PDA

Visualizza Versione Completa : Un racconto breve di Pupetta: "Lucia"



Comitato per il Nobel
11-03-02, 22:35
C'è posta per Lucia
Gli anni ottanta, croce e delizia dei commentatori, delle
bande culturali, degli scrittori di pampleth. Formidabili,
luccicanti, grigi, conformistici, edonistici, questo decennio
può essere letto da tanti punti di vista. Ma a me, che da
tempo mi sono disabituato ad assumere opinioni per poi essere
costretto a rigettarle alla luce dell'esperienza, gli anni
ottanta sono essenzialmente due, il 1988 e il 1989. Un'epoca
lontana anni luce da oggi. Basta pensare alla società
politica, Berlusconi non era ancora a Palazzo Chigi ma
vivacchiava nell'anticamera del cinghialone nazionale Bettino
Craxi, Fini si dilettava, divertendosi come un pazzo, a fare
il saluto romano, Bossi, bè, lasciamo perdere Bossi, D'Alema
passava il suo tempo libero, ovvero il 100% della giornata a
giocare ai videogames di Botteghe Oscure con lo stesso impegno
con il quale qualche anno prima preparava molotov, Veltroni
andava a chiudersi nei cinema interrogandosi su come avrebbe
cambiato il mondo e il mondo, almeno Roma, avrebbe dovuto
preoccuparsene già allora. Casini si affannava a distribuire
rose sui tappeti che accoglievano i democristianissimi piedi
di Coniglio Mannaro Forlani, Mastella era ancora l'allievo di
De Mita e Di Pietro si apprestava a vincere, Dio solo sa come,
il suo concorso in magistratura, che tanti guai avrebbe creato
allo scricchiolante sistema di potere italiano. Anni di merda,
direte voi, leggendo questa mia. Si, in parte, ma non in
tutto, non per tutti, non per me. Per prima cosa nel 1988
avevo 21 anni, ero magro come un chiodo, non avevo problemi
economici, nè di salute. I miei ormoni andavano a mille e
all'occorrenza rimediavo sempre una ragazza. Con i ragazzi non
avevo un grande feeling, semplicemente non mi eccitavano i
loro discorsi. Nella mia vita ho fatto ogni genere di
compromesso, non dimenticatevi che per vivere faccio
l'avvocato, quindi sono pronto a vendermi ad un prezzo
accettabile, ma non ho mai parlato di calcio, non ho mai
imparato la formazione di una qualsiasi squadra, non sono mai
andato allo stadio. Aggiungeteci che ho sempre detestato
frequentare discoteche e palestre, che sono allergico ad ogni
sport e che, quando proprio ho deciso di praticarne uno, ne ho
scelto uno non proprio popolare, il rugby che - se pure non mi
ha fruttato molti amici - mi è valso il rispetto dei più.
Inoltre ho sempre disprezzato quel linguaggio decisamente
volgare, sintomo d'impotenza, che anima la discussione tra
uomini quando si parla di donne. Un miscuglio di luoghi
comuni, di vanterie, di ricordi inventati, di sfiga densa come
un mattone. Diciamo che ho sempre amato starmene per conto mio
o con i pochi amici selezionati negli anni. Per dirla tutta e
senza fronzoli eravamo un piccolo clan, una piccola
massoneria, roba per iniziati. C'eravamo anche scelti dei
nomignoli, quasi tutti presi in prestito dal'opera di J. R.
Tolkien. C'erano Gorlim, Beren ed io ero Aragorn. Non sto a
spiegarvi chi erano e cosa rappresentassero, non è molto
importante. Avevamo gusti convengerti, per capirci,
politicamente eravamo di destra, vicini al Msi, culturalmente
un tantino reazionari con un'insana passione per Nietzsche e
per il vino, per i Joy Division e Julius Evola. Ma arrivò
presto il giorno che tutto questo passò in secondo piano, anzi
sparì, si dissolse in un attimo ed io mi trovai a volteggiare
sull'orlo di un precipizio. Fu quando conobbi Lucia. Mancavano
pochi giorni al mio ventiduesimo compleanno. Una fredda
giornata di gennaio. Ma esistono giornate davvero fredde a
Roma? Abitavo a Roma, in una traversa di Via dei Durantini,
vicino all'università. Mio padre abitava dall'altra parte di
Roma, nella Roma bene, quella su a Nord, dove poltrisce senza
troppi pensieri la borghesia romana dalla quale provengo. Non
sopportavo le sue donne e non sopportavo più lui, se ne
accorse e per non discutere mi comprò e mise a disposizione un
appartamentino di settanta metri, dove andai a vivere in quel
1988. Ogni tanto ci torno, la carta da parata si è ingiallita
e un pò anche i miei ricordi.
Stabilii lì il mio quartier generale, vennero a stare con me
anche Beren e Gorlim, anche se il primo non studiava a Roma,
anzi non studiava affatto. Passavamo le serate a fare
l'esegesi di Nietzsche e Shopenhauer, poi il più delle volte
ci ubriacavamo e andavamo a finire di bere in un pub di S.
Lorenzo dove ci sentivamo clandestini, pieno com'era di
canaglie comuniste. Tornavamo al mattino e andare
all'università era il nostro ultimo pensiero. Ma quei giorni
stavano per finire. Arrivò il 16 gennaio del 1989. Prima di
uscire mi ero impomatato di gelatina i capelli, biondi e
cortissimi, a spazzola, mi ero infilato dentro una maglietta
bianca, jeans wrangler, clarks ai piedi, ed ero uscito,
destinazione La Sapienza, ma non per raggiungere le aule,
sorde e grigie come disse un tale riferendosi a ben altre
stanze, ma i giardini, pieni di alberi, d'ombra e ragazze.
Stavo cercando di smaltire l'ennesima sbronza, mi sentivo
vivo, persino bello e in fondo lo ero, c'era una luce negli
occhi che a volte, anzi spesso, non trovo più quando mi
specchio al mattino. Insomma, per non farla lunga, mi avvio
per tornare a casa. Autobus, quattro passi, infilo il mio
vicolo, apro il cancello, entro in ascensore. La vedo per la
prima volta Lucia. Bella, bellissima, emana una luce accecante
(o forse i miei occhi soffrivano ancora i postumi del vino
rosso), un sorriso straordinario. Siamo io e lei in quella
piccola cabina che ci porta verso il sesto piano. Sorride, si,
proprio a me, mentre quei suoi grandi occhi verdi mi osservano
divertiti. Improvvisamente allunga una mano e mi sfiora i
capelli dritti sulla fronte, è un gesto spontaneo che mi
sorprende. Scoppiamo a ridere come matti. Due giorni dopo già
dormiamo insieme, diventiamo inseparabili. Ha 19 anni, è
dolcissima e piena di energia. Siamo due bambini, ma non lo
sappiamo. Studiava Scultura all'Accademia di Belle Arti, è
campana, il padre è emigrato in Svizzera per trovare lavoro, e
il destino me l'aveva mandata tra le braccia, visto che
abitava nel mio stesso pianerottolo. Furono giorni strepitosi,
il classico grande amore, una vera passione. Tutto il resto
del mondo ci divenne lontano, estraneo, insignificante.
Passavamo il nostro tempo libero sul divano, a sfiorarci in
silenzio, o passeggiando per Villa Borghese. Non mi ricordo di
aver mai riso di più che in quelle settimane, in quei mesi. Fu
l'inverno più dolce che io ricordi.
Ma non ci fu il lieto fine, anzi, tutt'altro. Fulmini e
saette. Avevamo meno tempo per stare insieme. Mentre io
continuavo la mia vita inconcludente (che a me sembrava
romantica) lei si era messa a studiare, non aveva le spalle
coperte da un padre danaroso, lei l'accademia doveva finirla
in quattro anni. Ci vedevamo solo la sera tardi, quando
rientrava e al mattino presto quando lei se ne andava io ero
ancora a letto. Comiciai a diventare geloso del suo tempo, dei
suoi colleghi, della mia stessa ombra. Divenni irrequieto,
scostante, distaccato, segnai così l'inizio della mia fine.
Lei se ne accorse, ne era dispiaciuta, ma le cose non
migliorarono. Rimanevamo spesso senza parlare, come estranei,
ma ci amavamo. Poi accadde ciò che non doveva accadere.
Ricordatevi sempre che avevo 22 anni. Successe che una delle
ragazze che abitavano nell'appartamento con lei (anche se lei
in realtà abitava da me) prese a corteggiarmi, ad
incoraggiarmi a prendere un'iniziativa, qualunque, per
capirci. Questa è la verità, non che fui io a prendermi delle
libertà. Insomma, una sera che Lucia sembrava non tornare più
accettai di prendere un aperitivo dall'altra (non ricordo
neanche il suo nome) e scherzando finimmo seduti sul suo
letto. Sapete come sono gli appartamenti abitati da
studentesse, quattro o cinque in pochi metri, non ci sono
salotti, ogni spazio è sfruttato all'inverosimile dai
proprietari per lucrare su ogni metro quadrato, mettendo
dentro più persone possibile. Il letto era l'unico salotto
disponibile, ci si sedeva per chiacchierare. Solo che eravamo
soli, questo rese la scena più imbarazzante quando Lucia
entrò. Provai a spiegargli. Niente, mi lasciò seduta stante.
Divenne fredda come il ghiaccio. A nulla valsero le mie
proteste, le mie scuse, le mie profferte d'amore eterno. Non
volle più vedermi. Non mi arresi, naturalmente e misi in atto
una strategia scellerata che non poteva che vedermi perdente,
che peggiorare la mia situazione. Mi appostavo dietro la porta
del mio appartamento per poi sbucarle davanti quando usciva
dall'ascensore. Niente, si infilava in casa senza una parola.
Stavo male, a volte mi ubriacavo per non pensare a lei nella
rosticceria sotto casa, il ronzio del traffico della Tiburtina
si mischiava a quello dei pensieri infranti, dei cocci che mi
giravano in testa, urtando e facendo fracasso. Ero talmente
ubriaco che spesso facevo appena in tempo ad aprire la porta
che cadevo in terra, esanime, e lì rimanevo a dormire,
vestito, per delle ore, salvo poi svegliarmi nel cuore della
notte. Una volta accadde l'irreparabile. Erano passati un paio
di mesi da quando mi aveva lasciato, ormai temevo il peggio e
l'estate si avvicinava e con essa la certezza di una
separazione irrimediabile. Era sera tardi, l'una credo. Io me
ne stavo a casa, smanioso e depresso, a sorseggiare l'ultima
birra quando ad un certo punto sento il rumore dell'ascensore,
delle portiere che sbattono. Mi precipito nel pianerottolo, è
accompagnata da un ragazzo. Lo conosco, abbiamo giocato
insieme nella scuola di rugby della facoltà, poi io ho smesso,
lui no a valutare i suoi muscoli ben tonici e tesi. Divento
ancora più furente. La blocco per un braccio. "Lasciami", mi
dice. "Lasciala", mi dice l'altro. Sono fuori di me. Mi giro
verso di lui, lo guardo negli occhi e gli faccio: "Sparisci e
fallo in fretta, prima che ti uccida". E' più alto di me di
venti centimetri e io sono pieno di ossa, ma devo essere stato
convincente, visto che non prende neanche l'ascensore ma si
mette quasi a correre per le scale. "Sei un mostro", mi dice e
si infila dentro il suo appartamento prima che possa fermarla.
Rido, una risata tetra e disperata. "Vieni fuori, vieni fuori,
devo parlarti", inizio a urlare. si affaccia (con la catenella
inserita), sussurra "vai a dormire, sei fuori di te, per
favore". "Apri questa cazzo di porta", grido finchè il
pianerottolo non si riempie di condomini, accorsi da tutti i
piani. Un film, seppur modesto per fantasia. "Ma cosa fa, la
smetta", mi fa un tizio alto e grasso mentre la moglie gli si
stringe al braccio, neanche avesse visto uno stupratore.
L'amministratore mi si avvicina e confidenziale-comprensivo mi
bisbilia: "Roberto, dai, adesso basta...". "Basta un cazzo,
andatevene a fare in culo balordi", grido in pieno delirio
investendo tutti con un consistente repertorio di nefandezze.
Insomma, finisco al commissariato, mio padre non mi rivolgerà
la parola per mesi e Lucia cambierà casa, nascondendomi il suo
nuovo recapito. Provo ad intercettarla all'Accademia. Le tendo
un'imboscata sulla via di Ripetta, a due passi da Piazza del
Popolo in un mattino livido e pieno di nuvole Mi vede, mi
viene incontro e mi dice sarcastica: "Pensi di picchiarmi o
posso passare?" La lascio passare, capisco che è giunta l'ora
di suonare la ritirata, una mesta ritirata. Parto, vado a
Vienna, poi a Budapest, dove rimango tutta l'estate. Solo mesi
dopo, a fine settembre, un comune amico iraqueno, Dyar, dopo
essersi fatto promettere mille volte che non avrei fatto
cazzate, me lo confida. Piazzale Prenestino. Vado. E' notte.
Roma è bella a settembre, è bella sempre. Bevo un cicchetto ma
non per ubriacarmi, solo per farmi coraggio. Trovo la casa,
suono. Risponde una ragazza, è sgradevole, ancora di più
quando le dico il mio nome. "Ah, sei tu", commenta e noto una
punta di disprezzo nella voce. Arriva Lucia, è bella come la
ricordavo. Non mi sorride, non mi accarezza i capelli, mi fa
sedere, mi versa un bicchiere di birra. Mi vergogno, le chiedo
scusa, le dico che le voglio bene. Tutto questo davanti
all'amica, che non la molla un secondo, neanche fossi Jack lo
squartatore. Non parla. "Adesso però devo uscire", mi fa. "Va
bene", "mi è piaciuto rivederti. Noto la mia cartolina
all'ingresso, tenuta da una puntina, c'è un'immagine di Buda
che guarda nella stanza. Dietro c'è scritto "ti amo", ma solo
il muro può leggerla. Esco nella strada ma non vado a casa
come avrei dovuto. Mi apposto dietro l'angolo con una cassetta
di birre. Mi ubriaco, ma non c'è più violenza dentro di me,
solo dolore, vogliono farmene ancora, voglio bere l'amaro
calice fino in fondo. Sono le tre di notte quando Lucia e la
sua amica tornano, non mi faccio notare, striscio fino a casa,
camminando per due km. Come da prassi apro la porta e vomito.
Stavolta è finita, penso e non ho torto.
Passo un anno senza vederla, siamo nuovamente in estate. Una
sera come un'altra, sono dai parenti, in Abruzzo. In un pub,
bevo, bevo, bevo. Non mi ricordo di aver fatto molto altro
negli anni ottanta. Scende la notte, il cuore mi fa male.
Faccio il suo numero "campano", risponde la sua voce, la sua
voce. La testa mi gira, mi sento come se stessi per avere un
infarto. Non parlo, lei ripete "pronto" due volte, poi dice:
"Roberto, sei tu?" Rimango in silenzio, sorpreso, impotente,
poi dico "Si". "Come stai", mi dice. E' affettuosa, sento che
ricomincio a respirare. "Bene, adesso". Parliamo qualche
minuto, si accorge che sono ubriaco e non se la prende, mi
dice "E' stato bello sentirti". Passano sei anni da allora
senza che ci fosse più sentiti. Siamo a metà anni novanta. Non
ho più 22 anni, sono ad un passo dai trenta. Sono più
razionale, ho avuto altre donne, molte donne, ma un solo
amore, lei. E l'amore finisce sempre per svegliarsi, anche
dopo un lungo sonno. Una sera come tante, è un inverno (95,
96?), sono solo, bevo, bevo, bevo. Improvvisamente una fitta
al cuore, la consapevolezza che l'amerò per sempre, solo lei.
Mi accascio sul tavolo, piango, fuggo via, la mia vita non ha
senso. Il giorno dopo inizio le mie ricerche, che si
presentano più facili del previsto. Il suo nome è nell'elenco
telefonico di Roma, c'è anche il suo indirizzo. Non ci penso
due volte, chiamo il mio autista, prendo l'auto blu e parto
(Non credo v'interessi perchè avevo l'auto blu e l'autista,
vero?). Infine trovo la casa. Non è facile, non lo è. Rimango
tre ore a passeggiare lì intorno sperando che il coraggio mi
assalga. Non c'è più Nietzsche a farmi compagnia, non c'è più
da diversi anni. Sono solo e spaventato, mi interrogo sul come
reagirà, non potrei sopportare l'indifferenza, penso tra me e
me. Magari dovrò presentarmi, penso, e la mortificazione mi
schiaccerebbe. Sono passati sei anni, forse sette. Sarà
sposata, mi domando. Infine entro nel palazzo, spinto dalla
forza d'inerzia, infilo l'ascensore al volo mentre sta
entrando una persona. Si volta, è lei. Siamo nuovamente sa
soli in un ascensore. E' bella, sempre luminosa. Mi sorride,
mi abbraccia, ride, ridiamo. "Quanto tempo" dice e una leggera
ombra le copre il viso. Entriamo in casa, mi fa sedere, mi
porge una birra. "No", sorrido, "meglio un caffè". Ride, è
contenta di vedermi. "Sei persino più bella", gli dico e lo
penso. "E tu sei sempre quel ragazzo affascinante e pieno di
sè", mi risponde. Abbasso gli occhi, ho perso molta della
fiducia in me stesso, ma non glielo dico. Parliamo un pochino,
insegna in un liceo romano, storia dell'arte, io faccio
l'avvocato, gli dico ma lo sapeva già, come altre cose di me,
"me l'ha detto Dyar", si giustifica. Poi diventiamo un pò
tristi. Stiamo ricordando i vecchi tempi. Mi guarda
intensamente, poi mi dice: "peccato, rovinasti tutto, ti amavo
follemente, non ti avrei mai lasciato e tu rovinasti tutto,
rovinasti tutto".
"Mi amavi?", protesto debolmente. "Con tutta me stessa, sei
stato il primo e saresti stato l'ultimo, se solo non avessi
rovinato tutto".
Ci sfioriamo le mani, ci diamo un leggero bacio sulla bocca,
esco. Mi accompagna alla macchina, passo davanti alla berlina,
all'autista incerto che gelo con lo sguardo, facciamo una
ventina di passi e mi avvicino ad una vecchia Tipo targata
Pescara, facendo finta che sia la mia.
Non mi fa domande, non le faccio domande.
Ci abbracciamo.
Non l'ho più cercata.
Non mi ha più cercato.
Le scrivo solo perchè so che non sospetterebbe mai chi è
Valentino Pupetta.