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Tomás de Torquemada
16-03-02, 14:00
Il Diluvio Biblico
(Genesi 6,1 - 9,29)

Se si vuol esaminare il racconto biblico del Diluvio Universale è indispensabile, prima di ogni altra considerazione, chiarire alcune idee fondamentali relative al possibile utilizzo dei racconti biblici quale fonte di notizie storiche e all'attendibilità delle narrazioni contenute nel libro dei libri.
La problematica è immensa, ed è assolutamente impensabile poterla condensare in poche righe, tanto più che mi trovo a muovermi su un terreno che conosco solo in minima parte e dunque mi è precluso anche solo il tentativo di una sintesi, possibile solamente a chi è in grado di conoscere a fondo ogni aspetto del problema.
Ma questo mio handicap non mi impedisce di suggerire alcune considerazioni.

Fino al Regno di Davide (950 a.C. circa) la letteratura d'Israele resta essenzialmente una letteratura di tradizione, all'interno della quale la scrittura svolge un ruolo molto ristretto.
E' dunque evidente che nulla di scritto ci proviene direttamente dai tempi e dall'ambiente patriarcale né, tantomeno, dalla cosiddetta preistoria biblica.
L'opera scritta più antica viene solitamente identificata nella redazione dello Jahvista [J] (risalente appunto alla prima età dei Re e così chiamata perché l'autore - o gli autori - indica Dio con il nome di Jahwè): il fine ultimo che questa opera vuole raggiungere è cantare la condotta di Dio in favore del suo popolo.
Alla narrazione dei fatti operati da Dio per il suo popolo si è aggiunto il racconto della preistoria del popolo d'Israele, composto da antiche tradizioni, con la finalità di inserire a pieno titolo Israele nella storia universale dell'umanità.
Narrare la discendenza diretta del proprio clan dai primi popoli della Terra, dimostrando in tal modo una sorta di eccellenza rispetto a tutti gli altri clan, era una preoccupazione comune di ogni civiltà antica e dunque anche quella ebraica si inserisce in questa tradizione.
Dal punto di vista storico appare però evidente che anche solamente la narrazione dell'ingresso del popolo di Israele nella terra di Canaan dopo le vicende in terra d'Egitto prende forma scritta ad una distanza di almeno 300 anni da quei fatti.

La seconda opera scritta, di poco posteriore all'opera Jahvista, è la tradizione Elohista [E].
Si tratta di un documento che ebbe la sua pubblicazione definitiva dopo la divisione dei due regni alla morte di Salomone e deve la sua denominazione all'appellativo di Elohim impiegato per indicare Dio. Ha uno stile didattico e presenta una moralità più rigorosa di quella presentata dallo Jahvista: descrive l'alleanza tra Dio e il popolo d'Israele come il punto culminante della storia.
Dopo il crollo di Israele (721 a.C.) queste due tradizioni vennero unificate riservando però maggior peso alla redazione Jahvista.

Una terza opera letteraria (collocabile storicamente al tempo della cattività babilonese, vale a dire negli anni 597-538 a.C.) è il codice Sacerdotale [P].
La finalità che quest'opera si prefigge è prettamente dottrinale: tracciare la storia dell'alleanza (meglio sarebbe delle alleanze) di Dio con gli uomini, riconducendo a questo ambito le diverse tradizioni cultuali presenti nella religiosità del popolo d'Israele.

Alleanza nella creazione Þ legge del sabato
Alleanza con Noè Þ legame con le antiche tradizioni
Alleanza con i Patriarchi Þ circoncisione
Alleanza del Sinai Þ legislazione Mosaica

L'intento di quest'opera non è narrativo, ma unicamente dottrinale: tutto è pensato in funzione teologica.

A queste tre grandi tradizioni bisogna aggiungerne altre due non meno importanti: la produzione letteraria legata all'attività profetica e la cosiddetta letteratura del patto, una serie di opere letterarie che godevano di una certa ufficialità e che sono confluite nel documento deuteronomistico.
L'opera deuteronomistica è un ripensamento, un tentativo di ricostruzione delle vicende storico-religiose che hanno portato alla somma catastrofe, la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. e la perdita degli archivi e dei documenti scritti contenenti le tradizioni del popolo d'Israele.
Queste due ultime tradizioni sono sicuramente fondamentali ai fini della stesura definitiva dell'Antico Testamento, in esse, tuttavia, non si affronta in maniera diretta la problematica delle origini e della preistoria dell'umanità se non in termini di citazione delle altre tradizioni.

Da queste scarne notizie storico-letterarie emerge in modo evidente che, volendo utilizzare la Bibbia quale possibile fonte di informazioni storiche riguardanti le vicende della preistoria dell'umanità, è assolutamente indispensabile leggere i racconti tenendo conto delle redazioni che hanno contribuito alla loro composizione e soprattutto delle finalità che tali redazioni si prefiggevano.
Non siamo di fronte, infatti, ad un libro storico, ma ad una rilettura religiosa delle vicende storiche, sulla "storicità" di alcune delle quali bisogna nutrire seri dubbi.
Il che non significa che tutte le vicende narrate siano frutto di fervida fantasia e non presentino alcun collegamento con eventi realmente accaduti; talune indagini archeologiche, al contrario, suggeriscono a tal proposito scenari veramente suggestivi: per citare il primo notevole tentativo in tal senso, chi non ha mai sentito parlare del libro "La Bibbia aveva ragione" scritto negli anni '50 da Werner Keller con l'intento di mostrare la corrispondenza dei racconti biblici con quanto gli archeologi riportavano alla luce? Molti altri dopo di lui hanno ripercorso, con nuove conoscenze, questo cammino giungendo a conclusioni a dir poco stupefacenti: si legga, a tal proposito il recentissimo (l'edizione in lingua inglese è del 1998) "La Genesi aveva ragione" di David Rohl (Ed. Piemme).
Ritengo, comunque, che la cosa migliore sia accettare la coesistenza nella Bibbia di questi due aspetti inscindibili: da un lato la certa provenienza dei racconti da tradizioni reali, provenienti dalle radici storiche e dalle vicende di un popolo e dall'altro la loro successiva rielaborazione in chiave religiosa, fatto questo che, quasi inevitabilmente, distorce le tradizioni stesse, procedendo non secondo i canoni del nostro concetto di storicità, ma secondo quelli ben differenti dell'interpretazione religiosa.
Questa riflessione, naturalmente, non toglie nulla al significato ed alla fondamentale importanza che la Bibbia riveste per ogni credente quale Parola di Dio: è questa una differente chiave di lettura delle parole del Libro, guardato esclusivamente con gli occhi della fede.


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Michelangelo Buonarroti, Il Diluvio Universale (Cappella Sistina) - Immagine tratta dal sito http://upload.wikimedia.org/

Il nucleo fondamentale dell'analisi storica delle vicende della preistoria del popolo d'Israele può, a mio avviso, essere identificato in Deuteronomio 26, 5-7:

"Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa.
Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.
Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce…"

Il "fatto storico" fondamentale nella storia del popolo d'Israele è la liberazione dall'Egitto: una vicenda complessa, molto meno lineare di quanto il racconto biblico ad una prima lettura consente di ricostruire; una serie di eventi che hanno segnato profondamente la vita di più clan inizialmente indipendenti, al punto da innescare un potente richiamo alla coesione ed all'identificazione quale unico popolo.
L'uscita dall'Egitto e l'ingresso nella terra di Canaan sono, però, fatti troppo recenti: non si può proclamare la propria elezione a popolo dell'unico Dio senza poter dimostrare che questo privilegio è radicato nelle vicende dell'alba dell'umanità.
Diventa indispensabile, per essere almeno alla pari di altri popoli le cui origini si perdevano nella notte dei tempi ed erano intessute di eventi prodigiosi, riempire con eventi altrettanto eccezionali anche le proprie origini.
A questo proposito si attinge a piene mani a quei racconti tramandati dai propri antenati oppure mutuati dalle tradizioni delle tribù limitrofe e già modificati per renderli patrimonio della propria tribù: l'idea che deve emergere è che il popolo d'Israele è un grande popolo e dunque altrettanto grandi devono essere le sue origini, non meno portentose di quelle degli altri popoli (Sumeri, Babilonesi, Egiziani, …).

La stesura dei racconti orali doveva rispettare tre punti fondamentali:

la "famiglia dell'Arameo errante" è privilegiata;
il Dio di questa famiglia è il più potente di tutti gli altri Dei;
negli eventi storici deve emergere "il braccio potente e la mano distesa" di Dio che "con prodigi e segni" costruisce le vicende del suo popolo.
In questo contesto emerge evidente il motivo per il quale il racconto del Diluvio Universale (la seconda creazione) si incontra con stupefacenti somiglianze sia nella Bibbia che nelle tavolette cuneiformi che narrano le vicende di Atra-hasis (tradizione sumerica) e l'epopea di Gilgamesh (tradizione babilonese).
Le molte affinità riscontrabili tra i testi biblici e l'epica classica mesopotamica suggeriscono che alcuni temi fossero largamente diffusi nel mondo antico e testimoniano profondi rapporti culturali fra i popoli, non documentati e, per il momento (ma ritengo che le acque siano in fermento), non documentabili attraverso altre vie.
E perchè allora non considerare in modo serio la possibilità che alcune di tali tradizioni fossero già parte del patrimonio del popolo d'Israele, non acquisite, dunque, da altre culture, ma, assieme a quelle, nate da una identica esperienza storica e culturale? Lascio per il momento in sospeso questa ipotesi: un approfondimento lo si potrà trovare nella pagina lasciata alla Scienza...

Dopo questa premessa storico-letteraria e alla luce di quanto detto possiamo ora cercare di cogliere qualche spunto dal racconto biblico, precisando, a scanso di equivoci, che non è certo il mio intento quello di proporre una lettura religiosa, ma unicamente suggerire elementi di discussione e di approfondimento.

Il primo dato che balza all'occhio leggendo il racconto del Diluvio universale è la sconcertante discordanza della narrazione su taluni aspetti tutt'altro che secondari della vicenda di Noè: discordanza attribuibile proprio alle diverse tradizioni che hanno concorso alla stesura finale.
Se al versetto 6,19 Dio dice a Noè di far entrare nell'Arca una coppia per ognuna delle specie viventi, poche righe più avanti (7,2) viene introdotta la distinzione tra animali mondi e non mondi e, mentre il numero rimane fermo ad una coppia per quelli non mondi, aumenta a sette paia per gli animali mondi.
Inutile dire, a proposito del numero degli animali, che è certamente da considerarsi un inutile esercizio matematico (ammesso poi che si riesca a trovarne la soluzione) il calcolarne quanti ne furono stipati nell'arca, ipotizzare la loro collocazione al suo interno e immaginare le soluzioni logistiche adottate da Noè per affrontare la sua avventura…

Sempre a proposito di discordanze, ancora più sconcertante è l'indicazione della durata del Diluvio: la versione sacerdotale è estremamente dettagliata nell'elencare la scansione temporale delle varie fasi e addirittura fissa con precisione il giorno e quello conclusivo facendo durare l'intera vicenda 375 giorni (notiamo, per inciso, che il giorno nel quale Noè esce dall'arca corrisponde, nel calendario babilonese, al primo giorno dell'anno, e questo la dice lunga sugli intenti dottrinali di tale tradizione).
Non è così dettagliato, invece, il racconto jahvista, per il quale la durata complessiva (pioggia + ritiro delle acque + vicende del corvo e della colomba) ammonta a 101 giorni.

Incerta è anche la natura del fenomeno-diluvio.
Per il racconto sacerdotale il diluvio riveste il carattere di una catastrofe planetaria e di un ritorno al caos primordiale; "eruppero le sorgenti del grande abisso e si aprirono le cateratte del cielo": tutto viene ricondotto alle condizioni iniziali della creazione, all'epoca in cui ancora non era avvenuta la separazione tra acque superiori ed inferiori (Genesi 1,7), ed il vento che Dio manda per far abbassare le acque sulla terra non può non richiamarci "il soffio di Dio che aleggiava sulle acque" prima che venisse pronunziato il "fiat lux!".
L'intento dottrinale è chiaro: siamo di fronte ad una seconda creazione dell'umanità, alla nuova creazione suggellata da un nuovo patto (simboleggiato dall'arcobaleno) dopo il fallimento di quello stipulato con Adamo
Non si trova, invece, questa connotazione nel racconto dello jahvista: secondo la sua versione "cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti", presentando dunque il diluvio come un evento certamente eccezionale, ma pur sempre nell'ambito dei fenomeni naturali.

Ma non vi sono solo discordanze nelle due tradizioni dal cui intreccio ci proviene il racconto biblico del Diluvio universale: uguali infatti sono il punto di partenza ed il punto di arrivo dei racconti.
Per ambedue le tradizioni "ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra" e "ogni disegno concepito dal suo cuore non era altro che male": l'origine del Diluvio è dunque da imputare alla condotta dell'uomo.
Ben diversa - vedremo - è la causa scatenante il Diluvio nel racconto di Gilgameš: nell'epopea mesopotamica l'unica colpa dell'umanità è quella di essere diventata troppo numerosa, non vi è alcun giudizio morale o etico sul suo comportamento.
Per lo scrittore ebraico non poteva essere così.
Nella sua visione della storia il Diluvio è la punizione di Dio per la condotta depravata dell'uomo; è questa condotta che rende necessaria una rifondazione delle regole del vivere civile, un nuovo sollevarsi dal caos nel quale era ripiombata l'umanità.

Dal racconto emerge anche la necessità di rassicurare l'umanità che non vi sarà più il ritorno al caos primordiale e che l'esperienza del Diluvio non verrà più rivissuta dall'uomo e proprio in questa luce va interpretata la promessa di Dio a Noè al termine della sua avventura.
Nella versione jahvista è la promessa che il regolare ritmo della vita (giorno/notte, estate/inverno, seme/messe) fissato fin dalla creazione del mondo non verrà mai più interrotto; in quella sacerdotale la valenza è più profonda e riveste i toni di una vera e propria alleanza che Dio stipula con il creato, in armonia con la specifica finalità che tale tradizione si era proposta.
E non è azzardato pensare che questa esigenza di rassicurare l'umanità per i futuro non abbia solamente un significato religioso, ma possa avere le sue radici profonde in esperienze (magari ripetute) di crollo della società civile, un ricadere nel caos primordiale la cui eco doveva essere ancora molto viva nei racconti della tradizione orale di quei popoli.

Dal sito http://www.geocities.com/elidoro/index.html

Tomás de Torquemada
16-03-02, 14:02
I Diluvi Mesopotamici
(Epopea di Gilgamesh
Atra-hasis
Zi-u-sud-rà)

Doveroso iniziare da un sintetico quadro storico delle vicende che hanno interessato la fertile terra mesopotamica dagli albori dell'umanità fino al 1000 a.C.
In greco il nome Mesopotamia significa "tra due fiumi" e indica la regione dell'Asia compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate, nella quale si svilupparono le civiltà sumera, assira e babilonese.
Le fertili pianure della Mesopotamia attrassero da sempre le popolazioni delle regioni vicine più povere e la sua storia è dunque fatta di migrazioni e invasioni.
Le precipitazioni sono scarse nella maggior parte del paese, ma il suolo, se irrigato con i canali, produce abbondanti raccolti. Entrambi i fiumi sono pescosi e nelle paludi meridionali vi sono uccelli selvatici.
La necessità di provvedere alla difesa e all'irrigazione spinse gli antichi popoli della Mesopotamia a progettare e costruire canali e insediamenti fortificati.
Tra il VI e il IV millennio a.C. questi ultimi crebbero divenendo città.
Il più antico centro urbano della regione fu probabilmente Eridu, ma il più importante fu Uruk (la biblica Erech) nel sud, dove sorgevano templi costruiti con mattoni d'argilla e decorati con sculture di pietra.
Lo sviluppo sociale stimolò anche l'invenzione di una forma di scrittura cuneiforme.

Questi primi centri urbani, sorti a nord dell'Eufrate, furono probabilmente Sumeri. Altri importanti insediamenti sumeri furono Kish, Larsa, Nippur e Ur.
Il nome Sumer risale probabilmente all'inizio del III millennio a.C.; la sua storia è stata ricostruita a partire da frammentarie iscrizioni in alfabeto cuneiforme rinvenute su tavolette d'argilla e da altre testimonianze archeologiche.
Il primo re sumero di cui si hanno notizie è Etana, re di Kish (2800 ca. a.C.), descritto in un documento di alcuni secoli dopo come "l'uomo che diede stabilità al paese".
Prima della metà del III millennio a.C., sotto la guida di Lugalanemundu di Adab (2525-2500 ca. a.C.), l'impero sumero si estendeva dai monti Zagros sino alla catena del Tauro e dal golfo Persico sino al mar Mediterraneo.

Verso il 2330 a.C. la regione fu conquistata dagli Accadi, popolazione semitica proveniente dalla Mesopotamia centrale, il cui re, Sargon I, chiamato il Grande (che regnò dal 2335 al 2279 ca. a.C.), fondò la dinastia di Akkad. La lingua accadica cominciò a sostituire il sumero.
La dinastia accadica durò per circa un secolo fino a quando, dopo che tribù dei Gutei provenienti dalle montagne orientali misero fine, verso il 2218 a.C., al suo dominio, lasciò il posto alla III dinastia di Ur che governò gran parte della Mesopotamia.
Invasori provenienti dal regno settentrionale di Elam distrussero la città di Ur attorno al 2000 a.C.: il frazionamento dell'impero si protrasse fin verso la metà del XVIII secolo, quando Hammurabi di Babilonia (1792-1750 a.C.) unificò di nuovo il paese, anche se solo per pochi anni alla fine del suo regno.
Intorno all'anno 1595 a.C. gli Ittiti, la nuova grande potenza che rivaleggiava anche con l'Egitto e l'Assiria saccheggiarono Babilonia, ma il controllo di questa città-stato e della regione della Mesopotamia meridionale venne ben presto preso dai Cassiti, sotto i quali conobbe grande splendore e prosperità.
Verso il 1350 a.C. fu il regno di Assiria ad affermarsi nella Mesopotamia settentrionale: le armate assire sconfissero i Mitanni di Assur, conquistarono Babilonia verso il 1225 a.C. e raggiunsero il Mediterraneo attorno al 1100 a.C.

Ma veniamo al personaggio più noto dei racconti mesopotamici riguardante il diluvio: Gilgamesh.
Sui libri di storia troviamo riportata con grande risalto l'opera di Hammurabi (il re babilonese vissuto tra il 1792 e il 1750 a. C. reso famoso dal suo codice di leggi), ma sicuramente l'opera di Gilgamesh non fu da meno, tanto che, nell'immaginario collettivo del tempo, fu elevato al rango di eroe.
Ciò che conosciamo di Gilgamesh è presto detto: è un re sumero vissuto nella città di Uruk sulle rive del fiume Eufrate (la zona geografica attualmente occupata dall'Iraq) in un'epoca solitamente identificata con il Terzo Periodo Protodinastico (tra il 2700 e il 2500 a. C.) anche se, come ho modo di precisare in altre pagine, questa collocazione lascia qualche perplessità.
Nella cultura mesopotamica Gilgamesh è senza dubbio l'Eroe per eccellenza, come risulta evidente dalle numerose riedizioni della sua Epopea, sopravvissuta praticamente indenne anche al cambio di linguaggio e di cultura, in grado di attraversare le varie dominazioni che si sono succedute in quell'area
L'Epopea di Gilgamesh è un poema epico assiro-babilonese, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla nel III-II millennio a.C. e prende nome dal protagonista, il re babilonese di Uruk (l'attuale Warka in Iraq), l'eroe che con il compagno Enkidu affronta avventure di ogni genere, alla ricerca del segreto dell'immortalità.
L'Epopea di Gilgamesh è l'opera più vasta finora ritrovata in Mesopotamia e ci è giunta in varie versioni e lingue: quella più lunga, in dodici canti, proviene dalla biblioteca di Assurbanipal (VII sec. a.C.). Si conoscono inoltre traduzioni ittite e hurrite di alcune parti del poema.
Sintetizziamo al massimo la vicenda:

Il re Gilgamesh - personaggio inquieto e turbolento - opprime i suoi sudditi, gli abitanti di Uruk, che finiscono per lamentarsi con gli dei. Questi inviano allora la dea madre Aruru che crea con l'argilla Enkidu, un bruto coperto di peli.
Enkidu, che raffigura l'uomo innocente della pianura, è destinato a domare l'arrogante Gilgamesh e, dopo aver sostenuto con lui una lotta selvaggia, diventa suo amico inseparabile e compagno di numerose imprese eroiche. Quando la dea dell'amore Ishtar si infatua di Gilgamesh, cercando di sedurlo, e l'eroe la rifiuta schernendola, Ishtar, offesa, comanda al dio del cielo Anu di inviare sulla terra il "Toro celeste". Questi massacra centinaia di guerrieri e devasta la città di Uruk, ma Gilgamesh ed Enkidu riescono a ucciderlo.
Rimasto solo, dopo la morte di Enkidu, voluta dagli dei, Gilgamesh decide di mettersi alla ricerca dell'immortalità e del solo uomo che sia riuscito a diventare immortale: Ut-napištim, l'eroe del diluvio.
Quando riesce ad incontrarlo, questi gli narra la storia del diluvio e gli rivela che in fondo al mare esiste la pianta dell'eterna giovinezza. Gilgamesh riesce a raggiungerla ma, sulla strada del ritorno, viene derubato dell'erba preziosa da un serpente.
Torna allora, stanco e deluso, a Uruk, dove terminerà i suoi giorni avendo ormai compreso che l'immortalità non spetta agli uomini ma appartiene solo agli dei: l'unica consolazione che gli resta è quella di contemplare le potenti mura della sua città.

L'edizione del poema di Gilgamesh che possediamo non va oltre l'VIII secolo a.C., ma le tradizioni orali che (come per il più antico poema di Atra-hasis) ne costituiscono la fonte primaria si possono far risalire al III millennio a.C., se non addirittura prima.
Il racconto più antico che possediamo (databile nel periodo medio-babilonese, tra il 1600 e il 1200 a.C.) è contenuto in 13 frammentarie linee di una tavoletta conservata a Philadelphia (University Museum - reperto CBM 13532).

[ ] … [ ] a te
[ ] renderò chiaro:
[un Diluvio] spazzerà via tutti gli uomini.
[quanto a te salverai la vi] ta prima che il Diluvio abbia inizio
[su tutte le cit] tà, per quante esse siano, porterò rovina,
distruzione, devastazione.
[ ] una grande nave costruisci:
[ ] fa' che la sua struttura sia tutta di canne;
[ ] che sia una nave maqurqurrum: "Salvezza di vita"
sia il suo nome.
[ ] con un resistente tetto ricoprila.
[nella nave che] tu costruirai
[porta] le bestie dei campi, gli uccelli del cielo
[ ] accumula
[ ] la famiglia
[ ]


http://correodelasculturas.files.wordpress.com/2007/10/gilgamesh_gilgameshseal.jpg
Immagine tratta dal sito http://correodelasculturas.files.wordpress.com/

Pur nella frammentarietà del reperto, ci sono tutti gli ingredienti tipici dei racconti sul Diluvio: la decisione dell'annientamento di ogni vita, la scelta di un superstite perché la vita possa ricominciare e le disposizioni per la costruzione dell'arca, alla quale, in questo frammento, viene dato un nome ben preciso.

Vediamo dunque più da vicino il racconto del Diluvio contenuto nell'Epopea di Gilgamesh e, come abbiamo fatto per il racconto biblico, proviamo a suggerire alcune chiavi di lettura.

Già si è segnalata la differente causa che i racconti biblici suggeriscono quale responsabile della decisione di Dio di scatenare il Diluvio rispetto a quella presentata dalle parole di Ut-napištim a Gilgamesh: nella tradizione mesopotamica l'umanità non ha alcuna colpa morale, ma deve soccombere unicamente perché è troppo numerosa ed il suo frastuono disturba il sonno degli dei.
Facile, poi, dal punto di vista narrativo, per l'autore mesopotamico gestire il racconto identificando il dio buono che si prodiga in tutti i modi per salvare Ut-napištim (il dio Ea) ed il dio cattivo che invece vorrebbe lo sterminio totale (il dio Enlil); ben più complicata era la situazione per lo scrittore ebraico che doveva impostare il racconto costruendolo sulle basi di un monoteismo assoluto (ecco allora che in questa luce si può spiegare la descrizione biblica di Dio che "si addolorò in cuor suo" - Genesi 6,6 - e che rivela in sé quel conflitto tra amore e odio tipico del cuore dell'uomo).

Il racconto della costruzione dell'arca è molto dettagliato, più che nel racconto biblico; si vede inoltre come Ut-napištim non sia l'unico ad occupare la scena: accanto a lui vi è un intero popolo che fa domande, che vuole sapere i motivi di questa sua opera.
Di più: convinto dalle parole di Ut-napištim (suggeritegli dal dio), è il popolo stesso che edifica l'arca, che, inconsciamente, costruisce la possibilità di un futuro di vita.
Particolare non trascurabile è che sull'arca trovano posto non solo gli animali e la famiglia dell'eletto dagli dei, ma anche tutti gli artigiani.
L'umanità non ricomincia il suo cammino da zero. Non sono cancellate le conoscenze e le abilità acquisite dall'homo faber fino a quel punto del suo cammino!
Questo particolare dà un tocco di maggiore credibilità al racconto mesopotamico: come spiegare altrimenti una linea evolutiva che non ritorna a zero, ma viene solamente sospesa per la durata del Diluvio e poi continua la sua ascesa?
Nel poema di Gilgamesh l'umanità non ripiomba nel caos, ma dopo questa parentesi continua il suo cammino verso la meta, identificata nell'immortalità, nel diventare come dio.
Suggestiva anche la scansione temporale degli eventi nel ritmico avanzare a passi di sette giorni (sette giorni dura la costruzione dell'arca, sette giorni è la durata del Diluvio, sette giorni ancora la ritirata delle acque); impossibile non pensare al significato mitico e magico che tale numero doveva rivestire per le popolazioni mesopotamiche.
Il parallelo con i sette giorni del racconto della creazione nel libro della Genesi è immediato, come pure è immediato pensare all'uomo plasmato dalla polvere del suolo (Genesi 2,7) quando Ut-napištim dice a Gilgamesh che al termine del Diluvio l'intero genere umano era ritornato argilla.
Molto significativa anche la descrizione del terrore di tutti gli dei quando si scatena il Diluvio; tutti rannicchiati, pieni di paura, al riparo delle mura del dio Anu non hanno più alcuna parvenza divina.
E' da intendersi come una prima riflessione teologica sulla scelta fondamentale tra monoteismo e politeismo? Questo non sono in grado di provarlo, ma il sospetto è molto forte…

L'altro grande racconto mesopotamico riguardante il Diluvio è il Poema di Atra-hasis.
Atra-hasis è il grande saggio (questo è il significato del nome), l'uomo che ha con il suo dio Enki un rapporto privilegiato perché "lui poteva parlare con il suo dio e il suo dio poteva parlare con lui".
Grazie a questo rapporto di elezione potrà salvarsi dallo sterminio.
Il Poema di Atra-hasis non comprende solamente l'episodio del Diluvio, ma ha un respiro più ampio, raccontando anche l'epica della creazione del mondo.
Nella visione cosmologica dell'autore il cielo è governato da Anu, la terra da Enlil e le acque sono giurisdizione di Enki.
Il Pantheon non è limitato a questi tre dei, ma comprende una schiera di dei minori, ai quali è stato assegnato il compito di coltivare la terra e curare la sua irrigazione; compito gravoso, tanto che ben presto gli dei minori si stancano e chiedono che venga creato un sostituto, qualcuno che possa sollevarli dal loro pesante fardello.
Viene dunque creato l'uomo, modellato dalla dea Mami mescolando l'argilla con la saliva e con il sangue del dio We, un dio minore sacrificato proprio per questo fine.
Il seguito del racconto ricalca quanto già incontrato nella vicenda di Ut-napištim: il frastuono dell'umanità, diventata molto numerosa, disturba il sonno di Enlil, che decide di sterminarla.
Prima manda la pestilenza, dopo di questa la carestia, poi la siccità ed infine il diluvio; ma ogni volta Enki avvisa il suo protetto Atra-hasis affinché possa sopravvivere ad ogni disastro.
Sette giorni prima del diluvio lo invita a costruire una nave nella quale caricare gli animali e quanto possiede per scampare in tal modo all'ultima e più micidiale azione del dio Enlil.
Solo dopo che l'umanità è stata distrutta gli dei si rendono conto che hanno scioccamente eliminato la loro forza-lavoro e si pentono della loro decisione.

La versione del Poema di cui disponiamo non è un corpus unico, ma è costituita da un insieme di tavolette provenienti da epoche diverse, fatto questo che testimonia la grande diffusione dell'opera tra la popolazione babilonese.
E' stato definito uno dei probabili musical dell'epoca, fatto questo testimoniato dalle ripetizioni nel testo, dai richiami continui, quasi fossero ritornelli o parti corali.
Del testo più importante (che è anche quello più antico) conosciamo non solo il nome dell'autore, ma anche la data precisa (giorno, mese e anno) nella quale le tre tavolette del poema vennero completate e addirittura, con precisione quasi maniacale, il numero complessivo delle linee di caratteri cuneiformi che erano state incise sulle otto colonne di ogni tavoletta.
L'autore è Nur-aya, il giovane scriba e la datazione della stesura del documento può essere fissata tra il 1636 e il 1635 a.C.

Molti sono i punti comuni con il racconto di Ut-napištim nell'epopea di Gilgamesh, e molti sono anche i formidabili richiami alla spiritualità tipica della Bibbia: il respiro da cui hanno tratto origine i racconti è lo stesso.
Evidente è nel Poema di Atra-hasis il tentativo di una riflessione teologica sulle vicende umane, il voler trovare una giustificazione a quanto l'umanità ha incontrato e incontra nel suo cammino e, ancora più in profondità, la certezza che nell'uomo ci deve essere qualcosa di altro dalla carne e dal sangue.
Nell'uomo è radicato anche l'ingrediente divino, simboleggiato dal sangue del dio We, che rende possibile non solo ad Atra-hasis di parlare a tu per tu con il suo dio, ma anche di potere sfuggire alla distruzione totale.
Il messaggio è chiaro: vi sarà sempre una parte di umanità che sopravviverà ad ogni Diluvio purché tenga ben saldi i rapporti con il suo lato divino e non ne perda la consapevolezza.
Troppo azzardato il parallelo con il dantesco "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza" che il poeta pone sulle labbra di un altro eroe-simbolo dell'umanità, Ulisse, alle soglie del Grande Viaggio? Può darsi, ma a me piace pensarla così.

Non ci resta che esaminare, a questo punto, anche la tradizione sumerica del Diluvio ed il suo eroe: Zi-u-sud-rà.
Il testo che possediamo è molto frammentario e, a differenza dei racconti analizzati finora, non si conoscono dei duplicati che possano consentire una lettura più omogenea.
E' redatto in sumerico e la datazione più attendibile colloca la sua stesura tra il XVIII e il XVII secolo a.C., epoca nella quale la lingua sumerica era stata soppiantata da altri idiomi e sopravviveva solamente nei documenti letterari.

Nonostante le grandi lacune del racconto, non è difficilei vedere anche in questa narrazione l'ormai nota scansione temporale degli eventi: la decisione del dio (cattivo) di distruggere l'umanità cui si contrappone l'azione salvifica del dio (buono) a favore del suo eletto, la potenza devastante del Diluvio ed il ritorno del dio sulla terra ormai deserta, il sacrificio finale che il prescelto compie al dio per ringraziarlo dello scampato pericolo e, a conclusione del racconto, il premio dell'immortalità per il prescelto.
Nel racconto sumerico l'eroe si chiama Zi-u-sud-rà e viene presentato come re di Suruppak e sacerdote di vaticini; anche in questo racconto è la pietas dell'uomo che lo pone al sicuro sotto le ali del suo dio, che non esita persino ad andare contro il giuramento del silenzio fatto agli altri dei.
Come negli altri racconti mesopotamici vengono salvate unicamente le apparenze di tale giuramento e anche nel racconto sumerico il dio Enki utilizza l'infantile sotterfugio di rivolgersi ai muri della capanna di Zi-u-sud-rà perché anch'egli senta e si possa salvare.
A causa della frammentarietà del testo nulla possiamo sapere delle cause che hanno indotto gli dei a prendere la decisione di inviare il diluvio, come nulla conosciamo dell'arca, delle sue dimensioni e della sua forma, ma sono convinto che integrando idealmente questo racconto con gli altri racconti che abbiamo esaminato non ci allontaneremmo poi molto dalla narrazione originaria.
Credo sia perlomeno curioso il fatto che, in questa versione sumerica, il Diluvio colpisca anzitutto i luoghi di culto e da questi dilaghi poi in tutto il paese: dobbiamo leggere questo come l'indicazione che i luoghi di culto costituiscono l'essenza stessa del vivere civile (e dunque il crollo della società deve iniziare dalla loro distruzione) oppure come la registrazione di un repentino cambiamento nelle concezioni religiose con la conseguente necessità di fare piazza pulita delle manifestazioni religiose precedenti?

Dal sito http://www.geocities.com/elidoro/index.html

Tomás de Torquemada
16-03-02, 14:07
Il Diluvio per la Scienza

Il titolo che ho scelto per questa pagina destinata a completare quanto in precedenza ho cercato di proporre in merito all'evento-Diluvio può in qualche modo essere fuorviante e suggerire aspettative che risulterebbero alla fin fine non esaudite. Per tale motivo ritengo corretto chiarire brevemente quale sarà il contenuto del lavoro che vi accingete a leggere, rischiando magari, a causa di questa mia decisione, di perdere fin dall'inizio alcuni potenziali lettori: meglio comunque pochi lettori consapevoli che molti delusi (anche perché, a dirla proprio fino in fondo, non è proprio al primo posto delle finalità che mi sono fissate l'acquisizione di un vasto uditorio).
Per quanto mi risulta la Scienza non ha ancora dato nessuna risposta definitiva ai numerosi interrogativi che sono inevitabilmente correlati con il Diluvio: ci sono - questo sì - alcune ipotesi percorribili e degne di approfondimento, ma sono - purtroppo - circondate e soffocate da una ben più ampia serie di teorie spacciate come scientificamente fondate e che finiscono con l'obbligare ad una sana e razionale diffidenza in attesa di prove concrete. Riuscire a distinguere tra seri ricercatori e ciarlatani è comunque spesso molto difficile, soprattutto in campi di indagine nei quali le prove concrete non sono universalmente accertate e accettate, ma ciascuno può addurre praticamente ciò che vuole a sostegno della sua tesi.
Non troverete qui, dunque, ardite ipotesi o tesi fantascientifiche, facilmente recuperabili, per chi ne fosse appassionato, sugli scaffali delle librerie: voglio muovermi con i piedi di piombo e analizzare senza facili sensazionalismi e altrettanto facili ipotesi fantastiche i fatti a nostra disposizione.
Questo può anche comportare - ma è la legge della Scienza - che domani qualcuno mi possa far notare di aver tralasciato importanti indizi, o aver tratto conclusioni sbagliate; sicuramente nessuno potrà accusarmi di non aver cercato di fare un serio lavoro di indagine.
Un primo tassello del mosaico che ho intenzione di costruire dobbiamo ricercarlo nei risultati della campagna di scavi archeologici che Sir Leonard Woolley (1880-1960) compì tra il 1928 ed il 1934 nel sito su cui sorgeva l'antica città di Ur: non importa se quasi subito dovremo frenare i nostri entusiasmi e mettere in discussione che sia proprio quanto stavamo cercando, ma si tratta comunque di una scoperta fondamentale.
Durante tale campagna gli operai addetti agli scavi si imbatterono in uno strato di fango alluvionale che, ad una prima analisi, sembrava essere il terreno vergine sul quale era stata innalzata la prima serie di costruzioni di Ur; un particolare, però, insospettì Woolley: tale strato si trovava parecchi metri più in alto rispetto al livello circostante, il che poteva significare che, al di sotto di tale strato di limo, ci potesse essere una stratificazione di reperti di epoca anteriore.
Gli operai non condividevano l'idea di Woolley, sostenuti in ciò dall'evidenza concreta che dal loro scavo non emergeva nulla di interessante: alla superficie veniva riportato soltanto fango e neppure la minima traccia di insediamenti umani.
Due metri più sotto, però, li aspettava la sensazionale scoperta di strumenti di selce e frammenti di vasellame identificati successivamente come risalenti al Terzo periodo di Ubaid, convenzional-mente datato tra il 4500 ed il 4000 a.C.
L'analisi microscopica dei sedimenti fangosi escluse un'origine marina e suggerì quale possibile causa una catastrofica inondazione riconducibile allo straripamento del fiume Eufrate.
Inevitabile identificare lo strato alluvionale come la traccia di una potente inondazione capace di spazzare dalla faccia della Terra la fiorente civiltà che popolava quella zona, nascondendo ogni vestigia del suo splendore sotto due-tre metri di depositi fangosi. Inevitabile, di conseguenza, associare tale scoperta alla vicenda di Noè ed ai racconti sumerici svelati in tutta la loro misteriosa somiglianza con la saga biblica del Diluvio grazie alla decifrazione della scrittura cuneiforme.

Tutto risolto? Troppo facile!
Ancora non si era raffreddata l'euforia per la clamorosa scoperta che sulla scena apparve un nuovo fondamentale elemento: gli scavi nella regione irachena anticamente occupata dagli insediamenti sumeri fecero prepotentemente balzare sotto gli occhi di tutti le tracce di un secondo Diluvio.
L'archeologo autore delle scoperte fu Stephen Langdon, che nel 1929 pubblicò il resoconto del ritrovamento di tracce di una inondazione nei pressi delle città di Shuruppak (la moderna Fara) e di Kish: l'analisi stratigrafica permetteva di collocare l'evento nel periodo storico denominato Proto-dinastico datato tra il 2900 ed il 2700 a.C.
La datazione decisamente più recente di quella attribuita al Diluvio di Woolley, abbondantemente in periodo storico e di conseguenza ben documentabile con opere letterarie, e la coincidenza con il fatto che proprio Shuruppak è la città nominata nell'Epopea di Gilgameš spingevano in modo prepotente a considerare "autentico" il Diluvio messo in luce dagli scavi di Langdon.
La disputa, ovviamente, tenne desta l'attenzione dell'opinione pubblica ed ebbe ampio risalto anche sui giornali dell'epoca con autentiche cacce all'ultimo scoop.
La distanza temporale tra i due avvenimenti non consentiva neppure di tentare di conciliare le due scoperte considerandole vestigia di un unico avvenimento. Era troppo evidente che si trattava di eventi ben distinti!
L'unica conclusione possibile non poteva essere che questa: ricercando le tracce di UN Diluvio, ci si trovava inaspettatamente a dover fare i conti con DUE eventi analoghi, avvenuti più o meno nella stessa zona geografica, ma in epoche storiche diverse, distanti 1500 anni l'una dall'altra.
Quale dei due era il Diluvio di Noè? quale quello di Ziusudra e di Gilgameš? quale legame si poteva scorgere tra le differenti tradizioni? Mistero fitto!


http://www.equidistanze.it/img/mar%20nero%20tempestoso.jpg
Il Mar Nero - Immagine tratta dal sito http://www.equidistanze.it/

I misteri, solitamente, hanno la naturale e spiccata tendenza ad infittirsi sempre più, ed anche quello del Diluvio ha fatto di tutto per non sottrarsi a questa regola, forte, in questo, di un noto proverbio che recita "Non c'è due senza tre"….
Un balzo temporale di una cinquantina di anni ed un piccolo spostamento geografico più a nord-ovest, nella zona attualmente occupata dal Mar Nero, ci consente di imbatterci in nuovi e interessanti sviluppi negli studi relativi alla collocazione storica degli eventi del Diluvio.
Risale alla fine degli anni ‘80, infatti, l’idea che la zona attualmente occupata dalle acque del Mar Nero non fosse sempre stata allagata; si ipotizza, infatti, che al posto delle acque salate si stendesse una fertile pianura con un piccolo lago di acqua dolce nel mezzo, probabilmente sede di numerose comunità neolitiche dedite sia all’agricoltura che alla pesca, situazione ipotizzabile come logica conseguenza di un ambiente così favorevole.
Una prima datazione con il metodo del radiocarbonio effettuata su conchiglie estratte con dei carotaggi da quella che anticamente era la spiaggia del lago avrebbe confermato che tale situazione si poteva far risalire a circa 9000 anni fa.
L’identificazione della causa e la spiegazione del meccanismo che potesse aver portato ad un tale radicale sconvolgimento dell’habitat di quella zona è molto semplice, attribuendo tale evento ai fenomeni associabili al termine dell’ultima glaciazione.
Con il graduale ritiro su scala planetaria del fronte dei ghiacci si verificò il conseguente innalza-mento del livello dell’acqua negli oceani con inevitabile occupazione da parte delle acque di molti territori che fino ad allora si erano trovati all’asciutto.
La vallata del Mar Nero era però separata dal mare esterno, nella zona attualmente identificabile con lo Stretto del Bosforo, da una sorta di diga naturale; tale distinzione, tra l’altro, non era proprio un fatto recente e transitorio, dal momento che la separazione del Bacino di Tethys (così è chiamata la depressione occupata dal Mar Nero) dal Mediterraneo viene dai geologi collocata circa 40 miliardi di anni fa.
Ma con lo scioglimento dei ghiacci accumulatisi durante l’ultima era glaciale si verifica un evento di inaudita violenza.
Tutto comincia in sordina. Gradatamente in quella stretta diga naturale inizia ad insinuarsi l’acqua del Mediterraneo: giorno dopo giorno i modestissimi rivoli iniziali diventano torrenti e, inevitabilmente, la tenuta di quella sorta di muro di contenimento viene diminuendo sempre più finché avviene l’irreparabile.
Improvvisamente i mille ruscelli si trasformano in grandiose cascate: decine, centinaia, migliaia di volte più grandi delle cascate del Niagara; una stima del flusso d’acqua ipotizza un travaso dal Mediterraneo di circa 340.000 metri cubi al minuto!
In brevissimo tempo (un paio di settimane) la fertile vallata è completamente occupata dalle acque salate del Mediterraneo, e, come se non bastasse, al veloce innalzamento delle acque sul terreno fa da controcanto un incredibile e drammatico aumento di precipitazioni.
Il vertiginoso aumento dell’evaporazione, imputabile in parte ai normali fenomeni di evaporazione delle acque del bacino che si andava formando, ma incrementato in modo decisivo dalla intensa polverizzazione dell’acqua in caduta dalle cascate, si traduceva in piogge torrenziali e violen-tissime: le popolazioni (mi si passi la banalità dell’accostamento) erano prese proprio tra due… fuochi e l’unica possibile salvezza era la fuga verso i monti che delimitavano l’invaso.
Direi inevitabile l’accostamento di una tale situazione a quanto i racconti del Diluvio ci presentano raccontandoci la contemporanea apertura delle cateratte celesti e degli abissi sotterranei…
Le sorprese maggiori, però, provengono dalle recentissime (1999) ricerche effettuate da Walter Pitman e Bill Ryan sul fondo del Mar Nero.
Gli studi dei due ricercatori non solo hanno consentito di verificare la teoria scoprendo l’antico profilo del lago, ma hanno letteralmente sconvolto le precedenti datazioni dell’evento.
I carotaggi effettuati sul fondo del Mar Nero, infatti, hanno mostrato la presenza di strati di argilla con segni evidenti dell’azione disseccante del sole e fratture nelle quali l’azione del vento aveva depositato granelli di sabbia: segno indiscutibile che, un tempo, quei terreni erano soggetti all’azione combinata del sole e del vento, dunque non erano certamente ricoperti dalle acque.
Il fatto maggiormente degno di nota, però, è stata la scoperta in questi strati argillosi di piante legnose ed erbe, materiale organico per il quale era possibile applicare le tecniche di datazione con il metodo del radiocarbonio: la misurazione (confermata entro i limiti sperimentali da tutti i campioni prelevati nei vari carotaggi) indicava una datazione di 7540 anni.
Dunque bisognava collocare l’inondazione in un’epoca molto più recente di quanto ipotizzato in precedenza: l’evento non si era verificato nel 7000 a.C., bensì nel 5500 a.C.
Il fatto, poi, che i reperti presentassero all’incirca la stessa datazione doveva essere interpretato come il segno evidente che la catastrofica inondazione non poteva essere stato un graduale riempimento della vallata, bensì un improvviso e rapidissimo cataclisma.
La collocazione dell’evento in epoca così vicina ha portato Pitman e Ryan a ipotizzare che si dovesse trattare di ciò che in seguito le culture mesopotamiche avrebbero tramandato nei loro racconti del Diluvio Universale: il gap temporale tra l’evento ed i primi racconti scritti di tale tradizione sarebbe stato colmato dai racconti orali tramandati tra i superstiti.

Dal sito http://www.geocities.com/elidoro/index.html

Tomás de Torquemada
20-04-02, 04:58
Le leggende e i rilevamenti geologici indicano una spaventosa inondazione nelle regioni del Mar Nero

La vera storia del diluvio universale

E’ una storia lunga e avvincente, quella dei diluvi. E’ la storia di un fenomeno naturale su cui popolazioni anche lontanissime fra loro (dalla Mesopotamia all’America centrale) hanno costruito leggende, miti di fondazione, testi sacri, e che di recente è stata restituita all’altra grande lente con cui l’uomo ama leggere il mondo: la scienza.
Fra le tante grandi inondazioni che hanno costellato la storia della Terra, una è diventata universale. Ma ci fu davvero un diluvio che possa essere messo in relazione al racconto biblico? Quando? In quali regioni?

E’ proprio l’intreccio fra storia e scienza, fra le narrazioni mitologiche e le rilevazioni geofisiche, ad aver entusiasmato Walter Pitman. Geofisico del Lamont-Doherty Earth Observatory, a Pasadena, un curriculum scientifico d’eccezione (i suoi studi sulle anomalie magnetiche marine rappresentarono una delle dimostrazioni più solide della teoria della tettonica delle placche: la "Stele di Rosetta per decifrare la storia geofisica della Terra"), Pitman è stato Trento per una conferenza nell’ambito della grande mostra sul diluvio universale che si è conclusa il 21 maggio presso il Museo tridentino di scienze naturali. Entusiasta della mostra (uno dei migliori esempi di mostra scientifica degli ultimi anni, coronata da un meritatissimo successo: per farsi un’idea, consultare http://www.mtsn.tn.it/diluvio/diluvio.html), racconta l’avventura di cui è stato protagonista negli ultimi anni della sua attività scientifica, e che ha raccolto nel volume Diluvio, scritto insieme al collega William Ryan (Edizioni Piemme, 1999).

Tutto cominciò nel 1972, in modo quasi fortuito. "In quel periodo io e Bill Ryan stavamo collaborando con un gruppo di ricercatori: John Dewey, Maria Cita, Ken Shu, e altri" racconta Pitman. "Alcuni di loro avevano da poco scoperto che cinque milioni di anni fa il Mediterraneo si era completamente seccato, e si inondò successivamente in modo catastrofico. Durante una conversazione, Dewey ci domandò se questo evento potesse essere all’origine della leggenda sul diluvio universale. Naturalmente ci mettemmo a ridere, perché cinque milioni di anni fa non c’erano uomini che avrebbero potuto raccontarlo! Ma cominciammo ha discutere se un evento simile, cioè l’allagamento di un bacino prosciugato a causa di un incremento del livello del mare, fosse potuto accadere alla fine dell’ultima glaciazione, fra 20.000 e 4.000 anni fa. In questo periodo il livello del mare crebbe di circa 120 metri, ed è possibile che ci fosse qualche bacino marginale che si era prosciugato, e che il mare avesse potuto superare qualche passaggio e inondarlo".


http://www.puertachile.cl/articulos/2003/diluvio_dore.jpg
G. Dorè, Il Diluvio - Immagine tratta dal sito http://www.puertachile.cl/

Comincia a questo punto una lunga serie di campagne. "Innanzitutto abbiamo trovato che la struttura rocciosa del fondale del Bosforo, oggi coperta da sedimenti fino a 20 metri sotto il livello del mare, ha proprio una profondità di circa 100 metri, e risulta tagliata da profonde gole che sembrano prodotte da un rapido scorrimento d’acqua" racconta Pitman.
Dopo la guerra fredda, i russi misero a disposizione di Pitman i risultati dei loro studi sui fondali del Mar Nero, nonché una nave da ricerca completamente attrezzata. "Grazie a questa collaborazione abbiamo individuato una superficie alluvionale a una profondità di circa 150 metri: abbiamo raccolto campioni sedimentari e abbiamo potuto dimostrare che i sedimenti al di sotto della superficie erano tipicamente d’acqua dolce, e quelli al di sopra erano di acqua salata. Tutto sembrava portare alla conclusione che a quell’epoca il Mar Nero fosse stato inondato dal Mediterraneo. Abbiamo analizzato anche conchiglie e fossili per datare l’inondazione: 5.600 anni prima di Cristo".

Ma ad aiutare i ricercatori non ci sono solo i dati geofisici: anche miti e leggende, sostiene Pitman, possono essere una straordinaria fonte di informazioni. "In questa regione sono nati quattro grandi miti associati al diluvio: quello biblico e tre di origine mesopotamica. Riportano tutti la stessa storia, fin nei minimi particolari: un’avvisaglia, la costruzione di una barca, il carico di animali e equipaggiamenti; l’inondazione arriva, il patriarca prende il largo con la barca insieme alla sua famiglia, poi libera gli uccelli per vedere se c’è una terra sicura su cui approdare, e finalmente lascia l’arca e fa una grande festa per il dio o gli dei".

Una storia che, se letta alla luce dei risultati scientifici e se confrontata coi numerosi reperti archeologici che indicano l’insediamento di nuove popolazioni in Anatolia, in Egitto, in Mesopotamia, in Ucraina e negli Urali proprio attorno a 7.400 anni fa, sembra proprio dare ragione a Pitman e colleghi. "Prima della nostra, la spiegazione più razionale era quella di un’inondazione dovuta allo straripamento del Tigri e dell’Eufrate. Ma le inondazioni di fiumi non avvisano, arrivano improvvisamente. Il Mar Nero invece avrebbe mandato alcuni segnali: prima che il Mediterraneo coprisse completamente il Bosforo (i nostri dati indicano un flusso di 50 chilometri cubici d’acqua al giorno, capaci di innalzare la superficie del Mar Nero di 15 centimetri al giorno), le popolazioni avrebbero avuto uno o due mesi di tempo per prepararsi a partire. Inoltre nei miti il patriarca parte per sempre, non tornerà mai più alla sua terra: nel caso di un’inondazione fluviale le popolazioni avrebbero potuto tornare una volta che l’acqua si fosse ritirata. Questi sono solo due esempi dei moltissimi elementi leggendari che contraddicono l’ipotesi dello straripamento di un fiume. Noi crediamo che lo scenario del Mar Nero corrisponda molto meglio alle leggende".

Matteo Merzagora

Da Tempo Medico del 24 maggio 2000

Dal sito http://www.zadig.it/

Tomás de Torquemada
29-05-02, 03:35
NEL MAR NERO TROVATA LA PROVA DEL DILUVIO UNIVERSALE?

Grande scoperta archeologica nelle acque del Mar Nero: lo scorso Settembre, impiegando una sonda munita di telecamera, un team di ricercatori statunitensi del National Geographic, tra cui l’esploratore Robert Ballard che nel ‘85 individuò i resti del Titanic, ha rinvenuto a circa 12 km dalla coste turche i resti di un edificio sommerso più di 7000 anni fa dall’innalzamento del Mar Nero. La sonda Argo ha fotografato manufatti di pietra ed ha ripreso un edificio rettangolare di quattro metri per 15, con mura formate da un impasto di fango e canne, e grandi tavole lavorate che forse coprivano l’edificio, tutto perfettamente conservato date le particolari condizioni prive d’ossigeno di tale mare. "La tipologia dell’edificio e le caratteristiche dei manufatti - ha affermato Ballard - corrispondono a quanto osservato dagli archeologi nei villaggi neolitici della terraferma. Questo edificio a 90 metri di profondità dimostra che oltre 7000 anni fa tali territori erano all’asciutto e il cataclisma che li sommerse dette origine al racconto del Diluvio". La scoperta convaliderebbe la tesi formulata nel 1997 da William Ryan del servizio geologico USA e Walter Pitman della Columbia University, secondo i quali le più antiche cronache sumere inerenti una grande catastrofe e il racconto biblico del Diluvio Universale non sarebbero fantasie, bensì la reminiscenza di un reale cataclisma avvenuto sulle coste del Mar Nero in seguito a intensi cambiamenti climatico-geologici avvenuti millenni prima. Un evento immane, che modificò la morfologia del pianeta, sconvolgendo la vita di popolazioni la cui tragedia venne tramandata nei secoli divenendo un "mito" biblico. L’ipotesi, supportata da prove geologiche, convinse il National Geographic e Ballard ad avviare un programma di ricerca teso al recupero di reperti archeologici che convalidassero il tutto. Comunque, data la rilevanza della scoperta, gli stessi ricercatori si riservano ulteriori studi prima di un responso definitivo.

Dal "Corriere della Sera" 14 Settembre 2000

Dal sito http://www.edicolaweb.net/

Tomás de Torquemada
09-09-02, 23:49
Il Diluvio Universale

Fino a 7.500 anni fa l'ampia zona oggi occupata dal mar Nero era probabilmente una fertile pianura, coltivata da popolazioni agricole provenienti dal Medio Oriente. Essa ospitava soltanto nella parte più depressa un piccolo lago e la sua altitudine era molto al di sotto del livello del vicino mar Mediterraneo.

Il ritrovamento sui fondali del mar Nero di conchiglie fossili non più antiche di 7.500 anni ha fatto ipotizzare che, conseguentemente ad eccezionali eventi meteorici, all'improvviso l'acqua del Mediterraneo abbia potuto rompere la diga naturale che la bloccava, in corrispondenza dell'attuale stretto dei Dardanelli.

L'acqua sarebbe dilagata nella pianura, precipitando per mesi da una cascata alta 150 m, in quantità 600 volte superiore a quella riversata dalle cascate del Niagara!

Tale evento catastrofico, che avrebbe portato alla nascita del mar Nero, avrebbe spinto le popolazioni che vivevano in quell'area a fuggire e sarebbe entrato nei miti dei popoli, dando vita al racconto biblico del diluvio universale.

Dal sito http://www.geologi.it/mem/geomar/index.html

Tomás de Torquemada
09-09-02, 23:49
Il Diluvio Universale

Fino a 7.500 anni fa l'ampia zona oggi occupata dal mar Nero era probabilmente una fertile pianura, coltivata da popolazioni agricole provenienti dal Medio Oriente. Essa ospitava soltanto nella parte più depressa un piccolo lago e la sua altitudine era molto al di sotto del livello del vicino mar Mediterraneo.

Il ritrovamento sui fondali del mar Nero di conchiglie fossili non più antiche di 7.500 anni ha fatto ipotizzare che, conseguentemente ad eccezionali eventi meteorici, all'improvviso l'acqua del Mediterraneo abbia potuto rompere la diga naturale che la bloccava, in corrispondenza dell'attuale stretto dei Dardanelli.

L'acqua sarebbe dilagata nella pianura, precipitando per mesi da una cascata alta 150 m, in quantità 600 volte superiore a quella riversata dalle cascate del Niagara!

Tale evento catastrofico, che avrebbe portato alla nascita del mar Nero, avrebbe spinto le popolazioni che vivevano in quell'area a fuggire e sarebbe entrato nei miti dei popoli, dando vita al racconto biblico del diluvio universale.

Dal sito http://www.geologi.it/mem/geomar/index.html

Tomás de Torquemada
23-03-03, 23:59
I sopravvissuti al Diluvio Universale
di Galileo Ferraresi

Fino alla fine del 1800 si pensava che il Diluvio Universale fosse una sorta di favola o mito religioso della bibbia (genesi 8,4) senza nessun punto in contatto con la realtà ma verso il 1880 iniziarono a circolare le prime copie della traduzione dall’accadico dell’Epopea di Gilgamesh, testo assiro in cui, con nomi diversi, si propone la stessa situazione del Diluvio biblico. Una storia senza contatti con la realtà può esistere, ma due cominciano ad essere un indizio, direbbero gli eroi dei romanzi gialli.

Quando si parla di Diluvio si fa una piccola confusione: si parla sia di piogge improvvise e che durano per tantissimo tempo e si parla anche di un’innalzamento enorme delle acque dei mari dovuto alla pioggia. Si pensa che la pioggia abbia innalzato il livello dei mari al punto da sommergere tutte le terre. È semplicamente impossibile: nella Terra e nell’atmosfera che la circonda non esiste la possibilità di avere tanta acqua. Si tratta di due cose diverse: una pioggia che durò per tantissimo tempo e una (o più di una) onda che travolse tutto, ove per “tutto” si intende quello che conoscevano i pochi sopravvissuti.

Se vi trovate su un’imbarcazione sollevata da un’onda vi sembrerà che “tutto” il mondo (costa o altre barche) sia in basso, e più l’onda è alta più sembrerà che il mondo che vi circonda sia inghiottito dal mare. Non c’è nulla da fare, l’uomo è fortemente egocentrico e come tale trova più semplice pensare che il mondo venga inghiottito dalle acque piuttosto che pensare di essersi alzato dalla superfice su cui si trovava poco prima.

Ai primi del 1900 furono avvistate per la prima volta i resti dell’Arca di Noè, o di qualcun altro, nei pressi di un ghiacciaio sul monte Ararat in Turchia ad un’altezza di circa 3500 metri. Furono effettuate decine e decine di spedizioni, riportati anche alcuni campioni di legno fossile dell’Arca e scattate delle foto[1].

Il mito del Diluvio ha ormai assunto connotazioni assurde: non si può ammettere che sia piovuto tanto da portare una nave di 110 metri di lunghezza a oltre tremila metri perché non può esistere tanta acqua sulla Terra, non si può pensare che qualcuno abbia costruito una nave a quell’altezza e in un luogo dove, con le moderne tecnologie, si riesce a resistere per pochissime ore, eppure la nave è là e dimostra che qualcosa di “particolare” deve essere successo.

Nel 497 a. e. v. Platone scrisse Il Timeo, il testo più citato da Aristotele, in cui si tratta della sfericità della terra, del suo movimento, del movimento delle stelle e dei pianeti, e in cui compare un’affermazione a dir poco interessante.

Un sacerdote egiziano di Sais (l’antica capitale culturale, politica ed amministrativa dell’Egitto) parlando con Solone gli disse: "Voi greci siete giovani e non sapete nulla di ciò che successe[2]… gli uomini sono stati distrutti e lo saranno ancora in vari modi. Dal fuoco e dall'acqua ebbero luogo le distruzioni più grandi, ma se ne verificarono altre di molti altri tipi come la leggenda che si racconta presso di voi che Fetonte rubò il carro del dio sole e non riuscendo a condurlo sul percorso normale incendiò tutto quello che c'era sulla terra e morì lui stesso[3]… La verità é questa: a volte si verifica una deviazione del movimento dei corpi che circolano in cielo. Ad intervalli di tempo molto grandi tutto ciò che é presente sulla Terra finisce per eccesso di fuoco. Coloro che abitano le montagne e i luoghi secchi muoiono più di coloro che vivono vicino ai mari e ai fiumi. Al contrario, quando gli dei purificano il mondo con l'acqua, tutti coloro che vivono vicino ai fiumi e ai mari sono travolti dalle acque e si salvano solo coloro che vivono sulle alte montagne, così si salvano solo i rozzi montanari e la civiltà deve ricominciare da capo.[4]"

Non vi sono dubbi sul fatto che il sacerdote parlasse di distruzioni avvenute varie volte sulla faccia della Terra, generate da fattori differenti, avvenute in tempi antichi ma pur sempre durante l’esistenza dell’uomo. Lo scritto cinese in cui si parla di alluvioni dovute ai fiumi che invertirono il loro corso trova una precisa corrispondenza in Platone quando riporta l’affermazione sulla distruzione dovuta all’acqua. La Cina e l’Egitto parlano di distruzioni simili.


http://www.sacredsites.com/middle_east/turkey/images/mt-ararat-500.jpg
Il Monte Ararat. A destra, il monastero di Khor Virap


L’Agricoltura

Dodicimila anni fa ebbe luogo la rivoluzione paleolitica: gli uomini iniziarono a coltivare la terra. Questo fenomeno avvenne contemporaneamente in tutta la terra. Dopo più di centomila anni d’esistenza improvvisamente l’homo sapiens inizia a coltivare. Perché non prima, perché non dopo, perché tutti assieme e contemporaneamente ma soprattutto perché gli uomini di tutto il mondo iniziarono a coltivare sulle montagne? Tutti sanno che si fa meno fatica a coltivare in pianura che in montagna, nessuno se non vi fosse obbligato dalla necessità coltiverebbe i terreni montagnosi. I tre luoghi più fertili della terra sono la pianura Padana, la valle del fiume Giallo e il delta del Mekong, eppure l’uomo del paleolitico che è stato in grado di realizzare la più grande invenzione della storia, l’agricoltura, nonostante avesse tutta la terra di questo mondo a disposizione è stato tanto scemo da iniziare a coltivare in montagna.

Il famoso botanico russo Nikolai Ivanovich Vavilov (1887-1943) scoprì che l’agricoltura ebbe inizio contemporaneamente in tutto il mondo negli altipiani oltre i 1500 metri d’altezza. Questa scoperta coincide straordinariamente con le affermazioni di Platone nella Repubblica in cui dice che la civiltà nacque sugli altipiani e con le affermazioni del sacerdote Egizio citato nel Timeo secondo il quale dopo una catastrofe da acqua si salvano solo i montanari e la civiltà nasce di nuovo. Ma non è tutto, dagli studi di Vavilov e di J. R. Harlan si deduce che l’agricoltura iniziò circa 11.600 anni fa, la stessa data a cui Platone fa risalire la distruzione di un continente mitico, Atlantide. Platone dice che Atlantide fu distrutto 9.000 ani prima di Solone, se consideriamo che visse 2.600 anni fa abbiamo che la fine di Atlantide fu nel 9.600 prima dell’era volgare, 11.600 anni fa, esattamente la data calcolata dai botanici.

Per spiegare il perché dell’agricoltura in montagna proviamo a pensare che cosa può essere accaduto quando l’asse terrestre si è spostato.

Supponiamo che un grosso meteorite abbia colpito la terra, nel luogo dell’impatto e per varie centinaia di chilometri tutto è stato immediatamente distrutto dall’urto e dall’energia sprigionatasi poi l’asse terrestre ha iniziato a spostarsi provocando ovunque terremoti, crolli e frane, l’acqua degli oceani a questo punto spinto dalla massa dei continenti in movimento ha iniziato ad allagare le terre che si spostavano verso di lui e a ritirarsi da quelle che si allontanavano dalla posizione precedente. Dopo essere penetrato nelle pianure il mare ritirandosi ha formato un’onda di dimensioni enormi che richiamata dal vuoto lasciato dal lato opposto degli oceani ha percorso varie volte la terra distruggendo tutto quello che trovava sul proprio percorso. Finita la forza distruttrice le terre sotto i 1500 metri d’altezza si sono trovate allagate, o comunque inzuppate d’acqua di mare che, essendo salata, non ha permesso la coltivazione fino a quando, secoli, millenni dopo l’acqua piovana non ha completamente dilavato il sale permettendo la coltivazione in zone più basse. Le prime coltivazioni fuori dagli altipiani e le prime civiltà sono dislocate lungo le valli dei fiumi partendo dall’alto. I pochi sopravvissuti a questo cataclisma furono, come scritto nel Timeo, le persone che in quel momento erano in montagna, oltre i 1500 metri.

Se una cosa simile succedesse oggi quante persone si salverebbero? Pochissime, non sappiamo se sarebbero montanari rozzi come scrive Platone, ma di certo sarebbero pochissime e difficilmente e solo a prezzo di grandi stenti riuscirebbero a procurarsi da mangiare e a far rinascere la civiltà ripartendo dall’agricoltura “sugli altipiani”.

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[1] Fatto “curioso” è che le foto sono identiche al disegno dell’arca sul monte Ararat che compare nella carta del mondo di Grazioso Benincasa nel 1492. I cartografi del ‘400 conoscevano il mondo meglio degli astronauti USA di 500 anni dopo!

[2] Platone, Timeo, 20e.

[3] Platone, Timeo, 22b

[4] Platone, Timeo, 22d

Dal sito http://www.acam.it/

Tomás de Torquemada
05-10-08, 14:57
Alla ricerca dell'Arca
di Flavia Caroppo

Non solo Noè: in ogni parte del mondo si ritrova il mito di un Diluvio universale e di un'Arca grazie alla quale l'umanità e le specie animali sono riusciti a sottrarsi all'ira di un Essere superiore. Dell'Arca quindi dovremmo conoscere tutto: dimensioni, materiali usati per la costruzione, giorni di navigazione e luogo d'approdo....

Pietrificata nel suo ipotetico luogo d'approdo biblico, a quasi cinquemila metri tra i ghiacci del monte Ararat, in Turchia, l'Arca di Noè rappresenta insieme un mito e una sfida per geologi, archeologi professionisti e per molti dilettanti "arc-eologi" animati da fervore religioso. Non solo per le valenze scientifiche e culturali che una simile scoperta potrebbe comportare, ma anche per gli alti rischi connessi con quella che in turco è chiamata "Agri Dagh", la montagna del castigo. Decine di spedizioni sono fallite a causa di valanghe e frane, crepacci nascosti dalla perenne foschia, terremoti ed eruzioni (l'Ararat è un vulcano ancora in attività, l'ultima risale al 1965), pericolose sacche di anidride carbonica e altri gas (sempre dovute all'attività vulcanica), rischio di folgorazioni (la roccia granitica di cui la montagna è composta attira i fulmini) e, infine, in seguito ai divieti posti dal governo turco e al pericolo di essere catturati dai guerriglieri curdi (l'Ararat si trova in una delicata zona di confine con Repubblica Armena e Iran). Ma la ricerca continua, addirittura rinvigorita dopo la pubblicazione delle foto, ora divulgate, scattate negli anni Sessanta dagli aerei-spia americani e sovietici e delle immagini dei satelliti che confermano l'esistenza di una "anomalia" sull'Ararat. Si tratta proprio dell'Arca? Dov'è? Cosa ne rimane? Come fare a trovarla? Newton ha esaminato le scoperte e le ipotesi dei più noti "arc-eologi" mettendole a confronto con i pareri degli esperti del settore. La prima ascensione documentata sull'Ararat dei tempi moderni è quella realizzata nel 1829 dal medico tedesco Friedrich Parrot, che non trovò tracce visibili dell'Arca ma poté ammirare la croce venerata dai Pope ortodossi del monastero di Echmiadzin (distrutto durante l'ultima eruzione dell'Ararat nel 1840), che pare fosse costruita proprio con il legno del biblico vascello. Uguale insuccesso per le spedizioni effettuate fino al 1955 quando un industriale francese, Fernand Navarra, di ritorno dal suo terzo viaggio sull'Ararat portò in patria una trave di quercia che asseriva aver distaccato dall'Arca intravista sotto un ghiacciaio. Le prime analisi sembravano confermare il racconto dell'archeologo dilettante: la datazione col radiocarbonio faceva risalire il reperto a 5000 anni fa. Ma se quel legno fosse stato per tanto tempo sotto il ghiaccio a 4000 metri di altitudine, ribatté un gruppo d'esperti, il rilascio di carbonio 14 sarebbe dovuto essere notevolmente diverso da quello evidenziato dalle analisi. Navarra contrattaccò riportando il parere di ben quattro laboratori, ma gli scettici insinuarono che quel legno sarebbe potuto provenire anche da un'antica costruzione ittita che sorge sulle pendici dell'Ararat. Le polemiche e le analisi continuano ancora oggi. Foto "anomale" Nel 1919, il pubblico ebbe finalmente la prima "fotografia" dell'Arca: ripresa dall'aviatore russo Roskowistzki, mostrava una confusa macchia scura che traspariva da un ghiacciaio. Successive ricerche geologiche, effettuate utilizzando radar e sonde di profondità, hanno però dimostrato che la macchia è soltanto un'anomala formazione rocciosa comune nella zona dell'Ararat. La caccia all'Arca è riesplosa tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta quando, eliminato il vincolo del segreto militare, il Governo americano ha reso pubbliche le prime foto scattate dal satellite Eros e dagli aerei spia U2 che mostravano l'"anomalia" (tecnicamente definita "protrusione") che si intravede fuoriuscire dai ghiacci perenni del versante russo dell'Ararat, a quota 3000 metri. Ma cosa mostrano veramente quelle foto? I sostenitori della teoria dell'Arca non hanno dubbi: è il vascello di Noè. E in effetti ci sono alcune curiose coincidenze: l'"anomalia" è solo a poche centinaia di metri dal luogo dove Navarra avrebbe ritrovato il legno, nei pressi della "gola Ahora", dove sorgeva il monastero Echmiadzin. Secondo i geologi e la Cia, invece, si può trattare di un cratere vulcanico apertosi intorno all'anno Mille o l'effetto dello slittamento di una delle enormi lastre del ghiacciaio perenne con il conseguente anomalo ammucchiamento della neve. Non è l'unica confutazione dell'esistenza dell'Arca. La più ovvia è l'assoluta impossibilità che una qualsiasi inondazione abbia potuto sommergere una montagna alta più di cinque chilometri. Ma i sostenitori dell'esistenza dell'Arca sull'Ararat controbattono parlando di inverosimili sommovimenti tettonici che avrebbero, nel 3000 avanti Cristo, sollevato le montagne dopo il diluvio. L'ipotesi italiana L'Ararat, resta dunque la meta preferita dai ricercatori, in particolare il ghiacciaio Parrot sul versante ovest, la gola Ahora e il ghiacciaio Abich II su quello nord-est. Secondo Angelo Palego, chimico sessantatreenne di Trecate (Novara), personaggio di spicco della comunità dei Testimoni di Geova e archeologo dilettante (ha già al suo attivo 13 spedizioni) è in questa zona che si trova l'Arca di Noè; ma le sue ipotesi sono state smentite da ricercatori universitari. Studiando le parole della Bibbia, Palego ha calcolato con esattezza il luogo d'approdo (un altopiano a quota 4800 metri con una superficie pari a 16 volte un campo di calcio). Poi, in base ai successivi eventi naturali documentati, ha dedotto la posizione attuale dei frammenti: uno a 4300 metri di quota e un altro a 4000. Palego ha fatto esaminare le sue foto (in cui viene evidenziata una massa scura) e quelle scattate dal satellite francese Spot, da un gruppo di esperti guidato da Nello Balossino, docente di Elaborazione d'immagini al Dipartimento d'Informatica dell'Università di Torino, e da Corrado Lesca, che insegna Topografia e fotogrammetria al Politecnico di Torino.


http://www.gismonitor.com/images/20060720/ararat_fig1_sm.jpg
Foto satellitare dell'Ararat. Nel cerchio, l'"anomalia". - Immagine tratta dal sito http://www.gismonitor.com/

Ma i risultati non sono stati quelli sperati. Il giudizio del professor Lesca, spiegato a Newton, è drastico: "Non c'è nessun elemento che possa far pensare che la "macchia" fotografata da Palego sia l'Arca, e questo per due ragioni. Innanzitutto i ghiacciai dell'Ararat fanno parte dei cosiddetti "temperati": la loro caratteristica principale è di comportarsi come spugne, ovvero di trattenere, al di sotto della crosta, una grande quantità d'acqua ancora allo stato liquido". Ora, 4000 anni di acqua in movimento avrebbe sicuramente distrutto qualsiasi relitto di legno. "Anche se così non fosse", continua Lesca, "sarebbe bastato il continuo movimento del ghiaccio a distruggere l'Arca. Il monte Bianco, per esempio, ci ha restituito resti di elicotteri e di piccoli aerei precipitati solo poche decine di anni fa, ridotti in pezzi davvero minuti". E il metallo con cui erano costruiti è certo più robusto del legno di biblica memoria. "E' infine assolutamente impossibile", conclude Lesca, "che Palego sia riuscito a vedere a occhio nudo, e a fotografare con una macchinetta, una struttura che dovrebbe essere intrappolata almeno qualche decina di metri sotto il ghiaccio. Il ghiaccio non è una lastra di vetro, e in trasparenza si può vedere solo per qualche centimetro, una decina al massimo". Più probabilista, anche se con rigorosa cautela scientifica, appare invece Nello Balossino: "L'immagine satellitare che ho analizzato riproduce solo la lunghezza d'onda tra il verde e il rosso", spiega, "non è stato dunque possibile determinare da quale sostanza sia composta la "macchia". L'unica analisi certa riguarda le dimensioni: la massa scura è un parallelepipedo le cui misure grossomodo corrisponderebbero alla descrizione biblica dell'Arca: 150 metri di lunghezza per 25 di profondità". La ricerca è dunque arrivata alla fine? "L'ipotesi che siano tronconi appartenenti all'Arca, o comunque resti di un oggetto estraneo al ghiacciaio", conclude Balossino, "è valida tanto quanto quella che si tratti di una formazione rocciosa o di un'enorme massa di ghiaccio annerita da una colata lavica e poi ricoperta da altro ghiaccio. La prova dell'origine lignea della "macchia" potrebbe venire dall'analisi del suo comportamento spettrale (ovvero della diversa maniera con cui le varie sostanze di cui potrebbe essere composta riflettono la luce), ma per far ciò occorrerebbero più immagini". L'ipotesi islamica Se le spedizioni di ricerca ispirate dalle parole dell'Antico Testamento hanno apparentemente fallito, qualche indizio in più, benché non ancora sostenuto da evidenti prove scientifiche, è stato riportato dalle spedizioni che si sono basate sul racconto del Diluvio riportato dal Corano. Per il libro sacro dei musulmani, infatti, l'arca di Noè sarebbe approdata in Turchia su un monte (quasi mai riportato sulle carte moderne) che la gente del luogo chiama "Cudi Dagh" (conosciuto in Occidente come monte Judi, montagne Gordiane o monte Nipur), 300 chilometri a sud dell' Ararat. E' importante notare come questo monte sia molto vicino al sito archeologico di Ninive (dove sono state ritrovate le tavolette su cui è inciso il poema epico Gilgamesh, di cui parliamo più diffusamente nel riquadro a pagina 124), a soli 40 chilometri dal fiume Tigri, in una zona di frequenti inondazioni. Questo territorio è ai confini di quella che biblicamente era chiamata "regione dell'Ararat" (la Genesi, infatti, afferma che l'Arca è approdata non su una specifica vetta ma "sulle montagne dell'Ararat"). Esplorando la zona nel 1910, l'archeologa inglese Gertrude Bell individuò una struttura in pietra la cui forma ricordava quella di una nave. Quest'insolita formazione era già nota agli abitanti del luogo con il nome di "Sefinet Nebi Nu" (la barca di Noè) e in passato ogni 14 settembre diventava meta di un pellegrinaggio che coinvolgeva ebrei, musulmani e cristiani. Dichiarato sito di alto interesse archeologico dal Governo turco nel 1995, l'altopiano Dogubayazit, a quota 2300 metri, presenta in effetti una strana formazione geologica che per la maggior parte dell'anno resta intrappolata fra i ghiacci. Lunga 170 metri e larga 45, la struttura a forma di barca sembrerebbe corrispondere all'Arca descritta nel libro della Genesi. Un gruppo internazionale di scienziati ha svolto ricerche per sei anni, scattando foto aeree e scandagliando la zona con uno speciale apparecchio (Dell Omnitron System) capace di operare a frequenze molto più alte dei normali sistemi radar e quindi di "vedere" attraverso i ghiacci a una maggiore profondità. Si è quindi ipotizzato che si tratti di un manufatto realizzato circa 5000 anni fa; anzi, alcuni sostengono che possa essere il ponte superiore del biblico vascello. Altri dati raccolti sul terreno circostante sembrerebbero confermare la teoria dell'Arca: innanzitutto la presenza di insoliti livelli di ossido di ferro (che potrebbero essere causati dalle fasce di ferro che imbragavano lo sca-fo), e poi il ritrovamento di grandi massi scavati a un'estremità che potrebbero essere le "pietre stabilizzatrici", che nell'antichità venivano trascinate dalle navi per aumentarne la stabilità. David Fasold, della New York University, afferma con certezza che si tratta dell'Arca. Ma da un gruppo di geologi guidato da Lorence Collins dell'Università della California arriva l'ennesima doccia fredda: si tratterebbe di una formazione rocciosa completamente naturale. Gli scavi promossi dal Governo turco e un'approfondita analisi al radiocarbonio ci daranno finalmente la risposta?

Da "Newton", 01 dicembre 1998 - Copyright 2008 © Rcs Periodici Spa

http://newton.corriere.it/Pregresso/1998/12/1998120100004.shtml

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