delle facoltà cognitive e contemplative,
la luce della ragione e la coscienza che fa dell'uomo un
essere personale e libero (29). I padri greci, e con loro gli
starets russi, identificano molto sovente lo spirito con
l'immagine di Dio nell'uomo. Impiegando una terminologia
più moderna, potremo chiamarla coscienza personale che
illumina tutte le sfere della vita umana, essa stessa
concepita come un insieme complesso di rapporti con diversi
ordini di realtà (29 bis).

Quanto al "cuore", il termine designa nella Tradizione
orientale il centro dell'essere umano, "la radice delle facoltà
attive, dell'intelletto e della volontà, il punto da dove
proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale"
(30). È la Sorgente, oscura e profonda, da dove sgorga tutta
la vita psichica e spirituale dell'uomo e per la quale egli è
vicino e comunica con la Sorgente stessa della vita. Ne
risulta che tutta la vita spirituale che non tocca il cuore non
è che illusione e menzogna, non avendo alcuna realtà
ontologica, alcuna radice nell'Essere, e che ogni vera
conversione deve cominciare da quella del cuore. In effetti è
alla sorgente che, attraverso il peccato originale, la vita
dell'uomo è viziata e che il fango si mischia con le acque
limpide. Ma "quando la grazia s'impadronisce delle pasture
del cuore, essa regna su tutte le parti della natura, su tutti
i pensieri. Poiché lo spirito e tutti i pensieri si ritrovano nel
cuore" (31).

Secondo sant'Ignazio Brianchaninoff, "la natura spirituale
dell'uomo è doppia. Da una parte si trova il "cuore",
sorgente dei "sentimenti", delle "intuizioni" con i quali
l'uomo conosce Dio direttamente senza la partecipazione
della ragione. Dall'altra parte la "testa" (o il cervello), sede
del chiaro pensiero dell'intelligenza" (32). L'integrità della
persona umana risiede nel rapporto armonioso tra queste
due forze spirituali. Senza la partecipazione dell'intelligenza,
le intuizioni del cuore restano oscuri impulsi. ugualmente,
senza il cuore, che è il centro di tutte le attività e la radice
profonda della propria vita, l'intelletto-spirito è impotente.

Ontologicamente, la conseguenza essenziale della Caduta
per l'uomo è precisamente questa disgregazione spirituale
con la quale la personalità è privata del suo centro e
l'intelligenza si disperde nel mondo esterno. Luogo di
questa dispersione della personalità nel mondo delle cose è
la testa, il cervello, dove i pensieri "turbinano come dei
fiocchi di neve o sciami di mosche estive" (33). Con il
cervello, lo spirito conosce un mondo esteriore e, allo stesso
tempo, perde il contatto con i mondi spirituali e con il cuore
che, così accecato e impotente, opprime oscuramente la
realtà. Per ricostruire la persona nella grazia, bisogna
dunque ritrovare un rapporto armonioso tra l'intelligenza e il
cuore.

Qoelèt
09-03-02, 02:36
7. Il silenzio dell'anima

Il ritorno cosciente e volontario dell'intelletto-spirito verso
gli abissi interiori del cuore esige, a sua volta, la rottura
totale con il mondo. Colui che vuole darsi all'opera spirituale
deve allontanarsi da ogni percezione esteriore, "distaccarsi
da tutti gli oggetti visibili... (e fermare) gli occhi di carne"
(34). Essendo divenuto cieco al mondo, deve pure divenire
"sordo e muto" (35) rinunciando, almeno provvisoriamente, a
ogni conversazione umana.

Ma il silenzio esteriore non è che la preparazione e il segno
d'un silenzio dell'anima infinitamente più profondo. Poiché
non devono essere solo allontanate le percezioni sensibili e
le parole, ma ogni desiderio, ogni pensiero, ogni immagine,
pure santa che sia, tutto ciò che attira lo spirito all'
"esterno", al di fuori di questo luogo del cuore dove non
conosce che la sua miseria e il Nome che la salva. Su questo
silenzio di totale nudità, san Serafim di Sarov ha detto che è
"una croce sulla quale l'uomo si crocefigge con tutte le sue
passioni e concupiscenze", è "passione sofferta con il
Cristo", ma anche "mistero del secolo futuro" (36). In effetti,
è in lui che lo spirito ha accesso al santuario mistico del
cuore dove troverà il suo Dio.

Questa è la via della "preghiera laboriosa", via stretta e
dolorosa. Asprezza, nudità d'un deserto spirituale dove il
viandante deve volontariamente chiudere gli occhi da ogni
miraggio consolatore. Poiché bisogna rigettare non
solamente ogni immagine terrestre ma quelle stesse che
sembrano d'origine divina, le "visioni", le "voci", le "dolcezze"
apparentemente celesti, ma che sovente non sono che il
frutto d'uno psichismo guastato dalla concupiscenza, le
mortificazioni eccessive dove il desiderio impaziente di
anticipare l'ora della grazia cerca delle pseudo-soddisfazioni
nel sogno e nell'immaginazione. Anche la saggezza esige nel
momento dell'orazione, soprattutto all'inizio dell'opera
spirituale, di non rappresentare assolutamente neppure le
immagini di Dio proposte dalle Sacre Scritture, sulle quali
può essere utile meditare in altri momenti. È questo il vero
digiuno, la santa "sobrietà" di coloro la cui anima si nutre
unicamente di preghiera e di fede. La preghiera, in effetti,
non è l'opera dell'immaginazione, ma della fede.

La più semplice regola riguardante la preghiera è quella
di non rappresentare nulla, avendo concentrato lo spirito
nel cuore, di rimanere nella convinzione che Dio è vicino,
che vede ed ascolta; di prosternarsi davanti a colui che è
terribile nella sua grandezza e vicinanza e nella sua
condiscendenza verso noi... bisogna sforzarsi di pregare
senza immagini di Dio. Conservare nel cuore la fede che
Dio è presente, ma, dal momento che lo è, non
rappresentarlo neppure. (Teofane il Recluso) (37).

Così la via spirituale dell'orante passa attraverso il deserto,
ma non cammina certo nelle tenebre. La luce, pura e
completamente immateriale che lo guida, è la fede, che
schiarisce la sola immagine dove lo spirito trova un punto
d'appoggio, il Nome beneamato di Gesù Cristo. L'attenzione
alla preghiera è, in realtà, un'attenzione nella fede.

Effettivamente, anche se perviene al grado supremo di
concentrazione delle sue forze psichiche e spirituali, l'uomo
non è capace di ricreare in se l'unità persa dello spirito e del
cuore. Può solamente fare nella sua anima questo silenzio e
vuoto che sono il segno sia d'una tensione estrema, sia d'un
abbandono totale, segno dell'attesa, della speranza e della
fede, del dono dello Spirito Santo.

Qoelèt
09-03-02, 02:43
http://digilander.iol.it/ortodossia/cordadipreghiera.gif
Il termine esicasmo deriva dal greco e
significa quiete, raccoglimento. La
preghiera esicasta è una preghiera
strettamente legata alla preghiera del
cuore, alla preghiera di Gesù e
costituisce una pratica importante
all’interno dell’Ortodossia. Bisogna
distinguere la preghiera esicasta nella
sua essenza da tutte le particolari
pratiche ed esercizi che la possono
costituire. Questi ultimi possono
anche variare e hanno un valore
relativo tant’è che la preghiera
esicasta, nella sua essenza non è altro
che l’unione con Dio, la deificazione.

La deificazione legata alla pratica
della preghiera esicasta ha
provocato una grande controversia
all’epoca di San Gregorio Palamas.
San Gregorio fu il difensore della
preghiera esicasta e ha avuto il
merito di dimostrare che è
possibile su questa terra l’unione
e la conoscenza di Dio,
distinguendo, senza per altro
averlo inventato, la natura divina
dalle sue energie. Secondo San
Gregorio Palamas e secondo la
prassi spirituale ortodossa Dio è
inconoscibile nella sua Natura ma
si rivela nelle sue Energie dette
anche Attributi (Bellezza,
Saggezza, Amore, ecc.).

Il fine di chi prega nell’esychia è dunque la conoscenza di
Dio, non una conoscenza intellettuale, ma una conoscenza
del cuore (che non significa del sentimento!), cioè nel
profondo dell’uomo. Nella preghiera esicasta si cerca
precisamente di fare discendere l’intelletto nel cuore e si
ferma ogni genere di pensiero.

La preghiera di Gesù è una preghiera giaculatoria ossia
breve e consiste nella ripetizione ininterrotta delle seguenti
parole : "Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio, abbi pietà di
me peccatore". Inizialmente tale preghiera viene detta con le
labbra ad alta voce e successivamente viene interiorizzata
sempre più man mano che si avanza spiritualmente.
Associata al respiro essa si unisce a tutto l’essere umano, al
corpo e all’anima. Presuppone assolutamente la
purificazione dalle passioni e la tensione verso lo stato
paradisiaco nel quale l’uomo torna nuovamente ad essere
familiare con Dio. In tale situazione tutte le facoltà umane
sono riunite armonicamente.

La preghiera liturgica, la lettura del salterio e tutte le altre
forme di preghiera hanno lo stesso fine ma la preghiera del
cuore è la preghiera per eccellenza, perché grazie alla sua
semplicità, può aiutare qualunque uomo. Così viene
denominata semplicemente "la preghiera".

Tale preghiera suppone che l’uomo faccia silenzio dentro di
se che fermi pure il fluire dei pensieri e soprattutto che lotti
contro le passioni che lo ostacolano in tale impegno
spirituale.

Alcune tecniche come quelle di
sedersi, d’inclinare la testa, di
trattenere il respiro per
riemetterlo ritmicamente,
d'indirizzare il proprio pensiero
verso il cuore, ecc. aiutano la
preghiera. Ma non sono
assolutamente equiparabili a
pratiche magiche che
promettono una buona riuscita.
La preghiera, infatti, suppone
assolutamente una direzione
spirituale nella Chiesa ortodossa
senza la quale potrebbe pure
essere pericolosa, deludente e
fuorviante. La preghiera, infatti,
non si può enucleare dall'ambito
ecclesiale nel quale si esprime anche perché suppone un ambiente
e un orientamento teologico coerenti ad essa. I padri spirituali che
vivono il loro carisma nell'Ortodossia hanno alle loro spalle
un'esperienza che non è solo personale. Ereditano una tradizione
profondamente radicata nell'alveo ecclesiale grazie alla quale non è
possibile scambiare la preghiera di Gesù con una pratica yoga, con
un esercizio antropocentrico o con qualcosa di puramente
psicologico e consolatorio. Inoltre, nell'Ortodossia il novizio in tale
pratica è aiutato a non scambiare dei fenomeni completamente
naturali per effetto della Grazia e quindi viene preservato dal
gonfiarsi di presunzione.

Il Racconto di un pellegrino russo ha fatto scoprire
all’Occidente disseccato dal razionalismo l'esistenza della
preghiera del cuore. Attraverso la sua esperienza, il
pellegrino mostra che pure un semplice contadino può
arrivare al più alto grado della preghiera. Tale preghiera è
molto diffusa nel mondo ortodosso. Chi non ha visto
cristiani o monaci nelle chiese segnarsi e bisbigliare
pregando mentre le loro dita scorrono tra i nodi di una
corda ? La corda di preghiera è detta in greco komvoskini.
Questa pratica può avvenire anche durante le ufficiature
liturgiche.

Un uomo formato dalla cultura occidentale non può capire
tutto ciò perché per lui non può coesistere la preghiera
liturgica e quella personale. Ignora, infatti, che la preghiera
ortodossa non è discorsiva ma contemplativa, che ha sede
nel cuore non nella mente. Nulla infatti impedisce che lo
sguardo si fissi su un’icona dal momento che, mentre gli
occhi contemplano l’icona, il cuore si trova esattamente a
vivere la stessa situazione. Così non è proebito far
partecipare tutto il corpo alla preghiera con delle metanie e
dei segni di croce. Quando la preghiera, con l’attento aiuto
di un padre spirituale esperto che la pratica, è giunta al suo
grado più elevato l’attività umana si sospende tranne quella
spirituale poiché è lo Spirito che s'impossessa
completamente dell’uomo. Comunque, prima di giungere a
tale stadio, l’uomo collabora meglio che può alla preghiera in
sinergia con l’attività dello Spirito Santo.
http://digilander.iol.it/ortodossia/ElderPaisios.gif

Qoelèt
09-03-02, 02:50
Ti posto infine l'ultimo documento che,personalmente,ritengo anche il più interessante:
http://digilander.iol.it/ortodossia/esychia.jpg
I. I DIFFERENTI LIVELLI DELL'ESYCHIA

Una delle storie dei "Detti dei Padri del deserto" descrive
una visita di Teofilo, arcivescovo di Alessandria. ai monaci di
Scete. Ansiosi di fare una buona impressione al loro illustre
ospite. i monaci riuniti chiesero all'abate Pambo: "Di'
qualcosa di edificante all'Arcivescovo". Ed il vecchio rispose:
"Se non è edificato dal mio silenzio, tanto meno sarà
edificato dalle mie parole". Questa storia indica l'estrema
importanza data dalla tradizione del deserto alla esychia, la
qualità dell'immobilità e del silenzio. "Dio ha scelto l'esychia
al di sopra di ogni altra virtù" è detto altrove nei "detti dei
padri del deserto". Come insiste S. Nilo di Ancira: "È
impossibile che l'acqua infangata si possa chiarificare se si
continua a rimestarla; ed è impossibile diventare monaco
senza l'esychia".

Esychia, comunque, significa ben di più della semplice
astenzione dal parlare fisico. Il termine può essere invece
interpretato a molti livelli differenti. Tentiamo di distinguere
i vari significati, partendo dai più esteriori per arrivare ai più
profondi ed interiori.



1. Esychia e solitudine

Nelle fonti più antiche il termine "esicasta" e il relativo verbo
"esichazo" generalmente denota un monaco che vive in
solitudine, da eremita, a differenza di quelli che sono
membri di un cenobio. Questa accezione si ritrova già in
Evagrio pontico ( + 399) e in Nilo e Palladio (inizi V secolo). Si
ritrova pure nei "Detti dei Padri del deserto", in Cirillo di
Scitopoli, in Giovanni Mosco, Barsanufio, e nella legislazione
di Giustiniano. Il termine esychia continua ad essere
adoperato con questo significato anche in autori posteriori,
come in S. Gregorio il Sinaita ( + 1346). A questo livello il
termine si riferisce soprattutto alla relazione, nello spazio,
di un uomo in rapporto ad altri. Questo è il significato più
esteriore.



2. Esychia e la spiritualità della cella

"Esychia - dice l'abate Rufo nei "Detti" - è dimorare nella
propria cella nel timore e nella conoscenza di Dio,
astenendosi completamente dal rancore e dalla vanagloria.
Tale esychia è madre d'ogni virtù e protegge il monaco dalle
frecce infuocate del nemico". Rufo continua mettendo
l'esychia in relazione col ricordo della morte e conclude
dicendo: "Siate vigilanti sulla vostra anima". Esychia è qui
associata con un altro termine chiave della tradizione del
deserto, "nepsis", sobrietà spirituale o vigilanza. Quando
"esychia" è collegata con la cella, il termine si riferisce
ancora alla situazione esterna, dell'esicasta nello spazio; ma
questo significato è allo stesso tempo più interiorizzato e
spirituale. L'esicasta, nel senso di uno che rimane con
attenta vigilanza nella sua cella, non è sempre essere un
solitario, ma può essere anche un monaco vivente in
comunità. L'esicasta è, allora, uno che obbedisce
all'ingiunzione di Abba Mosè: "Vai a sederti nella tua cella e
la tua cella ti insegnerà tutto". Egli tiene a mente il consiglio
che Arsenio diede ad un monaco che desiderava fare opera
di servizio caritatevole: - Qualcuno domandò ad Arsenio, "I
miei pensieri mi tormentano dicendomi: - Non puoi
digiunare, né lavorare: almeno vai a visitare gli infermi, che
questo è pure una forma di amore". L'anziano, riconoscendo
i germi seminati dal demonio, gli disse: - "Vai, mangia, bevi
e dormi senza fare alcun lavoro; solamente non lasciare la
tua cella". Perché egli sapeva che la permanenza paziente in
cella, porta il monaco al compimento della sua vocazione.

La relazione tra esychia e la cella è chiaramente definita in
un famoso detto di S. Antonio d'Egitto: "I pesci muoiono se
s'attardano in terra asciutta; similmente i monaci, quando
ciondolano fuori della cella o passano il loro tempo con
uomini del mondo, perdono il tono della loro esychia".

Il monaco che rimane nella cella è come la corda d'uno
strumento accordato. L'esychia lo mantiene in uno stato di
alerte prontezza, ma non di tensione ansiosa nè di
sovraffaticamento; ma se egli ciondola fuori della cella la sua
anima diviene grassa e flaccida.

La cella, compresa come struttura esterna dell'esychia, è
vista soprattutto come un laboratorio di incessante
preghiera. La principale attività del monaco, quando rimane
immobile e in silenzio nella sua cella, è il continuo ricordo di
Dio, accompagnato da un senso di compunzione e di
cordoglio. "Siedi nella tua cella", dice abba Ammonas a un
vecchio che si propone d'adottare qualche ostentata forma
d'ascetismo, "mangia un poco ogni giorno ed abbi sempre
nel suo cuore le parole del pubblicano. Allora potrai essere
salvato".

Le parole del pubblicano "Dio abbi compassione di me
peccatore" sono strettamente parallele alla formula della
preghiera di Gesù, come si trova a partire dal VI secolo in
Barsanufio, nella vita di abbà Filemon ed altre fonti.
Ritorneremo a tempo debito all'argomento dell'esychia e
della invocazione del nome. La clausura della cella
monastica e il nome di Gesù sono esplicitamente connessi
in una frase di Giovanni di Gaza a proposito del suo
confratello eremita Barsanufio: "La cella in cui è rinchiuso
vivo come in una tomba, per amore del nome di Gesù, è il
suo luogo di riposo; nessun demone vi entra, neppure il
principe dei demoni, il Diavolo. È un santuario perché
contiene la dimora di Dio".

Per l'esicasta, dunque, la cella è casa di preghiera,
santuario e luogo d'incontro tra uomo e Dio. Tutto ciò è
espresso con particolare efficacia nel detto "La cella dal
monaco è la fornace di Babilonia, in cui i tre fanciulli
trovarono il Figlio di Dio; è la colonna di nubi da cui Dio
parlò a Mosè". Questa nozione della cella come punto focale
della Presenza divina, si ritrova nelle parole d' un eremita
copto contemporaneo, Abuna Matta al-Mesin.

Quando un visitatore gli chiese se avesse mai pensato di
andare in pellegrinaggio ai luoghi santi, egli rispose:
"Gerusalemme. la santa, è qui, dentro e attorno queste
caverne, perché che altro è la mia caverna se non il luogo in
cui nacque il mio Salvatore, Cristo; che altro è la mia
caverna se non il luogo in cui Cristo, mio Salvatore, fu
condotto al riposo, che altro è la mia caverna se non il luogo
da cui Egli al massimo della gloria risorse dai morti?
Gerusalemme è qui, proprio qui, e tutte le ricchezze
spirituali della città santa si possono trovare in questa
radura".

A questo punto, ci stiamo muovendo velocemente dal
significato esteriore a quello più interiore del termine
"esychia".

Interpretato in termini di spiritualità della cella, la parola
significa non solo una condizione esteriore, fisica, ma anche
uno stato dell'anima. Denota l'attitudine d'uno che sta nel
suo cuore di fronte a Dio.

"La cosa principale" dice il vescovo Teofane il Recluso
(1815-94) "è stare di fronte a Dio con la mente nel cuore, e
continuare a restare di fronte a Lui incessantemente, notte
e giorno, fino al termine della vita".

E questo è, praticamente, ciò che la quiete ed il silenzio
significano per l'esicasta.



3. Esychia e il "ritorno in sé stessi"

Questa comprensione più interiorizzata di "esychia" è
perfettamente espressa nella definizione classica
dell'esicasta come la ritroviamo in S. Giovanni Climaco ( +
ca. 649): "L'esicasta è uno che cerca di confinare il suo
essere incorporeo nella sua casa corporea, per quanto ciò
possa parere paradossale". L'esicasta, nel vero senso del
termine, non è qualcuno che ha viaggiato all'esterno verso il
deserto, qualcuno che si separa fisicamente dagli altri,
chiudendo la porta della sua cella, ma uno che "ritorna in sé
stesso" chiudendo la porta della sua mente. "Ritornò in sé"
è detto del figliuol prodigo e questo è ciò che anche
l'esicasta fa. Egli risponde alle parole di Cristo "Il Regno di
Dio è dentro di voi" e cerca di "guardare il cuore con tutta
l'attenzione" (Pr. 4,23).

Reinterpretando la nostra definizione originale dell'esicasta
come di un solitario che vive nel deserto, possiamo dire che
la solitudine è uno stato dell'anima, non un fatto di
collocazione geografica, il deserto reale si trova dentro, nel
cuore.

Il "ritorno in sé" è descritto con precisione da S. Basilio il
Grande ( + 379) e da S. Isacco di Siria (VII sec.). "Quando la
mente non è più dispersa nelle cose esterne", scrive Basilio,
"né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa
ritorna in sé; e per mezzo di sé stessa ascende al pensiero
di Dio".

"Siate in pace con la vostra anima" intima Isacco, "e allora
cielo e terra saranno in pace con voi. Entrate prontamente
nel tesoro che è dentro di voi, e così vedrete le cose che
sono in cielo; perché una sola è l'entrata che conduce ad
entrambi. La scala che porta al Regno è nascosta nella
vostra anima. Sfuggite il peccato, immergetevi in voi stessi,
e nella vostra anima scoprirete la scala su cui ascendere".

A questo punto sarà utile fare una breve pausa e
distinguere con maggior precisione tra i significati interiore
ed esteriore della parola "esychia".

In un famoso detto di abba Arsenio si indicano tre livelli.
Quando era ancora tutore dei figli dell'imperatore nel
palazzo, Arsenio pregò Dio: "Mostrami come posso essere
salvato". E una voce rispose: "Arsenio. sfuggi dagli uomini e
sarai salvato". Egli si ritirò nel deserto e divenne un
solitario; e poi pregò ancora, con le stesse parole. Questa
volta la voce rispose: "Arsenio, sta' lontano, sta, in silenzio,
sta' in quiete, perché queste sono le radici della libertà del
peccato". Fuggire gli uomini, restare in silenzio, rimanere in
quiete: tali sono i tre gradi dell'esychia. Il primo è spaziale, il
"fuggire gli uomini", esternamente, fisicamente. Il secondo è
ancora esterno, il "rimanere in silenzio", il desistere dal
parlare. Nessuna di queste cose può trasformare un uomo
in un reale esicasta; perché anche se vive in una solitudine
esteriore e tiene la bocca chiusa, può essere interiormente
pieno di irrequietezza e agitazione. Per conseguire la vera
quiete è necessario passare dal secondo livello al terzo,
dall'esychia esterna a quella interiore, dalla mera privazione
di parlare a quella che S. Ambrogio di Milano chiama
"Negotiosum silentium", il silenzio attivo e creativo.

S. Giovanni Climaco distingue gli stessi tre livelli: "Chiudi la
porta della tua cella materialmente, la porta della lingua al
parlare, e la porta interiore ai cattivi spiriti". Questa
distinzione tra i livelli di esychia, ha importanti implicazioni
per i rapporti dell'esicasta con la società.

Uno può fuggire nel deserto visibilmente e geograficamente,
e pure nel cuore rimanere ancora nel mezzo della città;
inversamente un uomo può continuare a restare fisicamente
nella città ed essere esicasta vero nel cuore.

Per un cristiano ciò che importa non è la posizione spaziale,
ma il suo stato spirituale. È vero che alcuni scrittori
dell'oriente cristiano, e in particolare S. Isacco di Siria, sono
giunti molto vicino all'affermazione che non ci può essere
esychia interiore senza solitudine esteriore. Ma questo non
è certo opinione comune. Ci sono storie nei "Detti", in cui
laici, completamente impegnati in una vita di servizio attivo
nel mondo, sono paragonati ad eremiti e solitari; un dottore
d'Alessandria è considerato, per esempio, spiritualmente
pati a S. Antonio il grande stesso. S. Gregorio il Sinaita
rifiutò la tonsura ad un suo discepolo chiamato Isidoro, e lo
rimandò da Monte Athos a Tessalonica, per essete di
esempio e guida ad un gruppo di laici. Ben difficilmente
Gregorio avrebbe potuto fate questo, se avesse considerato
la vocazione di esicasta urbano come una contraddizione. S.
Gregorio Palamas insiste, nella maniera più chiara, che il
comando di S. Paolo "pregate incessantemente" si applica a
tutti i cristiani senza eccezioni. A questo proposito si
dovrebbe ricordare che, quando scrittori ascetici greci. come
Evagrio o Massimo il confessore, usano i termini "vita attiva"
e "vita contemplativa" per essi "vita attiva" non significa la
vita di servizio diretto al mondo, come la predicazione,
l'insegnamento, il lavoro sociale ecc., ma la battaglia
interiore per sottomettere le passioni ed acquistare le virtù.
Usando il termine in questa accezione, si può dire che molti
eremiti e molti religiosi viventi in stretta clausura, sono
ancora coinvolti nella "vita attiva".

E così ci sono uomini e donne completamente impegnati
nella vita di servizio al mondo che pure posseggono la
preghiera del cuore; e di essi si può dire che vivono la "vita
contemplativa". S. Simeone il nuovo teologo ( + 1022)
affermava che la pienezza della visione di Dio è possibile
"nel mezzo delle città" come "nelle montagne e nelle celle".
Egli credeva che persone sposate, con lavori secolari e
bambini, e gravati delle ansietà di condurre una grande
famiglia, potessero nondimeno ascendere le vette della
contemplazione; S. Pietro aveva obblighi familiari eppure il
Signore lo chiamò a salire il Tabor e ad assistere alla gloria
della trasfigurazione. Il criterio non sta nella situazione
esterna, ma nella realtà interna. E così come è possibile
vivere nella città ed essere esicasta, ci sono analogamente
alcuni il cui dovere è di parlare sempre e che tuttavia sono
interiormente in silenzio. Secondo le parole di abba Poen,
"un uomo appare rimanere silenzioso e pure condanna gli
altri in cuore: una tal persona sta parlando tutto il tempo.
Un altro parla da mattina a sera eppure resta in silenzio;
cioè, egli non dice nulla all'infuori di ciò che è utile agli
altri".

Ciò concorda esattamente con la posizione degli startsi
come S. Serafino di Sarov e i padri spirituali di Optimo della
Russia del XIX secolo: costretti dalla loro vocazione a
ricevere un flusso interminabile di visitatori - dozzine e
anche centinaia in un sol giorno - non perciò tralasciavano
la loro esychia interiore. Invero, era proprio a causa di
questa esychia interiore che potevano agire da guida agli
altri. Le parole che dicevano a ciascun visitatore erano
cariche di potere, perché erano parole che provenivano dal
silenzio. In una delle sue risposte, Giovanni di Gaza fece
una chiara distinzione tra silenzio interiore ed esteriore. Un
fratello vivente in una comunità che trovava nei suoi doveri
di lavoro come falegname una causa di disturbo e
distrazione chiese, se non avesse dovuto divenire eremita e
"praticare il silenzio di cui i padri parlano". Giovanni non fu
d'accordo "come i più" rispose "tu non capisci cosa s'intende
col silenzio di cui parlano i padri. Silenzio non consiste nel
tenere la bocca chiusa. Un uomo può dire diecimila parole
utili, e ciò vale come silenzio; un altro dice una sola parola
non necessaria, ed è rompere il comandamento del Signore:
Nel giorno del giudizio renderete conto di ogni parola oziosa
che esce dalla vostra bocca".



4. Esychia e povertà spirituale

La quiete interiore, quando è intesa come custodia del cuore
e ritorno in sé, implica un passaggio dalla molteplicità
all'unità, dalla diversità alla semplicità e alla povertà
spirituale. Per usare la terminologia di Evagrio, la mente
deve diventare "nuda". Questo aspetto dell'esychia è reso
esplicito in un'altra definizione di S. Giovanni Climaco:
"Esychia è mettere da parte i pensieri". In ciò egli adatta
una citazione di Evagrio "preghiera è mettere da parte i
pensieri". La esychia implica un progressivo
autosvuotamento, in cui la mente è spogliata di tutte le
immagini visuali e di tutti i concetti umani, e così contempla
in purezza il mondo di Dio. L'esicasta, da questo punto di
vista, è uno che è avanzato dalla "praxis" alla "theoria". Dalla
vita attiva alla contemplativa. S. Gregorio dei Sinai
contrappone l'esicasta al "praktikos" e continua a parlare
"degli esicasti che son contenti di pregare a Dio solo nel loro
cuore e di astenersi dai pensieri". L'esicasta, quindi, non è
tanto uno che s'astiene dall'incontrare e parlare con gli altri,
quanto chi, nella sua vita di preghiera, rinuncia ad ogni
immagine, ogni parola, e ragionamento discorsivo, e che è
"sollevato al di sopra dei sensi nel puro silenzio".

Questo "puro silenzio", sebbene sia denominato "povertà
spirituale", è lontano dall'essere una semplice assenza o
privazione. Se l'esicasta spoglia la propria mente da ogni
concetto di provenienza umana, per quanto sia possibile, il
suo scopo in questo "autoannullamento" è del tutto
costruttivo. Che egli possa essere riempito
dall'Onnicomprensivo senso della presenza Divina, è fatto
notare bene da S. Gregorio il Sinaita: "Perché dilungarsi nel
parlare? La preghiera è Dio, che fa ogni cosa in ogni uomo".

"La preghiera è Dio"; "non è tanto qualcosa che io faccio, ma
qualcosa che Dio sta facendo in me" ... "non io, ma Cristo in
me" .

Il programma dell'esicasta è delineato esattamente nelle
parole del Battista riguardo al Messia: "Egli deve crescere
ma io diminuire".

L'esicasta cessa le sue attività, non per essere ozioso, ma
per entrare nella attività di Dio. Il suo silenzio non è
assenza, non è negativo - una pausa vuota tra due parole,
un breve riposo prima di riprendere il discorso - ma del
tutto positivo; un'atteggiamento di attenzione alerte, di
vigilanza, e soprattutto di ascolto. L'esicasta è per
eccellenza colui che ascolta, che è aperto alla presenza di
un Altro: "Stai in quiete e sappi che io sono Dio" .

Nelle parole di S. Giovanni Climaco "L'esicasta è uno che
dice dormo, ma il mio cuore resta vigile" . Ritornando in sé
stesso, l'esicasta entra nella camera segreta del suo cuore e
può così, restando là di fronte a Dio, ascoltare il linguaggio
senza parole del suo creatore. "Quando preghi" osserva uno
scrittore ortodosso contemporaneo della Finlandia "devi tu
stesso star in silenzio e lasciar parlare la preghiera". - o più
esattamente - lasciar parlare Dio. L'uomo dovrebbe sempre
star zitto e lasciar Dio solo parlare". Questo è ciò che
l'esicasta mira ad ottenere. Esychia perciò denota la
transizione della "Mia" preghiera alla preghiera di Dio che
opera in me - o per usare una terminologia del vescovo
Teofane - dalla preghiera strenua o laboriosa, alla preghiera
'che agisce da sé' o che 'muove da sé'.

Il vero silenzio interiore o esychia, nel senso più profondo, è
identico all'incessante preghiera dello Spirito Santo dentro
di noi.

Come dice S. Isacco di Siria "Quando lo Spirito prende
dimora in un uomo questi non cessa di pregare, perché lo
Spirito continuerà a pregare costantemente in lui. Allora né
nel sonno, né nella veglia, la preghiera potrà essere
separata dalla sua anima; ma quando mangia, quando beve,
quando giace e quando fa qualsiasi lavoro, i profumi della
preghiera saliranno spontaneamente dal suo cuore".

Altrove S. Isacco paragona questo entrare nella preghiera
spontanea, ad un uomo che varca una porta, dopo che la
chiave è stata girata nella serratura, e al silenzio dei servi
quando il padrone sopraggiunge fra loro. "Ciò che avviene in
seguito è l'ingresso nel tesoro. A questo punto ogni bocca
ed ogni lingua tace. Il cuore, tesoriere dei pensieri, la
mente, che governa i sensi, e lo spirito, quell'uccello veloce,
tutti debbono stare quieti; perché è arrivato il padrone della
casa". Compresa in questo senso, come ingresso nella vita e
nell'attività di Dio, l'esychia è qualcosa che, durante l'età
presente, gli uomini possono ottenere solo ad un grado
limitato e imperfetto. È una realtà escatologica, che è
riservata nella sua pienezza nell'età a venire. Nelle parole di
Isacco "Il silenzio è un simbolo del mondo futuro".

Qoelèt
09-03-02, 03:04
http://digilander.iol.it/ortodossia/Iosif.jpg
II. ESYCHIA E PREGHIERA DI GESU'

La "preghiera di Gesù" consiste nel ripetere incessantemente la
seguente invocazione: "Signore, Gesù Cristo, Figlio del Dio
vivente, abbi pietà di me, peccatore". Ogni invocazione può
essere ritmata con la respirazione e conteggiata con un apposito
cordoncino composto di nodi (komboi) il cui nome è
komboskini. La foto sottostante raffigura il venerato padre
Giuseppe (+ 15 agosto 1959) gran praticante di questa preghiera.

In linea di principio esychia è
un termine generico per la
preghiera interiore, ed
abbraccia una varietà di più
specifici modi di pregare. In
pratica, comunque, la
maggioranza degli scrittori
ortodossi più recenti, usano la
parola per designare un
sentiero spirituale in
particolare: l'invocazione del
nome di Gesù.
Occasionalemnte, sebbene
con minor giustificazione, il
termine "esicasmo" è
impiegato in un senso ancor
più ristretto ad indicare la
tecnica fisica e gli esercizi di respirazione che talvolta sono
usati in connessione con la "preghiera di Gesù".

L'associazione dell'esychia col nome di Gesù e, come
sembra, col respiro - si ritrova già in S. Giovanni Climaco:
"Esychia è restare di fronte a Dio in incessante adorazione.
Fate che il ricordo di Gesù sia unito al vostro respiro e
allora conoscerete il valore dell'esychia". Qual'è la relazione
tra preghiera di Gesù ed esychia? In che modo l'invocazione
del Nome aiuta il raggiungimento del silenzio interiore, ora
descritto?
La preghiera, è stato detto, è "metter da parte i pensieri",
un ritorno dal molteplice all'unità. Ora chiunque faccia un
serio sforzo di pregare interiormente, stando di fronte a Dio,
con attenzione raccolta, diviene immediatamente conscio
della sua disintegrazione interiore - della sua incapacità di
concentrarsi nel momento presente, nel "Kairos".
I pensieri si muovono senza posa nella testa, come mosche
ronzanti (vescovo Teofane) o come il capriccioso saltare di
ramo in ramo delle scimmie (Ramakrishna). Questa
mancanza di concentrazione, questa incapacità di essere qui
ed ora con l'intero essere, è una delle più tragiche
conseguenze della caduta. Che si deve fare? La tradizione
ascetica dell'Oriente ortodosso distingue due principali
metodi per superare i "pensieri". Il primo è diretto:
contraddire i nostri "logismi", incontrarli faccia a faccia,
tentando di espellerli per uno sforzo di volontà. Un tal
metodo può, comunque, dimostrarsi controproducente.
Quando sono represse con violenza, le nostre fantasie,
tendono a tornare con forza accresciuta. A meno che si sia
estremamente sicuri di sé; è più sicuro usare il secondo
metodo che è indiretto. Invece di combattere direttamente i
pensieri e cercare di scacciarli con uno sforzo di volontà, si
può cercare di distogliere l'attenzione da essi e guardare
altrove. La strategia spirituale diviene così positiva invece
che negativa: l'obiettivo immediato non è tanto svuotare la
mente da ciò che è male, quanto di riempirla di ciò che è
buono. E questo secondo metodo che è raccomandato da
Barsanufio e Giovanni di Gaza. "Non contraddire i pensieri
suggeriti dai tuoi nemici" consigliano "perché è esattamente
ciò che vogliono, e non desisteranno. Ma rivolgiti al Signore
per ricevere aiuto contro di essi, ponendo di fronte a Lui la
tua impotenza; perché Lui è capace di espellerli e di ridurli a
niente".
È evidente che non è possibile fermare il flusso dei pensieri
con un violento sforzo della volontà. È di poco o di nessun
valore il dire a noi stessi "smetti di pensare"; si potrebbe
dire ugualmente "smetti di respirare". "La mente razionale
non può restare oziosa" insiste S. Marco il monaco. Come
posso conseguire, la povertà spirituale ed il silenzio
interiore? Anche se non è possibile far desistere
completamente l'inquieta intelligenza dalla sua instabilità,
ciò che si può fare è semplificare e unificare la sua attività
ripetendo in continuazione una certa formula di preghiera.
Il flusso di immagini e pensieri continuerà, ma si sarà
gradualmente resi capaci di distaccarci da esso.
L'invocazione ripetuta ci aiuterà a "lasciare andare" i
pensieri presentatici dal nostro io conscio o inconscio.
Questo "lasciar andare" sembra corrispondere a ciò che
Evagrio aveva in animo quando parlava della preghiera come
di un "mettere da parte" i pensieri. Non un selvaggio
conflitto, non una campagna spietata di furiosa aggressione,
ma un gentile eppur persistente atto di distacco.
Tale è la psicologia ascetica presupposta nell'uso della
preghiera di Gesù. L'invocazione del nome ci aiuta a
focalizzare la nostra personalità disintegrata su un singolo
punto. "Attraverso il ricordo di Gesù Cristo" scrive Filoteo
del Sinai (IX-X sec.) "raccogliete la vostra mente dispersa".
La preghiera di Gesù è da considerarsi come un
'applicazione del secondo metodo: l'indiretto, di combattere i
pensieri; invece di cercare di scordare le nostre corrotte e
triviali immaginazioni attraverso un confronto diretto, ci
distogliamo e guardiamo al Signore Gesù; invece di fare
affidamento sulle nostre forze, prendiamo rifugio nella forza
e nella grazia che agiscono tramite il Nome Divino.
L'invocazione ripetuta ci aiuta a "lasciar andare" e a
distaccarci dal continuo chiacchierio dei nostri "logismi".
Concentriamo ed unifichiamo la nostra mente,
continuamente attiva, nutrendola con una dieta spirituale
che è ad un tempo ricca eppur estremamente semplice. "Per
fermare il continuo ribollire dei nostri pensieri" dice il
vescovo Teofane "dovete legare la mente con un pensiero, o
con il pensiero di uno solo - il pensiero del Signore Gesù".
S. Diadoco di Foticea (V sec.) afferma: "Quando abbiamo
bloccato tutte le uscite della mente per mezzo del ricordo di
Dio, allora essa ci richiede ad ogni costo qualche impegno
che soddisfi il suo bisogno di attività. Diamole allora, come
sola attività il Signore Gesù".
Tale in generale è il modo in cui la "preghiera di Gesù" può
essere usata per stabilire l'esychia all'interno del cuore. Ne
derivano due importanti conseguenze. Prima, per
conseguire il suo proposito l'invocazione dovrebbe essere
ritmica e regolare, e nel caso di un esicasta d'esperienza
provata (ma non di un principiante che deve procedere con
cautela) dovrebbe essere ininterrotta e continua per quanto
è possibile. Aiuti esterni, come l'uso del comvoschini (= una
specie di "rosario" ortodosso) e il controllo del respiro,
hanno come loro principale scopo precisamente di stabilire
questo ritmo regolare. In secondo luogo, durante la
recitazione della "preghiera di Gesù", la mente dovrebbe
essere vuota d'immagini mentali, per quanto ciò è possibile.
Perciò è meglio praticare la preghiera in un luogo dove vi
siano rari rumori o nessuno del tutto; dovrebbe essere
recitata nell'oscurità o con gli occhi chiusi, piuttosto che di
fronte ad un'icona illuminata da candele o da lampada
votiva.
Lo starets Silvano del Monte Athos (1866-1938), quando
diceva la preghiera usava riporre l'orologio nell'armadio per
non udire il ticchettio, e poi si tirava sugli occhi e le orecchie
il suo spesso cappuccio monacale. Anche se immagini visive
sorgeranno inevitabilmente quando preghiamo, non per
questo debbono essere deliberatamente incoraggiate.
"La preghiera di Gesù" non è una forma di meditazione
discorsiva sugli eventi della vita di Cristo. Quelli che
invocano il Signore Gesù dovrebbero avere in cuore
un'intensa e bruciante convinzione che essi stanno nella
immediata presenza del Salvatore, che egli è di fronte e
dentro di loro, che egli sta ascoltando la loro invocazione e
rispondendo a sua volta. Tale consapevolezza della presenza
di Dio non dovrebbe comunque essere accompagnata da
alcuna immagine visiva, ma confinata a una semplice
sensazione o convinzione; come dice S. Gregorio di Nissa ( +
395) "lo Sposo è presente, ma non è visibile".

III. PREGHIERA E AZIONE

Nell'Ortodossia non esiste contraddizione o opposizione tra vita
attiva e vita contemplativa. Non esistono ordini di "vita attiva" e
ordini di "vita contemplativa". Tutto è concepito in modo
unitario! Il monaco è dunque dedito al rapporto con Dio e
all'attenzione verso il prossimo. D'altronde anche l'Occidente
viveva in questa prospettiva. Si veda, ad esempio, la vita di San
Patrizio, monaco e missionario presso gli Irlandesi (V sec.). Un
esempio moderno che mostra la medesima comprensione è dato
pure dalla vita di San Cosma di Etolia (in figura), vissuto nel
periodo della turcocrazia (XVIII sec.).

Esychia, dunque, implica una
separazione dal mondo -
separazione esteriore oppure
interiore, e talvolta entrambe:
esteriore per mezzo della fuga
nel deserto; interiore
attraverso il "ritorno in sé" e il
"mettere da parte i pensieri".
Per cirare i "Detti dei Padri del
deserto": "A meno che uno
non dica nel suo cuore: io solo
e Dio siamo nel mondo, non
troverà riposo". "Da solo al
Solo". Ma non è forse ciò
egoistico, un rifiutare il valore
spirituale della creazione
materiale ed un evadere le
proprie responsabilità verso i
propri simili? Quando
l'esicasta chiude gli occhi e le
orecchie al mondo esterno,
come faceva Silvano nella sua
cella al monte Athos, quale
servizio positivo e pratico sta egli rendendo al suo
prossimo?

Consideriamo questo problema sotto due principali punti di
vista. In primo luogo: l'esicaismo è colpevole delle stesse
distorsioni di cui fu colpevole il quietismo nell'occidente del
XVII sec.? Finora si è deliberatamente evitato di tradurre
"esychia" con "quiete" a causa del significato sospetto
connesso al termine "quietista". L'esicasta non si trova in
pratica a sostenete posizioni analoghe a quelle quietiste? In
secondo luogo, qual'è l'attitudine dell'esicasta rispetto al suo
ambiente fisico e umano? Di che utilità è agli altri?

Il principio fondamentale del quietismo - è stato detto - è la
condanna di ogni sforzo umano. Secondo i quietisti, l'uomo
per essere perfetto, deve ottenere una completa passività e
annichilazione della volontà, abbandonandosi a Dio, a tal
punto, da non curarsi né di cielo, né d'inferno, né della
propria salvezza. L'anima rifiuta coscientemente non solo
tutte le meditazioni discorsive, ma anche ogni atto distinto
quale il desiderio per la virtù, l'amore di Cristo, l'adorazione
delle persone divine, per restare semplicemente nella
presenza di Dio in pura fede. Una volta che si sia
conseguito l'apice della perfezione il peccato è impossibile.
Se questo è il quietismo, la tradizione esicasta è
decisamente non quietista. Esychia significa non passività
ma vigilanza, "non l'assenza di lotta ma l'assenza di
incertezza e confusione". Anche qualora un esicasta sia
avanzato al livello della "Theoria" o contemplazione, egli non
deve desistere dall'impegno della "praxis" o azione, cercando
con sforzo positivo di acquistare virtù e rigettare il vizio.
Praxis e theoria, la vita attiva e la contemplativa, nel senso
definito più sopra, non dovrebbero essere considerate come
alternative, né come due stadi, cronologicamente successivi,
l'uno cessante quando l'altro inizia; ma piuttosto come due
livelli d'esperienza spirituale interpenetrantesi e presenti
simultaneamente nella vita di preghiera. Ciascuno deve
lottare al livello della praxis fino al termine della vita. Questo
è il chiaro insegnamento di S. Antonio d'Egitto: "Il compito
principale dell'uomo è d'essere memore dei suoi peccati al
cospetto di Dio, e di aspettarsi tentazioni fino all'ultimo
respiro. Chi siede nel deserto da esicasta ha sfuggito tre
guerre: udire, parlare, vedere; ma c'è una cosa che deve
continuamente combattere - la battaglia che è dentro il suo
cuore".

È vero che l'esicasta come il quietista, non usa la
meditazione discorsiva nella sua preghiera, ma sebbene
l'esychia comporti un "lasciare andare" o un "mettere da
parte i pensieri e immagini", ciò non implica da parte
dell'esicasta un atteggiamento di "completa passività", né l'
assenza di "ogni atto distinto quale... l'amore di Cristo". Il
"lasciare andare" del male o dei logismi banali, durante la
ripetizione della "preghiera di Gesù", e la loro sostituzione
con l'unico pensiero del Nome, non è passività, ma un modo
positivo in sé stesso per controllare i pensieri. L'invocazione
del nome è certamente una forma del "restare in presenza
di Dio in pura fede", ma allo stesso tempo è contrassegnata
da un attivo amore per il Salvatore e da un'acuta nostalgia
di condividere ancora più pienamente la vita divina. I lettori
della Filocalia non possono non restare colpiti dall'ardore di
devozione mostrato da autori esicasti, dal senso di
immediata e personale amicizia per il "mio Gesù".

A differenza del quietista, l'esicasta non fa alcuna
dichiarazione d'essere senza peccato o immune da
tentazioni. L'apatheia o "indifferenza", di cui parlano i testi
ascetici Greci, non è uno stato di disinteresse passivo o di
insensibilità, e ancor meno una condizione in cui sia
impossibile peccare.
"Apatheia" dice S. Isacco di Siria: "Non consiste nel non
sentire più le passioni, ma nel non accettarlè". Come insiste
S. Antonio, l'uomo deve "aspettarsi tentazioni fino all'ultimo
respiro" e con le tentazioni c'è sempre la genuina possibilità
di cadere nel peccato. "Le passioni restano vive" dice abba
Abraham "ma son legate dai santi". Quando un anziano
afferma: "Sono morto al mondo" il vicino replica gentilmente
"Non essere così fiducioso, fratello, finché non hai lasciato il
corpo. Tu puoi dire: ' Sono morto ' ma Satana non è morto".
Negli scrittori Greci a partire da Evagrio, apatheia è
strettamente connessa con l'amore, ciò indica il contenuto
dinamico e positivo del termine. Nella sua essenza
fondamentale è uno stato di libertà spirituale, in cui l'uomo
è capace di levarsi verso Dio con desiderio ardente. Non è
una mera mortificazione delle passioni fisiche del corpo, ma
la sua nuova e rinnovata energia; è uno stato dell'anima in
cui l'ardente amore per Dio e per l'uomo non lascia spazio
per passioni egoistiche e animalesche.
A denotare il suo carattere dinamico, S. Diadoco usa la frase
espressiva: "Il fuoco dell'apatheia". Tutto ciò a dimostrare
l'abisso tra esicasmo e quietismo. Per venire ora alla
seconda questione: dato per scontato che la tradizione
esicasta di preghiera non è "quietista", in un senso sospetto
ed eretico, fino a che punto essa è negativa nei confronti del
mondo materiale e antisociale nel suo rapporto con gli altri?
Questo dubbio può essere illustrato da una storia dei
"Detti" su tre amici che divennero monaci. Il primo adotta
come lavoro ascetico il compito di rappacificatore, cercando
di riconciliare coloro che ricorrono alla legge l'uno contro
l'altro. Il secondo cura gli ammalati ed il terzo va nel
deserto. Dopo un certo tempo, i primi due diventano
completamente logorati e scoraggiati. Per quanto duramente
combattano, essi sono fisicamente e spiritualmente incapaci
di fronteggiare tutte le richieste a loro poste. Prossimi alla
disperazione, vanno dal terzo monaco, l'eremita, e gli dicono
i loro affanni. Dapprima egli sta in silenzio; poi versa acqua
in una ciotola e dice: "guardate". L'acqua è torbida e
turbolenta. Attendono alcuni minuti. L'eremita dice
"guardate ancora". Il sedimento è affondato e l'acqua
interamente chiara; essi possono vedere i propri volti come
in uno specchio. "Questo è ciò che avviene - dice l'eremita -
a chi vive tra gli uomini: a causa della turbolenza non vede i
suoi peccati, ma quando ha imparato la quiete, soprattutto
nel deserto, riconosce le proprie colpe". Così finisce la
storia. Non ci è detto come i primi due monaci abbiano
applicato la parabola dell'eremita; forse saranno ritornati nel
mondo portando dentro di sé qualcosa dell'esychia del
deserto. In questo caso, le parole del terzo monaco
sarebbero interpretate nel significato che l'azione sociale, di
per sé stessa, non è sufficiente, se non c'è un centro
immobile nel mezzo della tempesta. Se uno, pur nel mezzo
delle sue attività, non preserva una stanza segreta nel
cuore dove restare solo davanti a Dio, perde ogni senso di
direzione spirituale e vien fatto a pezzi.
Senza dubbio questa è la morale che molti lettori del XX
sec. sarebbero propensi a trarre: tutti dobbiamo, in una
certa misura, essere eremiti del cuore. Ma era questa
l'intenzione originale della storia? Probabilmente no. Molto
più facilmente essa fu intesa come propaganda in favore
della vita eremitica nel senso più letterale e geografico. E ciò
solleva subito l'intero problema dell'apparente egoismo e
negatività di questo tipo di preghiera contemplativa. Qual è,
allora, la vera relazione dell'esicasta con la società? Deve
essere immediatamente ammesso che, similmente al
movimento esicasta del XIV sec., nella rinascenza esicasta
del XVIII sec., e nella Ortodossia contemporanea i centri
principali di preghiera esicasta sono stati i piccoli sketes, gli
eremitaggi che accolgono solo un minuscolo gruppo di
fratelli, viventi come una piccola famiglia monastica
strettamente integrata, nascosta dal mondo. Molti autori
esicasti esprimono una preferenza definita per lo "skete" nei
confronti dei cenobi completamente organizzati, la vita in
una grande comunità è considerata troppo distraente per la
pratica intensiva della preghiera interiore. Pure, anche se
l'ambiente esterno dello "skete", considerato come ideale,
pochi arriverebbero al punto di affermare che esso gode un
monopolio esclusivo. Sempre il criterio è quello non della
condizione esteriore ma del suo stato interiore. Certe
condizioni esterne possono risultare più favorevoli di altre
per il silenzio interiore; ma non c'è alcuna situazione di
sorta che renda il silenzio interiore del tutto impossibile.
S. Gregorio del Sinai, come abbiamo visto rimanda il suo
discepolo Isidoro nel mondo; molti dei suoi compagni più
vicini del monte Athos e del deserto di Paroria divennero
patriarchi e vescovi, capi e amministratori della Chiesa.
S. Gregorio Palamas, insegnò che la preghiera continua è
possibile per ogni cristiano; concluse egli stesso la sua vita
come arcivescovo. Il laico Nicola Cabasilas (XIV sec.)
servitore civile e cortigiano, amico di molti celebri esicasti,
afferma con grande enfasi: "Ciascuno dovrebbe mantenere
la propria arte o professione. Il generale dovrebbe
continuare a comandare, il contadino a lavorare la terra,
l'artigiano a praticare la sua arte. E vi dirò perché: non è
necessario ritirarsi nel deserto, prendere cibo senza sapore,
cambiare d'abito, compromettere la propria salute, o fare in
genere cose non sagge, perché è del tutto possibile
rimanere nella propria casa senza abbandonare tutto ciò
che si ha, eppure praticare la meditazione continua".
Nello stesso spirito, Simeone il nuovo teologo insiste che la
"vita più alta" è lo stato a cui Dio chiama ciascuno
personalmente: "Molti considerano la vita eremitica come la
più beata, altri la vita in una comunità monastica, oppure il
lavoro di governo, di istruzione o di educazione o
d'amministrazione della chiesa... Da parte mia, comunque,
non porrei nessuno di questi modi di vita sopra gli altri, né
loderei l'uno a scapito degli altri. Ma in ogni situazione è la
vita per Dio ed in accordo a Dio che è veramente beata". La
via dell'esychia è dunque aperta a tutti: l'unica cosa
necessaria è il silenzio interiore non esteriore. E sebbene
questo silenzio interiore presupponga il "mettere da parte"
le immagini nella preghiera, l'effetto finale di questa
negazione è l'asserzione vivida del valore ultimo di tutte le
cose e di tutte le persone in Dio. La via della negazione è
contemporaneamente la via della superaffermazione. Ciò
risulta molto dalla "Via del pellegrino". L'anonimo russo che
è l'eroe del racconto trova che la costante ripetizione della
"preghiera di Gesù" trasfigura la sua relazione con la
creazione materiale, cambiando tutte le cose in un
sacramento della presenza di Dio e rendendole trasparenti.
"Quando... pregavo con tutto il mio cuore" egli scrive "tutto
attorno a me sembrava delizioso e meraviglioso. Gli alberi,
l'erba, gli uccelli, la terra, l'aria, la luce sembravano volermi
dire che esistevano per amore dell'uomo, che
testimoniavano l'amore di Dio per l'uomo, che tutto provava
l'amore di Dio per l'uomo, che tutto pregava a Dio e cantava
la sua lode. Così arrivai a capire quello che la Filocalia
chiama: la conoscenza del linguaggio di ogni creatura ...
sentii un ardente amore per Gesù Cristo e per tutte le
creature di Dio". Analogamente l'invocazione del Nome
trasforma la relazione del pellegrino con i suoi simili "...
ripartii per il mio pellegrinaggio. Ma ora non camminavo più
come prima, pieno di preoccupazioni. L'invocazione del nome
di Gesù rallegrava il mio cammino. Tutti erano gentili con
me era come se ciascuno mi amasse... se qualcuno mi fa del
male, mi basta pensare 'come è dolce la preghiera di Gesù' e
l'offesa e la rabbia svaniscono e dimentico tutto". Un
'ulteriore evidenza della natura affermativa dell'esychia
rispetto al mondo, è da trovarsi nella posizione centrale data
dagli esicasti al mistero della trasfigurazione. Il metropolita
Antony Bloom dà una impressionante descrizione delle due
icone della trasfigurazione che vide a Mosca, una di Andrei
Rublev e l'altra di Teofane il greco: "L'icona di Rublev mostra
Cristo nello splendore delle sue abbaglianti vesti bianche
che illuminano tutto ciò che è attorno. Questa luce cade sui
discepoli, sulle montagne e le pietre, su ogni filo d'erba. In
questa luce, che è... la Gloria divina, la luce divina stessa
inseparabile da Dio, tutte le cose acquistano una intensità
di essere che non potrebbero altrimenti avere; in essa
raggiungono una pienezza di realtà che è possibile avere
solo in Dio". Nell'altra icona "le vesti di Cristo sono
argentate dai riflessi blu, e i raggi di luce che emanano
attorno sono pure bianchi argento e blu. Tutto dà
un'impressione di minore intensità. Poi si scopre che tutti
questi raggi di luce che cadono dalla presenza divina... non
danno rilievo ma trasparenza alle cose. Si ha l'impressione
che questi raggi di luce divina tocchino le cose o affondino
in esse, le penetrino, tocchino qualcosa dentro di esse
cosicché dal nucleo delle cose, di tutte le cose create, la
stessa luce riflette e risplende come se la vita divina
accrescesse le capacità e potenzialità di ogni cosa e le
facesse tutte tendere verso se stessa. A questo punto la
situazione escatologica è realizzata nelle parole di S. Paolo
"Dio è tutto in tutto". Tale è il duplice effetto della "Gloria"
della trasfigurazione: di far risaltare ogni cosa e ogni
persona in perfetta distinzione, nella sua essenza, unica e
irripetibile; e allo stesso tempo di rendere ogni cosa e ogni
persona trasparenti, da rivelare la presenza divina al di là e
dentro di loro.
Lo stesso duplice effetto è prodotto dall'esychia. La
preghiera del silenzio interiore non è negativa rispetto al
mondo, ma anzi gli dà risalto. Permette all'esicasta di
guardare al di là del mondo verso l'invisibile creatore; e in
questo modo gli permette di ritornare al mondo e di vederlo
con occhi nuovi. Viaggiare, è stato spesso detto, è ritornare
al punto di partenza e vedere di nuovo la nostra casa, come
per la prima volta. Ciò è vero del viaggio della preghiera
come anche di altri viaggi. L'esicasta può apprezzare il
valore di ogni cosa più del sensuale o del materialista,
perché vede ciascuna in Dio e Dio in ciascuna.
Non è per caso che nella controversia Palamita del XIV sec.,
San Gregorio ed i suoi sostenitori esicasti erano impegnati a
difendere precisamente le potenzialità spirituali della
creazione materiale ed in particolare il corpo fisico
dell'uomo. Tale, in breve, è la risposta a quelli che vedono
l'esicasmo come negativo e dualista nel suo atteggiamento
verso il mondo. L'esicasta nega per riaffermare; si ritira per
ritornare. Con una frase che riassume la relazione tra
esicasta e società, tra preghiera interiore ed azione
esteriore, Evagrio Pontico dice: "Monaco è chi è da tutto
separato e a tutto unito". L'esicasta opera un atto di
separazione esternamente, ritirandosi in solitudine;
interiormente "mettendo da parte i pensieri". Eppure
l'effetto di questa fuga è di congiungerlo agli uomini più
intimamente di prima, di farlo più profondamente sensibile
ai bisogni altrui, più acutamente consapevole delle loro
possibilità nascoste. Ciò è visibile con maggior evidenza nel
caso dei grandi "startsi". Uomini come S. Antonio d'Egitto e
S. Serafino di Sarov vissero per decenni in silenzio totale ed
isolamento fisico. Eppure l'effetto ultimo di tale isolamento
fu di conferir loro chiarezza di visione ed eccezionale
compassione.
Proprio perché avevano imparato ad essere soli, potevano
identificarsi istintivamente con gli altri. Potevano discernere immediatamente le caratteristiche profonde di ogni uomo e forse parlare con due o tre sole frasi, ma quelle poche parole erano la sola cosa che, in quella particolare occasione, si doveva dire. S. Isacco dice che è meglio acquistare purezza di cuore che convertire intere nazioni di pagani. Non è che egli disprezzi il lavoro di apostolato, ma vuol dire che finché non si sia ottenuta una certa misura di silenzio interiore, è improbabile che si converta qualcuno a qualsiasi cosa. Questo è reso menoparadossalmente da Ammonas discepolo di Antonio (IV sec.): "Perché essi avevano prima praticato profonda esychia, essi possedettero il potere di Dio abitante in loro; e poi Dio li mandò in mezzo agli uomini".
E anche se molti solitari non sono mai, in pratica, rimandati al mondo come apostoli o startsi, ma continuano la pratica di silenzio interiore per tutta la vita, completamente sconosciuta agli altri, ciò non significa che la loro nascosta contemplazione sia inutile e la loro vita sprecata. Essi servono la società non con lavori attivi, ma con la preghiera;non con ciò che fanno, ma con ciò che sono,non esternamente ma esistenzialmente.Essi possono dire con le parole di S. Macario di Alessandria:"Sto a guardia delle mura"

Patrizio (POL)
10-03-02, 00:52
Ti ringrazio, caro Qoelet.
Mi ci vorrà un po' per leggere tutto il materiale, ma non mancherò di farlo.
A più avanti.